CAPO VIII.
Teatri materiali.
I Teatri di Barcellona e di Saragoza da me veduti nella fine del 1777 erano più regolari e più grandi di quelli che oggi esistono in Madrid; ma sventuratamente in diverso tempo entrambi soggiacquero ad un incendio che gli distrusse. Sussistono quelli di Cadice e di Lisbona, e sento anche che in questa capitale del Portogallo nel 1793 siesi costruito un nuovo teatro aperto alle rappresentazioni dopo lo sgravamento della principessa del Brasile seguito nel mese di maggio. La platea è di forma ellittica. N’è stato l’architetto il portoghese Giuseppe Costa, il quale, come affermano i nazionali, studiò più anni in Italia.
Madrid ha quattro teatri, cioè quello della corte nel Ritiro, l’altro de los Cañòs del Peràl, e i due nazionali detti Coràl del Principe, e Coràl de la Cruz.
Del real teatro mentovato nel precedente capitolo che prende il nome dal Ritiro, fu l’architetto Giacomo Bonavia; ma il bolognese Giacomo Bonavera in compagnia del Pavia lo ridusse nella forma presente, tanto per farvi maneggiare le mutazioni delle scene non di sopra del palco, ma di sotto di esso nel comodo e spazioso piano che vi soggiace, quanto per agevolare l’apparenza delle macchine che il Bonavera inventava. La sua forma è circolare alla foggia moderna con platea, e con palehi comodi e nobili, e quello del re sommamente magnifico fu arricchito di belle dipinture dall’Amiconi pittore veneziano assai caro a Ferdinando VI. Non è spazioso l’uditorio, perchè si destinò ad occuparsi esclusivamente da’ grandi, da ambasciadori, da’ ministri, e da’ dipendenti della corte, e da un numero moderato di galant’uomini invitati. Ma la scena, eccetto quella di Parma e di Napoli, è una delle più vaste dell’Europa. Essa ha di più il vantaggio singolare di valersi alle occorrenze del gran giardino che le stà a livello, e presta spazio conveniente alle vedute lontane, e alle apparenze di accampamenti, e simili decorazioni. Vi osservai tuttavia esistenti le macchine che servirono per la rappresentazione della Nitteti, cioè un gran sole, la nave che si sommergeva, un gran carro trionfale, alcuni lunghi tubi ottagoni all’esteriore, ed al di dentro lavorati a lumaca, che ripieni di petruzze col solo voltarsi, e rivoltarsi all’opposto imitavano lo strepito della grandine continuata a piacere.
Il teatro de los Caños del Peràl pur si costrusse alla foggia moderna con platea e palchetti, e si destinò per le opere buffe. Ma nel 1767 se ne cangiò la forma interiore dall’architetto spagnuolo don Ventura Rodriguez per uso de’ pubblici balli in maschera. Per acquistar luogo senza alzarne il tetto, o ingrandirlo in altra forma, l’architetto prese il partito di profondarne il pavimento, in guisa che per andare alla platea dovea scendersi. Ciò si disapprovò da i più, tra perchè si tolse a chi entrava la prima vaga e dilettevole occhiata di tutta la gran sala illuminata e abbellita dalle maschere, tra perchè il luogo ne divenne freddo, umido, e nocevole ai mascherati vestiti di seta leggera. Dopo di tale occasione che durò per due carnevali, l’edificio ripigliò l’antica forma, e tornò a dividersi in palco scenico ed uditorio per le rappresentazioni musicali.
Rimane a far parola de i due corales destinati alla commedia nazionale, la cui struttura si allontana dalla forma de’ nostri teatri. Coràl propriamente significa una corte rustica dietro di una casa, e talvolta comune a più casucce abitate da famiglie plebee non ricche, ed un simil luogo servì talora nella Spagna per le rappresentazioni sceniche, ancor quando non eranvi teatri fissi. Natural cosa era che le famiglie abitatrici di tali casettè avessero diritto di affacciarsi alle proprie finestre o logge o balconi, e godere dello spettacolo. Quando poi si costruirono edifizii chiusi addetti unicamente agli spettacoli scenici, essi presero la forma di quelle case e corti nella costruzione sì de’ palchi superiori, e della platea, e dello scenario inferiore che ne occupava una porzione, e ritennero il nome di corales. Madrid ne ha due che appartengono al corpo amministrativo che rappresenta la Villa che tra noi si diceva Città, e dalle due strade ove essi sono dette del Principe, e della Cruz, chiamaronsi Coràl del Principe, Coràl de La Cruz. Ignoro il tempo in cui edificaronsi; nè l’autore del Viaggio di Spagna cel seppe dire. Se ne trova per altro fatta menzione in una delle commedie di Francesco Roxas scrittore comico del XVII secolo da noi già mentovato. Si sa solo che quello della Cruz più difettoso dell’altro, e posto in una strada meno ampia, fu il primo a costruirsi. Entrambi sono un misto di antico edificio, e moderno per la scalinata anfiteatrale, e per gli palchetti che hanno. La figura di quello del Principe si scosta meno dall’ellittica; dell’altro è mistilinea, congiungendovisi ad un arco di cerchio due linee che pajono rette, perchè s’incurvano ben poco, onde avviene che da una buona parte de’ palchetti vi si gode poco comodamente la rappresentazione. La scena di entrambi è di una grandezza proporzionata agli spettacoli ai quali son destinati. L’apparato di essi sino al 1770 in circa consisteva in un proscenio accompagnato da due telai o quinte laterali, e da un prospetto con due portiere dette cortinas, dalle quali solamente entravano, ed uscivano gli attori con tutti gl’inconvenienti che nuocono al verisimile e guastano l’illusione. Per antico costume compariva in siffatta scena con cortinas un sonatore di chitarra per accompagnare le donne che cantavano, raddoppiandosene la sconvenevolezza, perchè tra’ personaggi caratterizzati giusta la favola, e vestiti p. e. da’ Turchi, Mori, o da selvaggi Americani, si vedeva dondolar quel sonatore abbigliato alla francese. Verso l’epoca indicata las cortinas cedettero il luogo a diverse vedute ben dipinte convenienti alle azioni rappresentate; ed alla chitarra sparita dalla scena succedette una competente orchestra di musici sonatori collocata, come in ogni altro teatro moderno, nel piano della platea. I più distinti e ricchi spettatori occupano dopo l’orchestra quattro file, ciascuna composta di diciotto comodi sedili, e questo luogo chiamasi luneta. Altri spettatori seggono in alcuni scaglioni posti in giro l’uno sopra l’altro a foggia di anfiteatro che chiamano la grada. Circonda la fascia superiore di tale scalinata un corridojo oscuro che anche si riempie di spettatori, ed a livello del primo scaglione inferiore havvi un altro corridojo, nel quale v’è gente in parte seduta in una fila di panche chiamata barandilla (ringhiera) ed in parte all’erta. Il rimanente del popolo assiste parimente senza sedere nel piano dopo la luneta, il quale si chiama patio, cortile. Le donne di ogni ceto separate dagli uomini coperte dalle loro mantillas seggono unite in un gran palco dirimpetto alla scena chiamato cazuela, che congiunge i due archi della grada. Entrambi i teatri hanno tre ordini di palchetti simili a quelli de’ teatri italiani per le dame, ed altra gente agiata; l’ultimo de’ quali men nobile è nel mezzo interrotto da un altro gran palco chiamato tertulia perpendicolare alla cazuela, dal quale gode dello spettacolo la gente più seria, e singolarmente gli ecclesiastici. Attaccati al proscenio havvi due spezie di palchi laterali a livello del corridore della barandilla, chiamati faltriqueras, cubillos, i quali, in vece di avere il punto di vista verso la scena, girano di tal modo, perchè non impediscano la vista ai corridojo, che guardano al punto opposto, cioè alla cazuela.
Il sig. abate Saverio Lampillas esgesuita catalano che ha dimorato in Genova sin dal tempo dell’espulsione, e che non mai avea veduto Madrid, volle dubitare della verità di questa descrizione, per natural costume di non credere che a se stesso ed a’ suoi corrispondenti che tante volte l’ingannarono con false notizie. Dal suo dubbio inurbano sin dal 1790, quando uscì il tomo sesto della Storia de’ Teatri in sei volumi, io appellai al testimonio di circa censettantamila abitatori di Madrid, e ad un milione almeno di altri Spagnuoli viventi che avranno veduti i due descritti teatri. Essi diranno se procedano con politezza gli apologisti nazionali con dubitare a siffatto modo dell’altrui veracità senza verun fondamentoa.
La capa parda ed il sombrero chambergo, cioè senza allacciarsi, ancor di cara memoria a’ Madrilenghi, un uditorio con tante spezie di nascondigli e di ritirate di certa oscurità visibile, per valermi dell’espressione di Milton, e l’abuso di mal intesa libertà, facilitava le insolenze di due partiti teatrali denominati Chorizos y Polacos, simili in certo modo a i Verdi e a’ Torchini dell’antico Teatro e del Circo di Costantinopoli. Los Chorizos erano i parteggiani del teatro della Croce; i Polacchi di quello del Principe. Ma di tali nomi rintracciar non potei la vera origine, tuttocchè ne richiedessi varii eruditi amici che frequentavano i teatri. Udii da alcuno che il nome di Polacchi venne da un intermezzo o da una tonada di personaggi polacchi rappresentata con applauso nel teatro del Principe; ma nulla di positivo avendone ricavato, non mi curai d’insistore più oltre iu simili bagattelle. La famosa Mariquita Ladvenant, morta verso l’anno 1766 degna di nominarsi tralle più sensibili e vivaci attrici rappresentava nel teatro della Croce, e los Chorizos suoi fautori furono da lei distinti con un nastro di color di solfo nel cappello, mentre i parteggiani opposti ne presero uno di color celeste. Qualche sconcerto nato tralle due fazioni, e l’animosità che ne risultava, determinò chi governava a troncar colla prudenza questa scenica rivalità, formando delle due compagnie un sol corpo, una sola cassa, un interesse solo. Rimase in fine di cotali partiti di Chorizos e Polaccos appena una fredda serena parzialità, che ad altro non serviva se non che a sostenere un momento di conversazione ne’ caffè senza veruna conseguenza.
A provare in ogni circostanza l’esattezza e l’innocenza del mio racconto, basti accennare quanto contro di esso si oppose da’ capricciosi apologisti e da’ villani declamatori. Rimettendoci al citato Discorso storico-critico riguardo al Lampillas, trattenghiamoci ora sul sig. Garcia de la Huerta, il quale contro questa mia breve evidente narrazione de i teatri di Madrid diresse una tremenda batteria fluttuante di undici pagine ed otto versi del suo formidabile Prologo, cui nulla manca che un morrion.
A penas hay
(egli intona per antifona)
clausula alguna de estas, en que no se halle error, ligereza,
equivocacion, o falta de instruccion del Signorelli.
Aggiugne che
anche i meno affezionati alle commedie saben (sanno) ciò
che ignora il Signorelli; e questo saben si ripete ben sei
volte. Io mi era accinto e preparati avea sessantasei no
saben verificati in lui ed in ogni sorta di Huertisti; ma la di lui
morte mi reca il vantaggio di risparmiar la spesa di farli imprimere.
Vediamo intanto ciò che importino i sei saben di codesto picciolo pedante.
I Saben
«che i partiti de’ Chorizos y
Polacos sussistono nel primo stato di vigore»
.
Ciò sarà come sussisteva Dulcinea nella testa del di lui
compatriotto Don-Quixote. Se in castigliano ed in italiano
questo primo saben significa che di questi partiti non si
sono ancora aboliti i nomi, io vorrei che mi si rinfacciasse, dove abbia io
detto il contrario. Avendo io scritto che di
essi rimane oggi
appena una fredda e serena parzialità
, non ne ho anzi espressa
implicitamente l’esistenza? È colpa mia s’egli ignorava la lingua italiana?
Ma simile pacata parzialità dimostra benissimo che il
primo stato di furore o vigore ch’egli diceva di sussistere, era cessato
colle provvidenze del Governo.
II Saben
«che il nome di Chorizos venne
da’ Chorizos che mangiava certo buffone in un tramezzo, e
quello di Polacos da un fatto che Huerta sa
ma che non vuol dire»
. Notizie
pellegrine,
Di poema degnissime e d’istoria!
Io volendo far la riferita descrizione, richiesi intorno all’inezia di tali
nomi gli eruditi amici Nicolàs de Moratin, Ignazio Ayala, Miguèl Higueras, Yriarte, Cadahalso, Robira, Morales ec., nè
costoro più ne sapevano di quel che io ne ho narrato. Io non poteva
informarmene da Garcia de la Huerta che dimorava nel
presidio di Oràn, altrimenti avrei arricchita la mia storia colla mangiata
de’ chorizos, e manifestata l’origine famosa’ de’ Polacos, dicendo che consisteva in certa
notizia che Huerta sapeva e che non voleva dire
. E qual risalto
non avrebbe ciò dato al mio racconto?
III Saben
«che è una crasitud affermare
che questi partiti si distinguono per la loro passione agli
edifizii materiali, come erroneamente suppone il
Signorelli»
. Mi dicano gli Huertisti, giacchè il loro archimandrita ha
cessato di spacciar fanfaluche, in
quallibro ciò
suppone o dice il Signorelli?
IV Saben
«che non vi sia stata mai altra insolenza di tali
partiti se non quella di darsi los apasionados alternativamente
alguna puñada»
. Se Garcia de la Huerta credeva
che colla parola insolenza io avessi preteso indicare
qualche conflitto sanguinoso, o una giornata campale simile a quella de’
Mori e degli Spagnuoli sotto il re Rodrigo che decise del dominio delle
Spagne, o le guerre plus-quam civilia e la battaglia di
Farsaglia, ebbe tutta la ragione di sostenere di non esservi state fra Chorizos y Polacos giammai insolenze, ma solo battaglie
senza armi e pugni scambievoli. In quali puerilità non
diede il sig. Vicente nel suo famoso prologo! Pareva a lui una bagattella decidere delle
rappresentazioni de’ due teatri a colpi di pugni? Era bagattella quel che
soggiugne senza avvertire alle conseguenze delle sue parole? Vediamolo
passando al
V Saben
«che la disposizione data di unire i prodotti de’
due teatri non
venne nè da’ nastri nè da’
disordini derivati da i due partiti»
. E qual ragione adduce di ciò? Questa;
che il regolamento di fare una cassa sola seguì due anni
dopo. Molto bene! egli ha tutta la ragione! la medicina dovea
precedere i mali. Non capi codesto pedante che senza le precedenti
insolenze, senza que’
pugni scambievoli
, non si sarebbe
ricorso a reprimerli
dopo due anni
con quell’espediente?
Nega in oltre che vi fossero stati sconcerti e contese (perchè contava per
nulla il venire alle mani); ed il più bello è che dell’unione delle casse
deliberata dal Governo mostra che fu la causa il rimediare alla
prepotenza alternativa
de’ due partiti che rendeva disuguale il
guadagno, e cagionava intrighi e maneggi nella formazione delle Compagnie
de’ commedianti. Chi crederebbe che ciò si allegasse a provare che tali
partiti non produssero contese e sconcerti? E gl’intrighi
e gli sconcerti ed i pugni scambievoli e
la prepotenza vicendevole che alimentava la discordia
in una capitale della monarchia ed influiva nella
formazione delle compagnie, si contava per nulla dal ragionatore Vicente de la Huerta? Confessa in oltre che allora si
unirono gl’interessi delle due compagnie, e si fece una cassa sola; ma
sostiene però che per questo non divennero esse un corpo
solo. Unico corpo secondo lui avrebbe potuto dirsi, se esse non
avessero rappresentato le commedie del rispettivo repertorio in due teatri.
Frattanto sopprime la notizia che il Governo intento a dissipare ogni motivo
di parzialità dispose che le due compagnie alternassero le proprie recite
così che i Chorizos in un anno recitavano nel teatro de los Polacos, e questi passavano a quello de los Chorizos, e nell’anno seguente mutavano luogo. Ora questa
provvidenza del Governo dimostra appunto ciò che Huerta
negava, cioè che ciascun partito avea una predilezione decisa pel proprio
teatro; ed il Governo stimò conveniente di distruggerla di ogni maniera ed
evitare le contese, gl’intrighi, le
prepotenze ed
i pugni che il Signorelli chiamava insolenze. Dissimulò
ancora l’ingenuo sig. Vincenzo che le due compagnie aveano
un solo monte che alimentava gl’individui di entrambe dopo
aver servito dieci anni continui il pubblico di Madrid. Ora avere un monte e
una cassa sola e cambiare annualmente a vicenda il luogo delle
rappresentazioni, ed avere tal volta un solo capo di compagnia come qualche
anno avvenne al Ribera ed a Martinez,
non è l’istesso che fare un corpo solo? Fu ciò nel sig.
Huerta abbondanza di mala fede o mancanza di
raziocinio? Venghiamo all’ultimo e
VI Saben, cioè «che il sombrero chambergo
non è in Ispagna più antico della Guardia Chamberga che ne
fece uso in tempo di Carlo II»
. Se il sig. Vincenzo avesse
detto ciò nel tempo che io ancora dimorava in Madrid, gli avrei mostrato
facilmente che s’ingannava anche in questo, e che la voce Chamberga potè forse usarsi in proposito di detta Guardia; ma il
cappello slacciato,
rotondo, e non à tres picos, era stato adoperato dagli
Spagnuoli ancor prima dell’epoca di Carlo II. Non era certamente à tres picos il cappello che usarono i Goti in Ispagna, in
Francia ed in Italia, la qual cosa quando non potesse altronde dedursi, si
vedrebbe da ritratti di tali popoli fatti nella mezzana età e nell’infima, e
copiati sulle scene Europee. Che se il cappello Chambergo
di detta Guardia fu forse un poco più grande, ciò non vuol dire che fosse
nuova invenzione e precedente soltanto a quello allacciato a tre punte
venuto a coprire le teste spagnuole con Filippo V. Ed il Signorelli quando
parla di sombrero chambergo altro non dinota che un
cappello slacciato che involava una parte del volto e proteggeva in certo
modo la baldanza popolare. Sicchè l’essere stato il cappello della Guardia
slacciato non dava una nuova origine al cappello usato in Ispagna prima di
Carlo III che volle abolirlo. Ciò detto sia soltanto per dissipare
quest’altra
cavillosa accusa del sig. Huerta. Ma lasciando ciò, mi dicano gli
Huertisti (se pure oggi ve n’ha alcuno oltre del sig. don Pedro fratello del sig. Vincenzo) codesta
profonda erudizione tutta chamberga, cioè che cade da
tutti i lati, che cosa mai fa al caso nostro? Diede forse il Signorelli al
cappello gacho qualche origine determinata onde Huerta dovesse andare in collera?. Ha egli il Signorelli
mentovato per altro il cappello rotondo (qualunque stata ne sia l’origine)
che per indicare le varie cagioni della
male intesa
libertà
del popolo che assisteva alle rappresentazioni teatrali?
Quanti fanciulleschi sofismi formicavano in quel capo, e di quante ciance
imbrattò i suoi scartafacci!
Tutta in somma la cavillosa cicalata de’ saben si riduce a
negare rotondamente il fatto notorio delle popolari impolitezze ed insolenze
commesse ne’ teatri di Madrid. Ma per giustificare vie più il mio racconto e
per manifestare a un tempo la poca sincerità del
sig. Huerta, rammento agl’imparziali, che tali furono le
insolenze del volgo, che prima il Governo di Madrid, indi il riputato conte di Aranda già Presidente di Castiglia cercarono di
rimediarvi. Indebolì il primo, come si è già detto, ogni rivalità e
prepotenza de’ due partiti formando de’ commedianti un sol corpo ed una
cassa. Compiè l’opera l’Aranda con isbandire da entrambi i
teatri las cortinas, sostituendovi bellissime vedute di
scene; con far succedere alla comparsa ridevole della chitarra sulla scena
una buona orchestra; con decretare che all’alzarsi del sipario tutti
dovessero togliersi il cappello; che per la platea e per la scalinata più
non vagassero i venditori di aranci, di nocciuole, acqua; che più non si
fumasse, non si fischiasse, non si schiamazzasse gridando fuera
fuera contro gli attori mal graditi. Simili inconvenienti che e
prima della Guardia Chamberga e sin dal secolo XVII avea
additati Luis Velez de Guevara nell’atto I della Baltassara, e molto
dopo di
detta Guardia sussistevano, e ne fui io stesso testimone. Con tali
provvidenze non rimase alla mala intesa libertà la
testudine de los sombreros gachos e il presidio delle
grida e fischiate, nè i recessi e l’oscurità de corridoi bastarono ad
assicurare alla plebe prima sì indocile l’impunità contro le disposizioni
del vigilante rispettato Presidente. E da allora la decenza che si loda e si
pratica nelle nazioni polite regnò ne’ teatri di Madrid, siccome si è pur da
me accennato. Huerta ignorando l’idioma in cui sono
scritti i miei libri teatrali che pur voleva mordere, cadde ne’ riferiti
strafalcioni sulle parole e sul sentimento che ne attaccò. Egli (non senza
il solito ricco corredo di villanie) conchiuse che nella mia Storia io dovea verificare le importanti particolarità istoriche
da lui accennate (vale a dire, se il nastro dispensato dalla Ladvenant era di color di solfo o di oro, se i
commedianti facessero un solo corpo come aveano una cassa,
se il nome di
Chorizos venisse
dalle salcicce che mangiava Francho, e se quello di Polacos veniva dalla notizia che
Huerta sapeva e che non voleva dire
) in vece di perdere il
tempo nella
parte critica que tanto resplandece
nell’opera
del Signorelli, perchè critica (si noti la sapienza in
ogni cosa che proferisce don Vicente) nel vocabolario di
lui equivale a satira, a maldicenza, ed è pruova della
poca istruzione
e dell’
intenzione poco
retta
del Signorelli.
Con tal dottrina, solidità, buona fede, urbanità e logica combatteva in ogni
incontro Huerta a se sempre uguale, tuonando ne’ Caffè e
ne’ passeggi e ne’ papelillos che scarabbocchiava,
servendogli d’eloquenza l’arroganza. Il di lui Prologo
decantato (in cui declama in 106 pagine contro l’
imbecille
Racine
, l’
ignorante Voltaire
e tutti i Francesi e
gl’Italiani che non dican o che il teatro della sua nazione sia il primo del
mondo, ed egli il
Principe de’ letterati
de’ suoi giorni)
serve di scudo a una Collezione di commedie
spagnuole di figuron, di capa y espada ed heroicas. È forse questa una
scelta ragionata delle migliori, siccome ognuno attendeva dopo tanti anni?
Non è che una semplice reimpressione di trentacinque favole buone, mediocri
e cattive, le quali e nel male e nel beno si rassomigliano a molte altre dal
primo e secondo collettore tralasciate. Or qual prò da simile infruttuosa
reimpressione non meno all’istruzione della gioventù spagnuola che al
disinganno degli esteri male istruiti? Certo è che dopo di tal raccolta
manca ancora a sì culta nazione una scelta di componimenti
teatrali ragionata, campo ben glorioso da coltivarsi da un letterato
filosofo nazionale fornito di gusto, di buona fede, d’imparzialità, di
lettura e di senno, il quale sappia sceglier bene, e vagliar meglio non
tanto i difetti, quanto le bellezze de i drammi. E tutto questo sarebbe da
intraprendersi all’ombra di quella parte critica non
conosciuta e detestata dall’Huerta come satira maligna, ma da me con predilezione amata e
studiata, e che vorrei che sempre nelle mie opere
risplendesse
, a costo di esser perpetuo segno di tutti los papelillos del signor Vicente, di
tutti i possibili opuscoli del signor Don Pedro, di tutte
le biblioteche de los Guarinos, e di mille scartabelli
teatrali di Ramòn La Cruz muniti di prologhi,
dedicatorie, e soscrizioni.
Affrettiamoci a conchiudere questa istoria generale con quella del Teatro Italiano del secolo XVIII e XIX.