(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome IX « STORIA CRITICA DE’ TEATRI. Tomo IX. LIBRO IX. Continuazione de’ Teatri Oltramontani del XVIII secolo. — CAPO VI. Teatro Spagnuolo Comico e Tramezzi. » pp. 149-194
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome IX « STORIA CRITICA DE’ TEATRI. Tomo IX. LIBRO IX. Continuazione de’ Teatri Oltramontani del XVIII secolo. — CAPO VI. Teatro Spagnuolo Comico e Tramezzi. » pp. 149-194

CAPO VI.

Teatro Spagnuolo Comico e Tramezzi.

I.

Commedie.

Quanto più siamo persuasi dell’acutezza dell’ingegno spagnuolo nel trovar nelle cose il ridicolo, e dell’eccellenza della ricchissima lingua di tal nazione che si presta con grazia e lindura alle festive dipinture de’ costumi; tanto maggior meraviglia ci reca il vedere in quelle contrade sì negletta la buona commedia nel secolo XVIII, in cui anche nel settentrione vanno sorgendo buoni imitatori di Terenzio e di Machiavelli, Wycherley e Moliere.

Non possiamo rammemorare senza ribrezzo tra’ comici scrittori nella prima mettà del secolo altri che Giuseppe Cañizares, sebbene da’ satirici del suo tempo motteggiato come cattivo verseggiatore. Seguitando il sistema de’ passati drammatici, egli scrisse commedie sregolate ma dilettevoli per la buffoneria, e prossime alla farsa. Debbo però prevenire la gioventù che la farsa non è mica opera spregevole o facile. L’esperienza giornaliera dimostra che per mille drammatici che tesseranno tragedie regolate, ma insipide destinate a morire il dì della loro nascita, a stento se ne incontrerà uno che sappia comporre, una farsa piacevole atta a resistere agli urti del tempo, come son quelle di Aristofane o di Moliere. Le favole del Cañizares da me vedute ripetere in Madrid sono; El honor da entendimiento, el Montañes en la Corte, el Domine Lucas. Nella prima si dipinge una specie di Cimone di Giovanni Boccaccio, il quale non per amore ma per onore diviene scaltro, cangiamento che si rende verisimile per la durata dell’azione di più mesi. Nella seconda si fa una piacevole pittura locale della vanità degli abitatori delle montagne delle Asturie, i quali si tengono per nobili nati, ed ostentano la loro executoria ossia carta di nobiltà in ogni incontro. Il titolo del Domine Lucas è tolto da una commedia di Lope de Vega che ebbe luogo nel Teatro Spagnuolo del Linguet. Ma la favola del Cañizare è assai più piacevole, ed è la sola che con tal titolo comparisce su quelle scene. Il Domine Lucas è uno studente de’ monti Asturiani sommamente goffo ed ignorante; ed il di lui zio che esercita l’avogheria, non è meno ridicolo. Ha costui due figliuole, delle quali la prima egli destina a don Lucas, il quale però ama l’altra sciocca e semplice al pari di lui. Aumenta il ridicolo del carattere di don Lucas il capriccio di volere esperimentar Leonora a lui promessa, e prega un suo amico che è di lei occulto amante, a fingere di amarla, e gliene dà tutto l’agio.

Ma il primo che abbia osato pubblicare in Ispagna una commedia senza stravaganze, fu l’autore di una buona Poetica Spagnuola Ignazio Luzàn. Diede egli nel 1751 alla luce in Madrid sotto il nome del Pellegrino una giudiziosa traduzione in versi coll’assonante del Pregiudizio alla moda di La-Chaussèe intitolandola la Razon contra la moda.

L’avvocato Nicolàs Fernandez de Moratin mentovato fra’ tragici si provò anche nel genere comico, e nel 1762 impresse la sua Petimetra, nella quale, ad onta di una buona versificazione, e di una lingua pura, e della natural vivacità e grazia dell’autore, riuscì debole nella dipintura di donna Geronima, e sforzato ne’ motteggi, e cadde ne’ medesimi difetti ch’egli aveva in altri ripresi. Ne scrisse un’ altra intitolata El ridiculo don Sancho che rimase inedita. Essendosi compiaciuto l’autore di permettermene la lettura, vi ammirai pari armonia nella versificazione e grazia di locuzione, ma parvemi priva di energia e d’interesse nella favola e nel costume.

Nel Saggio teatrale del sig. Sebastian y Latre si pubblicò anche una di lui riforma del Parecido en la corte, in cui procurò di conservare le unità, ma poche volte ritenne le grazie dell’originale.

Nel 1770 usci in Madrid la commedia intitolata Hacer que hacemos, cui noi potremmo dare il titolo di Sex Faccendone, di uno che vuol mostrarsi sempre affaccendato, ma che nulla ha da fare. L’autore si occultò sotto il nome di Tirso Ymareta. Questo nome si vuole anagramma di Tommaso Yriarte, di cui parleremo da quì a poco; ma se egli ricusò di riconoscere per sua tal commedia, non è giusto attribuirgliela, benchè gli appartenga, tanto più che egli si è nominato in altre due favole. Tirso dunque racchiuse in un giorno l’inazione di questa favola con particolare nojosità. Egli avea in mente un embrione accozzato di molti tratti ridicoli di un uomo che vuol mostrarsi pieno di affari, e non fa mai nulla; ma gli mancò la necessaria sagacità nella scelta de’ più teatrali, nel dar loro la dovuta graduazione, nell’incatenarli ad una azione vivace propria della commedia, e nel prestarle interesse e calore.

Tutte le altre favole pubblicate nella penisola sono tali che ci rendono preziose le irregolarità, e le stravaganze ancora del secolo XVII. E quando mai al tempo del Calderòn venne alla luce una favola più mostruosa del Koulican di un tal Camacho? Quando si videro più sciocche fanfaluche di quelle che portano il titolo di Marta Romorandina mostruosità insipide di trasformazioni e magie, che nella state del 1782 per un mese intero si recitarono con meraviglioso concorso ogni giorno? Quando si tradussero ottimi drammi forestieri più insulsamente e sconciamente di quello che Ramòn La-Cruz, ed altri simili poetastri fecero del Temistocle, dell’Artaserse, del Demetrio, dell’Ezio, dell’Olimpiade deteriorate e tradite da capo a fondo, e segnatamente imbrattate coll’introdurvi un buffone che interviene ai trattenimenti de’ re, e degli eroi Greci e Romani? Quando ne’ secoli più rozzi di ogni nazione si sono presentate sulle scene favole più incondite di quelle rappresentate in Madrid dal 1780 inclusivamente sino al carnevale del 1782 della Conquista del Perù, del Mago di Astracan, del Mago del Mogol? Io non ne nomino i meschini autori per rispettar la nazione; ma probabilmente essi troveranno ricetto nella Biblioteca de’ viventi del Sampere per morire ed esser seppelliti in coro in siffatto scartabello, di cui sento che in Ispagna altri già più non favella se non che il proprio autore.

Gli ultimi anni del secolo XVIII ci presentano pochi componimenti ma ben degni di nominarsi con onore. Non si cerchino però negli scritti apologetici, nè del Nasarre, nè dell’Huerta, nè del Lampillas, nè dell’Andres. È il Napoli-Signorelli preteso scrittore antispagnuolo, che con dispendio se gli ha fatti venire dalle Spagne per rendere loro giustizia; e se gli apologisti ne faranno per ventura menzione nelle ristampe de’ loro libri, non ne saranno obbligati che alla Storia de’ Teatri in sei volumi, ed alle Addizioni che vi feci nel 1798.

Los Menestrales (gli artigiani) commedia di cinque atti in versi endecasillabi con assonante di Candido Maria de Trigueros si rappresentò e s’impresse in Madrid nel 1784 in occasione della pace conchiusa coll’Inghilterra, e della nascita de’ due reali gemelli Carlo e Filippo. Lodevole fu il disegno dell’autore di esporre sulla scena alla pubblica derisione la ridicola vanità degli artigiani, i quali abbandonando il proprio mestiere sorgente della loro opulenza, sacrificano tutto per parer nobili, ed o si coprono di ridicolo, o cadono nelle ultime bassezze, e giungono anche ai delitti. Trigueros osserva in questa favola le regole dell’unità, si attiene scrupolosamente alla pratica moderna di non mai lasciar vota la scena, e si vale di una locugione propria della mediocrità de’ personaggi imitati. Vi si spargono quà e là acconciamente varie invettive contro de’ pregiudizii, e delle gotiche opinioni de’ nobili, che per puntigli ereditati dalla barbarie conculcano la virtù e la giustizia. Un villano p. e. con un asino carico di paglia urta, e spinge al suolo un nobile immaginario, ed un altro impostore che ha preso il titolo di barone essendo di origine e di mestiere ciabattino, dice con disdegno, no merece mil muertes? y el honor? Ma don Giovanni personaggio sensato lo riprende.

No hay mas que dar mil muertes?…
Dar la muerte por un capricho solo
à un hombre! al que es mi hermano! me extremezco.
Quando llegarà el dia alegre y santo
que olvidemos que huvo en toscos tiempos
estos nombres odiosos y crueles
de pundonor, venganza, punto y duelo?

La giovane Rufina carattere freddo ma di buona morale nella scena seconda del II atto vorrebbe che Cortines suo padre (sarto di mestiere che si adira se altri se ne sovvenga, e vuol passar per nobile) venisse richiamato alla ragione col mostrarglisi per qualche via gl’inconvenienti della sua vanità; ma come buona figliuola teme che tal disinganno accader possa con danno o dispiacere del padre. Quindi nella scena seguente domandandole Giusto che cosa mai pensi di ciò che si va disponendo, ella con tenerezza risponde :

                   que à mi padre
me manda obedecer el santo cielo;
si tu remedio encuentras, sin que tenga
pesar Cortines, me daràs contento.
Pero vè que es mi padre.

Non posso con tutto ciò lasciar di dire che la favola procede con lentezza e languore, e si disviluppa sforzatamente usandosi ne’ primi atti varie reticenze senza vedersene il motivo perridurre tutto allo scioglimento. Anche i caratteri abbisognano di maggior naturalezza ed energia, specialmente quelli di Rafa e di Pitanzos. Scarseggia finalmente di sali e lepidezze urbane, e di partiti piacevoli, ed è ben lontana da quella forza comica che chiama l’attenzione, rapisce e persuade con diletto. Ma perchè la sua regolarità e giudizio, e l’oggetto morale che vi si nota, non ha stimolato a conoscerla qualche apologista nazionale degli ultimi anni?

Andres, nè Lampillas, nè Huerta esageratori sur parole del merito comico delle favole di Naharro e della Celestina (che battezzano per componimento teatrale), mostruose produzioni che mal conobbero, hanno procurato d’informarsi, se in mezzo alle stravaganze anche a’ nostri dì esposte sulle scene spagnuole siesi recitata una commedia pastorale in cinque atti con cori, e con prologo eziandio composta, ed impressa in Madrid l’anno stesso 1784 per la pace fatta coll’ Inghilterra, e per la nascita stessa de’ reali gemelli? Essa appartiene a don Juan Melendez Valdès, e l’antispagnuolo preteso Napoli-Signorelli ne dà contezza in Italia, e provvede all’indolenza degli apologisti spagnuoli sempre ingrati, e declamatori, e sempre copisti desidiosi.

Il Valdès ha posta in azione la novella di Basilio e Chiteria leggiadramente descritta dal celebre Cervantes nella Parte II del Don Quixote, e l’ha ingenuamente citato, intitolandola las Bodas de Camacho, le nozze di Camaccio. Lo stile sobrio per la giustezza de’ sentimenti e per la proprietà dell’espressione, ricco e copioso d’immagini e di maniere poetiche ammesse nel dramma pastorale, appassionato ne’ punti principali della favola; la verificazione armoniosa di endecasillabi e settenarii alternati e rimati ad arbitrio; i caratteri singolarmente di Basilio, di Chiteria, di Petronilla, Don-Chisciotte ben sostenuti; la passione espressa con vivacità e naturalezza; lo scioglimento felicemente condotto sulle tracce dell’autor della novella; l’azione che in ciascun atto dà sempre un passo verso la fine; tutto ciò raccomanda a’ contemporanei imparziali questo componimento e l’avvicina in certo modo alle buone pastorali italiane. Quanto dice Chiteria meriterebbe di trascriversi interamente. In un monologo pieno di un patetico che giugne al cuore, dice la pastorella nella scena prima del atto II :

Ay! Esta misma vega
Testigo fue de nuestro amor, testigo
De mil hablas suaves,
De mil tiernas promesas, y mil juegos,
Que eran un tiempo gloria,
Y ahora son dolor en la memoria.
Aqui dulce cantaba,
Alli allegre reia,
Aquì con su guirnalda me ceñia,
Y alli me la quitaba!
Ay triste! el valle dura,
Y acabò mi ventura!

Nella terza scena del III in cui si parlano la prima volta dopo la lor divisione Basilio e Chiteria, la tenerezza disgraziata aumenta a meraviglia l’interesse, e commuove e penetra nell’intimo dell’animo di chi legge o ascolta. Cresce nel IV il movimento pel festivo e lauto apparecchio delle nozze, e per la protezione che Basilio implora di Don Chisciotte, raccontandogli il vero della propria disperazione misto col finto soccorso del mago e del presagio di lui che dispone lo scioglimento condotto con verisimilitudine e con espressioni confacenti allo stato di Basilio ed al concertato disegno.

Urtarono due altri moderni scrittori teatrali verso gli ultimi tre lustri del secolo XVIII contro la corruzione del teatro spagnuolo sostenuta da’ commedianti e dal La-Cruz e suoi colleghi in mostruos tà sceniche. Furono tali due scrittori Tommaso Yriarte e Leandro Fernandez de Moratin. Il primo fu Archivario della real Segreteria di Stato, che si vuo e l’autore della riferita commedia Hacer que hacemos, e scrisse due commedie assai migliori, intitolate El Señorito Mimado, ossia la Mala Educacion, e la Señorita Malcriada impresse nelle opere dell’autore, indi separatamente nel 1788, due lodevoli argomenti felicemente scelti per istruire e dilettare.

Si rappresentò la prima nel 1788 in Madrid nel Coral del Principe, e piacque. La dipintura di un giovane educato con moine e carezze senza verun freno da una madre debole e compiacente, e cresciuto senza virtù e abbandonato alla leggerezza e al libertinaggio, dovè interessare pel vivo ritratto degli effeminati sbalorditi originali, i quali abbondano nelle società culte e numerose. I caratteri di don Mariano mal educato, di sua madre che chiama amor materno la cieca sua condiscendenza, di donna Monica avventuriera che si finge dama, e serve di zimbello in una casa di giuoco, sono comici ed espressi con verità e destrezza. Conveniente è quello di don Cristofano tutore e zio del Signorino accarezzato che si occupa a riparare gli sconcerti della famiglia. Sono figure subalterne, e tal volta fredde, donna Flora, don Alfonso e don Fausto. Nell’ultimo atto esce una sola volta in teatro don Taddeo Trapalon che è un ritratto degli antichi sicofanti. La favola consiste nel discoprimento e nella punizione di donna Monica e nell’esiglio di don Mariano per essere stato sorpreso in un giuoco proibito che porta in conseguenza il dolore della madre ed il matrimonio che non interessa punto di Flora con Fausto. L’azione si conduce regolarmente con istile proprio della scena comica, e colla solita buona versificazione di ottonarii coll’assonante. Taluno troverà soverchie le operazioni della favola nel periodo che si racchiude dall’ora di sesta all’annottare. Il trage de por la mañana di don Mariano indica che egli venga a casa prima dell’ora dipranso; e se egli non ha desinato nella propria casa, non dovea dirsene un motto? La venuta di donna Monica nell’atto III in casa di don Cristofano dopo essere stata ravvisata per la stessa Granatina, sembra poco verisimile, e con un solo di lei biglietto poteva invitarsi don Mariano al giuoco e rimetterglisi le lettere falsificate di Fausto e Flora. Soprattutto vi si desidererà più vivacità e più necessario incatenamento ne’ passi dell’azione. Noi facciamo notare tralle cose più lodevoli di questa favola le origini della corruzione del carattere di Don Mariano indicate ottimamente nella seconda scena dell’atto I, e la di lui vita oziosa descritta da lui stesso in pochi versi nella settima del medesimo atto. Voi non sapete vivere , egli dice a Fausto, siete schiavo del vostro impiego ; aggiugne,

No señor, la liberdad…
Por eso, quando ha dicho algo
Mi Madre sobre buscarme
Destino, se lo he quitado
De la cabeza… La vida
Es corta. Se pasa un rato
De paseo, otro de juego,
Quattro amigos, al teatro,
Algun baile, la tertulia,
Tal qual partida de campo;
Y uno gasta alegramente
Lo poco que Dios le ha dado.

Stimabile finalmente è l’incontro comico della scena dodicesima dell’atto II di donna Monica dama riconosciuta per Antonietta di Granata, ed artificiosi i di lei raggiri per ismentir don Alfonso.

Gettata sul conio della precedente è la Señorita Mal-criada impressa e non rappresentata ch’io sappia, nella quale si descrive una fanciulla ricca guasta dall’educazione di un padre spensierato, come nell’altra è una madre oscitante e mattamente indulgente che corrompe il costume del figliuolo. Vi s’introduce una donna Ambrosia vedovetta trincata di dubbia fama, che alimenta nella Pepita capricciosa impertinente intollerante tutte le dissipazioni della gioventù senza costume, e fomenta la di lei sconsigliata propensione per un vagabondo ciarlatano; come nella prima favola donna Monica avventuriera contribuisce alla ruina di don Mariano. Don Eugenio onorato cavaliere che ama Pepita e vorrebbe correggerne i difetti, equivale al Fausto della prima commedia; don Basilio che fa riconoscere nel finto marchese un vero truffatore di mestiere, corrisponde ad Alfonso, per cui viene a scoprirsi la falsa dama dell’altra favola. Il viluppo e lo scioglimento di questa è fondato, come nella precedente, nell’artificio di due finte lettere. La critica potrebbe sugerire che meglio forse risalterebbero gli effetti della pessima educazion di Pepita, se la di lei zia si mostrasse meno pungente in ogni incontro, e don Eugenio innamorato meno nojoso, che ostenta sempre una morale avvelenata da un’ aria d’importanza e precettiva. Questo Eugenio poi non dovrebbe continuare nè a moralizzare nè a correggere Pepita promessa ad un altro a cui il padre ha già contati diecimila scudi per le gioje. Pepita in tali circostanze non dovrebbe nell’atto II innoltrarsi in una lunga e seria conferenza deliberativa col medesimo Eugenio e con la zia. Il carattere di Bartolo portato a tutto sapere e a tutto dire non dovrebbe permettergli di tacer come fa in tutta la commedia l’importante secreto della finta lettera posta di soppiatto in tasca di don Eugenio, che egli non ignora sin dall’atto I. Sembra in fine che in una favola che l’autore vuol che cominci di buon mattino e termini prima di mezzodì, non possano successivamente accadere tante cose, cioè diverse conversazioni riposatamente, consigli, trame, deliberazioni, una scena di ricamare poco propria in campagna, un giuoco di tresillo, indi un altro di ventuna, ballo, merenda, accuse contro Eugenio e Chiara, discolpe, arrivo di un nuovo personaggio ec.. Chechesia però di tutto ciò la favola merita lode per la regolarità, per lo stile conveniente al genere de’ caratteri di Pepita, di Ambrosia, di Gonzalo e del marchese, nel qual personaggio con molta grazia si mette in ridicolo il raguettismo di coloro che sconciano il proprio linguaggio castigliano con vocaboli e maniere francesi, del cui carattere in Italia diede l’esempio Scipione Maffei nel suo Raguet, ed in Ispagna il riputato Isla, autore del Fray Gerundio.

L’altro stimabile moderno autore sì benemerito della buona commedia nazionale il sig. Leandro Fernandez de Moratin, è nato in Madrid dal prelodato don Nicolàs, di cui ha ereditato l’indole poetica, l’eleganza e la grazia dello stile, la dolcezza del verseggiare e la purezza del linguaggio. Se ne hanno quattro commedie, che s’intitolano, el Viejo y la Niña (il Vecchio e la Fanciulla) la Mogigata, che noi potremmo intitolare la Bacchettona trattandosi di una giovane che dà ad intendere di volersi chiudere in un chiostro austero, la Comedia nueba, el Baron. Le due prime divise in tre atti ed in versi ottonarii coll’assonante erano composte sin dal 1786, ma la prima s’impresse nel 1790 quando si rappresentò con piena approvazione nel teatro detto del Principe. La seconda a me per amicizia rimessa dall’autore manoscritta, non so quando rappresentata, s’impresse nel 1804 col nome arcadico dell’autore Inarco Melenio. La terza in due atti ed in prosa si rappresentò in Madrid nel medesimo teatro a’ 7 del febbrajo del 1792 quando s’impresse. L’ultima in due atti ed in versi si pubblicò col medesimo nome arcadico nel 1803. Sono state tutte e quattro da me rendute italiane.

Ecco il contenuto del Vecchio, e la Fanciulla. Un perverso tutore a condizione di non essere astretto a dar conto dell’amministrazione de’ beni d’Isabella sua pupilla che conta poco più di tre lustri, la sacrifica facendola sposa di un vecchiaccio caduco mal sano rantoloso che ne ha passati quattordici ed ha atterrate tre altre mogli. Ella amava un giovanetto della sua età che era andato in Madrid, e per dissiparne la ripugnanza, le danno a credere con false lettere che egli abbia colà preso moglie. Si conchiude l’inegualissimo matrimonio, e dopo due o tre settimane arriva l’amante e trova Isabella sposata a don Rocco suo corrispondente, in casa di cui viene ad albergare. La virtù della fanciulla è a cimento colla sua passione. Il giovine si determina a partire per recarsi in America. Ella ode il tiro di leva, sviene, e come ripiglia i sensi, con mille ragioni obbliga don Rocco a consentire che ella vada a chiudersi in un ritiro. Questa commedia è nel buon genere tenero, ed insinua la giusta avversione per le nozze disuguali di una fanciulla di quindici a venti anni con vecchi che ne hanno corsi più di settanta. Il giudizio, la regolarità, la morale, la delicatezza delle dipinture, la versificazione e la locuzione eccellente, ne formano i pregi principali. Merita ben di essere dagli esteri conosciuta, e singolarmente per le seguenti cose. Piacevoli trovo tutte le scene del vecchio don Rocco col suo domestico Muñoz; eccellenti quelle d’Isabella col suo amante e specialmente la dodicesima dell’atto I, e l’undecima dell’atto II; delicatamente espressa l’angustia d’Isabella astretta dal vecchio a parlare all’amante, mentre egli da parte ascolta ed osserva, la quale scena, benchè non nuova, produce tutto l’effetto; commovente quanto comporta il genere comico è la scena in cui Isabella ode il tiro di leva del vascello nel quale è ito ad imbarcarsi l’amante; finalmente tira tutta l’attenzione l’ottima aringa d’Isabella, in cui svela i secreti del suo cuore al marito, detesta l’inganno del tutore, assegna le ragioni di non essersi ella spiegata liberamente, rifondendone la cagione all’educazione che si dà alle donne, onde si avvezzano alla dissimulazione. Ne adduco per saggio la mia traduzione di buona porzione della scena undecima citata dell’atto II :

Isabella

Vien gente… oimè! Desso è che viene? Io vado…
Misera che farò? Veder nol voglio.

Giovanni

Isabella?

Isabella

Se amore e gentilezza
Quì vi scorge, o signor, per congedarvi,
Il ciel vi guardi, e vi conduca (aimè!)

Giovanni

A dirti io vengo sol…

Isabella

Sì che ten vai.
Lo so; va pur, te lo consiglio io stessa,
Vanne, crudel; se hai tu valor bastante
Per eseguirlo, anch’io, se pria non l’ebbi,
Tanto or ne avrò per affrettar co’ prieghi
L’infausto istante.

Giovanni

Ah che non sai qual pena…

Isabella

Eh sì, quanto io ti debba io non ignoro,
So… parti, fuggi, lasciami morire.
Ma infin ten vai? ma certo è dunque? è certo?
Dopo un sì fido amor, dopo tanti anni,
Dopo tante speranze ecco qual premio
Mi preparò la sorte! Ah l’amor mio
Ciò meritò?

Giovanni

L’ho meritato io forse?
Ingrata donna, e che facesti mai?
Per te, per te… tu la cagion tu sei
D’ogni tormento mio! Qual fu la tua
Facilità crudel! Dunque ha potuto
In breve ora un rispetto una violenza
Astringerti a disciorre il più bel nodo
Fatto per man d’amor, dal tempo stretto!
Oh tempo! oh lieti dì! te ne rammenti?
Ti rammenti, Isabella..

Isabella

Io vengo meno…

Giovanni

Quando di nostra sorte appien contenti
D’un innocente amor dolci gustammo
E teneri momenti! La strettezza,
Il concorde voler, l’etade, il genio,
Gli scherzi, i finti sdegni…

Isabella

Ah tu m’uccidi!

Giovanni

Un motto, un guardo tuo, qualche sospiro
Era de’ voti miei gloria e misura.
Tutto è finito? S’io t’amai, se un tempo
Ci amammo, un’ ombra or ne rimane, un sogno.
D’un vil cedesti agli artifizii indegni!
Vana illusione e gelosia fallace
In te si armaro del mio amore a danno!
Fralezza femminile!

Isabella

Il cuor mi scoppia;
Tardi ne piango.

Giovanni

Tardi, è ver; la morte
Terminerà il mio male.

Isabella

Il ciel nol voglia.
Io, sì, ne morirò, chè in me non sento,
Valor per tante pene… ahi sventurata!

Giovanni

Addio, mio ben; non ci vedrem più mai.
Lungi da te cercherò climi ignoti.
Tu la memoria almen di tanto affetto
Serba, mia cara; altro da te non bramo.
Amami, pensa a me; forse ristoro
Troverò al mio dolore, immaginando
Ch’una lagrima almen, qualche sospiro
Potrò costure alla beltà che perdo.

Più piacevolezza più forza comica scorgesi nella Mogigata, i cui caratteri, sebbene non tutti nuovi, veggonsi delineati con circostanze proprie a svegliare l’attenzione perchè tratte con garbo dal puro tesoro della natura. Due coppie di personaggi dissimili, cioè due fratelli e due cugine in continuo contrasto danno acconcio risalto non meno alla moralità che al ridicolo, Ne’ due fratelli vedesi l’immagine degli Adelfi di Terenzio. Don Martino simile a Demea burbero difficile avaro intrattabile, rileva la sua figliuola Chiara con tanta asprezza che ne altera l’indole, e la rende falsa e bacchettona. Don Luigi simile a Mizione nella dolcezza ma con più senno indulgente, e più felice ancora nel frutto delle sue cure paterne, educa la sua Agnese con una libertà onesta, la forma alla virtù alla sincerità alla beneficenza. Trionfa la geniale ragionevolezza di don Luigi e l’amabile franchezza di Agnese, al confronto dell’aspro e tetro umore di don Martino e dell’ipocrisia di Chiara. Ma questi caratteri disviluppandosi con maestrevole economia lasciano alla bacchettona il posto di figura principale nel quadro ossia nell’azione che consiste nel discoprimento della di lei falsa virtù e santità, per mezzo di un tentato matrimonio clandestino. Discostandosi questa favola dalla precedente nella sola specie, ne conserva i pregi generali della buona versificazione, del buon dialogo, della regolarità, della grazia, dello stile e del giudizio. Lodevoli singolarmente sono nell’atto I; la scena prima in cui si espone il soggetto, si dipingono i caratteri, e si discopre con senno la sorgente della dissimulazione di Chiara; le due seguenti ove si manifesta il carattere leggiero stordito e libertino di Claudio; gli artifizii dell’astuto Pericco proprii della commedia degli antichi ed accomodati con nuova grazia a’ moderni costumi spagnuoli. Anima l’atto II un colpo di teatro che rileva l’ipocrisia di Chiara e la vera bontà di Agnese, perchè quella per discolparsi di un suo errore all’arrivo di suo padre prende il linguaggio melato degl’ipocriti e fa credere colpevole la cugina. Nell’atto III son da notarsi le seguenti cose; un altro colpo di bacchettona allorchè parlando Chiara con Perrico delle sue nozze clandestine, si accorge che viene il padre, e senza avvertirne il servo muta discorso, e dice, io voleva mettermi tralle cappuccine per meritare con una vita più austera una corona più gloriosa, ma bisogna obedire al padre : la scena in cui don Luigi vorrebbe che ella si fidasse di lui e gli dicesse se inclinerebbe allo stato conjugale, ed ella punto non fidandosi continua sempre col tuono di bacchettona; l’artificio con cui si prepara lo scioglimento colla mutazione non prevista che fa un parente del suo testamento. Questo parente deliberato avea di lasciar Chiara erede del suo; ma sapendo che era determinata a farsi religiosa, dispone de’ suoi beni a favore di Agnese e muore. Ciò forma la disperazione ed il castigo dell’avido vecchio don Martino, di Chiara e di Claudio. Tutto per essi è sconcerto, amarezza, desolazione; quando Agnese umana pietosa magnanima intercede per la cugina da cui era stata offesa, promette di rinunziarle parte de’ beni ereditati per non lasciarla cadere nella miseria, e la riconcilia col padre. Questo scioglimento interessante è accompagnato da una felice esecuzione. Sebbene io l’abbia tradotta interamente in prosa, come feci altresì della precedente, pure ne addurrò quì lo squarcio che ne pubblicai in versi nel 1790 nel sesto volume di quest’opera: Vada (dice della figliuola l’irato don Martino) vada da me lontana, viva infelice, sappia a quante disgrazie la soggetta il pessimo suo procedere. Ma Agnese in questa guisa gli si oppone :

No, non fia mai che la disgrazia io vegga
Di mia cugina, e non la senta io stessa
Nel più vivo dell’alma. Amato Padre,
Poichè appresi da te le altrui sventure
A deplorar, ed a mostrar con fatti,
Non con parole, una pietà verace,
Concedimi (e ben so che mel concedi)
Ch’io le porga la man; misera, errante,
Abbandonata io la vedrò, nè seco
Dividerò i miei beni? Ah nò, detesto
Una ricchezza sterile che il uumero
Degli oppressi non scemi. Oggi assicuri
Legittimo contratto in suo favore
Quanto a lei cedo; un generoso amplesso
Del padre suo idubbii miei disgombri,
E a tutti il suo perdon renda la calma.
Deh piaccia al ciel, cugina, che tu vegga
Dal sincero amor mio rassicurata
La tua felicità, giacchè vi prende
Tanta parte il mio cuor, ch’esser non voglio
Felice io stessa, se non sei tu lieta.

Queste due commedie bene scritte di un vivace poeta pieno di valore e di senno; le quali secondate potevano formare una fortunata rivoluzione nelle scene ispane, incontrarono i soliti ostacoli de i commedianti di Madrid. Io converrei secoloro per la seconda accomodandomi alle circostanze del paese, sino a che l’autore non vi avesse sfumate certe tinte risentite d’ipocrisia onde, per altro, ben s’imita l’abuso che fanno i falsi divoti delle pratiche ed espressioni religiose. Ma perchè rifiutarono per tanto tempo la prima? Ciò che in Italia nuocono alle belle arti le combriccole de’ semidotti che si collegano contro del merito e degl’ingegni ben coltivati, e le mignatte periodiche e gli scarabbocchiatori di mestiere di ciechi colpi d’occhi e di articoli per giornali venduti, noceva a que’ di nelle Spagne ai progressi teatrali la turba inetta degli apologisti ed i colleghi di quel poetilla La Cruz che tiranneggiava i commedianti nazionali.

Dopo di avere l’ingegnoso autore nel 1789 data la caccia a’ poetastri con un piacevole opuscolo intitolato la Derrota de los Pedantes (la sconfitta de’ pedanti) nel quale gli spaventa, gli schernisce, gli dipinge giocondamente, gli confonde e gli caccia in fuga con piacer del pubblico che gli riconosce; il sig. Moratin compose la nominata in terzo luogo Commedia nueba, ove espone una fedel dipintura (a quel che si dice nel prologo) dello stato attuale del teatro spagnuolo. Una parte, vi si aggiugne, assai numerosa della nazione mira con dolore la decadenza del nostro teatro, e desidera che si dissipino gli ostacoli che ne impediscono il miglioramento. Si ay no obstante (si conchiude) una clase de gentes, à quienes la falia de principios, la indolencia, el interès, y otras pequenas pasiones hacen obstiuadas en el error, contra allas se dirige la censura.

Il soggetto di tal commediola è un povero giovane chiamato Eleuterio carico di famiglia, il quale facendo cattivi versi imprende la carriera teatrale per accorrere a’ proprii bisogni. Ha una sorella nubile destinata in moglie a don Ermogene pedantaccio arrogante non men povero di lui. Nè l’uno nè l’altro è nel caso di effettuare tali nozze non avendo danari pel bisognevole. Il poetastro attende l’esito di una commedia che ha data al teatro, e col prezzo di essa promessogli nel caso che la commedia riesca accetta al pubblico, e col frutto sperato della impressione, si lusinga di ammobigliare la casa per la sorella, pagare i debiti dello sposo, e sostentar la propria famiglia. La commedia è fischiata, e non se ne vendono le copie impresse, il poeta perde il prezzo convenuto, e si dispera, il perfido pedante si ritira impudentemente, e senza il caritatevole soccorso di un ricco uomo dabbene impietosito, la famiglia del tapino poeta sarebbe perita nell’indigenza. La locuzione è propria e naturale, l’azione semplice condotta felicemente, lo scioglimento fa onore all’umanità ed in conseguenza all’autore. Sento che il pubblico di Madrid la vide con particolar diletto, e l’applaudì. La traduzione che io ne feci indirizzandola all’apologista Lampillas si trova nella parte IV de’ miei Opuscoli varii.

Il Barone è l’ultima commedia che io conosco del sig. Leandro de Moratin, ed è pure in due atti e scritta co’ soliti ottonarii coll’assonante. L’avea l’autore molti anni indietro composta e destinata a recitarsi in musica in una casa particolare; ma non essendo venuto a capo tal disegno, corse per alcun tempo manoscritta con più applauso che non isperava chi la scrisse. L’assenza dell’autore che viaggiò in Francia, in Inghilterra ed in Italia, facilitò ad alcuni d’impadronirsene e considerandola come cosa senza padrone, la rimpastò, la deformò con nuovi personaggi, ed accidenti e grazie e disgrazie novelle. Tutti i difetti acquistati si vollero attribuire all’autore. Ad onta delle critiche alcuni amatori come chiamansi in Francia, o affezionati come si dicono in Ispagna, vollero recitarla in case particolari, dalle quali passò a rappresentarsi in Cadice nel pubblico teatro mutilata e deformata. La geniale indolenza dell’autore mal resse a questa prova, nè soffrì il di lui amor proprio che un componimento che tanti gli attribuivano, così malconcio corresse per quelle contrade. Presolo dunque di nuovo per mano, lo purgò delle variazioni fattevi da mano aliena, ne soppresse ciò che apparteneva alla musica, ne variò il viluppo, diede all’azione più moto ed interesse, e più forza e verità a’ caratteri. Così l’ha pubblicato, e me ne fornì un esemplare che pure a petizione di alcuni io tradussi in prosa giusta la richiesta. Consiste in un avventuriere che si finge barone spagnuolo imparentato con tutti i grandi della corte, della quale è in disgrazia per maneggi de’ suoi nemici. Egli adula, lusinga e spoglia con grandi promesse una vedova d’Illesca a cui dà a credere che ama la di lei figlia. Un Leandro innamorato che si vede cacciato di casa, ne tasta il coraggio, lo conosce poltrone, e lo mette in fuga. Una lettera del finto barone astringe la vedova a ravvedersi. L’azione che si aggira su di un impostore smascherato, non è nuova, ma è scritta con piacevolezza e vi trionfa il grazioso carattere di don Pedro fratello della vecchia delusa. La favola semplice e verisimile, i caratteri tratti a dirittura dalla natura, i costumi nazionali vivacemente dipinti, un dialogo naturale, schietta urbanità nello stile, vezzi comici senza esagerazione istrionica, ottima morale e facile a praticarsi, sono i pregi che gl’imparzialì non possono negare di riconoscere in questa favola.

II.

Tramezzi.

I Tramezzi che oggi nelle Spagne si rappresentano nell’intervallo degli atti delle commedie, non sono più gli antichi entremeses buffoneschi di tre o quattro personaggi che recitavansi per lo più dopo l’atto I. Essi negli ultimi anni della mia dimora in Madrid cominciarono a tralasciarsi, e seguiva all’atto la sola tonadilla. In vece di tali tramezzi si posero in moda quelli che chiamansi sainetes. Il significato proprio della voce sainete esprime ciò che noi diciamo condimento. Ma figuratamente si applica a tutto ciò che rende saporoso un accidente, un discorso, un trattenimento. Introdotto sul teatro equivale all’intermezzo degl’Italiani, e alla petite-pièce de’ Francesi. Simili favolette introducono per lo più molti personaggi vestiti di caratteri proprii de’ tempi presenti, de’ quali si rilevano le ridicolezze ed i vizii. Sogliono recitarsi con tutta la naturalezza, e senza la cantilena declamatoria e l’affettata gesticulazione delle commedie. Ora quando a tali sainetti ossiano salse comiche sapessero i poeti dar la giusta forma e grandezza, essi a poco a poco introdurrebbero la bella commedia di Terenzio e Moliere, che con tentativo felice ebbero in mira Trigueros, Valdès, Yriarte e Moratin senza essere stati nè approvati nè seguiti. Ma coloro che dal settembre del 1765 sino alla fine del 1783, tempo della mia dimora in Madrid, fornirono di simili tramezzi le patrie scene, non seppero mai dar si bel passo, per le ragioni che soggiungo. In prima perchè non si avvisarono d’apprendere l’arte di scegliere i tratti nelle società più generali, allontanandosi dalle personalità, per formarne pitture istruttive. In secondo luogo perchè quei che se ne sono occupati non hanno mostrato di saper formare un quadro che rappresenti un’ azione compiuta. Inoltre perchè hanno dato a credere che essi ignorassero la guisa di fissar l’altrui attenzione su di un solo carattere principale che trionfi fra molti; e sino al tempo che io vi fui, esposero per esempio alla vista una sala di conversazione composta di varii originali con ugual quantità di lume, i quali dopo di avere successivamente cicalato quanto basti per la durata del tramezzo, conchiudono, perchè si vuole, non perchè si dee, con una tonadilla.

Un gran numero di tali sainetti e forse la maggior parte si compose dal più volte mentovato don Ramon La Cruz, di cui con predilezione e privilegio esclusivo fidavansi i commedianti di Madrid. Le sue picciole farse spesso si riceveano con applauso, ed in grazia di alcune di esse talvolta si tollerarono goffissime commedie e scempie traduzioni del medesimo autore. Per natura egli ha lo stile dimesso ed umile assai accomodato a ritrarre, come fece, la plebe di Lavapies e de las Maravillias (contrade di Madrid abitate solo da un popolo minuto insolente) i mulattieri, i furfanti usciti da’ presidii, i cocchieri ubbriachi e simile gentame che alcuna volta fa ridere e spesso stomacare, e che La Bruyere voleva che si escludesse da ogni buon teatro. Può vedersene un esempio nel sainete intitolato la Tragedia de Manolillo, in cui intervengono tavernari, venditrici d’erbe e castagne, facchini ec., e l’eroe Manolo che si figura venuto di fresco senza camicia e lacero dopo di aver compito il decennio della sua condanna nel presidio di Ceuta. L’azione consiste nella morte di Manolo ferito da Mezzodente di lui rivale, cui tutti gli altri personaggi fanno compagnia buttandosi in terra e dicendo che muojono, ma subito l’istesso feritore ordina che si alzino, ed essi insieme col trafitto Manolillo obedendo risuscitano belli e ridenti. Il disegno di simile insipida farsaccia fu di mettere in ridicolo gli scrittori di tragedie e l’osservanza delle unità. Gli scherzi ed i motteggi si aggirano sulle corna, sulle frodi de’ tavernari, su i ladroni, su varie donnacce da partito condotte all’Ospicio e a San-Fernando luoghi di correzione per le prostitute, su i pidocchi uccisi in presidio da Manolo, che dice,

Y en las noches y ratos mas ociosos
mattava mis contrarios treinta a treinta

Mat.

Todos Moros?

Nan.

Ninguno era Cristiano.

In far simili ritratti dell’infima plebaglia La Cruz ha mostrato somma destrezza. Segno a’ suoi strali mimici furono frequentemente gli Abati che ostentavano letteratura. Se egli avesse posseduta fantasia atta ad inventare e disporre acconciamente favole compiute in tanti anni, non l’ha certamente manifestato. In effetto ad eccezione di certe favole allegoriche, le quali per lo più non si comprendono a, egli si limitò a tradurre alcune farse francesi, e particolarmente di Moliere, Giorgio Dandino, il Matrimonio a forza, Pourceaugnac ec.. Ma in vece di apprendere da sì gran maestro l’arte di formar quadri di giusta grandezza simili al vero, egli ha rannicchiate, poste in iscorcio disgraziato e dimezzate nel più bello le di lui favole, a somiglianza di quel Damasto soprannomato Procruste ladrone dell’Attica, il quale troncava i piedi o la testa a’ viandanti mal capitati, quando non si trovavano di giusta misura pel suo letto a.