(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi [3e éd.]. Tomo X, parte 1 pp. 2-271
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi [3e éd.]. Tomo X, parte 1 pp. 2-271
Ardito spira
Chi può senza rossore
Rammentar come visse allor che muore
Metastasio nel Temistocle.

Storia critica de’ teatri
Antichi e moderni

Libro X

Teatro Italiano del XVIII secolo e de’primi anni del XIX

Capo I
Tragedie Reali

R isorgeva a gran passi nel cader del secolo XVII il gusto della vera eloquenza nelle contrade chiuse dalle Alpi ; e già nel 1690 de’ suoi allievi e proseliti potè in Roma formarsi un’ accademia sotto il modesto titolo di Arcadia, le cui colonie si sparsero per l’Italia tutta. L’antica poesia de’ Greci e de’ Latini ricondotta trionfante ne’ Sette Colli inspirava disprezzo e pietà per le scuole gongoresche e mariniste, e venerazione e amore per Dante e Petrarca che bevvero in que’ puri fonti. Il cardinal Delfino ed il barone Caracci furono i precursori del rinascimento della tragedia italiana senza esser soggetti alle macchie secentiste.

L’onore di primo ristauratore d’essa nel secolo XVIII debbesi senza dubbio al bolognese Pier Jacopo Martelli nato nel 1665 e morto nel 1727 secondo l’epitafio che ne fece l’illustre matematico e poeta Eustachio Manfredi. Martelli chiaro in Arcadia col nome di Mirtillo, munito di dottrina, d’ingegno e di gusto, emulo del Maffei e del Gravina(a), avea cominciato a comporre qualche dramma musicale, e si rivolse indi alle tragedie, che s’impressero in più volumi. Niuno può negargli nè la regolarità che sempre osserva, nè la ricchezza, la sublimità e l’eleganza dello stile, nè la copia de’ pensieri, nè l’arte di colorire acconciamente i caratteri e le passioni. Nocquegli in molte di esse la versificazione che prescelse, ad onta di averla renduta al possibile armoniosa, sì per esser nuova sul teatro (ma non inventata dal Martelli, come sognando asserì il Barretti) sì per la rima e la monotonia che l’accompagna ; e le di lui tragedie dopo alcuni anni cessarono di rappresentarsi. Certo è però che i forestieri stessi non furongli avari de’ loro applausi. I giornalisti Olandesi ne manifestarono varii pregi ; e quelli di Trevoux asserirono che pochi tragici pareggiavano il Martelli. Certo è pure che la compagnia di Luigi Riccoboni le rappresentò con profitto e con applauso non equivoco in Verona, in Venezia, in Bologna. Certo è finalmente che chi comprende le vere bellezze tragiche, un gran numero ne incontra nelle più accreditate, che sono secondo me : Perselide, Ifigenia in Tauri, Alceste, Procolo, Cicerone, Q. Fabio, Taimingi. Non lasciò di rendergli giustizia fra’ nostri singolarmente il Conte di Calepio. Pier Jacopo Martelli (egli dice) è tra’ nostri assai sublime ed enfatico ; ma quanto acquista con i modi di dire, tanto perde per lo stucchevol vezzo delle rime. La semplicità della condotta, la nobiltà de’ sentimenti, l’eleganza e la gravità dello stile, la compassione maneggiata con arte e decenza, il magnanimo carattere di Mustafo, il tenero e patetico di Perselide, la dipintura di un Ottomano geloso del potere, e perciò crudele, di Solimano, conferiscono al merito della Perselide. Veggasi per saggio dello stile e della versificazione il monologo di questa principessa nell’ atto III

Eccomi donna e sola fra barbari crudeli.

Vi si dipinge egregiamente la sua situazione, e tutta esprime la passione, e nulla v’ è di narrativo. Notabile nell’ atto IV è il discorso di Solimano dopo di aver deliberata la morte del suo gran figlio ; vi si mostra a maraviglia in qual guisa laceri il suo cuore il sentimento della natura che pugna colla barbarie ed il sospetto.

La delicatezza dell’ espressioni di Mustafo che va a morire, merita l’attenzione de’ cuori sensibili. Egli non vuol dirlo chiaramente a Perselide, e pur vorrebbe far sapere a Zeanghire che muore suo amico :

Mustafo

Quel che udisti e vedrai, per pietà non gli dire,
Se no, invidia e dolore te lo faran morire.
So quanto ei m’ami, e quanto lui dalle fasce amai ;
Tu pur, vergine degna di miglior sorte, il sai.
Per me segui ad amarlo : le voglie sue sian tue,
Tue sian le sue ; sì uniti siate ambo in ambedue.
Virtù piacciavi sempre, che alfin s’oltre la morte
Siam qualche cosa, il premio ne avrà l’anima forte.
Siate fidi al Soldano, siane in difesa ai troni
Il braccio del tuo sposo che com’io gli perdoni.
Addio.

Perselide

Ma forse in guerra ti chiamano i perigli ?
Preserveranti i numi a quai tanto somigli.
Non mi parlar qual parla chi più non si rivede.

Mustafo

Al suocero, allo sposo obedienza e fede.
Questi estremi ricordi serba col tuo consorte,
E non cercar più nulla di qualunque mia sorte.
Sol se qualche novella (che alfin verrà cred’ io)
Giugnerà a Zeanghire, digli a mio nome addio :
Digli che del suo nome nelle note a me care
Partir tu mi vedesti, e finir di parlare.

Simile tragedia piena di grandezza che commuove che tira tutta l’attenzione, non meritava di occupare il luogo delle Gemelle Capuane o di qualche altra poco più importante del Teatro Italiano compilato dal Maffei ? A ciò per avventura si opposero le loro letterarie querele.

Ciò che diffinisce i primi progressi della tragedia italiana sin dal principio del XVIII secolo, è appunto la saggia imitazione che fece il Martelli dell’ Ifigenia in Tauri e dell’ Alceste di Euripide. Gl’ Italiani del secolo XVI aveano trasportati nel nostro idioma i greci argomenti con troppa scrupolosa osservanza delle antiche vestigia. I Francesi del XVII fecero un passo di più maneggiandoli in guisa che si adattassero al popolo ed al tempo in cui gli ripetevano. Il Martelli partecipò felicemente di questa gloria della Francia, e con miglior senno de’ nostri cinquecentisti accomodò all’ importanza e alla vaghezza de’ greci argomenti l’artificio della moderna economia. Il confronto dell’ Ifigenia in Tauride del greco autore con quella del Martelli mostrerà sempre a’ giovani studiosi la maniera di modernar le greche favole con vantaggio e senza punto sconciarle. Chi si sovverrà dell’ Alceste greca, avendo sotto gli occhi quella del Martelli, vedrà nella moderna conservato l’interesse dell’ antica senza inverosimilitudini, senza il trionfo di Ercole nell’ inferno, e senza le indecenti altercazioni di Admeto col padre(a)

Impaziente parimenti del risorgimento della nostra tragedia il celebre calabrese Gian Vincenzo Gravina volle richiamarci allo studio de’ Greci, e scrisse in tre mesi cinque tragedie, Palamede, Andromeda, Servio Tullio, Appio Claudio, Papiniano. La bella semplicità cui si attenne nel tesserle, piacque agli eruditi, e per questa parte fu applaudito dall’istesso Martelli. Ma s’ingannò in più maniere nell’ esecuzione del suo disegno. Pieno com’era della più riposta erudizione greca, poteva far risalire i leggitori sino a’ costumi de’ remoti popoli della Grecia nel Palamede e nell’ Andromeda ; ma qual vantaggio recar ciò poteva al moderno teatro che sì poco desiderava le stesse lodate tragedie de’ cinquecentisti ? Dovea egli poi serbare il modo stesso negli altri tre argomenti Romani ? Conveniva a questi la veste greca ? Volle ancora adoperare alla greca maniera la varietà de’ metri, e sventuratamente elesse l’endecasillabo sdrucciolo per verso principale (già usato dal Grattarolo nell’ Altea e nella Polissena) lusingandosi di poterlo elevare alla grandezza tragica e sostituirlo al giambico antico ; ma questo sforzo inutile ferì le orecchie italiane. Dei Greci (sugerisce il giudizio ed il gusto) vuolsi imitar lo spirito e non il portamento e le spoglie esteriori. Con tutto ciò molta ingiustizia gli fecero i contemporanei e fangli alcuni semidotti di ultima data. Non si proponga a modello, ma se ne rilevino i pregi che possiede. Se ne rigetti la versificazione, si censuri l’uso frequente de’ latininismi, l’affettazioni di alcune comparazioni poste in canzonette, il modo di sceneggiare all’ antica. Ma se ne comenti la regolarità e il giudizio, e si vegga il filosofo e l’erudito nell’ artificiosa pittura de’ moderni costumi applicata a’ personaggi delle sue favole imitando l’arte di satireggiare di Euripide, specialmente nel Papiniano. Sopratutto sì encomii col dotto critico Pietro di Calepio per aver saputo travestire ed applicare all’ azione quella sorte di sentenze che contengono massime di morale, nella quale arte il Gravina si è distinto da gran parte de’ nostri poeti. Si mostrerà sempre un critico dozzinale colui che proponesse alla gioventù un solo scrittore per modello per la difficoltà di trovarsene alcuno nel suo genere sì compiuto che tutte contenga le perfezioni. La filosofia consiglierà sempre a valersi della nota sagacità di quel greco pittore che raccolse da molte leggiadre donne gli sparsi pregi della beltà per formarne la sua Venere. Questo esser dee l’uffizio della vera storia teatrale ragionata ; e questo non sanno fare, nè i plagiarii di mestiere quando copiano o furano a mettà, nè gli apologisti preoccupati.

Il regno di Napoli produsse ne’ primi anni del secolo XVIII due altri pregevoli scrittori di tragedie, il consigliere conte Saverio Pansuti, ed il duca Annibale Marchese. Compose il primo cinque tragedie impresse in Napoli, cioè Bruto nel 1723, Sofonisba e Virginia nel 1725, Sejano nel 1729, ed Orazia che si pubblicò unita con le altre nel 1752. Vinse egli per gravità, e per versificazione il Gravina, e scorger fece non di rado elevatezza e sublimità, e quel patetico e terribile tragico che agita ed interessa. Ma sceneggiava alla foggia antica, introduceva o faceva partire i personaggi senza perchè, trascorreva nel lirico, verseggiava con istento, imbrattava alcuna volta la locuzione con formole non pure, inusitate e scorrette. Più che altrove lo stile è affettato e lirico nel Sejano, le sentenze più ricercate che non sono in Seneca, il linguaggio più spesso fangoso, e nell’ atto V si accumulano troppe cose dopo la morte di Sejano, le quali doveansi appena accennar di volo. Ma vi si scorgono varie pennellate franche e vigorose ; vivo è il ritratto de’ favoriti nell’ atto III ; buona è la scena del IV in cui Sejano intima il divorzio ad Apicata ; tragici i rimorsi che atterriscono Livia dopo la morte di Druso, ed opportuna la riflessione della nutrice in tal proposito :

O quai rei simulacri in noi produce
La fiera compagnia de’ proprii falli !

Più moderatamente nella Sofonisba trovansi sparsi gli ornamenti lirici, e vi si notano varii passi tragici bene espressi. La Virginia, mal grado del buou dialogo d’Icilio e Numitore nell’ atto I, e del racconto felice e senza ridondanza del di lei ammazzamento, si posporrà sempre a tutte le altre a cagione dell’ episodio della deflorata Volunnia che si trasmischia al fatto di Virginia. Migliori delle precedenti è il Bruto dettato in istile sublime e raramente gonfio, e ricco di passi nobili. Lodevole nell’atto I è il ritratto che in Tito si fa de’ partigiani del regno ed in Furio de’ repubblicani, sul gusto delle politiche discussioni di Pietro Cornelio ; come ancora la descrizione delle arti degli ambasciadori nelle corti straniere : nel III l’ambasciata degnamente esposta da Celio : nel IV i gravi sentimenti di Furio che tenta di richiamar Tito nel camin dritto : nel V i forti rimorsi di Tito divenuto traditore, il tenero abboccamento di lui colla madre, gli eroici non meno che patetici sentimenti di Bruto. Ma l’Orazia rappresentata in Napoli con ammirazione e diletto universale sotto la direzione del celebre Andrea Belvedere, fu il trionfo del Pansuti. Nel trattar questo argomento dopo l’Aretino ed il Cornelio, il Pansuti diede come il primo alla sua favola il titolo di Orazia, ma conservò per lei sola tutto l’interesse sino all’ atto V ; là dove l’Aretino, che la fa morire nel III, lo divide fra lei ed il fratello. Rare volte l’espressione vien tradita dalla verità, anzi spesso è avvivata col sublime e col patetico. Meritano particolare attenzione l’amor tragico di Orazia e Curiazio, l’amara divisione di questi nell’ atto III, il carattere eroico e feroce di Orazio, la notizia della pugna stabilita tra i Curiazii ed Orazii nel IV, di cui è conseguenza l’altra scena di Orazio collo sposo della sorella, il contrasto delle allegrezze di Roma per la vittoria ottenuta da Orazio colle smanie di Orazia per essere questa riuscita sanguinosa e per lei tanto funesta per la morte dello sposo, e finalmente l’azione del V interessante per l’ammazzamento di Orazia, pel pericolo di Orazio condannato, e per la patetica aringa di Publio in pro del figlio superstite che commuove il Popolo Romano. Non è dunque maraviglia che al dire anche degli eruditi compilatori della Bibliotheque Italique nel tomo VII, i dotti vi presero tanto piacere a leggerla, quanto il pubblico a vederla rappresentare. Onorevole menzione deile tragedie di Saverio Pansuti fe l’immortale Alessio Simmaco Mazzocchi nel capo I del dottissimo commentario dell’ Anfiteatro Campano.

Predilesse la poesia tragica il coltissimo duca Annibale Marchese, il quale dopo di aver governato da preside in Salerno entrò nel 1740 tra’ Padri dell’ Oratorio detti G rolimini di Napoli, e glorioso ancora per la rinunzia dell’arcivescovato di Salerno, e del vescovato di Lecce a lui offerti, morì nel 1753 ammirato per le sue virtù. Sin dalla prima gioventù mostrò gusto e buon senno colla scelta di ottimi argomenti per due sue favole impresse in Napoli nel 1715, il Crispo e la Polissena. Non fu solo il Martelli ne’ primi lustri del secolo che seppe unire alle bellezze del greco coturno la saggia maniera d’interessare i moderni, col seguire l’orme de’ tragici francesi. Annibale Marchese trattò il Crispo che è un ritratto dell’ Ippolito greco, col patetico pennello di Euripide, e coll’ eleganza armoniosa del Raoine sceneggiandolo alla moderna, e vinse con migliore versificazione il Martelli, colla gravità il Gravina, e colla purezza del linguaggio il Pansuti. Meritò la di lui Polissena, che da Pietro di Calepio si preferisse nel confronto a quella del La Fosse pel piano meglio ragionato, pel costume più convenevole, e per l’arte di muovere la compassione. Vero è, che all’ istesso Calepio sembra di trovare nella Polissena francese maggior bellezza nelle sentenze, più vivacità negli affetti, ed energia nella locuziòne. Vero è parimenti che egli riprende nelle nutrici introdotte dal Marchese la perizia che mostrano della mitologia. Pure non è così grande lo svantaggio dell’ Italiano per le sentenze e per la locuzione, nè gli affetti riescono in lui sì poco vivaci al confronto da farne dimenticare la bellezza del piano, la convenevolezza del costume ed il patetico. E quanto alle nutrici (qualora voglia concedersene l’uso) puo accordarsi loro certa specie di coltura ove si rifletta, che esse punto non rassomigliano alle moderne balie, ma si supposero sempre persone di distinta condizione, e compagne delle regine sino alla loro morte.

Compose in seguito il Marchese dieci tragedie cristiane impresse magnificamente in Napoli in due volumi in quarto nel 1729. A ciascuna si premise un rame disegnato o da Francesco Solimena, o da Andrea Vaccaro, ed inciso o dal tedesco Sedelmair o dal napolitano Baldi o dal veneziano Zucchi. I cori si posero in musica da varii eccellenti maestri napoletani, e si trovano stampati colle note musicali in fine di ciascun tomo. Tommaso Carapelle pose in musica i cori del Domiziano : Domenico Sarro quelli de’ Massimini : Leonardo Vinci del Massimiano : Francesco Durante del Flavio Valente : Giovanni Adolfo Hasse detto il Sassone della Draomira : Nicola Fago detto il Tarantino dell’Eustachio : Leonardo di Leo della Sofronia : Nicola Porpora dell’Ermenegildo : Francesco Mancini del Maurizio : il Principe Milano di Ardore poi Marchese di San Giorgio del Ridolfo ; di maniera che questi due volumi contengono come un saggio accademico di diverse belle arti riunite.

Caratterizzano queste favole una locuzione pura ed elegante e sobriamente poetica qual si conviene alla scena ; uno stile nobile e grave ; una costante regolarità ; la sceneggiatura moderna, per cui quasi mai il teatro non rimane voto ; i caratteri ben sostenuti ; le passioni portate a quel segno che permette l’eroismo cristiano che riscaldava il petto dell’autore. Per saggio della maniera di colorire da lui usata vedasi un frammento del racconto che fa Eustachio a Simile delle sue avventure col corsaro :

Talche me con mia prole in erma arena
Gittando ignudi, il rio corso riprende.
Lasso ! Teopista io grido, e valli ed antri
Gridan Teopista ancor ; l’ode la bella
Cagion del pianto mio, che vuol nell’onde
Precipitarsi, o per tornarmi in braccio
O per fuggir gli oltraggi, e rattenuta
Vien dal rio predatore. Éustachio intanto
Dice fra gridi e fra tumulti, e sempre
Più lievi ascolto di sue voci il suono.
Lontananza e fragor d’onda sonante
Più mi rende indistinte, e al fin mi chiude
Le care voci. Svolazzante lino
Scuote la grama, testimonio estremo
D’amor, di fe, di duolo, e a lei rispondo (Ch’altro meco non ho) con mano ignuda,
Poi, così spinto dal dolore, in alto
Il pargoletto Agapito l’espongo.
Simile
Tragica scena !

Eustachio

S’interpone e cresce
Più ognor l’aere fra noi per lontananza ec.

Ricca miniera di affetti e di caratteri eccellentemente contrapposti e coloriti, e di gran pensieri con eleganza e sublimità espressi, mi sembra singolarmente l’Ermenegildo. Formano in essa un quadro pennelleggiato con vivacità e maestria questo santo re zelante cattolico, rispettoso figliuolo e tenero consorte ; Igonda piena di magnanimità e di vero affetto pel marito ; Recaredo sensibile e generoso ; Leovigildo tiranno inesorabile e Ariano superstizioso ; Genserico vescovo degli Ariani scellerato e astuto cortigiano e persecutore implacabile. Questo insidiatore strappa dalla bocca di Leovigildo la sentenza di morte del figliuolo, se non rinunzii al culto cattolico ; e colla di lui astuzia contrasta la nobile franchezza di Recaredo che al fine gli dice :

Udito ho sempre
Ch’uomo al cui senno sacri riti ed alme
Commesse furo, se con voglia ingorda
Alle profane cose intende, e lascia
All’altrui cura il gregge, e sol da quello
Toglie da lungi il ricco frutto, è indegno
Del sacro grado, e’l profan male adempie.

Genserico

Chi serve al Re non è men caro a Dio.

Recaredo

Caro è a Dio sol chi al suo dovere intende,
E il tuo non è di consigliar regnanti.

Questo è pungere alla maniera di Euripide e del calabrese Gravina, cioè dipingendo i caratteri senza scoccar massime e sentenze a modo de’pedanti e di Seneca. Trionfa anche il carattere d’Igonda allorchè in faccia a Leovigildo consiglia al marito di preferir la morte al sacrilegio d’imbrattar con rito ariano la cattolica religione, e quando rimanendo sola con lui dopo tanta fortezza lascia il freno alla sensibilità. Notabile è in fine la di lei grandezza d’animo, con cui dopo aver vinto Leovigildo colle armi, fa trionfare la religione sul desiderio di vendetta, e gli perdona. Seppe dunque il Marchese rilevare il pregio maggiore della cristiana religione di perdonare ed amare il nemico, prima che il sig. di Voltaire avesse composta l’Alzira. Ma a’giorni del Voltaire la Francia avea un teatro tragico già rispettato e frequentato per Corneille e Racine ; là dove l’Ermenegildo del Marchese circoscrisse il suo trionfo fra’leggitori delle tragedie cristiane del Marchese senza passare su di un pubblico teatro accreditato.

Prima ancora del Manasse del Granelli ritrasse il Marchese egregiamente un principe penitente nel Maurizio che accompagna degnamente l’Ermenegildo. Quell’imperadore che si era macchiato di delitti e di atrocità, divenuto penitente implora da Dio di esserne punito in questo mondo, e non con pene eterne, e quindi soggiace a’più dolorosi colpi prima che il tiranno Foca lo faccia uccidere. Aveva Maurizio un di lui bambino in potere d’Irene, e Foca vuol sapere dove si nasconda minacciando di far tormentar Maurizio con tutta l’atrocità. Irene generosa si fa avanti ed offre al tiranno il bambino. Qual cruda spada al cuore de’miseri genitori ? Irene torna coll’infante ; la madre vuole stringerselo al seno, ma nel fissarvi lo sguardo si avvede che non è il suo picciolo Eraclio, ma sì bene il figlio della stessa Irene che eroicamente lo sacrifica alla salvezza della prole reale. Ecco un tratto eroico degno delle tragedie di prima fila che ha preceduto il sacrificio fatto da Arpago del proprio figlio per salvar la vita al picciolo Ciro nel melodramma del gran Metastasio. Ed è in questo del Marchese assai più teatrale e patetico, perchè non narrato come avvenuto tanti anni prima, ma esposto alla vista dell’uditorio. Il virtuoso Maurizio continua a tener commosso lo spettatore perchè non comporta il cambio, e scopre la nobil frode. Con questa gara di virtù e di eroismo prevenne il Marchese anche l’Orfano della China del Voltaire, benche in questo è maggiore l’eroismo del cambio che fa Idamè del proprio figlio per l’Orfano reale, perchè è il padre stesso che vuol sacrificare il suo sangue per la regia prole. Meriterebbe anche che si trascrivesse il patetico e vivace racconto della carnificina di tutta la famiglia di Maurizio e di lui stesso colorito col pennello di Dante, e ciò prima che il gran tragico francese pur or mentovato c’incantasse colla descrizione della strage dell’imperial famiglia cinese. Presenta dunque il Marchese più di una tragedia degna dell’attenzione degl’intelligenti conoscitori del teatro e del sublime e del patetico che tanto sovrastano ai declamatori esangui ed agli apologisti poco istruiti. I leggitori ben comprenderanno, avendo sotto gli occhi l’Ermenegildo ed il Maurizio specialmente, che esse potrebbero meglio arricchire una nuova raccolta di un buon Teatro tragico Italiano.

Antonio Conti nobil veneto filosofo e letterato grande volle in età avanzata dedicarsi alla poesia e singolarmente alla tragica. Compose quattro tragedie, Giunio Bruto, Marco Bruto, Giulio Cesare, Druso. Il pregio singolare del suo stile è la gravità, la precisione e la verità propria della passione e del teatro, per la quale il Conti costantemente schiva ogni vano ornamento. La sua versificazione è la più accetta a’moderni, ciòè il verso endecasillabo sciolto ; ma la locuzione non è sempre pura e corretta. Ciò però che caratterizza singolarmente il suo pennello è il decoro serbato nel costume e la proprietà mirabile ne’personaggi imitati. I suoi Romani (ciò che per lo più si desidera in varie tragedie straniere) compariscono veri Romani. Cassio, Bruto, Cesare, i Tarquinii si riconoscono a i loro particolari lineamenti, all’indole e a i sistemi da essi seguiti secondo la storia. Volle il Conti far uso de’Cori per riunire alla tragica rappresentazione la musica che le conviene ; e questa può esser forse una delle ragioni, per cui i commedianti più non le rappresentano, schivandone la spesa. Introdusse pero ne’cori a cantare cavalieri e senatori romani cou poca convenevolezza al a loro gravità ed al costume di que’ tompi. Marco Bruto è la tragedia più criticata e spesso con solido fondamento dal Conte di Calepio. Giunio Bruto recitata molte volte di seguito in Venezia con gran concorso nel teatro di San-Samuele, oltre a i pregi generali dello stile, del costume e del metro, si rende notabile per la forte aringa di Bruto animata da solida eloquenza e bellezza poetica propria della scena. Ma Giulio Cesare che si rappresentò con sommo applauso, e si lesse con ammirazione da tanti letterati e singolarmente dal filosofo Paolino Doria, dal celebre Giambatista Vico, dal lodato Pietro di Calepio, e dal riputato Saverio Bettinelli, basterebbe a far collocare il Conti tra’buoni tragici moderni(a).

Il marchese Scipione Maffei veronese chiaro per dottrina ed erudizione trasse dalle greche favole l’argomento tragico più interessante, e compose la Merope che dopo la prima edizione di Modena del 1713 n’ebbe oltre a sessanta altre, si recò in tante lingue straniere, si rappresentò in Venezia in un solo carnevale più di quaranta volte, e comparve sopra gli altri teatri d’Italia sempre con applauso, ammirazione e diletto. Una delle migliori edizioni che se ne fecero, fu quella del 1735 colla prefazione del marchese Ginseppe Orsi e con annotazioni di Sebastiano Paoli. Ne corse ben presto la fama oltre le Alpi, ed i Francesi stessi l’accolsero con sinceri encomii(a).

A chi è ignota la Merope del Maffei ? Chi nel mentovarla non si sovviene di quel patetico animato ma umano, e naturale che ti riempie in ogni scena e ti trasporta in Messenia ? Chi non si compiace di quella interessante semplicità di condotta ? della verità de’caratteri ? del mirabile vivo ritratto di una madre ? della dolce forza che ti fanno le passioni espresse in istil nobile ed accomodato agli affetti ? di quel vago racconto di Egisto nell’atto I, e dell’avventura del IV conservataci da Aristotile e da Igino, in cui il vecchio Polidoro giugne a tempo a trattener la madre che stà per trafiggere il figliuolo ? del vivace atto V ove tutto mira al disviluppo felicemente ed avviene la morte di Polifonte narrata con maestria ? Dall’altra parte chi non sa ripetere colle parole del Voltaire che i Francesi schivi non soffrirebbero sul lor teatro Ismene che parla della febbre di Merope ? che questa regina per iscarsezza d’arte del poeta si avventa due volte ad Egisto colla scure ? che le scene de’confidenti sono troppe ? che i coltelli, i vasi, i tripodi, i canestri rovesciati sono minutezze delle quali non doveasi tener conto dopo una grande rivoluzione e l’ammazzamento di un re ? Gli sforzi stessi del Voltaire per deprimerla, dopo di essersi ornato delle sue principali bellezze seguendone le vestigia nel comporre la propria Merope, manifestano vie più la prestanza della Merope italiana. Il tragico Francese ne ingrandì ed esagerò i difetti, bramoso ed impaziente di tirare alla sua copia tutti gli elogii tributati all’originale. E perchè serbando l’onorato carattere di amico del Maffei non avrebbe potuto versar su di lui che a metà e con moderatezza il suo fiele, si mascherò sotto il finto nome di un monsieur de la Lindelle, e sciolse il freno alla mordacità, trattando la di lui tragedia come produzione puerile e da collegio, e l’autore come poeta da fiera, senza ingegno, senz’arte e senza fantasia (a). Astuzia sì vergognosa e degna degli antichi Davi umilia la letteratura, copre di fosche nuvole il chiarore del secolo ed abbassa Voltaire. La Merope del Maffei non va esente da’nei ; ma qual produzione teatralo puo vantarsi di una perfezione assoluta ? La Merope del Voltaire non ha difetti ? Sovvenghiamoci di quanto ne ragionammo trattando de’tragici francesi del XVIII secolo. I Francesi stessi ne rilevarono di molti. Un anonimo in una brochure uscita in Parigi vi notò fin anche errori di lingua e dirima ; chiamò Voltaire traduttore, copiatore, piggioratore ancora della Merope del Maffei specialmente nell’atto V. Volle poi quest’anonimo far pompa di erudizione, ed affermò che l’Italiano avea saccheggiato e sfigurato l’Amasi di m. la Grange, e che Voltaire rivendicando il furto avea restituito alla nazione francese ciò che era suo. Preso poi da nuovo capogirlo aggiunse che Merope era un argomento di tutti i paesi trattato già da Euripide. Qual cumulo di proposizioni che si combattono ! Se Euripide tutti precedette i tragici che conosciamo nel maneggiar tal favola, perchè sdegnare di attribuirla alla Grecia ? Se è di tutti i paesi, perchè l’anonimo infarinato ne attribuì la proprietà alla Francia ? perchè tacciò di furto ora il Maffei ora il Voltaire ? perchè non s’informò da chi’l sapeva, che il Cavalerino, il Liviera, il Torelli precedettero di più di un secolo il suo la Grange autore dell’Amasi, in comporre Meropi, Telefonti e Cresfonti ? perchè poi non apprese almeno dal Voltaire che la Grange ed altri Francesi ed Inglesi trattarono questo argomento con tali sconcezze che le loro tragedie rimasero nascendo sepolte ? perchè non vide che senza la Merope del Maffei, senza quella ch’ei chiama povertà italiana che Voltaire copiò, ancor non avrebbe la Francia una Merope degna di conoscersi da’posteri ? Avrebbe avuto l’Inghilterra il Douglas di Home, tragedia (disse il Walker) che onora la lingua ed il teatro inglese, senza che fosse stata preceduta dalla Merope del Maffei ? L’anonimo oscuro che tante cose ignorava, ebbe l’audacia, fidando nelle tenebre in cui si avvolgeva, di scagliarsi contro l’originale del Maffei e la copia del Voltaire, produzioni di due ingegni grandi, cui egli mirar dovea con rispettoso silenzio. Io auguro all’Italia e alla Francia molte tragedie che paregeino queste due Meropi, dovessero anche averne i difetti ; essi saranno le macchie degli Omeri, de’Virgiiii, de’Sofocli fra’raggi dell’immortalità.

Merita somma lode l’avventurosa Verona che nel vestibolo dell’Accademia Filarmonica fece innalzare, mentre egli era assente, il busto del Maffei con questa iscrizione :

Marchioni. Scipioni.
Maffeo. Viventi
Academia. Filarmonica
Decreto et aere publico
Anno MDCCXXVII

Maggiori encomii merita la di lui modestia che al suo ritorno volle che si togliesse, a differenza di qualche orgoglioso pedante, che a quel che intesi in altro paese, innalzò a se stesso un busto marmoreo e lo collocò tra Platone e Tullio. Verona però dopo la di lui morte ve lo ripose con un’altra iscrizione :

Marchionis. Scipionis. Maffei.
Musaei. Veronensis.
Conditoris Protomen
Ab ipso-amotum
Post obitum
Academia. Philarmonica
Restituit
Anno MDCCLV (a).

Intorno al medesimo tempo uscirono la Demonice del veneziano Giambatista Recanati, e la Didone del bolognese Giampieri Cavazzoni Zanotti. La prima recitata nel 1720 in Modena con applauso grande, in Ferrara ugualmente ed in Venezia, s’impresse in Firenze nel 1721 con una dissertazione dell’abate Girolamo Leoni. Contiene la pugna de’tre Tegeati e tre Feneati narrata da Plutarco ne’Paralleli con tutte le particolarità del fatto de’Curiazii ed Orazii. Trionfa in essa l’amor della patria in ogni incontro. L’ammazzamento dell’addolorata Demodice per mano del fratello Critolao avviene appunto per le di lei imprecazioni e contro Tegea loro patria, il cui amore tutto riempie il cuore di Critolao. Lo sceneggiamento all’antica, lasciandosi spesso il teatro voto, qualche scena oziosa, un sogno di Demodice di sei tori e una giovenca tanto conforme al fatto di lei e de’suoi campioni, i poco utili ed all’azione mal connessi episodii dell’amicizia di Eurindo e Critolao e del conflitto di costui col leone e degli amori di Lagisca ed Eurindo, offrono all’occhiuta critica materia da esercitarsi. Ma rendono pregevole tal favola la regolarità e l’interesse che vi regna, lo stile non sempre elegante e sublime ma chiaro sempre e conveniente alle passioni, e diverse situazioni patetiche felicemente espresse, Serva di esempio la scena quinta dell’atto III, in cui Demodice che ha penetrato che il suo sposo Alceste sarà il competitore del fratello Critolao, così si esprime :

S’ei riman vinto, e come le mie nozze
Si compiranno ? E s’egli è vincitore,
M’unirò a quel che i miei fratelli uccise ?
Di natura ed amor ambo possenti
Leggi che a’danni miei tutte vi unite
Perchè appunto tra voi sì opposte siete ;
Quale debbo io seguir ? da qual sottrarmi ?
e poi ;
Vincete entrambi,
E se alcun dee perir, pera…
Ma quale ?
Alceste… ? Critolao… ? No,
Demodice.

La Didone uscì in Verona nel 1721, ma nella dedicatoria alla marchesa Isotta Nugarola Pindemonte si dice di essersene fatta prima un’altra edizione, ed appresso nel 1724 si stampò di nuovo con tutte le rime dell’autore. Non cede questa tragedia nella regolarità e nel colorito delle passioni alla Demodice ; ma le sovrasta per nobiltà e grandezza di stile e per la semplicità dell’azione avvivata però da un movimento che va d’atto in atto crescendo. La sceneggiatura è pure alla maniera antica, ma due volte sole resta il teatro voto. Havvi parimente la tanto ripetuta descrizione di un sogno ; ma vi si evita il particolareggiar soverchio, come altri ha fatto, per additare appuntino i fatti della tragedia. Vi si scorgono di bei passi nè pochi. Spira magnanimità nell’ atto II la risposta di Didone all’ ambasciadore di Jarba. Teatrale nell’ atto III è il contrasto di Didone che giugne gioliva e piena di speranze, con Enea che all’ ordine di Giove si disponeva a partire senza vederla. Bene espressa è la maraviglia e la tristezza di lei al silenzio indi al partir del Trojano con poche compassate parole ; ma pregevole singolarmente è la pennellata che ne rileva il disdegno. Tratta dal naturale orgoglio ella dà a credere a se stessa di essersi disingannata e di ravvisare il torto che faceva al suo Sicheo, e ne ha onta. Si duole di vedersi adorna di altre spoglie che delle vedovili. Ordina a Bargina di trovare Enea, ed imporgli di partir subito senza vederla. Ma che ? Anna le riferisce l’imminente partenza di Enea, ed allora il foco sopito sotto quella rassegnazione sugerita dall’ istesso amor disdegnoso, divampa repentinamente :

Ahi me lassa ! Bargina, parte Enea !
Guarda, se furon ciechi i miei timori !
Me può lasciar ? me abbandonar ?
Ah tosto
Si voli, si ritenga l’infedele…
Ah ! che più indugio ? Io stessa al lido, al porto
Corro a provar ciò che potranno i prieghi,
Le lagrime, i sospiri ec.
O Enea che mi abbandoni, o mie speranze,
O sacra del moi sposo ombra gradita,
O mio onore, o decoro, o forte amore,
Si, troppo forte che al dover contrasti,
Qual vincerà di voi ?

Ottimamente. Questo bellissimo disviluppo degli affetti di Didone, questo tragico contrasto acconciamente approssimato della prima rassegnazione con quest’ impeto repentino, tutta manifestano l’anima trafitta di Didone, e l’ingegno dell’ autore. La scena quinta dell’ atto IV ci sveglia l’idea dell’ abbandono di Armida, e del combattuto Rinaldo che si sente morire, e pur la lascia. Didone sviene, come Armida, ed Enea parte con Ascanio, come Rinaldo con Ubaldo. Questa buona tragedia colle precedenti smentisce l’affettazione di taluno che imparando la storia letteraria d’Italia sulle importanti notizie giornaliere delle gazzette straniere, afferma che nei primi lustri del nostro secolo il teatro italiano ebbe soltanto drammi irregolari e mostruosi. Si noti che dalla Merope, dalla Demodice e dalla Didone si sono esclusi i cori, e l’uso in seguito n’è passato quasi del tutto.

Anche nel 1721 s’impresse in Venezia l’Ezzelino del dottor Girolamo Baruffaldi ferrarese, che poi ebbe altre quattro edizioni ed in Venezia stessa ed in Ferrara. È scritto in versi sciolti, con regolarità, con colorito vivace ne’ caratteri e nelle passioni, ed in istile dagli intelligenti commendato. Se ne riprende il personaggio di Ansedisio di nota malvagità come poco necessario e lasciato impunito : qualche discorso segreto che si ode dall’ uditorio e non da’ personaggi che stanno in iscena : e la mancanza del tempo richiesto perchè giunga Beatrice co’ sei compagni dal fondo della torre, non essendo passati dalla chiamata all’ arrivo se non sei versi soli recitati da Amabilia. Lo stesso autore pubblicò nel 1725 Giocasta la giovane di scena mutabile. L’invenzione di questa non appartiene al Baruffaldi ; perchè il conte Antonio Zaniboni aveva già tratta da un dramma musicale la sua Antigona in Tebe detta opera tragica scritta in prosa e impressa in Venezia nel 1722. Da tali favole tirò la sua tragedia il Baruffaldi, nè se ne infinse, ma ingenuamente l’accennò nel ragionamento che vi premise. Si osserva nella condotta dell’ azione qualche leggero intoppo. Antigona madre di Giocasta (che Creonte volle far morire per mano del proprio figliuolo Osmene di lei marito) viene a Tebe sotto virili spoglie, e domanda ad Ormindo il cammino della reggia, che ella non dee ignorare. Viene con animo di dar la morte a Creonte, e nel darsi a conoscere ad Osmene manifesta il suo disegno di uccidere il di lui padre, e pretende che egli vi concorra. « Io porterommi al tempio (ella dice nell’ atto III) mi scoprirò al tiranno ; gli trarrò dal capo la corona ; farò provargli tutta l’ira mia ». Se così parlasse spinta da disperazione e da tedio di vivere, sarebbero espressioni convenienti ; ma ella ciò dice pensando in fatti di eseguirlo per vendicarsi, senza riflettere all’ impossibilità della riuscita. Forse potrebbesi risecare qualche cicaleccio di Ormindo. Forse che più che tragedia parrà questa Giocasta un romanzo drammatico per tanti colpi di teatro e per le avventure che in essa si accumolano in poche ore. Ma tali nei vengono compensati dalla bellezza dello stile e dalle situazioni interessanti ben condotte. Viva e patetica è la preghiera che fa nell’ atto I Osmene al padre per non isposar Giocasta. È tenera la riconoscenza di Antigona ed Osmene nell’ atto II. Sono giuste le di lei prime espressioni. Appassionata è la narrazione delle proprie sventure e della fanciulla che diede alla luce. Grande il di lei coraggio ed il disprezzo della morte in faccia a Creonte nel IV atto. Piace soprattutto nell’ atto V la patetica separazione di Antigona ed Osmene nel punto di esser ferita da Giocasta. Ella s’intenerisce alla rimembranza della figlia perduta, e dice al marito che la cerchi, ed incontrandola (soggiugne) :

Dille del moi destin la cruda istoria,
Dille che la sua madre al fin morìo
Tradita e invendicata ; e se al mio petto
Stringer non la potrò, stringila al tuo.

Mentre si applaudiva la Merope del Maffei, l’abate Domenico Lazzarini di Morro patrizio maceratese illustre poeta e pubblico professore di lettere umane in Padova, la censurò severamente. Diede poscia alla luce il suo Ulisse il giovane, nella qual tragedia non senza eleganza imitò l’Edipo di Sofocle, richiamando sulla scena tutto il terrore e la forza tragica del teatro di Atene. È scritto in endecasillabi ed ettasillabi sciolti misti a piacere ; ha il coro continuo alla greca maniera ; lo stile accoppia alla grandezza tragica verità e naturalezza senza cader nel basso. Ma, come bene osserva l’abate Conti, si sfigura questa favola in certo modo con raddoppiarsene l’azione colla morte data dal padre al figliuolo e col suicidio della figliuola. I non pochi amici dell’ autore e del severo gusto greco contrarii a Scipione Maffei, l’applaudirono nella lettura ; ma non si ammise al teatro, malgrado della regolarità, dello stile vigoroso, della versificazione e della nobiltà de’ cori. Uscì contro di essa una piacevole satira scenica col titolo di Ruzvanscad il giovane del Vallaresso nobil veneto, parodia, disse il Bettinelli, saporotissima tralle poche italiane.

Discepolo del Lazzarini e seguace del di lui gusto tragico fu l’abate Giuseppe Salio padovano morto giovine qualche anno dopo del 1738. Egli compose tre tragedie col coro continuo lavorato con troppo servile imitazione de’ Greci, per la quale esse riescono fredde e nojose, la Temisto, la Penelope, e Salvio Ottone. S’impressero nel 1727 dal Comíno in Padova, ma non si rappresentarono mai. L’ultima fu dedicata ad Apostolo Zeno che la lodò. Il Conte di Calepio comendò la scelta del protagonísta nella Temisto, ma parve al Salio che egli ne avesse disapprovato tacitamente ogni altra cosa nel Paragone della Poesia Tragica, e perciò nel 1738 produsse contro di questa opera egregía l’ Esame Critico, al quale vigorosamente replicò il Calepio colla sua Confutazione di molti sentimenti del Salio, dopo di che più non si parlò delle di lui tragedie.

Comunicato lo spirito di simil genere per la riuscita del Conti, del Martelli, del Zanotti, del Marchese e del Maffei, si diffuse per l’Italia tutta, e molte tragedie regolari e giudiziose, se non eccellenti, si produssero. Giovanni Leone Sempronii da Urbino pubblicò in Roma nel 1724 la sua tragedia il Conte Ugolino. La Morte di Achille del Conte Ludovico Savioli bolognese uscì in Bassano, se non m’inganna la memoria, e s’impresse ancora in Lucca nella Biblioteca teatrale compilata dal Diodati. Il marchese Gorini Corio stampò in Venezia nel 1733 il suo Teatro Tragico e Comico col trattato della Perfetta Tragedia ; ma le sue tragedie erano ben lontane dalla perfezione. Sebastiano degli Antonii vicentino scrisse la Congiura di Bruto figliuolo di Cesare pubblicata in Vicenza nel 1733, la quale secondo il conte Mazzucchelli fu lodata dal Martelli, e chiamata dal Maffei nobile tragedia. Giovanni Antonio Bianchi minore osservante nato in Lucca nel 1686 e morto in Roma nel 1758, conosciuto per gli sforzi perduti contro la Storia Civile di Pietro Giannone, e pel libro De’ vizii e de difetti del mo lerno teatro, pubblicò sotto il nome arcadico di Lauriso Targiense nel 1761 in quattro volumi dodici tragedie regolari, decenti e giudiziose, ma non vigorose, sublimi, eccellenti. O to di esse sono scritte in prosa, cioè don Alfonso, Jefte, Matilde, Tommaso Moro, Demetrio, Marianna, Dina, Rugiero, e quattro in versi, Atalia, David, Gionata, Virginia. Recitavansi in un teatrino, che sussisteva ancora verso la fine del secolo nel convenuto di Orvieto da’ suoi studenti con grandissimo concorso. Quivi ancora si rappresentarono due sue commedie, l’Antiquario e la Fanciulla maritata senza dote rimaste inedite. Il Mazzucchelli ne favello sulla scorta di Giovanni degli Agostini autore delle Vite degli Scrittori Veneziani. Alcune notizie del Bianchi da me riferite mi si comunicarono dal riputato moi amico Ireneo Affò bibliotecario di Parma. Bonaventura Antonio Bravi Veronese pur minore osservante nato nel 1693 e morto verso il 1773 diede alla luce cinque tragedie. Il suo Orazio usci in Venezia nel 1642 e si ristampò in Verona nel 1762 con molte mutazioni e col titolo Orazio in campo. Sulmone pubblicata in Venezia nel 1746 si reimpresse in Firenze nel 1756. Usc in Verona nel 1747 Irene delusa. Quivi pur s’impresse il Costantino nel 1748, ed un altro Costantino diverso dal primo venne pure alla luce in Verona nel 1752, e la seconda volta nel 1764. Il signor Bicchierai produsse in Firenze due tragadie regolari nel 1767, la Virginia e la Cleone precedute da alcune considerazioni sul teatro utili e giudiziose. Ma niuna di tutte queste tragedie levò il grido e parve degna compagna o della Merope del Maffei o della Perselide del Martelli, o del Giulio Cesare del Conti, o dell’Ermenegildo e del Maurizio del Marchese. Toccò al Varano ed al Granelli il vanto di recar nuova fama all’italico coturno.

Alfonso Varano de’duchi di Camerino distinto per natali, per dottrina e per ingegno poetico morto in Ferrara carico di anni e di meriti letterarii a’23 di giugno del 1788(a). Arricchi il teatro tragico di tre buone tragedie Demetrio, Giovanni di Giscala ed Agnese che si trovano impresse nelle Opere Poetiche del Varano pubblicate nella reale stamperia di Parma nel 1789(a). L’autore che forse pensava di seppellirle con tante altre poetiche richezze, si vide obbligato ad imprimere il Demetrio in Padova nel 1749 con correzione e magnificenza, dopo di essersi querelato nelle Novelle Letterarie di Venezia del Berno librajo veronese che nel 1745 su di un esemplare nè riveduto nè concesso dall’autore l’aveva prodotto. In seguito s’inserì anche nella nominata Biblioteca teatrale nel 1766 in Lucca. L’autore la chiamava impresa della prima sua gioventù, la quale verisimilmente l’avvicina all’epoca delle tragedie del Maffei, del Zanotti e del Recanati. Nobile, terso, elagante ed alle cose accomodato n’è lo stile ; regolare e ben condotta l’economia della favola ; ottima la versificazione, proprio il colorito de’ caratteri ; magnifici i cori introdotti soltanto nell’intervallo degli atti. L’azione immaginata con somiglianza del vero non è istorica, eccetto che nell’ àncora naturalmente impressa nel corpo de’Seleucidi(a) dal Varano adoperata nello scioglimento. Le scene sono tutte incatenate alla maniera moderna ad eccezione dell’atto II, in cui una volta rimane vota la scena partendo Arsinoe nella quarta e venendo poi fuori Berenice ed Araspe. Due oracoli sono le molle che muovono le passioni di una madre a danno del figliuolo sin dalle fasce, il quale vien salvato dal di lei furore, vive incognito, se le presenta con altro nome, n’è amato con altro amore che di madre, è poi perseguitato ed accusato di fellonia, e finalmente cagiona la morte di lei secondo la predizione dell’oracolo. Offre questa tragedia al sagace osservatore molti passi pregevoli per nobiltà ed eleganza di dizione. Nobilmente si esprime la magnanima Arsinoe nell’atto II con Seleuco e con Artamene. Il contrasto dell’amore colla virtù in lei ed in Artamene è dipinto ottimamente nell’atto III, e vi sono con felicità e dignità disviluppate le angustie dì Artamene combattuto dal colpevole amore che ha per lui la madre e dall’odio che Arsinoe ha per Seleuco. Egli conchiude :

Per vie diverse
Congiuran ambe alla reina mia.
Ahi lasso ! Io amo entrambe, una ch’è madre
Benche sia indegna di tal nome, e l’altra
Perchè degna di amor benchè sia ingrata.

Nell’atto IV si ammira una situazione tragica assai bene espressa. Artamene per un falso foglio diviene reo di una congiura presso Seleuco ; il re pretende solo che si scagioni giurando che niun altro congiuri contro di lui ; ma egli ciò nou può esegnire nell’ alternativa o di accusar la madre o di mentire. Nel V investigando Berenice la condizione di Artamene vedesi con maestria e con nobiltà animato il lor dialogo, e singolarmente è da notarsi ogni di lui risposta ingegnosa ed il riconoscimento di Demetrio. Vedasene il seguente squarcio poichè si è scoperto :

Oimè ! che strane
Vicende ebbi a soffrir ! Fuida’nemici
Salvato, fui nutrito, e dalla madre
Son trafitto nel cor. Tu mi accusasti
Che di Seleuco io meditai la morte,
E per aver qualche ragion sul trono,
Chiesi a te le tue nozze. E chi non vede,
S’io mi fo noto al genitor, che torna
La falsa accusa tua sopra il tuo cavo ?
Ma datti pace. Al re sarò Artamene
E a te sola Demetrio, e così ad ambi
Renderò quel ch’io debbo e figlio e reo.
Girami un guardo, o madre, e alla mia destra
Giungi la tua.

E così egli si conduce con Seleuco ostinandosi a tacere, sicchè il re lo manda a morire. Ma poco stante Seleuco rileva da Ircano, che Artamene è Demetrio suo figlio, e ne manda a sospendere l’esecuzione. L’agitazione di Seleuco nel dubbio che il soldato non giunga a tempo per impedirla, è piena di moto ed espressa acconciamente. Ma Demetrio è salvato, la virtù felice, la tragedia si conchiude con lieto fine, non ostaute la morte di Berenice per l’interpretazione dell’oracolo fatalmente colpevole. Se questa favola da taluni non si voglia ammettere tralle migliori tragedie italiane, credo che al compiuto trionfo del Varano si oppongano i due seguenti ostacoli. In prima il patetico onde deriva principalmente l’effetto tragico, non sembra in esso vigoroso al pari del grande che concilia ammirazione ; ovvero, che è lo stesso, la compassione non par che sia condotta a quell’attivo fremito che ci scuote si spesso in Euripide che si pretende invecchiato. L’altro ostacolo potrebbe nascere dall’ostinazione di Artamene a non palesarsi per Demetrio in tempo che non si sono ancora le cose portate agli estremi ; tale ostinazione forse non parrà necessaria e bella e degna della tragedia, se non quando Demetrio noto alla madre tace eroicamente per non recarle onta e nocumento. So bene che tal condotta può colorirsi col timore che ha Demetrio di perdere totalmente la speranza di placare Arsinoe, e colla sicura conoscenza che ha dell’odio materno invincibile ; ma ne i grandi sconvolgimenti lo spettatore dimanderà sempre, perchè non si è scoperto ? Ci voleva una sufficiente ragione in ogni punto dell’ azione perchè il silenzio non si dovesse rompere. Queste osservazioni però basteranno per impedire che si registri sì nobil favola accanto alle migliori ? Faranno sì che con affettata incontentabilità debba il sig. Andres ripetere che in Italia altra buona tragedia non esista fuorchè la Merope ? Bisognerebbe essere qualche affamato gazzettiere enciclopedico, o un uomo di un libro solo, o un copiatore dell’Esprit des Journaux, o alcun maligno plagiario perpetuo sempre intento a far che si dimentichino i libri che ha saccheggiati.

La nobiltà ed eleganza dello stile, la regolarità, la bellezza del dialogo, il vivace colorito de’caratteri non discordano dal Demetrio tanto nell’Agnese quanto nel Giovanni di Giscala tiranno del tempio di Gerusalemme. Singolarmente quest’ultima favola che empie il suo oggetto d’inspirare il terrore colla morte di Giscala, e colla rovina totale di Gerusalemme, ci obbliga a fermarsi su di essa un poco più dell’Agnese. Fu dedicata al pontefice Benedetto XIV, e s’impresse splendidamente in Veuezia nel 1754 ornata in ciascun atto di alcune medaglie battute da’Romani in onore di Vespasiano e di Tito, e con un discorso sommamente erudito intorno alle profezie e agl’istorici monumenti della distruzione di Gerusalemme, ed a varie circostanze rammentate nel dramma. Notabile in esso è la dipintura della feroce grandezza d’animo di Giscala, e per molte sce ne vigorose e teatrali, e singolarmente per quella dell’atto III, in cui egli s’intenerisce col figliuolo a lui venuto dal campo nemico, come avvenne ad Attilio Regolo servo in Cartagine, per proporgli la resa, e da lui con isdegno rimandato al supplizio. Vì sono i cori scritti ottimamente, i quali incatenano un atto coll’altro, e meritano l’attenzione degl’intelligenti essendo ricchi di pensieri sublimi poeticamente espressi(a).

Il gesuita genovese Giovanni Granelli predicatore riputato, e bibliotecario del duca di Modena morto l’anno 1769, è l’altro autore che ci ha somministrate tragedie degne di mentovarsi insieme colla Merope, colla Perselide, coll’Ermenegildo, col Maurizio, col Giulio Cesare, e col Demetrio. Il sig. Andres nel mentovar con onore i componimenti di lui, e dell’altro suo confratello Bettinelli, si contentò di spiegarsi in termini generali, ed accennò solo che le circostanze legavano loro le mani per non ispargervi tutti que’fiori che il fecondo lor genio avrebbe saputo far nascere, nè ridurre i loro drammi a quella perfezione, di cui sarebbero forse stati capaci. Ma con ciò (chiedere potrebbe un giovane desideroso di apprendere l’arte) che ho io imparato ? e che fuggirò ? che seguirò ? quali fiori sparse il lor genio fecondo, e quali lasciò di far nascere ? Simili desiderii antiveduti mi spinsero, qualunque io mi sia, a formar de’teatri una storia generale ma ragionata, che desse a un argomento sì trito l’utile novità degli esami sentiti, e non fatti sull’altrui fede, o, come diceva Elvezio, sur parole, e copiati con poca spesa da’fogli periodici.

Il p. Granelli dunque beuchè dalle leggi del proprio istituto astretto a contenersi entro certi confini che lasciano infruttuosa la più ricca fantasia, ed a privarsi del vantaggio che apportano sul teatro le femmine, compose quattro tragedie, quale più e quale meno, tutte però lodevoli, Sedecia, Manasse, Dione, Seila figlia di Jefte. Regolarità, interesse, giudizio nella traccia della favola, destrezza nel colorire i caratteri, sentimenti grandi, nulla a lui manca per esser collocato tra’migliori tragici. Sopra tutte le sue lodi trionfa l’eccellenza dello stile naturalmente bello e poetico, ricco nella frase, puro nel linguaggio, grande sempre, sempre elegante, e forse talvolta per questo appunto alquanto uniforme. L’istesso suo particolare ammiratore Saverio Bettinelli confessò parer talora un po uniforme quella stessa nobiltà, che l’anima elevata del Granelli prestava a’ suoi personaggi. Non essendo però le sue tragedie accomodate al bisogno de’pubblici teatri, fèce che ne fossero escluse, e che si rappresentassero solo nel Collegio di San Luigi di Bologna nel 1732, e ne’due seguenti anni, e si ripetessero in teatri privati dalla nobiltà bolognese. Ciò nocque alla loro rinomanza, rimanendone confinato il diletto entro pochi istruiti leggitori che ne ammirano singolarmente i pregi dello stile. Nocque anche alla gloria dell’Italia, perchè l’egregio autore avrebbe nella scuola del teatro apprese nuove delicatezze e perfezioni dell’arte E dove non sarebbe egli giunto con quell’anima sublime e sensibile che pur manifesta, se in vece di limitarsi a rassomigliar nelle sue azioni sacre l’elevatezza del profetico linguaggio scritturale, si fosse dedicato a tesserne altre di argomenti più atti ad eccitar la compassione ed il terrore tragico, e a migliorar la sublimità del Cornelio spogliandola dalle gonfiezze, ed il patetico di Racine preservandolo dalla mollezza elegiaca ? Venghiamo a qualche particolarità di ciascuna delle sue favole.

Sedecia dedicata al cardinal Giorgio Spinola fu la prima tragedia del Granelli. È regolare e sceneggiata alla moderna, e solo nella terza scena dell’atto IV partono i personaggi, e lasciano voto il teatro. Ha i cori mobili di Assiri, Caldei ed Israeliti. Non si prefisse l’autore, come egli stesso confessò, di destar la compassione, ma conservò nella favola il pregio della semplicità animata dal bello episodio de’figliuoli de’due re, cioè Giosia di Sedecia, ed Evilmero di Nabucco, i cui eccellenti caratteri cattano la benevolenza di chi ascolta, e danno luogo alla bella descrizione del pericolo di Evilmero nel bosco, e del combattimento di Giosia colla fiera. Merita parimente lode il Granelli pel carattere teatrale di Nabucco misto di grandi virtù, e di passioni grandi, tal che, come egli pur dice, in tutte le sue virtù si scorge il pregiudizio di una grande passione, ed in tutte le sue passioni il principio di una grande virtù. Il suo Geremia ben rassembra all’originale della sacra scrittura. Vedasi in qual guisa egli nella quarta scena dell’atto I fa parlar Iddio :

Chi son io, dice Dio, che ne l’Egitto
Anzi che in me, le tue speranze affidi ?
Quella forse è la terra, onde Israello
Debba sperar salute, e quelle l’armi,
Che di me non curando e del mio Tempio,
In sua difesa infedelmente implori ?
Perchè a sottrarne i vostri antichi padri
Colà fec’io tanti prodigii orrendi ?
Perchè poi da l’Egitto un dì sperasse
La casa di Giacob salvezza e regno ?

Degna di notarsi è pur la profezia dell’atto IV, che il Granelli ad imitazione di quella di Giojada dell’Atalia del Racine fa profferire a Geremia dell’eccidio di Babilonia, e dell’impero degli Assiri trasferito a’Medi. Dovunque in somma s’introduce questo personaggio scorgesi una saggia elevatezza che ispira un tacito religioso rispetto pe i decreti della divinità. Non merita minore attenzione la magnanima aringa di Sedecia nell’atto II.

Manasse seconda sua tragedia ci dipinge un penitente che potrebbe annojare per la sua abjezione, e pure è condotto con tanto senno che serve ad aumentare la grandezza del dramma. Manasse penitente ancora interessa, e nell’innoltrarsi l’azione desta pietà divenendo sensibile al suo pericolo. L’autore senza curarsi per altro di farsene un merito, pensa che di tal carattere non abbiasi esempio nè degli antichi, nè de’moderni tragici. Io però credo, che fra gli antichi il Tieste di Seneca adombri il di lui Manasse ; essendo Tieste uno scellerato renduto migliore dalle disgrazie, e fra’moderni l’abbandono disperato del Radamisto del Crebillon, che riconosce e detesta i passati suoi falli, esprime il dolore di questo re di Giuda. Ben è vero che in Manasse tutto è rettificato, e migliorato per la verace divinità ; ma anche in ciò il Granelli fu preceduto dal marchese Annibale Marchese nel suo Maurizio. L’agnizione di un figlio di Manasse salvato dal sommo sacerdote, forma gran parte del bello di questa tragedia. L’artifizio usato felicemente nel supporre prima dell’azione dato in sogno il divino comando a Nabucco, onde si cangia il di lui animo avverso in favore di Manasse, salva la tragedia (e l’avvertì pure l’autore) dallo sciorsi per macchina, e dà luogo a una serie di cose che conduce a discoprire in Manasse la persona additata in quel comando, ed apporta il lieto fine dell’azione. La dizione è la solita nobile, e grandiosa propria dell’autore, e sembra solo, che per gli ragionamenti troppo prolongati, benchè convenevoli ed eleganti, serpeggi per sì bella tragedia qualche lentezza.

Dione che liberò la Sicilia dalla tirannia de’Dionigi, e rimase indi oppresso dalla propria imprudenza o credulità, è il titolo della terza tragedia del Granelli. La regolarità della condotta, la vivace espressione de’caratteri ben colpiti, l’eccellenza del dialogo, tutto ciò la rende al pari delle altre due accetta agl’intelligenti. Vi riconosciamo altresi coll’abate Bettinelli la solita bellezza di stile poetico e naturale, e la stessa ricchezza di fiase e purità di lingua che è pur sì necessaria al teatro, e che sì di rado s’incontra. Aggiugne però il suo confratello : Ove troverassi un maggiore sforzo d’ingegno in tanta chiarezza, e profondità d’invenzione, d’intreccio, e di scioglimento ? Qual taccia daremo al Dione per non riporlo tra le prime tragedie italiane ? Non ardisco proporre a titolo di taccia quanto penso intorno al Dione ; pure mi sentirei disposto a riporre tralle prime tragedie italiane anzi il Sedecia e il Manasse, che il Dione. Oso profferire di non parermi l’ultimo sforzo dell’umano ingegno l’invenzione l’intreccio, e lo scioglimento di una favola che non produce in pro del protagonista (io ne appello all’interno sentimento di chi la legga o l’ascolti) tutto l’effetto della tragica compassione, e che non lascia intravvedere il frutto morale che il drammatico dee prefigersi. Dione ha due favoriti, Callicrate perfido simulatore, Alcimene vero suo amico ; il re crede tutto al primo, e poco o nulla al secondo benchè più amato. Callicrate in faccia allo stesso Dione è convinto di manifesta menzogna, di doppiezza, di odio contro Alcimene. Io sono (dice egli stesso) e fui suo nemico e geloso del real favore ch’ei solo ottiene :

A farnelo cader ogni arte oprai ;
Congiurato lo finsi.

Il re ha stabilito con lui ch’egli si fingerebbe con tutti infedele e traditore ; ma poi intende dall’ingenuo Alcimene che Callicrate parlando seco si è mostrato fedelissimo ; il re ne stupisce a ragione, e rileva questa doppiezza :

Dione

Teco dunque Callicrate si finse
A me fedel, non traditore ? E il vero
Tu mi narri, Alcimene ?

Alcimene

Il ver ti narro.

Ed altrove lo rammenta al re lo stesso Alcimene. Per tutto ciò non richiedeva la verisimiglianza che Callicrate nemico dichiarato di Alcimene, e menzognero convinto dovesse meritare assai minor fede che il suo rivale ? Pure Dione tutto si abbandona su di codesto insidiatore, che può dirsi un Davo tragico (tante sono le bugie e le trame che accumola e intesse in ogni incontro), e ciò solo perchè gli promette di dargli in mano Apollocrate figliuolo di Dionigi. Ma per tale utile tradimento, ben potrebbe egli ottener dal re l’immunità per gl’inganni passati (come suol concedersi a’ rei che fanno denunzie utili allo stato), ma non già un privilegio di esser solo creduto fedele e veritiero. Non pertanto il re totalmente in lui confida, chiama a guardar la reggia i soldati Zacinti da lui dipendenti, e ne viene a man salva ucciso. Lascio che le menzogne di Callicrate non si sostengono senza qualche studiata reticenza ; di maniera che se Celippo p. e. o Apollocrate non dicono appuntino ciò che egli ha loro sugerito, crolla la macchina. Lascio ancora la poco verisimile ipotesi che di tutta la Sicilia (senza eccettuarne Dione parente di Dionigi) il solo Callicrate conosca Apollocrate figliuolo di questo discacciato tiranno, ed anche Ireno. Tante supposizioni a favor dell’empio per avvolgere e disviluppar questo nodo, danno indizio di qualche intrinseco difetto nel piano. Previde il degno autore l’opposizione che singolarmente far si poteva alla somma credulità di Dione, e disse in sua discolpa, che la storia l’ha esposto al pericolo di far parere Dione uomo troppo più facile e credulo che ad un eroe non conviene ; e pregò il leggitore a por mente alle di lui circostanze, ed a consigliare se stesso a qual partito sarebbesi egli anzi appigliato. Dopo dunque di aver come leggitore consigliato me stesso ponendomi nelle circostanze di Dione, dico, che se Dione fosse almeno ugualmente entrato in dubbio di Alcimene e di Callicrate, se si fosse assicurato di entrambi per attendere sulla congiura maggior luce dall’amico Eumene, non avrebbe egli scansata la taccia di troppo facile e credulo, e mostrato costanza nel carattere, e secondata la prudenza indispensabile ad un uomo, non che ad un eroe, e minorato il proprio pericolo ? Egli è vero che la storia dà a Dione un carattere d’imprudente. Callicrates (disse Cornelio Nipote) se armat imprudentia Dionis. La di lui imprudenza rilevata dalla storia si restringe ad approvare l’astuto consiglio di Callicrate di fingersi egli stesso traditore e nemico di Dione per iscoprire i veri congiurati. Ma la storia non attribuisce a Dione l’imbecillità, di confidarsi ciecamente ad un raggiratore convinto d’impostura e di menzogna evidente. E quando pure la storia gli avesse sugerito questa specie d’inavvertenza, il Granelli ben sapeva che la tragedia non ripete esattamente la storia, ma la corregge e rettifica nelle circostanze che possono nuocere a conseguire di eccitare il terrore e la compassione, secondocchè si prefige la poesia tragica. Dopo ciò vedrà il leggitore se ebbe ragione il Bettinelli di ammirare nel Dione l’ultimo sforzo d’ingegno nell’invenzione, nell’intreccio e nello scioglimento, e di non trovare in essa taccia veruna che osti a riporla tralle prime tragedie italiane.

Seila figlia di Jefte è l’ultima tragedia del Granelli. Seila è una sacra Ifigenia, il cui magnanimo carattere non si smentisce mai sino al fine. Ne’due primi atti l’azione ben disposta prepara l’uditorio alla tragica compassione. Nel terzo le querele di Ada, le angustie di Jefte, la grandezza de’sentimenti di Seila, sostengono la favola nel medesimo vigore. Ma nel quarto (quando dovrebbe crescere) già prende un aspetto più pacato per l’esame liturgico su i sacrifizii e i voti tra Ozia e Jefte, la qual cosa sgombra ogni timore che agitava gli animi col pericolo della vita di Seila, e la compassione quasi non ha più luogo. Nel quinto riprende tanto di forza quanto permette la determinazione di Seila che vuol rimanere offerta volontaria in olocausto. Nel lasciare i genitori e l’amante altre lagrime ella non ottiene se non quelle che spargevansi fra noi per le nostre fanciulle destinate a rendersi religiose in un ritiro di clausura.

Prima di passare alle tragedie dell’istesso signor Bettinelli, fa mestieri mentovare le tragedie latine composte nel secolo XVIII per lo più da’ gesuiti. Marcantonio Ducci fece imprimere in Roma nel 1707 l’Ermenegildo ; Giovanni Lascari nel 1709 Stanislao Koska ; monsignor Gian Lorenzo Lucchesini di Lucca Maurizio imperadore, ed Artavasdo, oltre di altre due tragedie scritte in italiano. Sei ne produsse in Roma il dotto p. Carpani nel 1745. Il p. Giovanni Spinelli di Napoli de’principi di san Giorgio compose un Epaminonda verso il 1746, e lo tradusse e fe imprimere anche in italiano. Benemerito al pari de’prelodati della drammatica poesia latina fu il celebre Francesco Maria Lorenzini nato in Roma dal fiorentino Sebastiano e da Orsola Maria Neri bolognese. Egli che col proprio esempio insegnò l’arte di congiungere felicemente nella poesia italiana la forza e l’evidenza dell’Alighieri alla vaghezza e leggiadria del Petrarca, scrisse in latino alcuni melodrammi tragici elegantissimi. La sua Jaele s’impresse nel 1701, Atalia nel 1703, Sedecia, e la Madre de’ Macabei nel 1704,Tamar vendicata nel 1706, Santa Maria Maddalena de Pazzis in latino ed in italiano nel 1707, e Bersabea nel 1708, e trasportò anche in latino i melodrammi del cardinale Ottoboni. Il riputato Fabroni che ne scrisse la vita, di tali componimenti afferma satis eleganter ea scripta fuisse, neque aliam laudem praeter hanc elegantiae ex iis quaesisse Lorenzinium. La stessa cosa è a dirsi degli anzinominati scrittori, ne’quali invano si desidererebbe vivacità di azione, energia di caratteri, perturbazione tragica, ed interesse. Il Lorenzini nella famosa discordia dell’Arcadia Romana attese ad addestrare alcuni giovani a rappresentare in latino le commedie di Plauto e di Terenzio, le quali si ascoltarono con indicibile applauso e con numerosissimo concorso di persone di ogni ceto, perchè que’giovani attori erano stati da lui così bene ammaestrati, che anche coloro che non aveano famigliarità coll’antico idioma del Lazio, intendevano ottimamente l’espressioni del poeta.

Proseguendo alla nostra guisa senza odii ingiusti, senza vanità di sovrastare, e senza timori de’pretesi giganti de’quali non ignoriamo la debolezza dell’articolazione, passiamo ad esporre de’componimenti più a noi vicini la luce e le ombre, in vece di pronunziar secchi responsi da oracolo e giudizii magistrali, che lasciano la gioventù qual era prima di ascoltarli. Parliamo dunque dell’altro valoroso letterato esgesuita Saverio Bettinelli nato l’anno 1718 nella patria di Virgilio, e morto l’anno 1808. Se ne hanno tre ragionevoli tragedie, Gionata, Demetrio Poliorcete, ossia la Virtù Ateniese, e Serse re di Persia, le quali colla traduzione della Roma Salvata stamparonsi nel 1771 in Bassano, ma si diedero al teatro in diversi tempi, la prima in Bologna nel 1747, e le altre in Parma tra il 1752 e 1757. L’autore stesso nel Discorso del Teatro Italiano ci fa sapere che il Demetrio si rappresentò anche in Venezia nel 1758, il Gionata altre volte ancora, ed il Serse in Verona nel 1767 da’ cavalieri, e vi sostenne la prima parte il marchese Albergati Capacelli. La regolarità, e lo stile accomodato alle cose, e gli affetti naturali e bene espressi, sono i meriti generali delle favole del Bettinelli. Vediamone qualche particolarità.

Gionata è tragedia di lieto fine semplice quanto altra mai fondata in quel detto della scrittura, gustavi paululum mellis, et ecce morior, così espresso dall’autore :

Due stille sol di colto mel gustai,
Ecco il mio fallo, e per sì poco io muojo.

Lo stile di questa favola non è quello del Granelli nè del Varano, ma si rende pregevole perchè naturale e patetico senza veruna bassezza. Vi s’imitano i tratti dell’Ifigenia or di Euripide or di Racine, e la compassione si conduce al suo punto, e più di un bel passo se ne può comendare. Tale è il lamento di Saule nella scena terza dell’atto III :

Questa è la mia vittoria, e qui dovea
Lo sperato trionfo addurmi al fine ?
Oh patria ! oh Israello ! a questo prezzo
Dunque tuo re m’hai fatto ? Or che mi cale
Di scettro e regno, se mi togli un figlio ?
Rendimi il figlio, e tienti scettro e regno.

Tale è la scena quarta di Saule e Gionata, il quale ignorando il suo destino attende la riposta dell’oracolo, e vuol consolare il padre che risponde in termini di doppio significato alla maniera di Agamennone nell’Ifigenia in Aulide. Sono ancora interessanti le tenerezze di Abinadabbo e di Gionata simili in parte a quelle di Pilade e di Oreste nell’Ifigenia in Tauri, e lodevole altresì può dirsi la patetica scena quinta dell’atto IV fra Gionata e Saule. Non pertanto ad occhio attento parranno poco utili all’azione e forse superflue sì la scena sesta dell’atto III che la prima del IV. In quella del III Saule domanda ad Abiele, se il popolo entrerebbe a parte del suo paterno affetto, ove egli inclinasse al perdono, ovvero si solleverebbe ? Ma le disposizioni del popolo nella Teocrazia come avrebbero potuto cangiare le deliberazioni di Saule, cui era tolto ogni arbitrio dal proprio giuramento e dallo zelo temuto di Samuele per la volontà del cielo enunciata dal sacro oracolo ? Quanto alla prima scena del IV Saule potrebbe per l’affetto naturale venire con ripugnanza all’esecuzione della sentenza, ma non mai essere incerto se debba o no far morire il figlio, che il cielo condanna. Egli intanto convoca un consiglio di Abnero e Samuele per deliberare su di ciò che pur non è più in suo arbitrio.

Nel Demetrio Poliorcete abbondano i sentimenti eroici, e lo stile si eleva alquanto su di quello del Gionata. Il fondo istorico dell’azione consiste nel perdono dato ad Atene da Demetrio ; ma nel disviluppo prende la favola il portamento del Cinna di Pietro Cornelio, di cui si sono imitati i memorabili versi di Augusto, o siècles, o memoires, dicendo Demetrio,

Secoli e genti, in me volgete il guardo,
Serbate eterna a quante età verranno
L’alta memoria della mia vendetta,
Che la maggior sarà di mie vittorie.

L’imitazione può chiamarsi esatta, e pure questi versi non pare che abbiano destata la commozione, che recitandosi quelli del Cinna facea piangere il gran Condè all’età di venti anni. E perchè ? Forse la diversità dell’effetto deriva dalla dissomiglianza delle due favole. La virtù di Augusto, come quella di Tito dell’inimitabile Metastasio, trionfa sopra tutto. Nel Demetrio l’ammirazione ha più oggetti esigendone il rigido eroismo di Timandro, la virtù de’suoi figli, ed il bel perdono di Demetrio. Di più Cinna e Sesto vassalli beneficati, ed ingrati rendono ammirabile e grande il perdono di Augusto e di Tito ; là dove Timandro e i figli sono individui di una repubblica non affatto estinta, sono nemici che hanno ancora l’armi alla mano, e la resistenza nobile di un nemico non è la stessa cosa che la trama infame di un vassallo beneficato e traditore. Produce ottimo effetto la tragica situazione di Timandro e de’ figli, i quali nella scena terza dell’ atto Il a prova accusano ciascuno se stesso per liberare il fratello dalla colpa e dal pericolo ; ed anche la scena settima, nella quale sono convinti nell’Areopago col foglio da essi sottoscritto, e vi si legge la loro energica giustificazione. Notabili sono questi versi.

Dolce è morire per la patria, tutto
Per lei versiamo il sangue, ella su noi
Piangerà benchè tardi ; a questo prezzo
Dal fiero eccidio ella campasse almeno.

Ma che diremo di questi altri profferiti poco prima dall’istesso personaggio ?

Ma se la sorte a noi contraria fia,
Se d’ uopo fia morir, peran con noi
Sotto le torri e i patrii tempii e i tetti
Inceneriti in un comun sepolcro
La Grecia, i Dei, l’ Areopago, Atene.

Timandro non doveva fremere all’udirli ? Ottimo nel principio dell’ atto III è il contrasto che si ammira in Timandro del padre e dell’arconte, dell’amor de’figli con quello della patria, della passione colla virtù. Ma la seconda e terza scena, nelle quali Alceo e Biante un dopo l’altro annunziano la stessa volontà del Senato a Timandro, non si potevano ridurre ad una sola ? Nella quarta scena nobili sono i sentimenti di Timandro e de’figli. Dice il padre :

Io come padre,
Voi come figli alla diletta Atene
Doniamo a gara in ricompensa il sangue.
Itene a morte.

Dice Ipparco :

Vedrammi Atene
Morir così come l’ho già salvata.
Fido pugnai, fido morrò per lei.
Ma paga di me sol sia tua vendetta,
Il fratel viva.

e Cleomene dice :

Padre, non voglio
Grazia, se col fratel non la divido.
O non morrà, o noi morremo insieme.

Il padre che s’intenerisce, pur li condanna dicendo :

Basta, non più, vi piango,
Ma vi abbandono, vi condanno e v’amo.

Ed allora i fratelli generosamente si animano a morir con costanza. Tutto bene ; ma già nell’ atto II, come si è notato, è seguita una volta la loro nobil gara ; nell’atto IV i medesimi che sono stati liberati da Demetrio, per salvare il padre anche accusano se stessi a vicenda, e la competenza ha il medesimo colore ; e finalmente nella sesta scena tornano a gareggiare. Avrei desiderato che si bella situazione, benchè non nuova, e sì patetica e nobil gara non perdesse col ripetersi tante volte con Timandro, nell’Areopago, e con Demetrio. L’autore non ignorava la censura del Voltaire alla Merope del Maffei, per essersi questa regina due volte avventata al figlio colla scure.

Il Serse risale colla Semiramide del Voltaire ai Persi di Eschilo, adoprandosi un’ombra come l’introdusse questo Greco tragico. Nol tacque il sig. Bettinelli ; ma avrebbe potuto ben dire ancora che l’ Ombra nella Semiramide apparsa in chiaro giorno in mezzo alla corte ed al popolo la rende infruttuosa per lo spettatore, perchè incredibile e spogliata delle terribili circostanze, onde simili apparizioni scuotono gli animi della moltitudine, e perciò rimane inferiore non meno all’Ombra introdotta ne’Persi, che al di lui Serse. I terrori di questo re nella scena prima dell’atto III, per l’ombra che l’ incalza e lo spaventa, sono alla solita saggia maniera accreditati della scarsezza della luce, e dalla dubbia visione del fantastico simulacro, appunto come vien dal volgo immaginata. Veggasene uno squarcio :

Un lamentevol suon parmi improvviso
Da lunge udir che più s’appressa : io veggio
Fra una pallida luce in quel momento
Terribile apparir mesto fantasma.
Bende funeree e vedovili panni
Tutto lo ricoprian : celava il volto
Lugubre velo : per le man traea
Tutto sparso di lagrime un fanciullo.
Io tento di fuggir ma non so dove…
In quello un pianto, un gemito dolente
Mi raddoppia il terror, odo, o udir parmi
Il fatal nome risonar d’Amestri.
Mi volgo e la ravviso ; ella era dessa,
Che squarciatasi il velo, ancor le belle,
Ma confuse sembianze a me scopriva.
Io correr voglio a lei, ma ignota forza
Or mi trattiene, or mi respinge, e miro,
Ch’ ella stringeva insanguinato ferro,
E al garzone il porgea. Parmi vederla,
Parmi ascoltarla ancor, che tra i singhiozzi
Ignoti sensi mormorava, e il nome Di Dario ripetea.

I caratteri di questa favola sostengono bene il proprio decoro e l’uguaglianza. Vigoroso è quello di Serse, saggio quel di Clearco, candido e naturale d’Idaspe, e soltanto quello odioso di Artabano che intriga se stesso nelle sue sofistiche sottigliezze, mi sembra ben poco plausibile.

Intanto che tali valorosi scrittori emulando ora i Greci ora i Francesi nobilitavano il coturno italiano con drammi che dalla sola invidia sotto pretesto di delicatezza di gusto può inspirarsi il basso espediente di occultarne il merito con un maligno silenzio o colla sola eccezione della Merope ; piacque ad un’altra schiera di letterati di recare eccellentemente nel nostro idioma quasi tutto il teatro tragico francese. Non parlerò qui di certe fangose compilazioni di traduzioni senza scelta di ogni sorta di tragedie buone mediocri e cattive, le quali servono unicamente a rendere ambiguo il gusto alla curiosa gioventù, e ad apprestare copiosa messe a’pubblici commedianti. Parlo solo delle non moltissime versioni eccellenti, e di altre fatte da’letterati a richiesta dell’editore della Biblioteca teatrale francese pubblicata son molti anni in Venezia.

Il celebre traduttore di Ossian e di Omero Melchiorre Cesarotti mancato da non molto ci diede ma con alcune eccezioni il Cesare, il Maometto e la Semiramide. Il riputato concittadino del Chiabrera Innocenzio Frugoni tradusse il Radamisto in buona edizione, sebbene piacquegli di allontanarsi dall’originale. La Zaira fu tradotta dal riputato Gaspare Gozzi, appresso dal conte Alessandro Pepoli, ed allora che io era in Milano dal signor Torti con felicita, ma non si è impressa che io sappia. Nulla lascia a desiderare l’ottima versione dell’Alzira del celebre traduttore di Teocrito e degli altri bucolici Greci il pistojese p. Giuseppe Maria Pagnini(a). Giacinto Ceruti di Torino tradusse con eleganza la Fedra pubblicata nella Biblioteca teatrale di Lucca l’anno 1762, indi fra i di lui opuscoli nel 1781. Egli formò anche delle Troadi e dell’Ecuba di Euripide le sue Disgrazie di Ecuba patetico e semplice componimento che non è nè tragedia propria nè traduzione ; ed è scritta in prosa armonica seguendo il progetto del fu Diderot. Diremo su di essa di passaggio che se si esamina come una sua imitazione libera, dal solo titolo appare di avere introdotto nell’argomento greco multiplicità di azione. Oltre a ciò gli eventi si enunciano con certa uniformità che dee ristuccare nella rappresentazione. Di più nella morte di Astianatte il dolore di Andromaca prende le prime parti sul personaggio principale. Romano Garzoni lucchese portò in italiano la Berenice del Racine, ed una dama di lui compatriotta rendette italiano il Bruto del Voltaire. Lorenzo Guazzesi tradusse competentemente l’Ifigenia in Aulide del Racine ; ma di tale versione parlando il dotto abate Arnaud nella Gazzetta letteraria dell’Europa osservò che talvolta indebolisce alcune espressioni dell’originale, ed aggiunse ottimamente, on ne traduit point le gènie. L’abate Placido Bordoni autore di due tragedie, delle quali parleremo, forni alla raccolta Pepoliana francese in ventisette tometti due belle versioni dell’Ifigenia in Aulide del Racine, e degli Orazii di Pietro Cornelio. Di quest’ultimo tradussero Giuseppe Greati il Cid, Federico Casali il Cinna, Angelo Anelli il Nicomede, Angelo Dalmistro la Rodoguna, e Luigi Bramieri il Pompeo. Trovansi parimente nella Biblioteca teatrale Pepoliana acconciamente tradotre la Sofonisba del Mairet dal dottor Mattia Butturini, la Marianne del Tristan da Giuseppe Compagnoni, il Poliuto del Corneille da Agostino Paradisi, la Fedra del Racine dal marchese Albergati Capacelli, l’Idomeneo del Crebillon da’prelodati Paradisi ed Albergati, Atreo e Tieste dell’ istesso dal Pagani-Cesa, l’Atalia del Racine da Bonifacio Collina, l’Ester da Pietro Buratti, e l’Andromaca del medesimo da Gregorio Redi, il Gustavo Wasa del Piron ottimamente da Francesco Gritti, la Polissena del La Fosse da Vincenzo Comarchi, l’Ifigenia in Tauride di Guymond de la Touche eccellentemente da Francesco Baldi.

Vuolsi aggiugnere ai nominati traduttori di tragedie anche il Napoli-Signorelli autore di questa istoria, per l’opera che fece imprimere in tre tomi in Milano nel 1803 col titolo Delle migliori Tragedie Greche e Francesi Traduzioni ed Analisi comparative. Il tomo primo contiene l’Appolito di Euripide e la Fedra di Giovanni Racine trasportate nel nostro idioma e comparate. Il secondo presenta la versione del frammento che ci rimane del Cresfonte di Euripide comparandosi ciò che ce ne narrano Plutarco ed Aristotile colle differenti misure che presero in maneggiare tale argomento tutti quelli che se ne sono occupati insino a noi, e segnatamente colla Merope del Voltaire tradotta ed analizzata ponendosi in vista il lodevole oggetto che ebbe il nominato autore e prima di lui il Maffei, indi il Metastasio nel Ciro, e l’Alfieri nella sua Merope, che tutti vollero dipingere una madre ; e per tale scopo si è pur tradotto l’Orfano della China. Il tomo terzo racchiude le versioni dell’Ifigenia in Aulide di Euripide, e di quella del Racine, e comparandole si rilevano i nei e le bellezze di entrambe. Non si procedette più oltre del tomo terzo, come si era prefisso l’autore, perchè la cattedra di Diplomatica addossatagli dal Governo lo menò all’Università di Bologna nel 1805.

Capo II
Certame Drammatico in Parma : Continuazione delle Tragedie.

NOn ha poco contribuito ad inspirar tra noi e diffondere per le italiche contrade un nuovo ardore per la poesia tragica il generoso invito del sovrano di Parma che vi ricondusse in pro delle belle arti nuovamente i lieti giorni de’principi Farnesi. Fra varie tragedie prodotte dal comparire del real programma per tutto l’anno 1782, cinque sole meritarono la corona nel certame parmense. Ottenne la prima nel concorso del 1772 la Zelinda tragedia del conte Carlo Calini da Brescia, nella quale si riconosce qualche somiglianza della languida Blanche et Guiscard del Saurin ; ma è grandissimo forse il numero de’buoni componimenti che non ebbero verun modello ? La seconda corona di quell’anno si destinò al Corrado tragedia nazionale del conte Francesco Antonio Magnocavallo di Casal Monferrato. Non si premiò tragedia alcuna nel 1773. L’anno seguente conseguì la prima corona il Valsei ossia l’Eroe Scozzese di Antonio Perabò di Milano giovane di alte speranze morto qualche anno appresso. Rimase la seconda corona all’Auge tragedia dell’ascolano Filippo Trenta, il quale prima del real programma avea pubblicate altre due tragedie, la Teone e l’Oreste. Nel concorso del 1775 riportò la prima corona la Rossana del nominato conte Magnocavallo, il quale è pure autore di una Sofonisba pubblicata in Vercelli nel 1782. Il più accigliato censore non negherà che tali tragedie conseguirono meritamente la promessa corona avendo allora in preferenza di altre soddisfatto alle condizioni del programma, singolarmente colla proprietà dello stile, colla convenevolezza del costume e colla regolarità della condotta. Non basterà ciò per convincere i maldicenti Freloni enciclopedici dell’utilità del disegno del real Protettore, e per mostrare che l’Italia non è sì lontana dal calzar con piena riuscita il coturno ateniese ? Nè con ciò si pretende assicurare che abbiano le nominate tragedie tutta l’energia e la grandezza tragica, e calore, moto, patetico e interesse da elevarle accanto al Cinna, alla Fedra, all’Alzira, al Radamisto. Molto meno si pensa di proporle per modelli a chi voglia ottenere una corona dalle mani stesse di Apollo, secondo l’espressione del tante volte da noi mentovato Giovanni Andres. Ma dalle mani almeno di questo scrittore che si compiace encomiar l’Ifigenia del Lassala e la Numanzia dell’Ayala ed anche l’Agamennone di Garcia de la Huerta, non dovrebbe, oltre della Merope del Maffei, sperar di esser coronato qualche altro Italiano de’nostri giorni ?

Intorno al tempo che si maturava l’eccitamento della corte di Parma corsero il tragico aringo molti illustri compatriotti di Scipione Maffei. Se non con molto calore e con grandi affetti e con istile sempre accomodato alle cose, certo con regolarità costante, con arte e con giudizio, composero le loro tragedie Carlo Antonio Monti che pubblico nel 1760 in Verona il Servio Tullio, il conte Guglielmo Bevilacqua che nel 1766 fe imprimere la sua Arsene ben condotta e ben verseggiata non meno del suo, Giulio Sabino ; il conte Alessandro Carli autore della tragedia Telane ed Ermelinda, di Ariarate, e de’ Longobardi che s’impresse nel 1769 ; il signor Girolamo Pompei che diede alle stampe un’Ipermestra e la Calliroe pubblicata nel 1769 ; il dottor Villi che serisse Idomeneo ; il conte Paradisi che compose gli Epitidi, ed il cavaliere Durante Duranti che pubblicò in Brescia nel 1768 la Virginia. Io non preferirei quest’ultima nè all’Appio Claudio del Gravina, nè alle Virginie del Panzuti e del Bianchi e del Bichierai. Quel vedere tre volte tornare alla vista dell’uditorio l’ apparato del Decemviro per profferir la sentenza sulla condizione di Virginia ; il ripetersi tre fiate la citazione de’testimonii, ed il darsi ogni fiata nuova dilazione per sospendere la sentenza, sembra scarsezza d’arte. Le scene di Claudio sono troppo staccate, e talvolta si frappongono all’azione inopportunamente. Icilio minaccia, e poi rimane quasi ozioso nella difesa dell’innammorata. La sceneggiatura non serva il modo accettato da’ moderni, e più di una volta il teatro rimane voto. Il partire ed il restare de’personaggi non sempre avviene giusta le regole del verisimile, ma secondo il bisogno dell’autore. V’ha non pertanto più di un passo vigoroso. Virginio nell’atto III parla con eroica grandezza al Decemviro : nel V la di lui difesa contro l’ impostura di Marco è sobria e giudiziosa : patetiche nel medesimo atto sono l’espressioni di Virginia : buono il racconto non diffuso che fa Claudio della ferita che Virginia riceve dal padre : assai compassionevoli sono le ultime parole di lei.

Il cavaliere Ippolito Pindemonte parimente veronese acclamato in Italia tra’valorosi poeti viventi, diede alla luce in Firenze l’anno 1778 l’Ulisse tragedia di lieto fine degna di mentovarsi come regolare, bene scritta e ben verseggiata, e pregevole particolarmente per la semplicità delle greche favole, e pel decoro delle moderne, che vi si osserva. Viene in essa espresso con vivacità e delicatezza l’amor conjugale e paterno. E che importa ehe si riconduca sulle moderne scene un antico argomento della Grecia, purchè le passioni comuni a tutti i tempi, e a tutti i paesi traggansi dal fondo del cuore umano, in guisa che commuovano e chiamino l’attenzione ? Questa tragedia in una sola azione principale che si va disviluppando senza bisogno di estrinseci episodii, ci presenta varie scene teatrali. Dicendo scene teatrali io non intendo però unicamente certi colpi speciosi di scena decorati con pompa, e sovente combinati a forza. Tutto è per me teatrale ciò che sa interessar chi ascolta ; anzi allora questo effetto è più ingegnoso e pregevole, quando si ottiene con minore apparato, e senza molte ipotesi. Dico cio per certi nuovi antorelli subalterni che sogliono ripetere le voci da taluno usate senza afferrarne le idee. Teatrali p. e. mi sembrano le seguenti scene : quella di Penelope nell’atto II che intende la morte di Ulisse comprovata col di lui manto : la riconoscenza di Telemaco col padre nell’atto III : la scena del IV tra Penelope ed Ulisse chiuso nell’armi, che si parlano con affetti convenienti al loro stato, e si dividono senza che Ulisse si faccia conoscere. Nell’ atto V Penelope si lamenta del tripudiar che fanno i proci per la morte di Ulisse, stando a mensa con Telemaco, ed Ulisse stesso sconosciuto. Si ode un gran romore, si distinguono gemiti e lamenti, Penelope teme pel figlio. Intende poi che si è accesa una gran mischia tra’Proci, Telemaco e lo straniere. Cresce la di lei agitazione ; ma secondo me ella si perde in troppo lunghi discorsi dopo tal notizia intempestivi. Trattasi del tutto, di un figlio unico suo sostegno, perduto Ulisse ; e che dee a lei importare l’origine della contesa in quel punto ? E l’evento della pugna che dee occuparla tutta. Dopo di aver saputo da Mentore ancora che tuttavia si combatte, può ella esser curiosa delle circostanze dell’avvenuto ? può udirne un lungo racconto ? Ella intanto l’ascolta, ed al fine si sovviene del figlio. Tutto potrebbe passare, s’ella non fosse Penelope, se non fosse madre. Ma questo dubbio che molesterà chi legge o ascolta, si dilegua all’arrivo di Telemaco salvo, e di Ulisse vincitore. Ella sviene, e ripigliando l’uso de’sensi si trova tralle braccia del tanto sospirato e pianto consorte. L’illustre autore volle apporre alla sua tragedia alcune osservazioni contro di essa, fingendole fatte da un altro. Esse però altro non sono che graziosi colpi e motteggi contro il mal gusto e la pedanteria, e gli errori di alcuni moderni innamorati di un nuovo stile, e di un nuovo modo di comporre tragedie. Egli oppone ancora contro il proprio componimento che sia assai scarso di morali sentenze. Ma questa è la sua maggior lode esser sì ricco di lumi filosofici, come specialmente dimostra il discorso di Ulisse in fine dell’ atto IV, e sapere occultar se stesso ne’ personaggi che imita.

Ma l’istesso riputato autore ha pubblicata nel 1804 in Filadelfia presso Klert l’Arminio che merita di conoscersi, come una luminosa prova che questo scrittore sapeva abbandonare gli antichi argomenti, e presentarci una tragedia eccellente, in cui contrappone a’ Romani del regnato di Tiberio i Germani di quell’ epoca, in cui giacque Varo colle Legioni di Roma. La tragedia è preceduta da un prologo di Melpomene scritto nel 1797. Ella rammenta i felici eventi sortiti in Grecia, i meno prosperi su i colli di Roma, benchè vi dimorasse lungamente, al che, dice :

In maggiori teatri io fui men grande.

All’ inondazione della barbarie boreale ella si ritirò nelle foreste di Pimpla seco recando la sacra face che avea accesa nel petto di Sofocle. Attese che la notte boreale cedesse, e tornò col sacro fuoco prima in Italia, indi varcò le Alpi, Parigi udì con istupore l’urto vivace delle passioni, dipinse non solo gli Eroi Greci e Romani, ma delle remote nazioni Cinesi, Indiane, Arabe, Scite, meravigliando anch’essa

Di poter tanto
Con le abborrite rime, e un verso imbelle.

L’accolse indi Albione, dove giacea fra l’erbe e i fiori il figlio della Natura. Dissegli la gran Madre,

Te questo pennello,
La genitrice ritrarrai con esso
Bambin sublime ! Ma non volle l’Arte
Recarlo in grembo e in lui stillar suo latte,
L’Arte che te nudrio, saggio Addissono !

Tutti però si volsero gli sguardi :

D’Adige in riva, ove ingannata
Madre solleva l’omicida ferro
Contro il proprio suo figlio. Ah ferma, ferma
Le grida un vecchio, oh stelle ! ferma. E intanto
Un dolce sospirar s’alza per tutte
Le Italiche cittadi ; e in tutta Europa
Del patetico vate il nome vola.

Piansi, dice Melpomene, perchè questo vate mi fu rapito dalle mie sorelle.

Ma d’Asti surse a consolarmi un genio
Alte cose dicendo in alto stile.

Questi spiriti Italiani a me sì cari vi siano sprone, Itali alunni. Bevete ne’ fonti Greci e Romani, e nell’ Arno, e non temete di alzarvi a volo per l’intera faccia dell’ universo,

Versate allor nell’ implorato canto
Quelle che in sen volvete ignee faville.

Grande è il nome di Arminio nella storia, e nella tragedia punto non si smentisce. Preso dall’ amor di regnare traspare nel grande l’uomo qual si conobbe in Giulio Cesare ; ma in fine grandemente muore pentito e ravveduto de’ passi dati scorto dall’ ambizione di sovrastare. Il Pindemonte lò dipinge degnamente in istil sublime senza ricorrere a trasposizioni inusitate, senza mostrar lo stento di elevarsi obbligando l’Italica favella a far sacrificii. Lontauo da soliloquiì non abbisogna di confidenti nojosi. Ritrae nobilmente l’eroismo con colori novelli trasportandolo ai costumi Germani tratti dalle sovrane carte di Tacito. Rileva l’amor di libertà de’ Cherusci senza convertilo in ruvidezze ed atrocità. Descrive mirabilmente i caratteri semplici senza mai cadere nell’ uniformità. Dipigne gli amori tragici contrastati di Velante e Telgaste lontano da ogni mollezza elegiaca. Rileva l’amor di patria nel giovine Baldèro senza renderlo feroce e spietato. Figlio di Arminio si sforza di ogni maniera per dissuaderlo dal soggettar la patria colle istesse idee e vedute di Marco Bruto figlio di Cesare, ma non fa che infierisca contro del proprio padre ; ed in vece di fargli dire mentre viene dagli altri trafitto, ed io non posso arrivare a ferirlo con barbarie detestabile, Baldèro tira a se tutto l’interesse, e rispettando il padre uccide se stesso. Questa tragedia sveglia dolci speranze in Italia nel secolo XIX, e mostra sempre più che il sig. Andres si è poco internato nella letteratura italiana, credendo tutte nella Merope del Maffei rincentrate l’Italiche grandezze tragiche. I cori de’ Bardi introdotti negl’ intervalli degli atti, dietro la scorta de’ Greci spiegano bellamente tutta la pompa lirica, e la leggiadria poetica.

Le scene ch’io credo notabili, sono le seguenti. La prima disviluppa lo stato de’ Cherusci, il disegno di Arminio, l’amor di patria di Baldèro che ne informa Telgaste venuto da Roma, il quale vicino ad esser genero di Arminio, come uomo libero mostra quanto detesti l’idea di veder la patria serva.

La sesta scena di Arminio e Telgaste dipinge eccellentemente due eroi discordi ne’ disegni pari nel valore, l’uno grande coll’ eccezione di voler sovrastare alla patria, l’altro grande nell’ opporsi col riguardo che dee all’ambizioso padre di Velante. Invito la gioventù studiosa ad osservare con qual vivace colorito maestrevolmente si contrappone alla cultura Romana viziosa la virtnosa rozzezza Germana.

Romani Roma (dice Telgaste)
Or più non ha, noi siamo ancor Germani.
Quì l’oro il padre d’ogni colpa, è fango ec.

Nella scena terza dell’ atto II avviene l’annua adunanza de’ Cherusci, in cui dopo il canto del Bardo, Telgaste riferisce l’evento della sua spedizione in Roma, e l’intenzione de’ Romani. Gismondo propone che per resistere è necessario che Arminio de’ Cherusci il più grande governì solo. La nazione acclama. Si oppone Telgaste, e Baldèro che risolutamente dice al padre,

Se il giorno
Io da te non avessi, altro, tel guiro,
Non cercherei che trapassarti il petto ;
Ne trapassartel già, come vilmente
Fe quel Romano con insidioso
Pugnal nascosto tra l’imbelle toga,
Ma te chiamando a singolar certame.

A questa scena popolare e grande, siegue la quintà di Velante e Telgaste, urtandosi in questi due virtuosi personaggi l’amor di figlia e di sposa nel l’una, e l’amor di sposo e di patria nell’ altro.

Nell’atto III nella scena di Baldèro è così acconciamente misto il patetico alla grandezza, che chi si sovviene delle scene di Cesare e Marco Bruto di altre tragedie, ammira con diletto la novità de’ pensieri in questa tragedia. È giunto il punto, dice Arminio, in cui un solo dee regolare i Cherusci, ed egli sederà sul trono in modo, dice,

Che quando morte a scenderne m’astringa,
Tu con sicuro piè potrai salirlo.

e Baldèro :

Solo un’ora è che regni, e già tu brami
Morto ancora regnare in me !

Le ragioni interessanti energiche che adduce poi, sono tali, da che gli fa presenti i civili sanguinosi contrasti in qualunque evento, sono invincibili. Il leggitore ne osserverà il bel passo dal verso

Amor di libertà, d’Arminio invidia
Pungerà molti ; civil guerra dunque ec.
Arminio ne conosce la forza, lo confessa, ma conchiude,
Che schiavo esser mi par, s’io re non sono.

Insta ancora il figlio addolorato, gil cade a’ piedi, vuol che anzi l’uccida, se non può cangiarsi ; invano ; allora Baldèro,

Padre, perdona, presentarti il ferro
La mia man non dovea ; dovea far tosto
Quello che or fo…

Si ferisce. Questa morte aliena da Arminio gran parte de’ Cherusci. Dopo il dolore di Arminio Gismondo torna ad eccitare in lui il desio di regnare. Si dà una gran battaglia, Gismondo è ucciso da Telgaste, Arminio fra’ monti di uccisi, rimane oppresso da mille ferite. Vince il partito della libertà. I Bardi cantano

Viva Telgaste viva
Il Cittadino eroe
Delle contrade Artoe
La gloria ed il terror.

Velante domanda a Telgaste s’ella perduto ha il padre ; e Telgaste, Quando, risponde,

Si fe tiranno, allor perdesti il padre. Giugne Arminio condotto spirante. Mostra il suo pentimento dell’ aver voluto opprimere la patria. Fa che a Telgaste si dia la sua spada, che Velante gli dia la mano, abbraccia Tusnelda, e dice,

Quando del fallo mio parla Telgaste,
Deh parli ancor degli ultimi miei sensi.
Donne non lagrimate, se.. il perduto
Vostro amor… racquistai, felice .. io… spiro.

Quest’eccellente componimento predice al secolo XIX alti progressi al tragico teatro Italiano.

Prima d’Ippolito Pindemonte avea in Lucca nel 1773 pubblicata una tragedia di Ulisse il dottor Franceschi che ne avea pure scritta un’altra il Coreso. Ma l’Ulisse del Franceschi non si ristringe al suo ritorno in Itaca, ma ne contiene anche la morte seguita per mano di Telegono suo figlio non conosciuto. Nè ciò parve all’autor sufficiente per una favola di cinque atti, e vi aggiunse anche la scelta di uno sposo da farsi da Penelope tra’ Proci, gli artificii del saggio Ulisse per rompere l’alleanza de’ due amanti principali, seminando fra loro la diffidenza ; e tre fatti d’armi. Ecco ciò che in essa ci sembra più interessante oltre ad alcune vaghe imitazioni della maniera metastasiana, e di altri nostri poeti : l’appassionato trasporto di Penelope nella scena quarta dell’atto II in procinto di aprirsi il foglio della scelta dello sposso ; il colpo di scena quando al volersi ferire essendo trattenuta da Ulisse ella il riconosce, ed egli destramente l’avverte di non iscoprirlo ; la bella scena ottava dell’atto IV, in cui Ulisse esplora l’indole di Telemaco, e poi si dà a conoscere. Parrà pero al critico imparziale, che con poca verisimiglianza Alcandro il confidente di Circe, l’educatore di Telegono e partecipe dell’arcano della di lui nascita, taccia sino al fine, e lasci che avvenga il parricidio. Egli si discolpa del suo silenzio con Telegono nella scena settima dell’atto V cosi :

Temer d’un parricidio io non potei ;
Ulisse mai non vidi, e lungi o estinto
Io lo credei. Nè del suo amor gli effetti
Io potei paventar, che di souverchio
La fe della madrigna a me palese Era.

Ma sebbene sia uno de’ possibili che egli non mai veduto avesse à conosciuto Ulisse ; è però una delle supposizioni inverisimili ed assai rare che l’unico confidente degli amori di Circe ed Ulisse, colui che fanciullo nascose Telegono and agnuno, non conoscesse Ulisse. E quanto al non paventar gli effetti dell’amore del suo allievo, egli parla contro a ciò che non ignorava ; poichè ben poteva su Telegono cader la scelta di Penelope ; ed in effetto su di lui è pressocchè seguita ; ed egli intanto personaggio insulso e ozioso seguitava a tacere nè impediva le incestuose nozze.

La Bibli tragedia del Conte Paolo Emilio Campi modanese s’impresse in Modena nel 1774, e si era rappresentata con grande applauso nel teatro di corte la primavera dell’ anno precedente. L’amor disperato e funesto dell’ appassionata Bibli per Cauno suo fratello segue le tracce della Fedra di Giovanni Racine. La stessa furiosa passione contrastata da un resto di pudore e di virtù lacera il cuore di Bibli e di Fedra ; la stessa tragica forza anima l’una e l’altra favola ; la stessa galanteria subalterna d’Ippolito ed Aricia che indebolisce la Fedra francese, caratterizza gli amori di Canno, e d’Idotea e di Mileto, e raffredda la Bibli. Sin dalla prima scena Bibli interessa e commuove. Essa non contiene al solito un freddo racconto del passato, bensì una dipintura patetica della situazione di lei ; ma il rimanente dell’atto I e parte del II si occupa negli amori di Mileto ed Idotea, e l’azione procede languida e lenta. Tornando Bibli prende nuovo vigore nella scena quinta col suo incontro con Cauno, nella quale narrando con passione e senza superfluità i suoi spaventi notturni dà indizii della colpevole sua fiamma. Le prime cinque scene dell’atto III sono impiegate negli amori di Cauno ed Idotea, e nel disegno di Mileto su di costei che l’odia. L’atto risorge colla vénuta di Bibli destinata dall’ oracolo ad immolare una vittima. Buona è la scena settima in cui Bibli apre il suo cuore ad Eurinoe.

Le dice :

E sarà vero, Eurinoe, che i Dei
Voglian da me nuovi delitti ad onta
D’un resto di virtù che m’han lasciato ?

Come (riflette) appressarsi all’altare ? come così colpevole svenar la vittima ? Il padre ignorerà sempre i miei arcani ? E Cauno ? Avrebbe egli penetrato il senso iniquo del moi discorso ? Risponde Eurinoe che ella l’ignora ; ma soggiugne che il vide fremere, arrossire e mirarla con isdegno. Bibli ripiglia :

Assai dicesti. Intese
L’ingrato, intese e non intender finse.
Crudel !

Eurinoe.

Ma che ? forse dovea…

Bibli

T’intendo.
Ah taci ! … É ver, io sola, io son l’ardita :
Io fui la scellerata… Ma l’amaro
Suo simular, quel fingere… ah si questo
Facendomi arrossir, m’empie dì sdegno.

Ella ha ceduto alla passione, ha inviate trall’atto III ed il IV un foglio a Cauno per iscoprirla ; ma tosto ne sence ribrezzo ed orrore. Vieni, dice ad Eurinoe,

Fuggiam da questi luoghi. Un dio nemico
M’insegue e mi minaccia. Andiam, non odi
Il fulmine che fischia, il ciel che tuona ?
Si oscura il giorno, fugge il sol … Non vedi
L’aria di sangue e di caligin tinta ?
Sostienmi il piè vacilla…
io non mi reggo.
Ahi lassal io muojo.

Nell’atto V la scena di Bibli e Cauno è scritta con vigore, e Bibli benchè colpevole combattuta dall’orrore e dall’amore desta pietà. Ma la scena terza, la quarta ben lunga, e la quinta di quest’ atto, che non ne contiene che sette, si aggirano intorno ad Idotea, e trattengono l’evento principale a pura perdita. Bibli ferita condotta a spirare davanti al padre cui chiede perdono, chiama di nuovo presso di se l’attenzione e l’interesse.

Uscì in Bergamo nel 1778 Calto tragedia del sommasco Giuseppe Maria Salvi lavorata su di un argomento tratto daile poesie di Ossian. Prendono talvolta l’espressioni qualche novità per le immagini di nubi, di meteore, di raggi di luna cadente ec. proprie del Celtico poeta, come si vede nel racconto che fa Calto di una sua visione. Ma nel rimanente lo stile rassomiglia a quello delle tragedie e talora delle opere musicali, la qual cosa par che dissuoni ; perchè le maniere e le formole de’ popoli cacciatori introdotti nel Calto dovrebbero esser sempre per molti gradi lontane dalle idee de’ popoli culti e dal linguaggio delle opere in musica. Oltreacciò non si è l’autore soggettato all’uso della scena stabile, facendola cambiare ben otto volte ; ed in conseguenza non ha potuto scansare di far rimanere la scena vota ; regola che non osservarono nè gli antichi nè i nostri cinquecentisti, ma in Francia ed in Italia dopo il Racine ed il Maffei nè anche da’ tironi si trasgredisce. Se il p. Salvi (che dicesi di aver composte altre tragedie ancora) non avesse dimostrato nel Calto ingegno ben disposto a riuscire in questo genere, anche da tali osservazioni passeggiere mi sarei astenuto. Guai di quel poeta il cui dramma nè si vitupera nè si loda ! guai di quello ancora che ha solo se stesso per lodatore e qualche suo compiacente amico ! L’indifferenza del pubblico e degli esteri è una condanna de’ suoi lavori.

Si pubblicò in Bassano nel 1779 Ugolino Conte de’ Gerardeschi tragedia senza nome di autore, la quale non sembra che ottenga pienamente il fine tragico, tutto che debbono notarvisi alcuni passi lodevoli che ne accenneremo. Forse l’orrore di una tragedia di uno che muore di fame, prolongata per cinque atti, non permette varietà di situazioni e rende a poco a poco quasi indifferente il lettore. Forse un’ atrocità impetuosa mette in maggior movimento le passioni sulla scena, e una spietatezza, per dir così, riposata alla maniera di Caligola, quale è questa di Nino che dà luogo all’artifico, desta rincrescimento più che terrore. Forse tale argomento non esige cinque atti, e l’azione divisa in tre diverrebbe più rapida. Forse la versificazione vorrebbe essere più fluida e armoniosa, e lo stile talvolta più energico. Forse i caratteri equivoci di Guido e di Lanfranco ed anche di Marco di tempo in tempo rallentano gli affetti  ; e un ambasciodore di Genova che viene ad implorar mercè e ad intercedere a favor di Ugolino, par che lavori contro l’intento esacerbando l’animo di Nino con rimproveri e declamando quasi fosse a lui superior. Non pertanto assai patetica riesce la descrizione di Marco nella scena seconda dell’ atto II della rassegnazione di Ugolino condotto al carcere, la quale ben prepara il carattere di lui già scellerato contrito e ravveduto nelle avversità. Nella scena quarta del III otinamente seguente è il suo rifiuto della libertà offertafli a condizione di portar le armi contondizione di portar le armi contro Genova che lo protegge. Energiche in questa scena sono le sue parole :

Non mi rapir quel bene
Che mi diè la tua torre. O torre amica,
Chi mi ritorna a te ? Tu cancellasti
In pochi giorni da mia mente inferma
L’idee del fanatismo e del furore.
Entro al tuo bujo un favorevol raggio
Pur mi rilusse. Io vidi, e che non vidi ?
Vidi le stragi che in Italia e in Pisa
Nacquer dall’ odio mio. Il sangue vidi
De’ cittadin fedeli a terra sparso
Per difesa di un nome e di un partito.

Vera e patetica è pure l’espressione di Ugolino nella sesta scena dell’atto V su i figli :

V’udrò di nuovo
Chiedermi un pane, nè in risposta avrete
Fuorchè inutili lagrime e lamenti.

Tale è pure il congedo ch’ egli prende dal nemico mancando per debolezza :

Figli…Guelfo…ove siete ?no…io muojo,
E ti perdouo.
Nino… io muojo,
E ti perdouo.

Niccolò Grescenzio region professore di filosofa in Napoli nel 1727 produsse il Coriolano tragedia languida e regolare. Il cavaliere Scipione Cigala scrisse una Cleopatra stampata in Napoli Ne 1736 mentovata nella Drammaturgia dell’Allacci ; essa fu onorata di un bel distico del consigliere Guiseppe Aurelio di Gennaro eccelente giureconsulto en poeta latinoa :

Scipio hic est : non is quo victa est Africa, at ille
Æternum pariet cui Cleopatra decus.

Il p. Serafini Giustiniani genovese fe imprimere nel 1751 il Numitore che riuscì sulle scene, mal grado della trascuraggine dello stile. Il conte Alessandro Verri nel 1779 fe stampare in Livorno col modesto titolo di Tentativi due tragedie, la Congiura di Milano, e Pentea argomento tratto dalla Ciropedia di Senofonte, per le quali non può dubitarsi che l’autore progredendo nella carriera avrebbe verificate le speranze che per esse si concepirono. Il bolognese Flaminio Scarpelli produsse due tragedie che non debbono obbliarsi, il Creso ed il Pausania. Il sig. Ignazio Gajone di Casal di Monferrato scrisse diverse tragedie delle quali ciascuna costogli in Madrid otto giorni di lavoro. Lo stile era più metastasiano che non richiede la tragedia. La nobile Francesca Manzoni di Milano si esercitò parimente nella poesia tragica nella sua gioventù. La sig. Maria Fortuna compose due tragedie la Zaffira e la Saffo. Tutti questi scrittori meritano lode per alcun pregio che traspare nelle loro composizioni in mezzo alla languidezza. Ma essi servono come il color nero sottoposto alle gemme perchè risaltino i nomi del Martelli, del Varano, del Marchese, del Granelli, del Maffei, del Conti, e più altri.

Ma che diremo del Diluvio Universale, dell’Anticristo, di Adelasia in Italia, della Rovina di Gerusalemme, di Nabucco, del Davide, della Sara, ed altre tragedie dell’ olivetano Ringhieri ristampate dopo la di lui morte, e tanto ripetute da’ commedianti Lombardi, piene di tragiche mostruosità, scritte in istile inelegante, prosaico, snervato, seminate di dispute sottili ? Che della sua Tomiri, in cui (dice il dottor Burney presso Cooper Walker) si parla di Gesù Cristo, della Trinità, del libero arbitrio e della predestinazione, e quando Ciro è vicino a morte per la ferita ricevuta, un sacerdote Ebreo l’esamina su i principii religiosi, e gli fa pronunciare una protesta di fede ? Che della Bologna liberata armata di una prefazione contro di certo Dottore don Pietro Napoli-Signorelli che non avea lodate le sue tragedie, che l’Italia continua a chiamar mostruose ? Ne diremo ciò che altra volta ne scrivemmo, cioè che può ad esse bastare l’aver servito alcuni anni di capitale a parecchie compagnie comiche. Aggiugneremo quel che ne dice un gazzettiere suo parziale, cioè che egli era il tragico del volgo e degli Ebrei. Ebbe nonpertanto il Ringhieri varie situazioni interessanti e teatrali in mezzo ad un cumolo di stranezze. Fu egli dunque calzando il coturno ciò che era il napoletano Francesco Cerlone nelle sue chiamate commedie mostruose, e talvolta interessanti reimpresse in Roma colla falsa data di Bologna.

Il pugnale di Melpomene vibrato senza effetto da mani sì deboli, è stato però negli ultimi anni del secolo XVIII impugnato con meno infelice successo da tale altro. Giovanni Greppi bolognese fervido e pronto d’ingegno produsse in Venezia nel 1787 due volumi di Capricci teatrali, ne’ quali trovansi tre tragedie, Gertruda Regina di Aragona, Giulio Sabino in Roma, e Odoardo. Esse presentano a uno sguardo curioso varie scene vivaci e tragiche non male verseggiate ; ma certe ipotesi poco verisimili, un portamento talvolta romanzesco, l’atrocità sovente eccessiva, alcuni nei nella lingua, e qualche ineguaglianza nello stile, non ci lasciano abbastanza soddisfatti. Increbbe, nè senza ragione, nella seconda tragedia, al conte Alessandro Pepoli che il proscritto Giulio Sabino, e la sua sposa ardiscano penetrare con poco scorgimento nel palazzo di un imperadore loro nemico, ed avventurar tutto pel piacere di sfidarlo. Arrigo nell’ Odoardo infierisce atrocemente contro del proprio padre, più perchè gli ha tolta la sposa, che perchè gli ha svenata la madre.

Il senatore Marescalchi di Bologna, che fu alcuni anni ministro degli affari esteriori del Regno d’Italia in Parigi, diede alla luce delle stampe in Bassano nel 1788 una tragedia Antonio e Cleopatra, di cui loderemo di buon grado varii tratti di romana grandezza che vi si possono notare. Accorderemo parimente all’illustre autore di averne ideato un piano assai più convenevole per la scena tragica di quello del Shakespear. Confesseremo non pertanto che la scena dell’ atto IV di Cleopatra ed Ottavio nel tempio, in cui ella coll’ idea di adescarlo al suo amore mentre il marito dorme, domanda alla confidente, se le sue vesti si accordino col suo volto, ed entrambi poi tentano ogni via per ingannarsi scambievolmente, ne sembra anzi comica che tragica. Aggiungeremo per amor del vero, che il carattere della sua Cleopatra insidiosa, mentitrice, infingevole, civetta, potrà bene rassomigliarsi a quello che di essa accenna la storia, e forse non sarà lontano dalla Cleopatra di Jodelle, ma non essere nè sì tragico, nè sì grande, nè sì teatrale, come quello della Clepatra del cardinal Delfino. Il riputato marchese Marescalchi serba manoscritta un’ altra tragedia l’ Alessandro VI, in cui mirabilmente vengono ritratti i caratteri di codesto pontefice, e di Cesare Borgia, e degli Spagnuoli di quell’ epoca, di cui ebbi il piacere nella sua casa in Parigi di udirne leggere dall’ autore l’atto primo che sommamente interessava.

Sopra tutte le tragedie inedite che io conosco, sarebbe a desiderarsi che venissero alla luce le due che compose sono già molti anni il rinomato scrittore veneziano l’abate Placido Bordoni. L’erudizione che possiede, lo studio da lui fatto del cuore umano, la sua sensibilità, il gusto e l’eleganza della sua penna tanto esercitata, le raccomandano al pubblico. Il breve viaggio che egli fece in Napoli nel giugno del 1796, mi partori insperatamente col piacere di riveder dopo tanti anni l’antico amico che conobbi in Madrid in casa dell’ ambasciadore Quirini di Venezia presso il Cattolico augusto re Carlo III, l’altro di udirgli leggere tali tragedie, e di ottenerne copia che le mie posteriori disgrazie mi fecero perdere. E piochè parmi che difficilmente l’autore penserà più ad imprimerle, il pubblico mi saprà qualche grado che io gliene ripeta alcuna notizia che ne avanzai nelle Addizioni alla presente storia impresse nel 1798.

L’autor filosofo ha saputo rintracciar nuovi argomenti per la scena tragica ne’ bassi tempi che ne sono così fecondi. L’istituzione dell’ Ordine militare della Mercede per la redenzione degli schiavi dalle mani barbaresche, gli sugeri per la prima tragedia intitolata Ormesinda un’ azione che risale all’ anno 1244. Dallo storico Mariana si sa che Martos castello in Andalusia fu difeso verso il 1239 da una eroina spagnuola colle sue donne, essendosene imprudentemente allontanata la guarnigione de’soldati per una sortita. Dal Vargas nella cronica di quell’ Ordine militare, dal Barbosa, dal Caramuele, dall’ Heliot, dal Wion si sa ancora che i Cavalieri ad esso ascritti non solo si destinavano al riscatto degli schiavi colle ricchezze, ma non ricusavano ad un bisogno di rimanere essi medesimi schiavi, quando altrimenti non potessero redimerne. Si sa eziandio che i professi facevano pure voti di povertà, di castità e di obedienza. Con tali fondamenti e con eventi verisimili vien condotta Ormesinda difenditrice della fortezza di Martos prigioniera in Fez del re Albumazar che le salvò la vita e ne divenne amante e con amor rispettoso, oltre l’uso della sua nazione, ne ambisce la mano, e le offre lo scettro. Osta al di lui amore la fede e la tenerezza che Ormesinda serba a Consalvo già destinatole sposo dal padre. Questo sposo credendola morta precipitata dal castello di Martos, si fa cavaliere della Mercede e diviene professo. Alfonso padre di Ormesinda giugne in Fez per riscattare gli schiavi, e trova Ormesinda viva. Teme che veduta da Consalvo possa egli vacillare ad onta del suo voto ; e tenta di evitare che s’incontrino, ma invano. Intanto il generoso Albumasar dona e non vende gli schiavi domandati insieme con Ormesinda, e solo chiede in compenso di sapere il nome di colui che le fu destinato sposo. Alfonso assicura che è per lei perduto e morto, ma Albumasar trova che è vivo. Questa menzogna apparente, e qualche altra variazione rende a lui sospetti que’ cavalieri, e gli fa incatenare, rivocando la grazia degli altri schiavi. Nascono da tali vicende alcune patetiche situazioni, ed esercitano singolarmente la virtù di Ormesinda, che implora per essi la pietà del sovrano. Intanto alcuni nemici Affricani assalgono la sede di Albumasar che va a combatterli. In procinto di restare ucciso è salvato da un guerriero ignoto ; ne cerca contezza, e trova che dee la propria vita alla grata virtuosa Ormesinda, la quale gli è condotta innanzi mortalmente ferita. Ciò che vuolsi principalemente notare in tal componimento, è che non vi è personaggio alcuno che non sia buono, o non adempia i proprii doveri ; e la differenza che vi si scorge è la graduazione della virtù, la quale in Alfonso è rigida e religiosa, nobile mista di tenerezza in Consalvo, ed in Albumasar, e più ancora in Ormesinda giugne all’ eroismo. Ecco le scene che mi sembrano più teatrali. In prima la quarta del II atto di Alfonso che trova viva la figlia, e le fa sapere che più non può esser suo Consalvo, perchè tra essi

Voto solenne
Inviolabil voto alza e distende
Un muro insuperabile ed immenso ;

e le impone di evitarlo. II la quinta scena del III in cui s’incontra Ormesinda con Consalvo, e si veggono i teneri palpiti e la virtù di lei, e l’amor di Consalvo. III la sesta in cui sopravviene Alfonso che gli riprende, e vuole che Consalvo si allontani, alternando rimproveri, preghiere e comandi. IV la scena seconda del IV, in cui Consalvo malgrado del divieto di Alfonso si presenta ad Albumasar, il quale si meraviglia di Alfonso che vuol lasciare in Affrica Ormesinda per un arcano che non rivela ; e di Consalvo che si determina a rimaner prigione, finchè l’altro non abbia condotti via gli schiavi. Egli stanco di soffrire ordina che s’incatenino. Arriva Ormesinda che prega che sieno liberati, e vuole ella stessa rimanere in catena. Albumasare minaccia tutti, e gli fa chiudere in carcere. Ormesinda altro non potendo palesa che Alfonso è suo padre, e Consalvo il suo sfortunato amante. Il re, irritato per le reticenze de i due e commosso dalle di lei preghiere, rimane sospeso. V la terza scena dell’atto V, in cui Albumasar intende che Ormesinda è il guerriero che gli ha salvata la vita, ed ammira i prodigii di virtù che opera in petto de’ Cristiani la religione. VI l’ultima scena in cui Ormesinda tira a se tutto l’interesse e la compassione. Per saggio dello stile e del patetico che serpeggia in questa favola, se ne vegga lo squarcio seguente.

Ormesinda

Padre amato, ti lascio… ed or che il cielo
Pietoso a’ miei lunghi sospir concesse
A me di rivederti ed abbracciarti,
L’acerbità del mio destino obblio…
Se un di la patria rivedrai, ch’io stessa
Più non vedrò, senza rossor potrai
De la tua figlia rammentarti, e forse
Non fia l’ultimo fregio a le tue glorie
Qual visse ella fra i ceppi, e qual morio…
Oh tu del mio destin compagna amata,
Rimanti in pace…tue virtù coroni
La sorte amica, e i giorni tuoi men foschi
Risplendano che i miei….Tu poi, Consalvo,
Che il ciel mi avea già destinato sposo,
E mi ritolse….a tue promesse a i voti
Conservati fedel…siegui il cammino
De la fe, de la gloria…ama in mio padre
La figlia estinta, e più che i nostri amori
Miseri e sfortunati, un dì le nostre
Virtù possano trarre altrui dagli occhi
Lagrime di pietade e meraviglia.
Sento che vengo meno…ah caro padre
Ah Consalvo…deciso è il mio destino…
Dividerci convien…Di tua virtude
Mi fido, Albumasar…Di tu consola
Tanti infelici ed innocenti…io moro.

L’altra tragedia inedita del Bordoni s’intitola i Templarii, e si aggira sulla distruzione di essi seguita in Ispagna. L’opinione degli uomini lascia sospeso il giudizio sull’ innocenza o reità di quell’ Ordine militare e religioso istituito l’anno 1118 ; giacchè da una parte vennero que’ prodi cavalieri dopo di due secoli di glorie condannati in Parigi da Filippo detto il bello ed in Roma da Clemente V, ed in Vienna dal Concilio generale nel 1312 ; e dall’altra parte reputati innocenti e sterminati solo per la rapacità del nomato re di Francia che aspirava alle loro immense ricchezze, da i Coneilii di Ravenna, di Salamanca e di Magonza del 1310, e di Tarragona del 1312, come ancora da s. Antonino arcivescovo di Firenze, dal Villani, dal Le Mire, dal Purtler e da altri. L’autore si vale della lagrimevole strage di essi per fondamento e strato della sua favola ricca di quadri tragici e di situazioni patetiche alzata su di grandi passioni che urtansi con doveri grandi.

Anagilda figlia di Ramiro maestro de’ Templarii ama Enrico di Abarca che d’ordine sovrano dovè allontanarsi per guerreggiare in Affrica. Ma Ramiro padre di lei assediato in Morviedro, il quale ha ricevuti potenti soccorsi da Fernando di Ricla, destina che sia sposo della figlia ; ed ella che vede in Fernando un grande appoggio del suo partito, o un valoroso e virtuoso cavaliere, sacrifica la propria tenerezza, e l’accetta. Enrico come ambasciadore viene a proporre patti di concordia che sono rigettati ; e terminata l’ambasciata in sensi amichevoli manifesta a Ramiro l’amore che ha per la sua figlia, e Ramiro mostra rincrescimento di non esser più in tempo di gradire i suoi sentimenti. Ode in quel punto che Fernando è prigioniero ; si agita ; si volge ad Enrico ; il quale promette di salvarlo e parte. Fernando e liberato. Ramiro ne reca la notizia ad Anagilda, aggiugnendo doversene la salvezza alla magnanimità di Enrico di Abarca. Enrico in Morviedro. Enrico vicino ad Anagilda già sposa di un altro ? Qual colpo ! qual fulmine per lei ! Fernando che sorviene, racconta in qual guisa fu liberato, e con sua meraviglia trova Anagilda immersa nel più gran dolore. Torna Enrico che ha saputo esser Ramiro padre di Anagilda, e trovarsi ella stessa in Morviedro, e facendo premure per parlarle, intende di essere già congiunta in matrimonio con un altro. La vede venire, e col maggior dolore le rimprovera la rotta fede. Giugne Fernando da lui liberato, e sente esserne egli il possessore. Questa serie di scene patetiche rende l’atto III pieno di moto e di azione. L’assalto generale dato alla città toglie ogni difesa e speranza ai Templarii, e gli assalitori appressano le scale alle mura. Enrico vincitore viene a salvare Anagilda ; ella ripugna di seguirlo ; ed egli si affanna per liberarla dal pericolo imminente, e si getta a’suoi piedi. Arriva il generale Rodrigo che di ciò lo rimprovera, e la sua venuta mostra l’esterminio seguito delle reliquie de’ Templarii. Rodrigo vuol condurre Anagilda al campo. Fernando colla spada sguainata vuole impedirlo, e nel dirizzarsi a Rodrigo lo riconosce per suo padre, si confonde, si umilia, pugnando nel suo cuore il rispetto di figlio coll’amor di marito, situazione che corona l’atto IV. Arde Sagunto : caduti sono tutti i cavalieri Templarii sotto le spade aragonesi. Enrico rappresenta al generale il pericolo di suo figlio insieme con la sposa ; vuol liberarli ; Rodrigo si commuove, s’affretta. Enrico corre fralle fiamme, ma torna colla funesta notizia di esser l’uno e l’altra mortalmente feriti. Sono condotti già vicini a morire ; spirano dandosi la mano ; e questo quadro lagrimevole conchiude la tragedia.

Tra tanti passi eccellenti è ben difficile scerne alcuni pochi senza far torto al rimanente ; pur ne indicheremo alquanti. Notabile nell’atto II è la scena terza di Enrico, che come ambasciadore rileva i delitti apposti ai Templarii, e di Ramiro che mostra la falsità delle imputazioni, e la loro innocenza e virtù con un’aringa degna della sublimità che si scorge nelle scene politiche di P. Cornelio. Nel III rendonsi pregevoli la seconda e la terza, nella quale Anagilda intende che Enrico è in Morviedro, ed ha liberato Fernando ; la sesta, in cui Enrico vuol vedere Anagilda, e Ramiro lo dissuade ; e la settima, dove Anagilda palesa all’ amante di essere già sposa di un altro, che non isdegnerebbe riconoscer per sua l’istesso Racine. Nel IV degna singolarmente di osservarsi è la quinta scena, quando Enrico viene a salvare Anagilda, ed ella ricusa di seguirlo. Vieni meco, Anagilda, le dice Enrico :

Anagilda

Io teco ? io sola ?
Io figlia di Ramiro e di Fernando
Sposa con te venir, con te, che sei
L’amante d’Anagilda, ed il nemico
Di Ramiro e Fernando ? Ogni soccorso
Che m’offra il braccio tuo per me diventa
Onta e martir. Su queste mura il padre
Pugna e lo spóso mio ; da queste mura
Se non fuggo col padre e con lo sposo,
Quì restar voglio, e si confonda insieme
Il lor sangue col mio. Ricuso, Enrico,
L’offerte tue, la tua pietà.

Enrico

Vuoi dunque
Perir, ed io deggio soffrirlo ?

Anagilda

Invano
Ti opponi a’ miei disegni.

Enrico

E chi ti sforza
Ad esser teco sì crudel ?

Anagilda

Virtude.

Enrico

Ma la tua vita ?

Anagilda

Io non la curo.

Enrico

Oh Dio !
E se perisci intanto, a chi fia grata
Sì rigida virtude ?

Anagilda

Ad Anagilda.

Anche la settima del medesimo atto è singolare per la riconoscenza di Fernando del proprio genitore in Rodrigo, mentre per difendere Anagilda gli va incontro con la spada sguainata. Una bellezza omerica si nota nella sesta scena del V, in cui Enrico descrivendo con verità di colori la strage de’ cavalieri, fa senza sforzo un quadro vivace e patetico di Ramiro moribondo sostenuto da Fernando ed Anagilda. Chiude egregiamente la tragedia la scena ultima, in cui spira Anagilda e Fernando :

Anagilda

Già sento che la vista.. oh Dio ! mi manca.
Ahi che pena… che orror vedermi al fine
Dentro il campo nemico e tra coloro,
Che han dato morte al padre mio se qualche
Conforto trova questo cuore, è solo Nel morirti vicino, o mio Fernando…
O difensor dell’innocenza… o vero
Sostegno de’ Templarii ! Il cielo, Enrico,
Le tue virtù coroni, ed a te rènda
La dovuta mercede.

Enrico

Ah sventurata
Ah misera Anagilda !

Anagilda

Ombra paterna.
Ti vedo e ascolto… tu mi chiami… e voi
Già mi affrettate di seguirvi, o chiare
Magnanime ombre de’ Templarii, io vengo
Vengo, e con me viène Fernando ancora…
Da quel globo di luce, ove tu splendi,
Stendimi la tua destra, amato padre…
Stendila pure al tuo Fernando.. ah sposo !
Io manco… Io moro…

Fernando

Io pur ti seguo, o sposa..
Ma dove sei ?… più non ti veggio… ah dammi,
Anagilda, la mano… ecco la mia (a)

Non vo’ lasciare di rammemorare alcuni componimenti impressi, benchè non sieno abbastanza noti al pubblico. Usci nel 1798 l’Elettra di Sofocle tradotta e pubblicata in Roma da Giacomo de Dominicis, di cui nulla potrei dire, non essendomi potuto riescire di vederla. Il Vincas di Giacinto Andrà piemontese si stampò in Torino, e l’autore, al dir di un foglio periodico, la comunicò al marchese Francesco Albergati Capacelli, ed all’ abate Bettinelli. Il Cerauno, al dir del conte Pepoli, imita un po troppo la celebre Olimpia col semplice cambiamento de’ nomi, e l’Agrippina dall’ istesso è chiamata lirica e feroce.

Deplorabilmente la Merope del Maffei fu ridotta in prosa dal medico Michele Sarconi nel 1772. Non si può dire quale indignazione prese taluno che potè leggerla per lo strazio che ne fece. Egli scrisse ancora il Teodosio il Grande pubblicato nel 1773. È un infelice guazzabuglio scenico scritto in affettata prosa mista a frequenti involontarii versi. Rassembra a una musicale opera informe per la moltiplicità delle azioni di tre eserciti, di due armate navali, di combattimenti decisivi seguiti in mare e in terra, e di altré azioni che accadono in luoghi differenti.

Colla falsa data di Londra nel 1790 comparve in Napoli Corradino tragedia senza nome di autore. Se si attenda ai tratti pungenti che vi si spargono insipidamente contro del pontefice romano, questa sembra produzione di qualche meschino filosofastro bramoso di lasciare svaporare la decisa sua rabbia più che di tessere una tragedia. Se riflettasi allo stile, alla versificazione, alla maniera di colorire priva del tutto dell’ arte di ritrarre al vivo la natura, il componimento pare uscito da una penna indigesta, giovanile, e nulla esercitata sino a quell’ epoca(a). Il dialogo non ha naturalezza, i versi spesso rassomigliano alla prosa, nella locuzione si desidera purezza e proprietà. Ciò che unicamente può lodarsi è il vedervisi introdotta la madre di Corradino ; il colpo di scena dell’ incontro inaspettato di lei col figlio che potrebbe far qualche effetto in teatro, se questo componimento potesse senza scandalo presentarsi al pubblico ; e finalmente l’essersi schivato di avvilire ed imbrattare l’evenimento tragico di quel giovane principe con uno svenevolissimo intrigo di amore. L’istesso Cosentino ne produsse in Milano un’ altra intitolata Pausania. L’indirizzò al Teatro Patriotico di quella città ; ma nè da quella società nè da’ commedianti si è mai voluto rappresentare. In Parigi dove mi fu mostrata dal riputato Vincenzo Monti, ne abbozzai un estratto, ma nel passare in Italia non avendolo conservato, mai più non mi curai di farne un altro. Per la condotta dell’azione mi pare piggiore del Corradino ; pel carattere del protagonista non può morendo produrre veruno effetto tragico, essendo un manifesto traditore della patria ; per la lingua impura e barbara si rende disprezzabile ; per la stile or si eleva, ora batte lo stramazzone ; per la versificazione in dieci o dodici versi si alza alla sonorità lirica, e poi in cinquanta cade alla più suervata e meschina famigliarità. Il bolognese Flaminio Scalpelli l’aveva preceduto in tale argomento ; e se il Pausania da colui scritto sembra languire alquanto, è però dettato in italiano, regolare nella condotta, e verseggiato competentemente.

Vogliono mentovarsi altre tre tragedie dell’ altro regnicolo Francesco Mario Pagano di Brienza, uno delle vittime del 1799. Ammirando l’uomo stimabile diremo in succinto, che egli incominciò bene innoltrato nell’ età la carriera tragica con gli Esuli Tebani impressa senza data verso il 1780 insieme con una sua orazione latina diretta al generale Russo Orlow. Questa tragedia non fu rappresentata. Facciasi ragione al vero, nè la versificazione prosaica, negletta, dilombata, nè lo stile basso, snervato, privo di colori e di affetti, nè la sceneggiatura sconnessa senza incatenamento, nè la favola spoglia d’interesse, di compassione, e di terror tragico, nè la lingua scorretta e barbara, ci presenta un componimento tollerabile se non lodevole. Ma l’autore avendo fatto ogni sforzo per abolirne la memoria, si è conformato all’ avviso del pubblico, e a noi basta di averla mentovata. Passiamo al Gerbino, ed al Corradino ch’ egli accarezzò, e riconobbe per sue.

Gerbino si pubblicò nel 1787, e si recitò tre sere da’ commedianti Lombardi nel teatro de’ Fiorentini di Napoli. Il soggetto è tutto finto ; e solo il nome di Gerbino nipote del re Guglielmo di Sicilia, e l’intrigo amoroso di lui con la figlia del re di Tunisi condotta alle nozze del re di Granata, è tolto dalla novella quarta della giornata IV del Decamerone di Giovanni Boccaccio. Tolse anche l’autore dagli Straccioni di Annibal Caro lo scambio della Giulietta con una schiava coperta delle vesti di quella, e trucidata sul cassaro della nave, e l’appiccò al fatto della sua Tunisina che precede la rappresentazione. Il di più è un romanzo rattoppato di ritagli del Corradino di Antonio Caraccio, della Inès de Castro del sig. La Mothe, e di altri, oltre di aver l’autore posto a contribuzione il Boccaccio, il Caro, il Rucellai, il Metastasio, e con tutto ciò poco differisce dagli Esuli Tebani, giacchè vi si desidera decoro nel costume che couvenga alla nazione moresca, economia meglio organizzata nell’ azione, locuzione più pura, più propria, e stile meno disuguale, e meno infettato di lirici ed epici colori, e di concetti secentisti ; i caratteri mancano di uguaglianza, gli affetti peccano di svenevolezza, le situazioni dovrebbero essere più tragiche, abbondar di rispetto per chi ascolta servando onestà, giacchè vi si fa passare per virtù l’incontinenza, e vi si ostenta onore, mentre si porta in trionfo la violazione di esso in una casa reale(a)

Corradino terza tragedia dell’ istesso autore non rappresentata, si stampò anche in Napoli colla data di dicembre 1789, benchè si pubblicasse alcuni mesi dopo. Si premise in essa un discorso al lettore, in cui l’autore esalta i pregi del suo lavoro, ed aringa contro del Corradino del Caraccio. Alla prima dice in esso che la tragedia è un’azione pubblica, grande, interessante, nazionale. Che pregio sia della tragedia l’esser nazionale, s’intende, e si è mille volte ripetuto ; ma che per essenza tale esser debba per dirsi tragedia, nè s’intende, nè si accorda. Se questo ne fosse un requisito essenziale, ne seguirebbe, che per noi moderni non sieno tragedie quelle che ci rimangono del teatro greco, non potendosi avere in conto di nazionali nè da noi, nè dagli Spagnuoli, nè da’ Francesi, nè dalle altre nazioni settentrionali. Con simil norma non riconosceremmo per tragedie le moderne che vertono su’ fatti orientali o americani o affricani. Il Maometto, il Solimano, il Radamisto, il Bajazet, la Semiramide, l’Orfano della China ecc. passar non debbono per tragedie in Italia, giacchè non appartengono alla nostra nazione. Non saranno tragedie Francesi, Inglesi, Spagnuole e Alemanne le nostre tragedie Ugolino, Giovanna I, Piccinino ec. Non saranno per noi tragedie Zaira, Tancredi ecc., Carlo d’Inghilterra, Carlo figlio di Filippo II di Spagna ecc. Si aggiunge nel Discorso che i Greci ciò dimostrarono con esempi e con precetti, e nè anche questo mi par vero. Trovasi forse prescritto che la tragedia debba essenzialmente esser nazionale nella Poetica di Aristotile o nel suo comentatore Eustazio, o in Teofrasto, o in Demetrio Falereo ? Nè anche ciò può dedursi dagli esempi greci, perchè sebbene la maggior parte delle loro tragedie a noi pervenute contengano argomenti greci, e perciò per essi nazionali, chi sosterrebbe che tali tutte state fossero le altre a noi non giunte ? Certo è, che alcune pur delle rimasteci esprimono fatti di popoli stranieri. Il Prometeo al Caucaso p. e. è nazionale a’ Greci ? Reso, Frisso, Medea stessa ; benchè vi s’introducano alcuni Greci, non pertanto i protagonisti sono stranieri o straniere le azioni grandi. Lascio poi la memoria, e qualche titolo rimastoci che indica azioni straniere, come i Persi e gli Egizii di Frinico, il Fiore di Agatone.

Accenneremo soltanto, senza fermarci su di esse, diverse altre cose che discordano dalla verità, cioè che il Gerbino si accolse benignamente in teatro, e che essa sia la prima tragedia dell’autore ; che il Racine e il Metastasio hanno soltanto introdotti nelle loro favole amori freddi ed episodici ; che lo stile delle antiche tragedie Italiane, cioè quelle del XVI secolo, manchi di armonia. Ci arresteremo un poco su ciò che dicesi in tal discorso dell’ argomento del Corradino. Si maraviglia in prima l’autore che i Francesi non l’abbiano trattato, e si applaudisce della propria scelta, quasi che fosse stato il primo a recarlo in iscena, quando è si noto che il Corradino del Caraccio comparve sin dal cadere del XVII secolo ; che il sig. Gaspare Mollo quindici anni prima fece un Corradino ; che l’anonimo o il Salfi produsse prima di lui un altro Corradino. Censura di poi il Pagano il Corradino del Caraccio chiamando episodico e freddo l’amore di Corradino e Beatrice, imbecille il re Carlo, la tragedia ripiena di lunghi episodii e di scene inutili e di espressioni che si risentono dell’ infelicità del secolo XVII, le quali cose trovansi esaminate nella Storia de’ teatri in sei tomi, e ripetute con accuratezza maggiore nella presente. Si scusa finalmente per gli amori del suo Corradino ; sostiene che sono tragici perchè dominanti. Quanto a ciò dobbiamo fare osservare che l’autore in prima confessa che la sua tragedia senza amori sarebbe stata più tragica ; e perchè dunque ha voluto fare una tragedia men tragica ? Si discolpa con queste parole : ma come senza episo lii riempiere il vuoto di cinque atti, e presentare al pubblico lo spettacolo di due ore ? Se così è, perchè si maraviglia che i Francesi non abbiano trattato questo, argomento incapace di riescire di giusta grandezza sensa frammischiarvi episodii estrinseci ed amori impertinenti ? Piace che egli confessi di non aver saputo trattarlo senza episodii e senza amori da riempiere il voto di cinque atti e trattenere il pubblico per due ore. Ma dovea imparar per tempo quest’arte da i tre gran tragici greci, o almeno da moderni Alfieri, Pindemonte, Granelli ecc. Dice poi che l’amore di Corradino e Gedippe è dominante e tragico dopo di aver detto prima che è episodico e men tragico del fatto istorico(a)

Noi in questa edizione ci astenghiamo di epilogare le sconcezze del piano, e dell’ esecuzione di tal componimento, troppo manifesti essendone gli amori freddi e svenevoli, i concettuzzi lirici, le scene inutili, gli eventi mal preparati, l’imbecillità di Carlo, l’oziosità di Roberto, le smemoraggini dell’ autore sul personaggio del duca di Austria, la malvagità scandalosa di Ermini, le insipide narrazioni di Amelia, le scempiagini d’ Iroldo. Le analisi di queste tragedie allora si diressero a preservar la gioventù dal confondere tutti gli altri meriti dell’ autore colle circostanze delle sue poesie drammatiche. Dirigo ora alla stessa gioventù i miei voti perchè si provi a prender di nuovo per mano l’argomento del Corradino, e gli renda il patetico naturale con allontanarsi dallo scambio de’due cugini che v’ intruse il Caraccio, dalla malignità e debolezza del Salfi e dagli sconci amori e dagli episodii eterogenei del Pagano. Per riescirci altro non occorre che cercar di obbliare tutte queste tessiture fantastiche e rileggere la semplice storia. Il patetico che ne ritrarrà, l’eleverà sopra tutte le possibili dipinture fattizie che l’hanno sinora deturpato.

Il regno di Napoli ha veduto nascero negli ultimi anni altre cinque tragedie : gli Arsacidi, Zelide, Erode, Ermione, Erettèo, appartenenti all’ erudito barone Francesco Bernardino Cicala nato in Lecce nel 1766 ; che in Arcadia porta il nome di Melindo Alitreo autor pregiato di qualche libro filosofico economico e di varie produzioni poetiche ben degne di leggersi. Dopo alcuna favola scritta nell’ adolescenza, contava appena venti anni di età, quando diede alla luce gli Arsacidi recitata in Napoli, in Bologna ed in Palermo, ed impressa in Napoli nel 1789, e riprodotta nel 1798. La regolarità la distingue, lo stile è nobile, i caratteri ben dipinti, sol che l’azione non sembra una perfettamente, tuttochè si unisca sotto il nome degli Arsacidi ; mentre Fradarte uccide il proprio padre, poi uccide a tradimento Berenice, indi uccide se stesso.

Serba l’autore due altre tragedie scritte più tardi ma non ancor pubblicate per le stampe, l’Erode Ascalonita senza amori, senza donne e senza confidenti, che sveglia la pietà per l’innocenza sventurata, ed i rimorsi tragici del protagonista ; e la Zelide della famiglia degli Eraclidi, la quale uccide il proprio figlio non conosciuto credendolo assassino del figlio stesso. In questa Periandro, Zelide, Aletide rassomigliano a Polifonte, Merope ed Egisto.

L’Ermione impressa nel 1798 sembra che pure racchiuda in un argomento tre casi rilevanti. Menelao di lei padre ucciso in singolar certame da Pirro, ucciso Pirro da Oreste, ed Ermione da se stessa. Lo stile è robusto, grave, degno del coturno ; cui gioverebbe purgare di alcune poche maniere che si risentono di troppo studio. Anche l’interesse pare che si divida tra Oreste ed Ermione, benchè non isconvenga.

Ma l’Eretteo ultima tragedia che io conosco del Cicala in grazia dell’ amicizia, per avventura supera le altre nell’ unità dell’ azione e dell’ interesse che è tutto per Ottene. I caratteri del padre amante della figlia ma atterrito dalla superstizione ; quello dell’ insidioso vendicativo dissimulato Ismenio ; l’atroce impostore il Gran Sacerdote che aggira il re empiendolo di vani terrori e con ippocrito zelo facendo parlare la divinità ; Licida germano che ama Ottene e la patria e desta l’ardore de’ concittadini abbattuti ; Ottene amante del fratello e del padre che all’ udire che i numi chiedono il suo sangue per salvare la patria, a somiglianza d’Ifigenia, spontanea si sottopone alla scure sacerdotale ; questi personaggi sono dipinti con colori vivaci ; ed il cangiamento lieto, non per macchina, ma per l’arrivo opportuno di Licida che avendo ucciso Ismenio trafigge parimente l’empio Gran Sacerdote, arriva ben desiderato. Dovrebbe togliersene qualche colore benchè proprio, ripetuto. Anche lo stile nobile sovente e sublime par che talvolta può stimarsi soverchio studiato, sparso di qualche maniera latina. Questo autore che ci compensa delle meschine tragedie de’Corradini e Gerbini e Pausanii di ultima data, se non soggiacesse ad incomodi continui di salute fornirebbe il regno di uno de’ tragici pregevoli.

Tornando ad altri paesi Italiani vuolsi rammemorare come esperto coltivatore della drammatica poesia il marchese Giovanni Pindemonte di Verona per aver fornito al teatro diversi componimenti applauditi. I Baccanali pubblicati in Venezia nel 1788 per la regolarità della condotta e per la forza de’ caratteri e per diversi tratti robusti fè concepire alte speranze nel declinat del secolo XVIII. Vigoroso nell’ atto I è il discorso tenuto da Sempronio al giovine Ebuzio da iniziarsi ne’ misteri de’ baccanti. Vivace la dipintura della loro empietà fatta nell’ atto II da Fecenia spaventata dal vedere ascritto il caro amante a quella nefanda adunanza. Compose ancora il marchese Pindemonte i Coloni di Candia di non minor successo. Si è però desiderato in entrambe maggior verisimiglianza nelle circostanze, maggior cura in certe espressioni, più attività nel capo de’ ribelli ne’Coloni, più accreditata ne’Baccanali la guisa onde il vecchio Ebuzio trafitto da cento colpi pensa a tramandare per una baccante la notizia del proprio eccidio ad un figlio allora fanciullo scrivendola su di un cuojo col proprio sangue. Gli appartiene parimente la Ginevra di Scozia sempre accolta con applauso in teatro.

Matteo Borsa noto per varii lavori eruditi, e l’abate Giuseppe Biamonti col ripetere due antichi argomenti greci seppero procacciarsi nuova e non volgar gloria. Volle il Borsa con Agamenuone e Clitennestra pubblicata in Venezia nel 1786 dare a quest’ argomento cento volte trattato bene, specialmente da Eschilo e da Seneca e dall’ Alfieri, un portamento novello variando il carattere di Clitennestra cui non fa rea dell’ uccisione del marito. Il Biamonti già mio Collega ed amico nella r. Università di Bologna seguendo le tracce di Euripide produsse in Roma nel 1789 un’Ifigenia in Tauri, uno de’ due argomenti tragici della Grecia che Aristotile antiponeva ad ogni altro. Aveano trattato quest’ argomento in Italia con pari felicità per diverse vie il Rucellai serbando i cori e la condotta del tragico Greco, ed il Martelli scortamente adattandone l’azione alle moderne scene. Gian Rinaldo Carli per altro l’avviluppò d’inganni, amori ed avventure romansesche. Il sig. Biamonti ha calcato le orme di Euripide nelle circostanze della generosa patetica gara di Pilade ed Oreste e della riconoscenza d’Ifigenia col fratello ; ma premise all’ azione una nuova ipotesi della peste onde Tauri è afflitta, per cui si è spedito Reso a consultare l’oracolo di Apollo in Delo, il quale serve allo scioglimento naturale della favola senza l’intervento di una macchina. Sembra però che la venuta di Reso si faccia cadere comodamente nel punto che Oreste è per cadere sotto la sacra bipenne. La riconoscenza segue diversamente, cioè non per la lettera d’Ifigenia da recarsi in Argo come nella greca favola, ma pel nome di Oreste scritto sul monumento erettogli come morto ; ed anche in questo si bramerebbe che tali onori funebri e tal dolore d’Ifigenia non si fossero totalmente fondati sul sogno di lei e prima della notizia recata da Lico che in Argo regna Menelao. Mal grado di ciò e di qualche neo e della copia delle apostrofi, e specialmente di quella della scena quinta dell’atto I,

O fortunata quella cerva alpestre

che contiene un concetto non vero ; noi dobbiamo esser sinceramente paghi del lavoro del sig. Biamonti che ha dato nuovo e vivo interesse a questo argomento. La gioventù studiosa vi scorgerà molti squarci eccellenti nelle scene tutte di Pilade ed Oreste, in quella dell’ atto III tra essi ed Ifigenia, nell’ ultimo patetico congedo di Oreste coll’ amico nella scena terza dell’ atto IV. Ci basti accennare che rendono questa Ifigenia pregevole grandi affetti, stile nobile, vivace ma natural colorito, versificazione armonica quanto richiede il genere.

Capo III
Co.

PRoseguono nel cader del XVIII secolo i progressi del teatro tragico italiano, mentre quelli de’ Francesi che eransi tanto elevati, dopo del Voltaire, lungi dal passar oltre, givano declinando.

All’ abate Giambatista Alessandro Moreschi di Bologna dobbiamo Carlo I Re d’Inghilterra, tragedia comendabile uscita per le stampe nel 1783, in cui non si ripete qualche argomento greco, non si trattano amori, non intervengono confidenti inetti, non si fa pompa di lirici ed epici ornamenti. La morte di un re che trasse verso il Tamigi tutta l’attenzione dell’ Europa, è uno de’ pochissimi argomenti proprii del coturno. In esso non si rappresenta p. e. Ciro che prevale ad Astiage, Alessandro a Dario, Tamerlano a Bajazette, sventure di personaggi che altro non fanno che cangiar le catene de’ regni. In questa tragedia si vede una tremenda catastrofe della costituzione di un popolo che conculca le proprie leggi per alzare un tempio alla libertà nazionale, sacrificandole con formalità giudiziarie per prima vittima la vita del proprio sovrano. Il Moreschi col solo presidio della storia ottimamente colorita e posta in azione ci trasporta in Londra, e ci schiude la terribile scena di un legittimo re solennemente condannato da’ proprii vassalli. Egli presenta in un medesimo quadro Carlo magnanimo e sensibile, che nel gran passaggio dal soglio al patibolo trafitto dalla tenerezza de’ figli conserva il decoro reale, e muore da forte : Cromwel pieno della vastità de’ suoi disegni, e della naturale sua spietatezza vestita di empia politica : Farfè che rappresenta tutto l’entusiasmo inglese per la libertà, per cui si occulta a’ suoi sguardi l’atrocità enorme del mezzo di stabilirla : Federiga e Dacri che dimostrano in buon colorito la virtuosa debolezza compassionevole de’ pochi in pro del principe sacrificato. La dizione è nobile, convenevole al gran fatto, e spoglia di ornamenti quasi sempre inutili al tragico che sa le vie del cuore. Serva di saggio ciò che dice Farfè nella bella scena quinta dell’ atto II, in cui si ammirano quattro caratteri dissomiglianti ugualmente importanti, e bene espressi nella deliberazione di Carlo sul foglio del Parlamento,

Hai tu vaghezza
Di grande tanto divenir che alcuno
Pareggiar non ti possa ? Ardisci, o Carlo,
D’alzare oltre te stesso il tuo pensiero ?
Lo scettro a te cagion di lungo affanno
Osa deporre ; cittadin diventa ;
Imita Silla, e sii maggior d’Augusto.

Osservisi il ritratto di Cromwel in queste parole della prima scena dell’ atto IV :

Diadema non curo o regia spoglia ;
Voglio il comando. Alma non ho capace
Di servitù. Dovunque nato io fossi,
Io comandar dovea. L’utile nome
Di libertà che si l’Inglese apprezza,
Quì mi chiama a regnar : altrove usato
D’altro consiglio avrei.

Con maggior copia di favole cercò il conte Alessandro Ercole Pepoli di Bologna sin dalla giovanezza d’investigar nuova materia tragica di ogni nazione, abbandonando i greci argomenti. Pubblicò da prima sette tragedie che si trovano raccolte nell’ edizione di Venezia del 1787 e 1788. Trasse dalle cronache Inglesi la prima intitolata Eduigi re d’Inghilterra, che perseguitato dallo zelo di Dunstano perde la vita, il regno, e la sposa per essersi congiunto in matrimonio con Elgiva sua cugina. In tal favola che ha un coro mobile nel primo e nel secondo, e nel quarto atto, e non nel terzo, è notabile la franca dipintura di un impostore vendicativo e fraudolento fatta in Dunstano.

Sulle storie spagnuole fabbricò la Gelosia snaturata, ossia la Morte di don Carlo figliuolo di Filippo II, ed il Rodrigo, per le cui lascivie passò la Spagna sotto il dominio de’ Mori. Scrisse la prima ad emulazione di quella del conte Alfieri, nella quale piacquegli far morire. Carlo ed Elisabetta abbracciati sotto le ruine di un carcere sotterraneo. Fu il Rodrigo sventurato anche nella rappresentazione, secondo quel che ne dice l’istesso autore, essendo stato pessimamente accolto in Venezia per gli sforzi di un partito avverso. Vi si vede una Clotilde violata involontariamente che ama però il suo violatore, e che continuando ad amarlo pure scopre la sua vergogna al proprio padre, il quale all’ apparenza si gloria bassamente del proprio oltraggio, e ne medita la vendetta fatale a tutta la Spagna.

Dalle solite vicende de’ serragli de’ Turchi ricavò la sua Zulfa, in cui si vede Seremeth il migliore de’ mariti, ed il più generoso degli uomini tradito ed offeso dagli amori della sua moglie Zulfa con Errico, per li quali si serba l’interesse della favola. Vedesi ciò nel patetico congedo che prende Zulfa dal marito nell’esser condotta al Dey :

Signor, mi lascia
Al mio destino… Il ciel ti ricompensi
Di tua bontà… Morir m’era dovuto :
Accogli il pianto mio… Se il puoi, rammenta
Senza sdegno il mio nome…. e alla memoria
Della misera Zulfa, oh Dio ! perdona.

Tolse dalla storia di Pausania re di Sparta la Cleonice, in cui sembrano lodevoli i caratteri di Cleonice e di Sofronimo, e patetica la scena terza dell’ atto IV. Rincrescerà però a taluno il non delicato carattere di Pausania e l’indecedente invito mandato da lui a Cleonice perchè venisse a passar seco la notte, facendole indi in premio sperare le sue nozze ; nè meno sconvenevole parrà la mediazione di Scilace padre di Cleonice che cerca tutte le vie di persuader la figlia a condiscendere.

L’argomento della tragedia di Dara è tratto da’fatti de’ successori di Tamerlano, ed è piuttosto un tessuto di colpi di scena, cioè di fatti, che di situazioni tragiche. Normal e Cajeam interessano ; ma Dara che abbandona subito la reggia e la città al consiglio del fallace Jemla, e che poi vi torna quando è occupata dal fratello, non si manifesta qual si enuncia valoroso ed accorto. Il colpo di Mirza colla pistola coperta che non prende fuoco e si scopre al cader del broccato, indica un disegno mal concertato da non contribuire al tragico terrore. Non può recare onta all’ autore che il suo Oramzeb si rassomigli al Maometto di Voltaire ; ben però se ne vede la discordanza in isvantaggio del Pepoli. Oramzeb e Maometto fanno confidenza delle proprie scelleraggini ed insidie, l’uno a Jelma, l’altro a Zopiro. L’impostore Volteriano però potè lusingarsi di trarre vantaggio dalla sua astuta sincerità coll’ indurre Zopiro a seco unirsi. Ma Oramzeb che poteva mai ottenere col manifestarsi il più furbo degli uomini ad un suo spregevole schiavo ? Di tanto non faceva mestieri con un traditore qual è Jemla perchè scoprisse Dara.

Dalla storia romana prese un argomento nuovo pel teatro nel Sepolcro della libertà, ossia Filippi, cui il leggitore non esiterà a dare la preferenza sulle altre per istile per condotta e per grandezza di caratteri. Marco Bruto vi comparisce degnamente, e se non potrà compararsi col Catone dell’ Adisson, non manca di sublimità e di forza, nè amori subalterni, come sono quelli della favola dell’ inglese, interrompono il buon effetto della tragedia italiana. L’autore nel tessere la sua tela non ha potuto nell’ atto V serbare il modo tenuto de’ moderni e guardarsi dal lasciar voto il teatro. Bruto nella prima scena, Cicerone nella seconda, Messala e Casca nella quarta, Antonio nella quinta si attiene all’ antica usanza. Rapita Porzia dal trasporto per la libertà prima di uccidersi accanto a Bruto trucida con ispietato eroismo i teneri figli al cospetto dell’ uditorio ; ma forse la provvida variazione di quella scena, che risparmia tanta atrocità, non toglie alla favola il terrore che se ne attende.

Finalmente sul fondamento istorico dell’ invito fatto dalla Repubblica Fiorentina a Gualtieri duca di Atene a governarla, il Pepoli immaginò la tragedia di Romeo e Adelinda impressa nel volume V del suo Teatro nel 1788 e rappresentata con pieno applauso in Bologna nel palazzo del marchese Francesco Albergati che vi sostenne egregiamente la parte di Uberto, mentre si distinse a meraviglia la nobil donna Teresa Venier in quella di Adelinda, rappresentando l’autore stesso quella di Romeo.

Ma questo attivo cavaliere che vedeva dal gran chiarore sorto da Asti coperta la luce nascente del suo tragico teatro, conscio delle nuove forze acquistate col crescer degli anni, sentì (come egli stesso si espresse) la necessità di meglio scrivere, e diede all’ Italia altre tre tragedie, l’Adelinda, Carlo ed Isabelle ed Agamennone.

Al suo nuovo sistema tragico adattò in prima l’Adelinda che avea già scritto, ed ebbe il piacere che si rappresentasse con molto applauso nel 1789 in Torino. La diede indi alla luce per la stamperia reale di Parma nel 1791 preceduta da una lettera di Ranieri di Calsabigi. Lo stile sobrio e naturale, sublime ove l’azione l’esiga, appassionato nel conflitto degli affetti, semplice quando la favola richiede apparecchio e non elevatezza, fa risaltare il contrasto de’ caratteri, e corrisponde a i passi dell’ azione che con calore si accelera verso lo scioglimento in cui scoppia l’evento funesto della morte di Romeo e Adelinda. Essendo il perno intorno a cui volgesi questa tragedia il combattimento in Romeo degli affetti di padre e di sposo, non a torto vorrebbesi nella prima scena dell’atto II che si palesassero meglio le interne battaglie de’ suoi teneri affetti coll’amore della libertà e della patria. L’autore fa che Romeo sia in un dubbio politico, non parendogli Gualtieri tiranno perchè era stato legittimamente eletto. Ma questo dubbio dovea tra’ congiurati verisimilmente esaminarsi di lunga mano innanzi ad ogni altra operazione e fissarsi la sicura tirannia di lui per base della congiura. Le incertezze di Romeo dovrebbero prendere origine nelle sue private passioni che urtano co’ doveri di cittadino. Non per tanto l’autore non ha negletto questo punto importante. Romeo spinto dalle patriotiche espressioni di Uberto, dice :

Perchè, gran Dio,
Quale Uberto non son ? Perchè rendesti
Un cittadin genero, amante e sposo ?

Uberto

Per renderti di me più grande ancora.

Romeo

Adelinda, Adelinda.

E poichè Uberto l’obbliga a leggere il foglio di Gismonda, il rapido dialogo bene esprime l’interna agitazione di Romeo :

Uberto

Giura.

Romeo

Intesi ; oh cimento ! oh sposa ! oh figlio !

Uberto

Dunque ?

Romeo

Ma…

Uberto

Non risolvi ?

Romeo

O angoscia ! Giuro.

È questa la materia propria di tal situazione. Nullo però a me sembra il dubbio premesso dal Calsabigi sulla generosità dell’ appassionata Adelinda nelimplorare il perdono in prò della sua rivale. Imperocchè l’energia del suo carattere che non mai si smentisce, le sue furie gelose sommamente attive che cagionano il mortal pericolo del marito, la fortezza con cui si uccide, giustificano abbastanza l’elevatezza dell’ anima sua per giugnere al punto di procurar quel perdono. Il mostrarsi sempre più degna di amore all’oggetto amato con atti di rara virtù, suole allettar gli animi nobili e sensibili ed inspirare eroismo. Anche la scena ottava dell’atto IV parve al Calsabigi stesso manchevole al confronto di Giaffiero e Pietro nella Venezia salvata di Otwai. Veramente la ben lunga scena della tragedia inglese in mezzo ad alcune nojosità presenta varie bellezze che avrebbero potuto entrare nella scena di Uberto e Romeo. Ma a mirar dritto la brevità e la rapidezza di questa meglio conviene alle circostanze di trovarsi l’atto in sul finire ed Uberto così malconcio da’ tormenti, e la favola correndo allo scioglimento. Ora una scena diffusa calcata su quella dell’ inglese, come sarebbe piaciuta al Calsabigi a dispetto del buon senno, snervata avrebbe in quel punto l’azione. Ecco come l’autore se ne disbriga, e come Uberto mestra la sua indignazione avendo udito che Romeo avea palesati i congiurati :

Uberto

Lasciami. Degno
Nò, più non sei di questa mano.
Io seppi
I tormenti affrettar : debole donna
Gismonda l’amor mio la mia delizia
Giugne a imitar la mia fortezza : in quelli
Soffrì : tacemmo. Inferocì schernita
La tirannica rabbia. Ambi ci trasse
Quasi all’ ultimo scempio. In quale aspetto
Io sia, tu scorgi : in piè mi reggo appena.
Comprendere dal mio quel di Gismonda
Piggiore assai, facil sarà. Ti vince
Una donna in fermezza, anima vile.
Ella tra’ ferri, le tenaglie, il foco,
Tu sol fra imbelli assalti e ancora illeso.

Romeo

Ma d’ogni strazio più crudel non credi
D’una moglie, d’un figlio…

Uberto

Il più crudele
Per me fora il rimorso. Ah ! di vederti
M’è grave omai : serba i tuoi doni ad altri,
Ne arrossirei : lieto a’ miei ferri io torno.

Romeo

Ah Romeo, che ti resta ?.. Infamia e amore.

I passi che a me pajono più notabili in tal componimento, sono i seguenti. La scena sesta del III tra Gualtieri e Romeo si rende pregevole tanto per la parlata di Romeo che candidamente esprime i sentimenti del suo cuore agitato e i disegni senza paventar del tiranno, quanto per la fermezza in rigettar le premure del suocero per sapere i congiurati.

Gualtieri

Scoprir non vuoi ?…

Romeo

No.

Gualtieri

Di morire in vece ?

Romeo

Eleggo.

Gualtieri

Nè il terror d’aspri tormenti, Agonie della morte…

Romeo

Ah che di quelli
È più barbaro assai l’amor di padre,
Di consorte l’amor ; questi pavento.

Gualtieri

Risolvi.

Romeo

Udisti.

Gualtieri

E ben ?

Romeo

Silenzio e morte.

La quarta scena del IV tra Adelinda e Romeo si ammira per la rivoluzione che cagiona nell’animo di Adelinda senza veruno sforzo l’assicurarsi che Romeo non ama Gismonda. Adelinda tuttochè piena di gelosia e di amore estremo pel marito che forma la tinta imperiosa del suo carattere, vuol salvarlo di ogni modo ; e credendo che non la salvezza della moltitudine de’ ribelli, ma quella di Gismonda indicata senza nominarla, potrebbe muovere il marito, gliela promette compagna nell’ esiglio. Romeo risolutamente rigetta l’offerta :

Adelinda

Che dici ? Tu potrai ?…

Romeo

Posso smentirti.

Adelinda

Oh ciel !) Più non intendo…

Romeo

Io se dovessi
Alcun salvare…

Adelinda

Salveresti…

Romeo

Uberto.

Adelinda

Ah qual luce… !

Romeo

Ben tarda.

Adelinda

È i tuoi segreti
Seco ?..

Romeo

Innocenti.

Adelinda

E quelle notti ?..

Romeo

In essi…

Adelinda

L’amor ?…

Romeo

Tu sola il mio.

Adelinda

Quel di colei ?…

Romeo

Uberto.

Adelinda

E il padre ?…

Romeo

Finge.

Adelinda

E il foglio ?

Romeo

Inganna.

Adelinda

Oh dio ! se fosse ver ! ma i chiari sensi
D’impazienza, di speme ?…

Romeo

In altra impiesa.

Adelinda

Di patria ?

Romeo

Sol di patria.

Adelinda

D giuri ?

Romeo

E giuro.

Adelinda

Ah non resisto più ! vieni al mio seno.

Adelinda disingannata e piena di gioja crede che Romeo voglia palesare i congiurati a prezzo della salvezza sua e di Uberto. Ma la virtù e costanza di lui lo fa cadere nel più profondo abbattimento al considerare ch’ella, lui fedele, non se ne può disgiungere e che egli fermo nel proposito di tacere rimane esposto a tutta l’indignazione del padre. Le tenere insinuazioni di Romeo, perchè ella si disponga a soffrir con costanza la loro divisione, e i fervidi scongiuri di Adelinda che gli si prostra per ottener che ceda, danno a questa scena molta vivacità, la quale all’arrivo di Erardo loro figlio aumenta a segno che Romeo intenerito più non resiste, e palesa quanto gli chiede. L’ultimo atto con una rapidezza giudiziosa, colla determinazione di Adelinda di correr la sorte del marito, con i consigli di Armanno a Gualtieri di appigliarsi alla clemenza, coll’incertezza del tiranno che per non perder la figlia quasi è disposto a concedere la grazia, prepara alla compassionevole catastrofe. Romeo si è ferito a morte alla vista de’congiurati giustiziati ; Adelinda scarmigliata ne reca la notizia dolorosa empiendo la reggia di lamenti. Romeo moribondo abbraccia il figlio e la sposa e spira. Adelinda disperata si rimprovera di averlo con una gelosia cieca condotto a quel punto ; riflette di non poter vivere senza rinfacciarne al padre la perdita, e si uccide. E non si conterà quest’altra tragedia tralie buone dell’ Italia moderna ?

La seconda tragedia del Pepoli quasi del tutto rifusa nell’economia della favola e nello stile, è Carlo ed Isabella rappresentata in Bologna nel 1791, indi uscita per le stampe Bodoniane l’anno 1792. Vi si premette una lettera del dotto Melchiorre Cesarotti del 1791, il quale si occupa con varie riflessioni a giustificarne lo scioglimento finale, ed il genere di morte degli amanti sotto le ruine del loro carcere. Quest’argomento ben maneggiato dal conte Alfieri alla sua foggia, e tentato da altri anche in Francia(a), spinse il Pepoli a ritoccare la sua che aveva prodotta in Napoli ed in Venezia. I miglioramenti sono notabili ; il titolo stesso è ora più conveniente all’ azione ; la traccia procede più regolarmente ; se ne veggono i caratteri meglio espressi ; gli affetti di Carlo ed Isabella più commoventi. Per lo scioglimento, che che volle dirne il Cesarotti forse per indulgenza, non tutti si attennero al suo avviso ; non solo pel genere di morte, ma perchè non si stimò ben fatto che comparisse in teatro giustificata dalla loro colpa la punizione de’due amanti insieme colla gelosia del re, e che morissero abbracciati Isabella moglie di Filippo, e Carlo figliuolo del marito d’Isabella.

La terza tragedia del nuovo teatro tragico del Popoli è l’Agamennone, la quale mi fu dall’autore rimessa per compiacenza inedita ancora nel 1791. Essa nel 1794 s’impresse in Venezia con una mia lettera che favella tanto della produzione del Pepoli, quanto delle altre antiche e moderne tragedie intorno ad Agamennone pervenute a mia notizia. Non ripeterò quanto dissi in quella lettera sulla tragedia del Pepoli(a). Dirò solo che (oltre dell’ azione ben congegnata conforme al nuovo sistema assai migliorato e dello stile nobile e vigoroso per quanto comporta il genere) merita di notarsi che di tutte le Clitennestre da me lette, questa del Pepoli sembrami la più conveniente al tragico evento tramandatoci dall’antichità. Non sono molto contento, a dir vero, che il sig. Borsa abbia voluto rendere interessante e in certo modo partecipe della pubblica compassione un’empia adultera che di propria mano trucida un gran re suo marito ed obblia i suoi figli per assicurarsi il trono insieme col drudo. Il terrore tragico dee prodursi per questo assassinamento ad oggetto di purgar le passioni smoderate di chi ascolta, e di far detestare gli atroci delitti di sì malvagia donna. La compassione dee tutta eccitarsi pel gran marito che pieno di sincera tenerezza per la moglie arriva nella sua reggia e proditoriamente permano della rea consorte cade sul letto maritale. E questo appunto si prefisse il Pepoli. Agamennone è un personaggio veramente tragico che chiama a se l’attenzione e la pietà, e Clitennestra è una femmina atroce perversa perfida, la quale avendo nutrito un odio inveterato contro di lui da che Ifigenia fu sacrificata in Aulide, l’accoglie e l’immola al suo furor vendicativo.

Chiudasi con lieta fronte la classe de’moderni tragici Italiani col celebre poeta Vincenzo Monti da Ferrara, e col conte Vittorio Alfieri da Asti.

Vincenzo Monti chiaro per le sue poesie ed altre pregevoli produzioni tardi si rivolse alla poesia teatrale. Ne abbiamo sinora tre tragedie, l’Aristodemo, il Galeotto Manfredi, ed il Cajo Gracco. Aristodemo s’impresse nel 1786, e si recitò in Parma con pieno applauso per due autunni continui, sostenendo la parte di Argia la celebre Gardosi ; e con pari applauso si accolse in Roma recitandovi l’acclamato Petronio Zanarini. L’ottimo Ferdinando Borbone duca di Parma onorò l’autore colla medaglia d’oro onde si coronavano colà le favole trasmesse al certame, e ne fe imprimere e rappresentar la tragedia come prima facevasi delle corenate. Ciò dimostra l’animo costante di quel Sovrano in pro della poesia rappresentativa, e confonde la falsità di certo famoso impiastricciatore di Colpi d’occhio, il quale interpretava malignamente il silenzio dal Consesso Accademio Parmense, e dava ad intendere alla picciola parte del pubblico che cadeva a leggere le sue ciance antiletterarie, che il Duca l’aveva abrogato. Capisce egli che cosa vuol dire abrogare ? Ne ha egli forse veduto il decreto ? Vero è che per alcuni anni si tacque quella deputazione accademica ; ma se ne manifestò la cagione ? Certo è però che dopo l’ultima favola coronata nel concorso del 1778, recitata poi nel 1781, quel Principe si dichiarò successore del defunto conte San-Vitale e capo della diputazione egli stesso, e non si tralasciò di riceversi i componimenti che si trasmisero al concorso. Certo è parimente che quel real Protettore concesse, come si è detto, all’Aristodemo gli onori ed il premio delle favole coronate. Or come osa dire il citato folliculario impostore che è mancato all’Italia quel debole allettamento ? L’impudenza degli Aretini rivive di ogni maniera in cotali deplorabili infarinati calunniatori.

L’argomento dell’Aristodemo scritto nel secolo XVII da Carlo Dottori sul racconto di Pausania, serve di antecedente all’Aristodemo del Monti. Ci tratterremo noi a dare una compiuta analisi di sì nota tragedia enunciata in tanti giornali buoni e cattivi, recitata e ripetuta in tanti teatri, ed impressa tre volte in due anni ? Basti accennare in generale che ne formano la prestanza ed il carattere una versificazione felice armonica maestosa : lo stile robusto animato sublime e poetico quanto comporta il genere : bellezze di esecuzione invidiabili : passioni espresse col terribil pennello di Crebillon e di Shakespeare ne’loro migliori momenti. Ne vorremmo, è vero, le parti della favola più concatenate : più fondato e naturale il disegno di Lisandro di occultare Argia, d’imprigionare e non uccidere Eumeo, di obbligar Taltibio con un giuramento a non palesarne la nascita ; l’entrar di Argia nella tomba della sorella preparato almeno con raccapriccio maggiore. Ma chi direbbe che lo spettro dell’Aristodemo sia la stessa cosa con quelli della Semiramide e dell’Hamlet, se non chi di tutto parla per tradizione ? In queste favole straniere gli spettri appariscono e parlano realmente, e così parimente il genio di Marco Bruto nel Filippi del Pepoli. Ma nell’Aristodemo del Monti e nel Serse del Bettinelli, il simulacro che infantano i rimorsi di questi gran delinquenti, si presenta solo alla loro riscaldata atterrita fantasia. L’Aristodemo (alcuno ha detto ancora) non ha catastrofe, perchè già se ne prevede il fine. Traspare, è vero, il disegno ch’egli ha di uccidersi. Ma quando ed in qual guisa l’effettuirà ? Argia scoperta in Cesira sarà prima a lui nota ? porravvi a tempo impedimento ? Ecco le cose che formano la sospensione dell’uditorio nell’indovinare lo scioglimento. L’Aristodemo dunque ha la catastrofe. Affermò il fabbricante di Colpi d’occhio, che tal favola è piena di atrocità ; ed in ciò pur s’inganna o mentisce, mentre eccetto il suicidio della catastrofe, non vi si rappresenta atrocità veruna, ma soltanto terrori e rimorsi di averne anticamente commesse. É nojosa, fredda, priva di movimento e d’interesse, disse il medesimo gazzettiere fallito. Ma può mancar di calore, interesse e movimento una favola che con tanta forza eccita il tragico terrore, come si vede nel terribil racconto della scena quarta dell’atto I ; nel congedo di Cesira ed Aristodemo della terza dell’atto III ; nella mirabile dipintura dello spettro della scena settima dell’atto stesso ; nella seconda del IV in cui Aristodemo atterrito cade sul teatro a’piedi di Cesira ed a lei si discopre reo ; nello scioglimento sommamente patetico in cui Aristodemo che si è ferito a morte riconosce in Cesira la sua Argia, e spira ? Chi volesse quì vedere indicato un saggio del valor tragico del signor Monti, legga nella scena settima del III e nell’ultima dell’atto V i frammenti che dipingono lo spettro. Senta intanto Aristodemo che spira :

… E ben che vuol mia figlia ?
S’io la svenai, la piansi ancor.
Non basta
Per vendicarla ? Oh venga innanzi ; lo stesso
Le parlerò.. Miratela ; la chioma
Son irte spine, e voti ha gli occhi in fronte.
Chi glieli svelse ? E perchè manda il sangue
Dalle peste narici ? Oimè ! Sul resto
Tirate un vel, copritela col lembo
Del mio manto regal, mettete in brani
Quella corona del suo sangue tinta,
E gli avanzi spargetene e la polve
Su i troni della terra, e dite a’regi
Che mal si compra co’delitti il solio
E ch’io morii…..

Gon.

Qual morte ! Egli spirò !

Il Galeotto Manfredi del medesimo autore insieme colla precedente s’impresse in Roma nel 1788. L’azione consiste nella morte di questo principe di Faenza seguita per la gelosia che di lui concepisce la Bentivoglio sua moglie ingannata da un malvagio ambizioso. L’autore vi appose la seguente epigrafe,

vestigia greca
Ausus deserere, et celebrare domestica facta,

perchè uscendo dagli argomenti forestieri nella guisa che i Romani abbandonarono tal volta le orme de’ Greci, aveva trattato un argomento nazionale (a). Per avviso del medesimo autore, questa tragedia cede all’Aristodemo, benchè scritta con pari eleganza, con versificazione ottima, con intelligenza del cuore umano nel dipingersene i caratteri. La verità e la forza onde è delineato Zambrino uomo nero e detestabile inspira tutta l’indignazione de’buoni. Il fatto per altro senza interessare lo stato si aggira su di una gelosia di una donna che cagiona un omicidio in una famiglia ragguardevole. Lo stile è nobile ne’ grandi affetti, ma talora dimesso e famigliare particolarmente in bocca di Zambrino. Alcune scene presentano molte bellezze, cioè quella dell’atto III della riconciliazione di Matilde e Manfredi col congedo che viene a prendere Elisa, della quale Matilde sospettava ; quella del IV atto in cui il virtuoso Ubaldo si allontana dalla corte ; l’ultima del V della tragica situazione di Manfredi trafitto a torto, e di Matilde che ne conosce l’innocenza nel punto che egli spira. Per saggio dello stile rechiamo un frammento della seconda scena dell’atto I. Zambrino malvagio consigliere insinua il principe di aggravare e smungere al popolo per ingrossare l’esercito e fornir di soldati le fortezze, altrimente, dice,

Dove difesa,
Dove coraggio avrem ?
Ed Ubaldo risponde,
Nel petto,
Nell’amor de’vassalli. Abbiti questo,
Signor, nè d’altro ti curar. Se tuo
Delle tue genti è il cor, solleva un grido,
E vedrai mille sguainarsi e mille
Lucenti ferri, e circondarti il fianco.
Ma se lo perdi, un milion di brandi
Non ti assicura. Non ha forza il braccio,
Se dal cor non la prende, e tu sarai
Fra cento spade disarmato e nudo.

Nel 1800 ci trovammo il sig. Monti ed io in Parigi in casa del principe Giustiniani, e vi si lesse la terza sua tragedia, il Cajo Gracco. Tutta la grandezza e l’eleganza del suo stile, tutta la nobiltà de’suoi concetti spiega l’autore in questo componimento. Il carattere di Cajo Gracco partigiano de i diritti del Popolo contrasta mirabilmente con quello del console Opilio sostenitore de’ Patricii. Tenero è l’incontro di Cajo, che arriva inaspettato in Roma, colla moglie e col figlio che abbandonano la propria casa per procacciarsi un asilo contro la prepotenza de’Nobili. Le aringhe successive fatte nel Foro da Cajo e da Opilio sono di tanta energia ed eloquenza che a vicenda tirano ad encomiarle i suffragii del popolo. Opilio mette in opera tutta la potestà consolare per abbattere Cajo co’suoi partigiani, i quali respinti e morti cedono alla forza, e Cajo rimane esposto ed in procinto di cadere in mano degli avversarii. Per salvarlo dalle catene e da una morte ignominiosa Cornelia sua madre dà a Cajo un ferro, che se ne vale per morir libero. Un quadro compassionevole della sua famiglia chiude la tragedia.

Dopo tanti contrarii avvisi di critici occulti o manifesti, invidi o sinceri, e di censori periodici o candidi che servono alla verità e alle arti, o perfidi che militano per. chi gli assolda e mordono chi ricusa pagar lo scotto a simili pirati ; come mai parlare delle tragedie del conte Vittorio Alfieri senza farsi de’nemici ? Brevemente e come da noi si suole senza timore e senza dipendenza coll’usata nostra debolezza ne farem parola. Ne avea prima prodotte quattro in Siena. Dieci egli ne pubblicò pel Graziosi in tre volumi nel 1785 ; e le riprodusse nella bella edizione di Parigi nel 1788 con aggiungerne altre nove inedite. Eccone i titoli : Filippo, Polinice, Antigone, Virginia, Agamennone, Oreste, Rosmunda, Ottavia, Timoleone, Merope, Maria Stuarda, La Congiura de’Pazzi, Don Garzia, Saul, Agide, Sofonisba, Bruto primo, Mirra, Bruto secondo.

Sono esse (domandiamo in prima) scritte alla greca maniera o alla moderna ? Non alla greca, perchè non hanno cori, non nutrici, non nunzii, non macchine che le sciolgano, non decorazioni pompose, non si limitano al solo fatalismo che ne governi le molle. Or perchè il non Verace autore da Colpi d’occhio noverò tra’difetti dell’Alfieri l’imitazione de’Greci ? L’ha egli stessa mostrata servile per condannarla ? Racine, Crebillon, Voltaire ebbero torto quando imitarono i Greci e ne adottarono le favole ? L’ebbe Saverio Bettinelli che nel Discorso del Teatro Italiano si pregio d’aver nelle tragedie sue seguita la scorta di Eschilo e di Euripide ?

Le passioni maneggiate con terribile maniera le caratterizzano, e la condotta delle favole è accomodata al moderno teatro. Il pregio singolare che distingue il conte Alfieri da molti contemporanei ed oltrepassati, e l’arte grande di rintracciare entro il più intimo del cuore umano i pensieri che contribuirono a consumare i delitti. Nulla nelle sue favole rallenta l’azione, tutto va al fine, tutto tende ad ispirare spavento e terrore. Il dialogo grande ed a proposito si accomoda alle situazioni. Lo stile enfatico e forse troppo, scarseggia in generale di poesia, di colori, di ornamenti, non dico già de’ vietati epici e lirici da lui abborriti, ma di quelli che l’uso costante de’tragici eccellenti antichi e moderni accorda alla scena(a). La versificazione tende ad un sublime tragico, e riesce per lo più dura ed inarmonica ; e riesce per lo più dura ed inarmonica ; la locuzione contorta non di rado cruschevole tal volta alla noja, sparsa benchè raramente di qualche maniera di dire francese. Si priva l’autore rigorosamente di ogni sorta di confidenti, ed è costretto a valersi con frequenza de’monologhi non rare volte narrativi non meno nojosi de’confidenti e più inverisimili. Quattro o cinque personaggi non senza offesa della verità nè senza rincrescimento alternano nel corso di cinque atti. L’illusione manca del necessario soccorso delle proprietà indispensabili che accompagnano i troni ; e si vede inverisimilmente una reggia per natura popolata abbandonata, a guisa di un tugurio, ad uno o a due attori che vengono a tramare una congiura quasi al cospetto del tiranno. Tali mi sembrano i difetti e i pregi generali delle tragedie Alferiane uscite nel 1785 da Venezia. Scendiamo a qualche particolarità.

Filippo. Spira tragica gravità questo componimento mal grado della snaturata barbarie di Filippo. Dopo di averlo l’autore riscritto più volte, ancor può notarvisi una catastrofe preveduta sin dal principio ; la venuta d’Isabella nella prima scena del I atto senza perchè o solo per tornare dentro dopo del suo monologo ; la costruzione quasi alemanna,

…. Ch’ei t’è padre e signor rammenti
Mal tu così ;
il mal suono che fa quest’ altra
A te sol resta

Come a me morte ;

la non rara mancanza degli articoli ec.

Non saprei che desiderare nel rassomigliante ritratto del geloso inumano simulatore Filippo. Gomez insidiosamente lo dipinge ad Isabella nella scena quinta del IV, ma con eccellenza,

Niun pregio ha in se che il simular pareggi.

La storia lo rappresenta come il Tiberio delle Spagne(a) Bene è dunque dipinto nella tragedia, e singolarmente nella scena quinta del III fra’ suoi adulatori iniqui consiglieri, che mi sembra un’immagine di quel cupo imperadore in mezzo al servo Senato Romano, quale vien delineato da Tacito. I suoi artificii per leggere nel cuor d’Isabella l’amore ch’ella nutre pel figlio, la sua falsa empia accusa di un tentato parricidio, l’insidiosa sospensione che mostrâ sulla sorte del figlio : sono tratti di Tiberiana finezza che tutta disvelano l’atrocità di quell’anima e l’abborrimento concepito per un figlio che a lui non rassomiglia e che egli ha offeso e vuol che mora per aver destata la sua gelosia.

Polinice. I caratteri di Eteocle e Polinice che si abborriscono e di Giocasta che palpita per ambedue, sono espressi con forza di colorito veramente tragico. Eteocle non sa vedersi suddito un sol momento ed a costo di qualunque delitto non respira che indipendenza ed odio mortale. Polinice non soffre i suoi torti, ma ama la germana, ama e venera la madre, e nell’istesso fratello non abborre che l’ingiustizia e la mala fede, sente in somma la voce della magnanimità in mezzo all’ira. Tali caratteri ricevono l’ultima mano nell’atto V, quando il moribondo Eteocle fingendo di abbracciare il fratello l’ uccide :

Eteocle

Vendetta è alfin compiuta.
Moro, e ti abborro ancor.

Polinice

Pena al delitto
Ottengo pari… io morc, e ti perdono.

La dissomiglianza che ha posta Alfieri ne’ due fratelli, toglie veramente a lui il vantaggio che presta a tale argomento l’odio fraterno fatalmente invincibile, che gli antichi e Racine trattarono egregiamente, onde deriva un interesse indubitato. Nondimeno io son di avviso (che che ne senta un dotto amico critico non volgare) che non è senza interesse la differenza Alfieriana. L’enorme proditorio di Eteocle moribondo che finge d’abbracciare il fratello e l’uccide, è un eccesso che tira contro di se tutta l’indignazione pubblica, e produce un tragico terrore in pro di Polinice che muore e lo perdona, perchè non può dirsi orrore ciò che desta a un tempo spavento e compassione. Un altro critico non meno scorto oppone che lo scopo morale richiedeva che il giusto avesse esito più felice del malvagio. Ma se col mezzo della compassione vie più si manifesta l’ingiustizia del malvagio, non è questo appunto l’effetto morale che si prefige la tragedia di purgar le passioni col terrore che risveglia ?

Antigone. Di questa tragedia recitata in Roma nel 1782 a me incresce singolarmente l’introduzione priva di verisimiglianza e di proprietà. Argia giovane principessa sola di notte s’inoltra in una reggia nemica per ottener da Antigone, che non conosce, il cenere del suo sposo ; primo monologo. Antigone contro del regio divieto si accinge ad andar nel campo per bruciare il corpo insepolto di Polinice ; secondo monologo. S’incontrano in fine, si parlano alla cieca, ed Argia in una reggia tanto per lei sospetta vede una donna, e palesa di cercare Antigone e di aver con lei comune la pietà ed il dolore. Ciò che esse dicono non conoscendosi, è senza riflessione e dovrebbero essere più caute se non per timore della propria vita, almeno per dubbio di non condurre a fine la meditata impresa. A tali angustie e incongruenze è condotto il poeta per voler tutto addossare a quattro personaggi privandoli di ogni mezzo di verisimiglianza, e per voler trasportare tutta l’azione nella reggia di Tebe. La patetica gara però di Argia ed Antigone, gli arditi sentimenti di questa in faccia al tiranno, l’ultimo congedo che prendono la vedova è la sorella di Polinice, rendono alla favola la verità e la forza.

Virginia. Non può non ammirarsi in questa favola la viva dipintura de’caratteri d’Icilio, di Virginia e di Virginio, onde ben si rileva l’anima che chiudevano in seno gli antichi Romani. Particolare attenzione richiede la scena seconda dell’atto III, in cui il forte Icilio freme al nome di patria che gli par che disconvenga usare sotto il Decemviro Appio. Taci, egli dice, quel nome

Osi tu proferir ? V ha patria, dove
Sol uno vuole, ed obediscon tutti ?
Patria, onor, libertà, penati, figli,
Già dolci nomi, or di noi schiavi in bocca
Mal si confan, finchè quell’un respira
Che ne rapisce tutto.

Nella scena seguente interessa l’appassionato incontro di Virginio con la figliuola e con Numitoria sua consorte, ed il generoso disdegno di Virginia. Numitoria col nobile orgoglio di una Cittadina plebea contro i patrizii prorompe :

In un col latte
Timbevvi io l’odio del patrizio nome.
Serbalo caro : a lor si dee che sono
A seconda dell’aura o lieta o avversa,
Or superbi, ora umili, e infami sempre.

Il trasporto d’Icilio penetra nel fondo del cuore di Virginio :

Icilio

Ah ! schiavo il sangue moi ! Non mai…
Padre io non son… se’l fossi.. !

Virginio

Orribil lampo
Mi fan tuoi detti traveder ! Deh taci…

Ma i monologhi di Appio e di Virginio in parte narrativi, la durezza e l’oscurità prodotte nelle maniere di dire dalla mancanza degli articoli e da troppo stravolti iperbati, qualche intoppo che si presenta nella condotta della favola, l’ondeggiamento circospetto e picciolo del popolo nel giudizio, e l’impunita tirannide minacciosa ancor dopo l’ammazzamento di Virginia, non possono non riucrescere agli ammiratori del genio raro dell’energico Alfieri.

Agamennone. Ad onta di mille esempii datici da’seguaci di Melpomane di ogni nazione, ardisco profferire su questo argomento i miei liberi sensi. Quando non si abbia l’idea de’ Greci repubblicani di addossare tutte le possibili scelleratezze ai despoti che abborrivano, non dovrebbe a mio avviso un culto pubblico oggi tollerare in iscena il nefando spettacolo di una perfida adultera che prosperamente viene a capo di trucidare l’addormentato marito, e seder col drudo sul di lui trono. E qual vantaggio ed istruzione se ne attende ? Quella d’insegnare l’arte di vincere i rimorsi e di commettere impunemente i più atroci misfatti ? Non potrebbe addursi altra discolpa per l’autore e per gli spettatori, che si accomodano l’uno a scrivere e l’altro a vedere simili rappresentazioni, se non l’esempio che ne diede l’antichità. Ma siamo noi nel medesimo caso della tragedia de’ Greci ? Il fatalismo che di questa era il perno, lo è del pari della tragedia del moderni ? Unico mezzo di far da’ volgari soffrire in teatro simili atrocità de’ fatti antichi, sarebbe per ipotesi la forza irresistibile del fato, onde gli uomini cadono in eccessi per non potere con umane forze evitarle. Così sulle tracce di Euripide eseguì Racine nella Fedra. L’Alfieri abbandonando questo mezzo ha posta sul teatro una Clitennestra infinitamente più malvagia e colpevole di Fedra, non per superno fatale impulso di qualche deità nemica, ma valendosi delle insidiose maniere di Egisto che avendo sedotta la cieca Clitennestra la conduce all’ esecrabile assassinamento. Sono questi spettacoli da patibolo non da teatro.

Simili principii non c’impediscono di confessare che in questa tragedia spicca singolarmente l’inimitabile destrezza dell’Alfieri in disviluppare le riposte sorgenti onde discendono i delitti. Clitennestra amando Egisto non è preparata a sacrificare il marito. Ma Egisto che aspira a vendicare il padre ed a regnare in Argo, insinua nella rea femmina tutta la propria malvagità, occultando il meditato disegno sino all’atto IV col velo della modestia e dell’ amor grande che mostra di nutrir per lei. Disse, è vero, il Pepoli che era una caduta, una dimenticanza del poeta il far che Egisto disveli incautamente la sua intenzione con presentare a Clitennestra l’immagine di Cassandra vicina a torle talamo e regno. Ma essi aveano già mostrato di essersi intesi, e di convenire che non vi era che un crudo rimedio, il sangue di Atride. Il tornar indietro Egisto ed insistere nel primo colore era inutile. Non restavagli che opporre ostacoli all’esecuzione per più irritarne il furore, dicendo,

In mezzo
De’ suoi stà il re, qual man qual ferro strada
Può farsi al petto suo ?

Clitennestra

Qual man, qual ferro ?

Ed allora le dà l’ultime spinte al precipizio e le rammenta Cassandra. A ciò tutto divampa l’impeto della furiosa donna, e si abbandona alla esecranda risoluzione.

Clitennestra

Io di Cassandra ancella ? Io di te priva ?

Egisto

Atride il vuol.

Clitennestra

Atride pera.

Egisto

E come ?
Di qual mano ?

Clitennestra

Di questa. In questa notte,
Entro a quel letto ch’ei divider spera
Coll’abborrita schiava.

Non mancano in questa tragedia alcune eccezioni sullo stile, essendovi rimasto qualche gallicismo, come Atride già mi sospetta, e di che il sospetta, in mezzo a modi cruschevoli, ed otto soliloquii, e qualche inverisimiglianza, come quella dell’ atto V, in cui Egisto penetra quasi presso del letto del re, e dice di esservi giunto inosservato al favor delle tenebre e della solitudine inverisimile in una reggia festante per l’arrivo di un gran re vittorioso. Anche il resto di questa scena presenta un falso racconto di Egisto che manca di verisimile e che persuade Clitennestra, perchè lo vuole il poeta(a). Ma lo stato di Clitennestra è ben dipinto e quando è per giungere Agamennone e quando con lui s’incontra e quando freme all’ idea della proposta lontananza di Egisto e quando si determina al colpo spietato e quando esce bagnata del sangue del marito,

Gronda il pugnal di sangue… e mani e veste
E volto, tutto è sangue…

Ma, secondo me, come male termina questa favola ! Egisto dice che già di funeste grida intorno suona la reggia tutta. Dunque ?

Assai rileva il trucidare Oreste.
Or d’ Argo il re son io.

E perchè egli è ora il re d’ Argo ? Per successione ? non già ; per qualche esercito che abbia pronto alle porte d’ Argo ? nulla di ciò si è premesso ; per aderenze che abbia superiori al partito de’ figli del trafittore ? nò, dapoichè per ipotesi del dramma Egisto viene enunciato

di gloria privo,
D’oro, d’armi, di sudditi, d’amici.

Non gli resta che l’ attaccamento della regina ; ma egli vi rinuncia con tutta l’imprudenza, disponendosi a trucidarne i figli ch’ ella ama. Male dunque egli dice or d’ Argo il re son io, parole inconsiderate che smentiscono il suo carattere artifizioso e cauto in tutta la tragedia.

Oreste. Per questa tragedia ebbe Alfieri particolar predilezione, quale l’ebbe Pietro Corneille per la sua Rodoguna. Si conviene che pregevole essa sia, ed una delle più perfette dell’ autore. Più rari in essa sono i difetti dello stile, e mirabilmente vi campeggia la forza tragica. Ottimamente vi si dipinge lo stato di Clitennestra che palpita alternativamente or pel figlio, or pel marito : ella è madre trovandosi Egisto in salvo ; ella non l’è più quando per lui paventa. Sopratutto lodevolissimo nell’ atto V è il trasporto di Oreste nel trucidar Egisto, col quale egregiamente si colorisce l’uccisione della madre che si frappone senza che la vegga.

Se si voglia comparare coll’ Oreste del Voltaire, questo di Alfieri, rimane superiore, perchè mentre l’ azione si appressa allo scioglimento, cresce di moto e d’ interesse ; là dove l’ Oreste Volteriano quanto sovrasta per invenzione ed interesse ne’primi atti, tanto negli ultimi due declina. Contuttociò non siamo contenti di alcune circostanze del piano Alfieriano. Oreste e Pilade s’ inoltrano fin nella reggia, indeterminati tuttavia del pretesto che sceglieranno per presentarsi al re, e del nome stesso onde far velo al lor venire. Elettra va parlando sola a voce alta nella scena seconda dell’ atto I, ed è intesa da Pilade ed Oreste. Era giusto che si sentisse ciò ch’ ella profferiva ; ma non regolare che una persona parli con se stessa se non in corte spezzate acclamazioni nell’eccesso delle passioni. In questa medesima scena lunghissima benchè bella, avviene la riconoscenza del fratelli, ma in luogo troppo sospetto. Oreste declama, minaccia, va in furie, fulmina col guardo ardente il tiranno, gli rimprovera il tradimento e la viltà, quasi altro disegno non avesse che d’irritarlo, e morire invendicato. Pilade nella scena seconda dell’atto IV, per rimediare alle imprudenze di Oreste, gli dà il proprio nome di Pilade con non minore inavvertenza, giacchè Egisto non ha manifestato minore abborrimento per Pilade che per Oreste. Ed in fatti questo scambio amichevole di nomi rare volte non riesce insipido, cioè soltanto nel caso che l’ uno è libero e fuor di pericolo, e l’ altro in procinto di perire, e privo di libertà. Finalmente Elettra con poca grazia scopre il fratello nell’atto IV. Ed allora Egisto perchè non l’ammazza liberandosi da sì gran nemico ? Perchè non congiungere lo scioglimento all’ azione ? Per fare un atto V(a).

Rosmunda. Questo componimento è tutto d’invenzione dell’ autore, ed è l’unico ch’ egli abbia interamente inventato ; ciò che rincresce ai suoi ammiratori perchè è riuscito male. Voltaire inventò la Zaira intera, e riusci eccellentemente ; Placido Bordoni inventò interamente l’Ormesinda, e merita che si conosca dagl’ intelligenti ; Torquato inventò tutto nel Torrismondo, e diede in esso un esimio modello del vero personaggio tragico ; ciò che dovea riflettersi dall’ Alfieri, e da altri che mostrano di non apprezzar quel gran Poeta. Non è stato del pari felice Alfieri nella sua Rosmunda. Detestabile non meno di Clitennestra ella ha fatto uccidere il marito, ed ha sposato Almachilde di lui assassino. Ella trionfa, versa tanto sangue, opprime tutti, uccide Romilda che ha tanta virtù

Quanta il ciel mai ne acchiuse in cor di donna.

Ecco il trionfo vero dell’ iniquità. Questa figlia di Alboino poi imprudentemente, e senza necessità fa una confessione spontanea del secreto del suo cuore all’ inumana matrigna, e all’ uccisore di suo padre. Anche il prode Ildovaldo che ha più volte giurata la morte di Almachilde, essendo da questo re chiamato a duello, accetta, e poi ricusa per non abbassarsi. In oltre egli comanda le schiere contro Almachilde, si pugna, e mentre ferve la battaglia, il buon generale abbandona il campo, e torna insulsamente nella reggia. Passiamo alle altre.

Ottavia. Quale scopo ebbe Alfieri nel tessere questa tragedia ? Dipingere (egli dice(a) un Nerone per impedire che vi sieno altri Neroni, per indurre un terribilissimo freno del divenirlo. Ma qual mezzo vi adopra ? Ne mostra forse il fine che fece ? i palpiti, i rimorsi, i terrori notturni che l’agitarono secondo Tacito nella notte precedente al suo esterminio ? Ne rileva la naturale viltà che l’ astrinse a divenire boja di se stesso ? Al contrario egli consente alla ruina e alla morte di una virtuosa moglie, ed ammette al talamo ed al trono una malvagia donna da lui medesimo per tale conosciuta.

Più la conosco, più l’ amo, e più sempre
D’amarla giuro.

Bella maniera d’impedire che pulluli la perversa genìa de’ Neroni ! Vero è per altro, che questa Ottavia supera l’altra attribuita a Seneca, ed il carattere di quella sventurata imperatrice vi è ben dipinto. Ma Nerone in essa è un Nerone con affetti privi di ogni tragica energia, e Poppea e Tigellino hanno passioni e vizii comici e comunali. Malgrado de’ tratti sublimi che in essa trovansi sparsi, nè il Cesarotti potè negare di esserne il piano e i caratteri poco atti ad interessare, nè il Carmignani potè trattenersi dal tenerla per una delle più infelici e peggio ideate dell’ Alfieri.

Timoleone. Ottima lezione a’ tiranni, morir nella maggior sicurezza. Timofane dopo di avere scoperte tutte le occulte trame de’ cittadini oppressi, e fatta strage degli zelanti repubblicisti, rimane ucciso per cenno del virtuoso fratello, non per amor di regno o di gloria, ma di libertà. Timoleone, Bruto novello, spegne in Timofane il tiranno, e piagne il fratello. L’atto V piacerà sempre per l’oppressione repentina della tirannia, e pel ravvedimento del tiranno che spira. L’eroismo trionfa in Timoleone senza tradir la natura, e l’ oppressore stesso punito si rende compassionevole, ed ammaestra col morir meglio che non visse.

Ma rincrebbe a due dotti critici che Timoleone alla vista del fratello ucciso mostri rimorsi e disperazioni, al celebre Cesarotti(a), ed al giudizioso critico Pietro Schedoni(b). L’autore si discolpò rispondendo al primo con dire che avea dati i rimorsi a Timoleone in grazia de’ moderni spettatori, i quali non potrebbero tollerare che un fratello uccisore dell’ altro l’avesse mirato con fermezza stoica (c). Nè anche, secondo me, sarebbe bastato ciò che il Cesarotti consiglia, cioè che Timoleone dicesse : io uccisi il tiranno, ora vado a piangere il fratello . Ciò illanguidirebbe l’ effetto tragico appunto sul finire quando dovrebbero essere più energici. Io direi ancora che i rimorsi di Timoleone non gli disconvengono, nè sono orribili a segno di mostrare che si fosse deturpato del più nefando delitto. Essi sono anzi quali esser debbono di un cittadino che non si pente del bene che ha fatto alla patria, ma prova intanto intimo cordoglio per averlo dovuto conseguire coll’ ammazzamento di un fratello che amava dopo della patria.

Merope. Tra tante pruove che dimostrano Euripide gran tragico, ed Aristotile non meno grande osservatore, può noverarsi la bellezza che mai non invecchia del soggetto del Cresfonte ideato ed eseguito dal gran tragico ed esaltato dal gran filosofo come il miglior modello di tragedia. Dopo le Meropi Volteriana e Maffeiana Vittorio Alfieri ci astringe ad ammirare con vero diletto la sua ch’egli dedicò alla contessa sua madre nell’ agosto del 1783. Nè anche in questa mi sembrano frequenti le solite eccezioni dello stile ; ma il primo monologo di Merope è troppo narrativo. Ed a chi racconta ella tante particolarità, or già ben l’anno ec. ? Polifonte pensa dopo dieci anni a sposar Marope per politica ; ma egli imbrattato di tanto sangue, perchè nella propria reggia ha conservata questa nemica implacabile risparmiandone il sangue ? Il carattere di Egisto è colorito egregiamente nell’ incontro dell’ atto II cou Polifonte ; ma nel suo bel racconto la circostanza con mie man sua destra afferro avrebbe dovuto esser la prima a riferirsi per mostrare perchè un disarmato potè prevalere e prevenire uno che gli si avventò collo stile alla mano. Ottima è la scena quarta di Egisto con Merope e felice e naturale il candido racconto che a lei fa dell’ ucciso che singhiozzando nominava la madre sua, alla cui immagine si desta il palpito di Merope che si sovviene di suo figlio. È dipinta altresì egregiamente nella scena seconda del terzo la madre in ogni tratto, e singolarmente alla vista del cinto insanguinato che migliora il segno dell’ armatura da Voltaire sostituito alla gemma del Maffei. L’incontro di Polidoro con Egisto nel punto in cui è esposto al furore di Merope che lo crede uccisore del proprio figlio anima l’atto IV. Pur la sua lunghezza potrebbe (stò per dire) far pensare che Polidoro siesi a bello studio fermato perchè arrivasse Merope con Polifonte senza che potesse avvertirla. Finalmente sembra che Polifonte nell’ ultima scena abbia più pazienza e meno scorgimento di quel che a lui bene starebbe in lasciar tanto dire a Merope che tiene a’ Messenii lunghi discorsi sediziosi. Evitar tutti i nei nell’ arduo impegno di tessere una buona tragedia è ben difficil cosa : ma ben più difficile altronde è l’imitar la scaltrezza filosofica dell’ Alfieri nell’ investigar nel cuore umano le arcane sorgenti degli affetti. Mille parodiette del di lui stile potranno scarabbocchiarsi come quella del Socrate ; ma quanti fra diecimila uomini di lettere per ogni popolazione si approssimeranno alle doti inarrivabili dell’ Alfieri ! Deh quando avverrà che in un tragico italiano arrivi a congiungersi con lo stile di Monti o di qualche altro che non trascuri di colorire, ed il patetico e la delicatezza di Metastasio, e la grandezza e la penetrazione dell’ Alfieri !

Non possono negarsi a questo nostro valoroso tragico i notabili progressi fatti nella carriera intrapresa mostrati nell’ edizione di Parigi del 1788. Non solo riprodusse le dieci prima pubblicate in Italia in Siena, e poi in Venezia con opportune rettificazioni circa lo stile ; ma vi aggiunse le ultime nove inedite già nominate ricche di nuovi pregi. Scorgesi in tutte miglioramento nello stile, versificazione più scorrevole, lingua tersa ed eleganza meno cruschevole, monologhi meno frequenti, numero di personaggi accresciuto senza bisogno di confidenti. Se ne veggano alcune particolarità in ciascuna di esse.

Maria Stuarda. Non vi si osservano durezze,trasposizioni stentate e fiorentinità rincrescevoli : l’economia più saggia manifesta l’esperienza dell’ autore rischiarata sempre più a penetrar ne’cuori ; non rallentano l’azione episodii oziosi ; i caratteri hanno un colorito conveniente. Tutto però vi operano Ormondo e Botuello intriganti e scellerati, e nulla quasi i personaggi principali. Arrigo principe inetto che non sa distinguere nè la verità in bocca della regina nè la mensogna negli altri, varia sentenza ad ogni spinta, e muore senza tirare a se l’interesse della favola. Maria poco attiva ancora diventa scherno delle insidie di Botuello, e riscuote qualche pietà senza partorire il giusto effetto tragico. Il ministro protestante Lamorre ha i distintivi de’ falsi divoti che insinuano guerre stragi atrocità predicando pace e tolleranza, e nell’ atto V comparisce profeta veridico degli eventi di Maria. Se pronunciasse enfaticamente presagii generali per atterrir la regina e per lavorar in prò della sua setta, ciò a lui converrebbe, nè presenterebbe idea veruna d’inverisimiglianza. Ma essi adombrando con circostanze individuali i futuri casi di Maria, come ciò può avvenire senza superna ispirazione che non si presume in Lamorre ? Anche in questa tragedia incresce il veder impunito il regicida e gli altri fraudolenti ministri(a). Quindi è che lo stesso sagacissimo autore pronunziò su questa tragedia che i personaggi principali sono deboli e nulli, e che per ciò la reputa la più cattiva di quante ne ha fatte o fosse per farne, e la sola forse che egli vorrebbe non aver fatta.

La Congiura de’ Pazzi. Ha l’elocuzione più aperta elegante energica e i personaggi cresciuti al numero di sei la preservano dalla necessità de’ monologhi frequenti. La veemenza del carattere di Raimondo diffonde per l’azione tutta estremo vigore. Bianca dolce tenera buona madre contrasta ottimamente colle violenti intraprese del marito, il quale ama lei, ama i figli, ma congiura contro i fratelli di lei che tiranneggiano la patria. L’avversione di Roma traluce, nè foscamente nella scena quarta dell’ atto IV da i detti di Lorenzo. Nel V atto si trasporta felicemente la finale azione alla presenza dello spettatore. Ottima è la scena di Bianca insospettita e di Raimondo impaziente di trovarsi al tempio ed agitato per la tenerezza che ha per lei e pei figli. La sua venuta col pugnale insanguinato alla mano, essendo egli stesso mortalmente ferito, cagiona in Bianca timore pe’ fratelli, e dolore pel marito. Questa tragedia di personaggi troppo moderni di picciolo stato mal regge al confronto di altre ove intervengono Greci, o Romani, o Barbari antichi grandi nella pubblica opinione, i quali opprimano o difendano la libertà. L’autore non pertanto ha cercato di elevarne al possibile l’azione ; e Raimondo diventa personaggio grande ed importante. Ma può egli tenersi pel Bruto della Toscana quale pretese dipignerlo l’autore ? Ed a qual Bruto vuol che si rassomigli ? A Giunio, o a Marco ? Qual sacrificio fa Raimondo per la libertà ? Giunio condanna i figli per questa ; Marco antepone la patria al padre stesso. Raimondo al contrario maltratta il proprio padre suo compagno nella congiura unicamente per la di lui prudenza, e gli dice in tuono famigliare

Ogni tuo giorno
Tu vivi a caso, e tu non opri a caso ?

Questa immoralità non l’incamina al certo all’ eroismo de’ Bruti. All’ eroismo si ascende col sorpassare la bontà e la giustizia, non coll’ offenderla. E qual Bruto è costui che vorrebbe obbliare di esser uomo ? Dice :

Deh potess’io così, come rammento
Di padre il nome, oggi obbliar quel d’uomo.

Infierire, abbrutire, intigrire, rinunziare in somma all’umanità, sono passi verso l’eroismo ?

Non saprei dir poi quale oggetto si prefisse l’autore in questa tragedia. Raimondo offeso per essergli stato tolto l’impiego di gonfaloniere, par che aspiri a una vendetta più che a liberar la patria. Non dissento dal dir dell’erudito professor Carmignani, che il consiglio di Raimondo, Salviati e Guglielmo nel finir dell’ atto IV sembri un consesso di tigri,

Freddo valor feroce,
Man pronta e ferma, imperturbabil volto,
Tale esser vuolsi a trucidar tiranni.

Bene espresso in tal sentimento è il carattere de’ congiurati ; ma può commuovere come si cerca nella tragedia ? Quando ancora la congiura riuscisse, altro non porterebbe sul teatro che un evento comunale. Nè l’interesse può essere pe’ tiranni renduti odiosi, nè pe’ congiurati che non aspirano che al sangue ed alla vendetta. Ed in fatti l’autore ha ben voluto denigrar la famiglia de’ Medici anche contro della storia, ma non ha stimato alterar questa in favore della libertà per conseguire l’effetto tragico ; ed i congiurati soggiacciono, e Lorenzo trionfa.

L’autore nel dar perere su di questa favola ravvisa per attivi solo il terzo ed il quinto atto, ed osserva certa inazione ne’ due primi, e nel quarto. L’amor dell’arte lo rende rigido censore di se stesso, e meritevole anche per ciò di somma lode.

Don Garzia. Presenta i medesimi pregi delle ultime tragedie dell’Alfieri ; stil nobile, lumi filosoficí senza l’affettazione, ed il portamento di massime ed aforismi, affetti energici, elocuzione senza durezze, e senza ornamenti superflui, azione che rapida core alfine senza riposi oziosi.

In Cosimo si delinea al vivo un tiranno dedito al sangue : in Diego un giovane principe dabbene e sincero : in Eleonora, personaggio subalterno e poco tragico, una madre affettuosa parziale per Garzia : in questo figlio si ritrae un principe candido alieno dagl’infingimenti : in Pietro un pessimo cupo ambizioso malvagio calunniatore dissimulato privo di ogni virtù e di ogni affetto di fratello e di figlio. Questo personaggio ritratto di una scelleratezza senza pari è il solo fabbro dell’infelicità e dell’atroce delitto di Garzia per la perfidia di lui uccisore dell’innocente Diego ; ed è il solo che rimane nella tragedia impunito, la quale può anche chiamarsi il trionfo della malvagità.

Ed in vero un’azione indegna, aliena assai da’ sentimenti di Garzia enunciato per buono, mi sembra quel liberare da un imminente mortal pericolo (fosse anche sicuro) l’amata Giulia, per mezzo di un assassinamento del padre di lei a tradimento. Nò, non mai parrà atta a svegliar pietà una scelleraggine, in cui l’ottimo precipita ad un tratto nel più vile abominevole esecrando misfatto. Nel leggerla preso non fui da quel tragico terrore che cercasi eccitare nella tragedia ; ma si bene da orrore, da raccapriccio, da rincrescimento ed indignazione. E come poteva lusingarsi Alfieri che il suo Garzia riscossa avrebbe meritamente compassione, quando si finge determinato a trafiggere deliberatamente il padre innocente della sua Giulia ? Egli è punito in fine e cade vittima del proprio padre, non già per l’esecrabil delitto che commette, ma per un altro, cioè per aver trafitto per equivoco fralle tenebre il proprio fratello. Egli non riscuote dal pubblico altra pietà che quella che si dà ai malvagi che spirano sul patibolo. E che avviene di Pietro l’unico fabbro d’ogni scelleratezza ? Rimane presso del padre sicuro, impunito e principe.

Saule. Non esitiamo a contar tralle buone tragedie Alfieriane il Saule. Micol tenera figlia e sposa, David giusto e prode, Gionata ottimo amico di lui, lo zelante Achimelech che fa contrasto con Abner invido nemico di David, e sopra tutti Saule agitato da’ rimorsi dall’invidia e dalle proprie furie, tengono viva e sveglia l’attenzione del pubblico. Accompagnano la scelta di tali caratteri a produrre simile effetto la semplicità dell’azione, la giudiziosa traccia della favola, il ben colorito disviluppo, lo stil maschio sobriamente ornato.

Tutte le parlate di David pajonmi eccellenti, e producono grande effetto in Saule, per cui tace in lui l’intera invidia e ne rimangono sospese le penose smanie. La quarta scena dell’atto I dell’incontro di David e Michol è tralle più appassionate. Bella è la terza del II, in cui dopo le insidiose insinuazioni di Abner a Saule contro di David, questi inopinatamente presentandosi manifesta candidezza e grandezza d’animo. Nella terza del III si esprimono acconciamente le notturne agitazioni di Michol nell’assenza di David. Nella quarta i canti di David ora enfatici ora soavi con diversità corrispondente di metri per calmar le furie di Saule, dilettano nella lettura e più diletteranno ben rappresentate. Contrastano nella quarta scena del IV l’energiche profezie di Achimelech coll’ empietà pronunziate da Saule contro de’sacerdoti. Ottima è la patetica divisione di David da Micol nella prima del V ; nè men pregevole è l’appassíonato monologo di Micol nella seguente. L’aumento delle furie di Saule, la sconfitta degl’Israeliti enunciata da Abner colla morte de’figli di Saule, producono il funesto trasporto di lui, pel quale infierisce contro se stesso :

Ecco già gli urli
Dell’insolente vincitor, sul ciglio
Già lor fiaccole ardenti balenarmi
Veggo, e le spade a mille… Empia Filiste,
Me troverai, ma almen da me quì...morto.

Agide dedicata con lettera curiosa a Carlo I d’Inghilterra nel 1786 ha pregi secondo me degni del genere. Robusto appassionato sublime a me ne sembra lo stile. Il piano mirabilmente semplice compete alle circostanze di un eroico re Spartano qual è Agide. I caratteri delle due virtuose donne Agesistrata madre e Agiziade moglie di Agide hanno distintivi eroici proprii della loro nazione. Ansare nemico di Agide subalterno dell’ ingrato vendicativo re Leonida, vela col manto del pubblico spartano l’odio privato e lo studio di affrettar l’estrema ruína di Agide per timor di perdere le ricchezze col rimettersi le leggi di Licurgo.

Si è asserito che questa tragedia manchi d’interesse e di moto. Io trovo in essa una serie di scene interessanti, cioè che tengono sveglia l’attenzione di chi ascolta, e non permettono che l’azione si rallenti ; trovo altresì che vi regna un patetico che lacera i cuori con posizioni compassionevoli insieme e degne dell’eroismo spartano. Ciò parmi che non lasci desiderare in essa nè moto maggiore nè maggiore interesse. Ecco dove io trovo la serie accennata ed il patetico che vi scorgo. In prima l’osservo nella seconda scena dell’ atto II, in cui Agide esorta la moglie a soffrir la di lui morte, ed allevar da Spartani i figli :

Non assetato di vendetta io moro,
Ma di virtù spartana ancorchè tarda.
Purch’ella un dì ne’figli miei rinasca,
Ne sarà paga l’ombra mia.

Agiz.

Mi squarci
Il cor… oimè !… Perchè di morte ?..

Ag.

Oh donna,

Spartana sei, d’Agide moglie ; il pianto

Raffrena. Il sangue mio giovar può a Sparta,
Non il mio pianto a te.

Il la seconda scena nell’ atto III, in cui segue l’abboccamento di Agide con Leonida. L’eroica sua franchezza che tutti palesa i proprii nobili sensi patriotici e le insidiose mire del suo collega nel regno, disviluppano a meraviglia l’eroismo spartano che lo riempie. In seggio, egli dice,

Riponi or tu, non le mie, no, ma l’alte,
Libere, maschie, sacrosante leggi
Del gran Licurgo : povertà sbandisci
In un coll’oro, ella dell’oro è figlia.
Del tuo ti spoglia : i cittadin pareggia :
Te fa Spartano, e in un Spartani crea.
Ciò far voll’io, tu’l compi, e a me ne involi
La gloria eterna.

III nel IV la scena terza del giudizio di Agide. Egli distrugge le altrui imputazioni con evidenze, tutta discopre l’anima sua spartana, e colla sicurezza di morire torna al suo carcere. E non interessa un quadro che presenta il contrasto dell’ antica virtù spartana conservata in Agide a fronte della morte colla corruzione tornata colle ricchezze sostenuta dall’ingrato Leonida ? IV nell’atto V la prima che è un monologo di Agide, in cui si vede a un tempo la fermezza dell’eroe e la sensibilità di figlio di marito e di padre. Onde meglio sostener l’interesse che in sì patetico contrapposto ? V la quarta di Agide con Agiziade, in cui si disviluppano i suoi teneri sentimenti che non iscemano l’amor dominante della patria. Qual separazione più interessante della seguente ?

Agiziade

Parlar non posso… Io di lasciarti...

Agide

Un fido
Consiglio avrai nella mia degna madre,
S’ella pur resta ! Or via, lasciami, vanne.
Moglie, regina, madre, cittadina,
Spartana sei : tuoi dover tutti adempi.

Agiziade

Per sempre ? oh ciel !...

Agide

Deh cessa…

Agiziade

Il piè tremante
Mal mi regge.

Agide

Deh vieni, uscita appena
Troverai scorta e appoggio.

Agiziade

Oimè ! si schiude
La ferrea porta…

Agide

Guardie, a voi la figlia
Del vostro re consegno.

Agiziade

Agide… ah crudi !
Lasciar nol voglio… Agide.. addio………

VI la quinta scena, in cui all’additata tenera divisione della moglie succede la venuta dell’eroica Agesistrata. Ella gli reca in dono un ferro onde liberarsi dal poter del tiranno. Agide ne gioisce.

Agide

Oh gioja...or dammi.....

Agesistrata

Scegli.
Due ferri son, quel che tu lasci è il mio.

Agide

Oh cielo !…E vuoi…

Agestrata

In te (pur tropo !)
Sparta or si estingue… Ed alla patria, al figlio
Sopravviver vorrà Spartana madre ?
Figlio, abbracciami.

Agide

Oh madre, anco m’avanzi
Nell’altezza de’ sensi… Or dammi e prendi
L’ultimo amplesso.

La conchiusione del tutto corrisponde a sì belle parti degne della tragedia. Leonida ed Ansare vengono per far uccídere Agide. I soldati ad onta del comando di Leonida rimangono immobili. Agide gli dice che egli stesso lo trarrà d’impaccio ; raccomanda a lui la figlia e si ferisce. Ansare si meraviglia che avesse un ferro. Agesistrata ripiglia, due ne recai, e si uccide.

Leonida

Di meraviglia e di terror son pieno !
Che dirà Sparta ?

Ansare

I corpi lor si denno
Alla plebe sottrarre…

Leonida

Ah mai sottrarli
Mai non potrem dagli occhi nostri… Oh Dio !

E non interesserà l’Agide ? E non si conterà tralle ottime dell’ Alfieri ?

Sofonisba. Ci dice l’autore che Sofonisba è una delle cinque ultime tragedie da lui concepite e verseggiate due o tre anni dopo le altre quattordeci, e che la lor dicitura li pare più maestosamente semplice(a) Non può negarsi però all’Alfieri il vanto di tragico egregio al veder trattato con superiorità quest’argomento da molti abili Francesi maneggiato con poca fortuna. Ha questa tragedia quattro soli personaggi, come le prime che fece imprimere ; ed è per questa solita inopia che vi abbondano i monologhi, e vi si vede alcuna inverisimiglianza, come quella di cui parla il Carmignani, di vedersi una Sofonisba sola aggirarsi come una donnicciuola pel campo Romano di tenda in tenda. Per altro il carattere di questa regina trionfa per la sua grandezza nobilmente delineata. Siface non è men generoso per amore di quello che si dimostra la consorte per fuggir la propria vergogna. Masinissa ama fervidamente, nè scarseggia di grandezza, benchè trascorra a qualche proposito men misurato. Forse questi due principi Affricani cadono in tal rabbia amorosa, che non a torto vien ripresa dal sagace critico Pietro Schedoni. Ciò però non parmi che pregiudichi all’effetto della tragedia, dovendo trionfarvi senza rivali il carattere di Sofonisba. Scipione grande per se stesso, nella tragedia non ispiega se non l’amicizia che ha per Masinissa per salvarlo, scusarlo, compatirlo, e diviene il personaggio meno importante. Ben sel vide il valoroso autore, e candidamente affermò che egli raffredda l’azione ogni volta che se ne impaccia.

Bruto primo è dedicata al generale americano Washington. V’intervengono sei personaggi, oltre del Popolo Romano che anche parla. Dopo il Giunio Bruto del Conti, e quello del Voltaire, l’Alfieri ha maneggiato quest’argomento senza amori, e con nuova energia e nuovo interesse. Lo spettatore vede nascere sotto i suoi occhi la potestà consolare in Roma, e prendere il Romano eroismo un meraviglioso incremento scosso il giogo de’ Tarquinii.

Ma si dice da un dottissimo mio amico critico esimio, esservi duplicità di azione in tal tragedia ; l’una è il mezzo che i consoli impiegano per l’espulsione de’Tarquinii, l’altra l’effetto che produce in Bruto la congiura de’suoi figli. Io oso questa volta disconvenire dal suo avviso. Il corpo di Lucrezia spinge Roma a cacciare i Tarquinii, ed a fissar Bruto per console ; ma i figli si attengono a favor del tiranno, ed il console gli punisce. L’oggetto è un solo, lo stabilimento della potestà consolare che disviluppa in conseguenza l’eroismo di Bruto. Convengo col critico sagace che la serie istorica dalla morte di Lucrezia a quella de’figli di Bruto esige il periodo di un anno. Ma non è permesso al poeta teatrale di abbreviar qualche circostanza del fatto senza essere obbligato a contarne i giorni, per produrre l’effetto drammatico ? Se poi quest’effetto si ottenga o no, non può comprovarsi se non coll’interesse che vi prende il leggitore o lo spettatore nella rappresentazione. E niuno avventurerà che non produca il suo effetto, vale a dire che non interessi la parlata di Bruto nell’atto I, e la vista del corpo di Lucrezia trafitta che tutta infiamma l’indignazione del Popolo, e l’espulsione de’Tarquinii, e la nomina de’ Consoli è stabilita. Ma intanto si scopre la congiura de’figli di Bruto, e l’esame a cui essi soggiacciono nell’atto IV, disviluppa egregiamente il carattere di Bruto che obblia di esser padre, e rammenta solo di esser figlio di Roma. Il pentimento de’figli più inconsiderati che colpevoli di tradimento lacera il cuore di sì gran padre sensibile al pari di ogni altro ove non si tratti della patria. Oh figli, ei dice,

Deh per or basti. Il vostro egregio e vero
Pentimento sublime a brani a brani
Lo cuor mi squarcia…
A far rinascer Roma
L’ultimo sangue or necessario è il mio.
Punch’ei liberi Roma, a voi nè un solo
Giorno, o miei figli, io sopravviver giuro.
Ch’io per l’ultima volta al sen vi stringa,
Amati figli… ancora il posso…
Il pianto
Dir più omai non mi lascia…
Addio, miei figli.

Possibile che ciò non interessi ? Tutto l’atto V che consiste in due non brevi scene, contiene l’esposizione della congiura al Popolo, e la venuta de’rei alla sua presenza. Nel disvilupparsi il delitto di Tito e Tiberio il Popolo cade quasi ad eccettuargli dalla punizione degli altri. Ma Bruto con eminente costanza aringa mostrando l’ingiustizia che si commetterebbe salvando solo i suoi figli ; e i suoi sentimenti sono degni del primo de’Romani liberi. Conchiude :

È necessario un memorando esempio
Crudel ma giusto. Ite, o littori, e avvinti
Sieno i rei tutti alle colonne, e cada
La mannaja sovr’essi…
L’orrido stato
Mirate or voi del padre… Ma già in alto
Stan le taglienti scuri… oh ciel ?
Partirmi
Già sento il cor… Farmi del manto è forza
Agli occhi un velo…
Eterna
Libera sorge or da quel sangue Roma.

Collatino

Oh sovraumana forza !

Valerio

Il padre, il dio
Di Roma è Bruto.

Popolo

È il dio di Roma…

Bruto

Io sono
L’uom più infelice che sia nato mai.

Mirra dedicata alla contessa Luisa Stolberg d’Albania con un sonetto. Questo argomento non era da scegliersi mai, perchè mai non cadrà in pensiero in una società culta di esporsi in teatro un ardore sì criminoso. La possibilità stessa di pensarvi produrrebbe un esempio pericoloso da non vedersi senza rossore ed abominio. Contuttociò Alfieri ha spiegata tutta la sua sagacità e destrezza per trattarlo a suo modo colla possibile decenza. Egli ha mostrata sempre Mirra senza che parli del suo detestabile amore. Egli ha preteso di vincere la difficoltà col fuggirla. Macchiata Mirra dell’amore più detestabile che trovisi dall’antichità favoleggiato, ella si rende degna di tutta la compassione, perchè cerca di occultar la fiamma rea, e di superarla. Il più rigido filosofo non prescriverebbe rimedii più attivi di quelli che a se Mirra stessa impone per seppellire nel fondo più cupo del cuore la sua passione fatale, e per trionfare. A costo di morir languendo ella tace, ella sceglie uno sposo amabile che l’adora, ella impetra di abbandonare i suoi, come celebrate siensi le nozze. Ma onde proviene che si opponga a ciò che propone, ed era vicino ad effettuarsi, e che cagioni così la morte di Pereo, ed incorra nello sdegno di Ciniro suo padre ? È vinta, secondo il piano dell’Alfieri, e soverchiata dagl’interni tumulti, da quel nefando incendio che la divora, per esser pervenuto al punto in cui le passioni più non possono superarsi. Chi sa ? Se nel suo piano entrata fosse l’irresistibile violenza del fato, il possente motivo della mitologia antica, forse sarebbe prevalso sopra gli espedienti pensati da Mirra, ed il suo stato ne sarebbe divenuto sempre più compassionevole. Questa forza fatale mise in opera l’immortale Racine nella Fedra, e questa avrebbe assai più giovato nella Mirra. Non vo’entrare ad investigare se i talenti drammatici, e lo stile dell’Alfieri avrebbero potuto ottenere l’effetto conseguito dal Racine. Dico solo che ciò avrebbe scusato in parte il criminoso ardore di Mirra, e tirata a se vie più la compassione tragica. Qual pietà non avrebbe eccitata una fiamma che più non era in sua balia di vincere per la superna forza che la preme ? Se ella allora con impeto da forsennata gettata si fosse avanti del padre, confessato avesse l’iniquo suo ardore, e punito in se stessa l’eccesso decretato dal fato, chi non l’avrebbe compianta ? Alfieri non si è servito di questa molla. Appigliandosi alle vie più umane dipinge Mirra che manca di forza per eseguire la sua partenza. Ciniro la chiama alla sua presenza ; ella viene colla più tormentosa ripugnanza ; obbligata a parlare persiste a tacere ; a Ciniro par di vedere che ella ama, ed ella lo confessa col più angoscioso stento. Dubita Ciniro che sia oscura ignobile la sua fiamma, ed ella nega,

Ah non è vile.. è iniqua
La fiamma mia, nè mai…

Ciniro

Che parli ? iniqua !
Ove primiero il genitor tuo stesso
Non la condanna, ella non fia ; la svela.

Mirra

Raccapricciar d’orror vedresti il padre,
Se la sapesse… Cirino…

Ciniro

Che ascolto !

Mirra

Che dico ? ahi lassa ! non so quel ch’io dica…
Non provo amor… Non creder no… Deh lascia,
Te ne scongiuro per l’ultima volta,
Lasciami il piè ritrarre.

Ciniro al fin le dice che i suoi modi le hanno tolto l’amor del padre.

Mirra

Oh dura
Fera, orribil minaccia !…
alle tante altre
Furie mie l’odio crudo aggiugnerassi
Del genitor ?… Da te morire io lungi ?
Oh madre mia felice ! almen concesso
A lei sarà… di morire… al tuo fianco.

Ciniro

Che vuoi tu dirmi ?… Oh qual terribil lampo
Da questi accenti !… Empia tu forse…

Mirra

Oh cielo !
Che dissi mai ? Me misera ! Ove sono ?
Ove mi ascondo ? Ove morir ? Ma il brando
Tuo mi varrà.

Si trafigge colla spada del padre. Ciniro resta abbattuto dall’ orrore, dall’ira, dalla pietà. Arriva Cecri, ode che Mirra giace svenata di propria mano, e che ardeva per Ciniro suo padre, il quale le dice, andiamo

A morir d’onta e di dolore altrove.

Partono. Mirra spirando dice,

Quando io tel chiesi…
Darmi… allora Euclea, dovevi il ferro…
Io moriva innocente…empia…ora muojo.

Bruto secondo. Indirizzata è questa tragedia bizzarramente al Popolo Italiano futuro. Confabulano in essa, oltre del Popolo, sei personaggi : Bruto, Cesare, Antonio, Cicerone, Cassio, Cimbro. Grandeggia Alfieri dove tratta di libertà. I personaggi introdotti erano i Romani più grandi del tempo di Cesare, ed Alfieri gli segnala co i distintivi del carattere di ciascuno tramandatoci dalla storia. Cesare è grande ed ambizioso, nè offusca col suo splendore il carattere dell’ intrepido Marco Bruto, come si osserva nel Marco Bruto tragedia per altro pur pregevole di Antonio Conti. Alfieri pone in azione lo stesso contrasto adoperato dal Voltaire di Bruto libero cittadino Romano con Bruto figliuolo di Cesare. Ma nella grandezza de’ pensieri i due autori competono senza svantaggio. Qual cosa v’ha di più grande della seconda scena dell’ atto III tra Cesare e Bruto ? Il parlar di Bruto da vero Romano astringe Cesare a dire :

Io vorrei solo al mondo
Esser Bruto, s’io Cesare non fossi.

Bruto

Ambo esser puoi, molto aggiungendo a Bruto,
Nulla togliendo a Cesare, ten vengo
A far l’invito io stesso. In te stà solo
L’esser grande davvero ; oltre ogni sommo
Prisco Romano, esser tu il puoi fia il mezzo
Semplice molto : osa adoprarlo : io primo
Te ne scongiuro……
Ardisci, ardisci, il laccio infame scuoti,
Che ti fa nullo a’tuoi stessi occhi, e avvinto
Ti tiene schiavo, più che altrui non tieni.
A esser Cesare impara oggi da Bruto.

Tutti i tratti del suo discorso mi sembrano degni della gravità del coturno. Cesare in seguito gli svela l’arcano di esser egli suo figlio ; e la scena prende nuovo vigore per la natural tenerezza che in entrambi traluce, nulla togliendo al carattere ed al proposito di ciascuno. Oh colpo inaspettato e fero ! grida Bruto scorso il biglietto di Servilia.

Io di Cesare figlio ?

Cesare

Ah sì tu il sei.
Oh Padre ! oh Roma ! oh natura ! oh dovere,
esclama Bruto, indi ripiglia ;
La vita
Dammi due volte : io schiavo, esser nol posso.
Tiranno, esser nol voglio. O Bruto e figlio
Di libero uom, libero anch’ egli in Roma
Libera, o Bruto esser non vuole.
Io sono
Presto a versar tutto per Roma il sangue,
E in un per te, dove un Roman tu sei,
Vero di Bruto padre… Oh gioja !
Io veggio
Sul tuo ciglio spuntare un nobil pianto.
Rotto è del cor l’ambizioso smalto, Padre tu sei.

Ma Cesare dice :

Troppo il servir di Roma è ormai maturo.
E Bruto esclama :
Oh parole !
Oh di corrotto animo servo infami
Sensi ! A me, no, non fosti, nè sei padre………….
Figlio, gli dice ancora Cesare, e Bruto :
Cedi, o Cesare !…

Cesare

Ingrato, snaturato !..
Che far vuoi dunque ?

Bruto

O salvar Roma io voglio
O perir di tua mano.

Si separano fermi l’uno di secondare la propria ambizione, l’altro di rendere a Roma la libertà. Bruto nell’ atto V prende la parola nel Senato, e dice che Cesare è venuto per mostrare che sa trionfar di se stesso, e per far certo il Senato che saranno ristabilite le leggi. Cesare col dar ordini in tuono di signore disapprova i detti di Bruto, e risolve l’impresa de’ Parti. Allora Bruto dà il segno, e i congiurati si avventano a Cesare e l’uccidono. Incresce in tal rappresentazione che, mentre gli altri percuotono il dittatore, Bruto o per esser più da lui lontano o perchè si trattiene per esser suo figlio, dica

E che io sol ferir nol possa !

Queste parole non sono di un eroe Romano, ma di un uomo avido di sangue e bramoso di ferir con gli altri suo padre.

Compiesi la tragedia coll’ aringa di Bruto al Popolo, il quale da prima s’irrita alla vista di Cesare trafitto, indi ascolta Bruto con attenzione, e finalmente detesta il tiranno e corre a difendere la propria libertà. Voltaire ed Alfieri hanno felicemente adoprato l’istesso ordigno della scoperta di Bruto figlio di Cesare. Non investigherò, come taluno ha fatto, se il Bruto secondo di Alfieri possa far dimenticare la Morte di Cesare di Voltaire. Ma un intelligente dell’ arte drammatica sdegnerebbe di essere autore o dell’ una o dell’ arte drammatica sdegnerebbe di essere autore o dell’ una o dell’altra produzione, se non dipendesse che dalla scelta ? Terminano esse differentemente per l’oggetto che entrambi gli autori si prefissero. Volendo Voltaire mettere alla vista la Morte di Cesare passò a far comparire Antonio che col presentare il corpo di Cesare trafitto e mostrarne la gloria e la beneficenza, svolge il popolo, l’infiamma e lo spinge a perseguitare gli uccisori. Alfieri si arrestò alla parlata di Bruto che persuade il Popolo a considerarlo come un tiranno uceiso, perchè gli bastò di rilevare l’eroismo di Bruto che fa rinascere la libertà.

Quanto a tutte le tragedie di Vittorio Alfieri, malgrado delle critiche o sagge o scempie che hanno inondata l’Italia, possono ben contarsi, a mio avviso, tralle migliori del secolo XVIII. Che se alcun giovane volesse intendere la differenza che in esse a me par di vedere, dirò che reputo eccellenti coll’ ordine seguente : Bruto primo, Bruto secondo, Merope, Oreste, Timoleone, Agide ; buone con qualche neo : Saule, Agamennone, Mirra, Antigone, Polinice, Virginia, Sofonisba, Filippo ; a queste inferiori : la Congiura de’Pazzi, Ottavia, Don Garzia ; tollerabili appena in grazia di qualche bellezza e del meritato credito dell’ autore Maria Stuarda e Rosmunda.

Sia che il genio degl’ Italiani più volentieri inclini a rilevare dietro le tracce di Euripide e di Racine il patetico proprio della tragedia, che certo sublime sistema politico proprio dell’ insigne Vittorio Alfieri, o sia che l’indole della nostra lingua rifugga da varie novità ch’egli pretese introdurre ; quest’ingegno grande non ha finora avuto chi volesse ovver potesse seguirlo nell’ ardua carriera, ed a guisa di un gran colosso, come disse un mio amico letterato di conto, si rimane tutto solo esposto all’ altrui ammirazione. Non credo che altri siesi avvisato di tenergli dietro, ad eccezion del signor Foscolo che occupa oggi un posto non comune fra gli uomini di lettere, scrittore tralle altre cose delle Lettere di Ortiz. Egli nella prima gioventù amico dell’ Alfieri, non oltrepassando allora l’anno diciassettesimo compose un Tieste, nel quale va ben vicino all’ amico nella sublimità de’ sentimenti, e merita plauso per la regolarità del componimento, ma rimase a lui inferiore nell’ imitarne lo stile non poche volte inarmonico.

Gl’Italiani a me noti nel cominciare il secolo XIX, ammirano i pregi dell’ Alfieri, e vanno dietro al sublime senza violentar la lingua. Io non so se io l’abbia conseguito nelle traduzioni di alcune tragedie greche e francesi, impresse in Milano ; almeno l’ho tentato. Certo è però che Ippolito Pindemonte ha corso miglior sentiero nell’ Arminio. Conosco un Germanico manoscritto che dimostra parimenti che può ottenersi il sublime senza stranezze di lingua. Nella Lombardia fiorisce attualmente il Segretario della Società di Scienze, Lettere ed Arti di Brescia, il signor Luigi Scevola da più anni Vice-Pibliotecario della R. Biblioteca di Bologna. Abbiamo di lui sinora impresse Socrate ed Annibale.

Dopo varii tentativi fatti in Europa per mostrar degnamente sulle scene il personaggio di Socrate, ed esente da ogni taccia o di satira immoderatamente amara, o di certo misto di comico e compassionevole, o di mollezza musica e lirica congiunta al terribile spettacolo della virtù da’ rei mortali condannata a morte ; il prelodato Scevola per suo primo tragico saggio produsse il suo Socrate in Milano sul teatro già detto Patriotico ed ultimamente Filarmonico, che s’impresse nel 1804. Posso attestare come testimone oculare che al rappresentarsi il destino del saggio dell’ antichità che fralle tenebre del gentilesmo seppe rintracciar l’esistenza di un solo Dio, confessarlo e morirne, preferendo tal verità agli onori, agli amici, ai figli, alla patria, alla vita, vidi commosso l’uditorio. Ciascun atto di questa tragedia rileva un trionfo della virtù di Socrate, ed un passo che lo conduce gloriosamente alla morte. Nell’ atto I egli si oppone agli amici e discepoli, che vogliono per lui domandare l’onore del Pritaneo. Resiste nel secondo alle amorevoli avvertenze dell’ arconte Policrate, che gl’ insinua di opporsi alla domanda de’ suoi amici, per iscansar le conseguenze dell’ accusa di miscredenza promossa contro di lui da Melito ; ma Socrate all’ opposto segna egli stesso il foglio della domanda. Si oppone nel terzo atto ai discepoli per salvar la vita al traditore Melito suo nemico, ed a Policrate che gli palesa la richiesta onorevole del re Archelao atta a distruggere l’attentato de’ nemici. Affrettandosi l’ azione sempre più al suo fine, nel IV Policrate intento a salvarlo manifesta al Consiglio l’offerta che fa Archelao di soccorrere Atene colle sue forze per ottenere presso di se Socrate ; e Socrate prova al Consiglio esser perniciosa ad Atene la offerta. Policrate per allontanare il di lui periglio, propone di differirsi l’esame del proposto soccorso, ma vorrebbe intanto che ad Archelao si concedesse Socrate. A ciò egli francamente si oppone :

Libero io nacqui,
Vissi in Atene, e di servir al trono
Io l’ arte vil mai non appresi. Indarno
Spera Archelao d’ annoverar fra suoi
Schiavi comprati Socrate.

Policrate prende da ciò occasione di rammentare i pregi singolari di Socrate in pace ed in guerra. L’insidioso Anito inerisce, ma insiste che si distrugga la taccia appostagli da Melito, e vuole che Socrate manifesti l’esistenza de’ numi, e giuri ossequio a’sacerdoti. À ciò Socrate eroicamente esclama,

Non v’ è che un Dio…
Non v’ è che un Dio somma cagione eterna…
Ei non esteso
Abbraccia l’infinito, e l’infinito
Con lui nessun divide…
Non conosco che Dio, lui solo adoro.

Morte morte gridano allora i Giudici prezzolati da Anito, e Socrate è condotto al carcere. Compiesi il trionfo di Socrate nell’ atto V. Egli rimprovera i seguaci che tumultuano. Disarma il trasporto di Critone ; chiama il custode, bee il veleno ed è sciolto. Giugne Telaira colla lieta novella che il Popolo ha dichiarato Socrate innocente e degno di ammettersi nel Pritaneo, ed ha condannati a perpetuo esiglio l’acusatore ed i Giudici iniqui. Ma Socrate ha già tracannata la morte. Tutti esprimono il dolore. Socrate gli solleva esortandogli a soffrirlo con pazienza :

Il mio destino
Miglior divenne. Io come reo dovea
A morte soggiacer. Più giusta Atene
Me innocente or dichiara. Il voto mio
È compito così. Contento io moro.

Gli ultimi suoi respiri spendonsi nell’intendere che in Telaira celisi la sua figlia Fenarete, ed essere stato Anito trucidato dal popolo furioso. Auree sono le di lui parole estreme :

I miei precetti
Rammentate….
Dell’ innocenza mia sien l’opre vostre
E la vostra saviezza in ogni evento
Prova perenne..
Ma voi tutti piangete ? Ignoravate
Che accordando Natura a me la vita
A perderla pur anco equa e severa
Condannato m’avea ?…
Ci rivedremo…
Lo spirito è immortal. Voi lo credete,
E piangete così ?..
Sento che omai
Cede il vigor… manca il respiro… Ah reggi
Il padre tuo.

Telaira

Mio padre !

Socrate

Figlia…

Policrate

Atene
Chi perdi !…

Socrate

Vi lascio…
…Io sono
Fra la terra… e l’ Eliso….
… Sei tu mia figlia ?
Parlami.

Telaira

Ah padre !

Socrate

Ed è questa che stringo
La man ?..

Critone

Del tuo Criton. Son io..

Socrate

Critone,
Un sacrificio… al dio della salute.

Annibale in Bitiniaè l’ altra tragedia di Luigi Scevola impressa in Brescia nel 1805, e colà rappresentata. Notabile in questa è pure il carattere di Annibale pel magnanimo costante odio serbato a’ Romani. Nobile è pure marziale e candido il carattere di Nicomede figlio di Prusia re di Bitinia. Questo re debole, ma fermo nel voler serbare l’accordato asilo al duce Cartaginese, non discorda dalla storia. I Romani vi fanno vergognosa figura per la condotta del legato Flaminio col suo tribuno Albino. S’impossessano contro la fede della reggia chiudendovi Annibale per trionfarne in Roma ; ma egli col veleno che avea nella sua gemma fugge l’obbrobrio. La tragedia è regolare, son ben condotti i caratteri, la dizione convenevole al coturno. Uno de’ passi da notarsi è la parlata di Annibale nella scena quarta dell’atto IV, dove rammenta le antiche sue gesta contro i Romani, ed in fatti si esprime come egli dice, Io parlerò come combatto. Ma in fine gli dice Flaminio, che pretendi ? ed egli :

Perseguitarvi, nuocervi, atterrirvi.
… Aizzarvi contro
Tutti i re, tutti i popoli, nemici
Farvi i soggetti, gli alleati, e s’ anco
Possibil fosse, la natura e il cielo.
Fla. Folle pensier, di Roma al genio invitto
Chi può resister ?

Annibale

Io.

Egli avendo bevuto il veleno delude la speranza del fallace Flaminio, e predice che un giorno anche Roma soggiacerà alla schiavitù, ed entrando tra’suoi la discordia il Tebro correrà di civil sangue, e gli trarrà in campo ad immolarsi di loro mano all’ombra di Annibale. Mancando dice poscia :

Nicomede ?

Nicomede

Parla che brami ?

Annibale

Odia i Romani… io moro.

Ma gl’ingegni Italiani hanno ricevuto dalle nostre contrade un nuovo impulso per coltivare la poesia rappresentativa. Il Governo nel passato anno 1813 aprì un Certame Drammatico eccitandogli con premii ed onori proposti per la migliore tragedia, la migliore commedia, e per due migliori melodrammi eroico e giocoso. Dicesi che sono in Napoli venuti da più regioni Italiane oltre di trenta tragedie e varie non prive di merito. Alcune hanno riportato per vanto di farsene onorata menzione, un’altra si è fregiata di una seconda corona. La Saffo del prelodato abate Scevola ottenne la prima corona, trasparendo in essa il patetico di Euripide ed il garbo e la grazia di Racine, e le fervorose faville che brillavano sul plettro della Lesbia Poetessa(a). Se questo Concorso continuerà, nella calma dell’ Europa che si attende a momenti, non sarà difficile che la Drammatica prenda nuovo vigore dentro il recinto delle Alpi.

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