CAPO V.
Teatro Spagnuolo Tragico.
Il sistema delle scene spagnuole non ha ricevuto alterazione sino alla mettà del XVIII secolo. La nazione nè vide sulle scene nè più si ricorda di essersi impressa nel 1713 una traduzione del Cinna di Francesco Pizzarro Piccolomini. Rammenta bensì con giusto disdegno come un esempio di pazzia la goffa tragedia del Paolino alla moda francese uscita nel 1740 che Montiano stesso nomina coll’ultimo disprezzo.
La gloria di aver prodotta la prima tragedia debbesi al nominato Agostino de Montiano y Luyando. Egli nel 1750 con un discorso istorico sulle tragedie spagnuole di tre secoli pubblicò la sua Virginia, e tre anni dopo l’Ataulfo non mai recitate nelle Spagne, e conosciute in Francia per essersi fatte enunciare in un giornale. Il sig. Andres afferma di esservi di questa Virginia una traduzione francese, di cui a me nè in Italia nè in Parigi è riuscito di trovar vestigio; e forse avrà egli chiamata traduzione la notizia datane in quel giornale. Regolarità, decenza, purezza di locuzione e scelta giudiziosa del verso endecasillabo sciolto all’italiana, formano il merito di tali favole. Mancano però d’anima, di grandezza, di moto. Nella Virginia si esprimono con proprietà i caratteri di lei e del padre; ma nè proprietà nè verità apparisce nel carattere d’Icilio, quando nell’atto III corteggia il Decemviro con umili espressioni proprie delle moderne cerimonie che nulla hanno di Romano del tempo di Appio Claudio. Icilio repubblicano, popolare, rivestito una volta della tribunizia potestà, prende il linguaggio insignificante di un verboso e basso cliente :
Y a que la suerte quando no esperava que pudiera
ofrecerse tan propicia, me dà, señor, motivo de obsequiaros,
permitidme que atento y reverente
consiga
el alto honor de iros sirviendo.
È poi da notarsi che
ne’ primi tre atti Appio non dà indizio veruno di meditata violenza contro
Virginia. Appena come innamorato da commedia si è raccomandato a Publicia;
appena una volta ha parlato a Virginia senza trasporto e senza minacce. A
che dunque tanto furore d’Icilio e tante declamazioni degli altri? L’azione
e la violenza di Appio che occasiona la morte di Virginia, comincia
nell’atto IV, ed i tre primi atti altro non sono che una lenta protasi. Pari
lentezza si scorge ne’ primi tre atti dell’Ataulfo, e si
protrae a una parte anche del IV. Le passioni in quest’altra tragedia non
disdicono al genere tragico; ma vi si desidera la forza da’ Greci chiamata
energia nemica d’ogni soporifera languidezza. Forse
vengono indebolite in qualche modo dalle arti cortigianesche che in esse
campeggiano aliene dalla ferocità de’ Goti non da molto tempo avvezzi alla
coltura che raffina gli artificii. La favola sino all’atto V
si aggira sulla delicatezza dell’amore di Placidia offeso
da certe reticenze di Ataulfo, e su i sospetti di costui, de’ quali egli si
querela più perchè offendono il suo amore, che perchè tema che possano
nuocere allo stato. Queste diffidenze artificiosamente seminate da Sigerico,
ad impulso di una donna ambiziosa, ritardano la pace ed insieme l’azione ne’
primi quattro atti. Sembra poi che ad un tratto nel V tutta svapori la
ferocità e la tracotanza de’ congiurati a danno di Ataulfo. Manca adunque questa favola di quella saggia graduazione che
progressivamente crescendo conduca le passioni al punto da farne scoppiare
l’evento tragico. Vuolsi parimenti riprendere l’inverisimiglianza
dell’equivoco preso nella scena ottava da Rosmunda. Ella entra dicendo a
Sigerico che l’attenda, nè torna se non dopo due lunghe scene, essendo
partito Sigerico. Ella in vece di lui trova in iscena Ataulfo, e vedendolo per le spalle gli parla come se fosse
Sigerico, e gli rivela con molte
parole tutti i
suoi disegni. Ciò potrebbe con verisimiglianza accadere proferendo due o tre
parole; ma la natura presenta ragionevolmente l’equivoco del Montiano in una
narrazione che non si faccia con gli occhi chiusi? Nè anche può piacere nel
medesimo atto V che un Goto sovrano impetuoso soffra che un temerario
vassallo alterchi con lui insolentemente, contentandosi solo di ripetergli
più volte,
detente, calla calla
, e ponendo
inutilmente la mano sulla spada. Morto Ataulfo si spendono tre altre non
brevi scene nello svenimento di Placidia, nell’uccisione di Vernulfo, nelle
insolenze di Rosmunda e nella di lei volontaria morte, cose che doveano
soltanto accennarsi in pochissimi versi per non iscemare o distrarre
l’attenzione ad altri oggetti che al gran misfatto dell’uccisione di
Ataulfo. Lascio poi che l’istruzione morale che dee prefigersi un buon
tragico non si scorge quale esser possa in tal tragedia. Noi scorgiamo nelle
favole del Montiano la regolarità nascente
nella nazione non raccomandata dal gusto e dalla forza
tragica che la rendano amabile.
Tenne dietro al Montiano il di lui amico Nicolàs Fernandez de Moratin, e dopo dieci anni nel 1763 pubblicò la sua prima tragedia la Lucrezia. La versificazione che vi adoprò è una specie di selva (come chiamasi in Ispagna) entrandovi assonanti, consonanti e versi sciolti ad arbitrio del poeta. Nè anche si rappresentò. Lotta in essa l’autore coll’invincibile difficoltà di ben riuscire in siffatto argomento; vi frammischia certi amori subalterni riprovati dal gusto; e lo stile non si eleva abbastanza per giugnere alla sublimità tragicaa. Scioccamente l’autore di un foglio periodico spagnuolo intitolato Aduana critica, ignorando che l’indole della poesia tragica è di abbellire utilmente e non già di ripetere scrupolosamente la storia, pretendeva che il Moratin avesse introdotto nella sua favola Bruto finto pazzo. Ma questa è la smania de’ follicularii famelici, voler, tutto ignorando, dar legge di tutto.
Sette anni dopo, cioè nel 1770 l’istesso Moratin fe rappresentare ed imprimere Ormesinda altra sua tragedia colla medesima versificazione, e la prima di quel secolo XVIII comparsa sul teatro di Madrid. Vi si vede lo stile migliorato, e con più giudizio l’azione incatenata e sciolta. Ma essa presenta una eroina violata da un Moro che incresce oggi che si esige una rigorosa decenza negli argomenti teatrali. Un racconto della battaglia di Tarif e Rodrigo (forse poco necessariamente congiunta all’avventura di Ormesinda) contiene diversi squarci d’imitazioni virgiliane. In ogni modo l’autore che fra’ suoi correva una via sì poco battuta, non meritava la persecuzione che sofferse degl’inetti efimeri libelli e de’ motteggi del volgare scarabbocchiatore di sainetti insipidi e maligni, Ramon La Cruz chiamato irrisoriamente da’ suoi el poetilla.
Con nobil coraggio l’indefesso scrittore non abbandonò per questo la tragica
carriera, e nel 1777 diede alla luce la terza sua tragedia Guzman el bueno dedicata al duca di Medina Sidonia don Pedro de Guzman el bueno discendente da quell’eroe. L’effetto
primario di questa favola è l’ammirazione che risulta dall’eroismo di
Gusmano, il quale preferisce la propria fede alla vita di suo figlio.
Assediava il Moro con pochissima speranza di riuscire la piazza di Tariffa
fortemente difesa da Gusmano, quando il di lui
figliuolo in una uscita rimane prigioniero. Il Moro propone al governadore
di comprarne la libertà colla dedizione di Tariffa, o di vedergli mozzare il
capo. Il padre trafitto dal dolore ma sempre eroe gli getta dalle mura la
propria spada perchè esegua la minaccia. Benchè l’autore avesse divisa la
favola in tre atti, pure si trovò in angustia e gli convenne ripetere
qualche situazione o pensiero. La stessa necessità di darle una giusta
grandezza l’obbligò ad un maneggio tra il Moro e l’assediato Gusmano, ed a
fargli parlare l’uno dal suo campo l’altro dalle mura. Non bene apparisce in
qual maniera avesse l’autore ideato il luogo dell’azione per rendere in
tanta distanza quanta esser dovea tra un campo che assedia ed una piazza
assediata, verisimili tali conferenze, e specialmente tutto l’atto III. Ciò
può nuocere alla verità, all’illusione, al fine tragico. Ma l’eroico
carattere di Gusmano è dipinto e sostenuto felicemente.
Che risposta recherò al mio re?
dice l’ambasciadore
moro nell’atto I; e Gusmano:
Che i Castigliani non rendono le fortezze finchè
possono
sostener la
spada
;
Ami.
Y de tu hijo?Guz.
El Moro determine.
Interessa la scena dell’atto II, in cui Gusmano esamina il valore del figliuolo che ha conseguito un momento di libertà sotto la parola d’onore di tornare al campo nemico. L’autore si prefisse l’imitazione di una scena della Clemenza di Tito a. Temi la morte? dice Gusmano al figlio;
Confiesalo à tu padre que te estima,no hablas ya con Guzman el riguroso,nada sabrà el Alcayde de Tarifa.
In fatti la mancanza di coraggio non potrebbe confessarsi che ad un padre. Di poi non senza bellezza ripete questa tinta con artificiosa variazione, e vuole che a lui fidi il di lui amore considerandolo solo come amico e militare, e non come padre severo:
Cuentaselo al Alcayde de Tarifa,nada sabrà Guzman tu adusto padre.
Soprattutto chiama l’attenzione l’atto III, quando il re Moro mostra voler ferire il prigioniero incatenato sugli occhi del padre, e sopraggiugne la madre. Le di lei lagrime, la costanza di Gusmano, la fierezza del Moro, la nobile rassegnazione del giovane Gusmano, formano una situazione tragica assai teatrale, che si risolve colla magnanimità di Gusmano che getta la propria spada al nemico. Intanto questa tragedia che compensa i nei con situazioni teatrali, e con un patriotismo che rileva un atto eroico della storia nazionale, non si è nè pregiata nè premiata nè rappresentata in Madrid.
La seconda tragedia che quivi comparve fu don Sancho Garcia di Giuseppe Cadahalso y Valle d’illustre famiglia, la quale si recitò un anno dopo dell’Ormesinda. L’argomento tratto parimente dalle storie nazionali è proprio per eccitare il tragico terrore. Una Contessa di Castiglia cieca d’amore per un principe Moro appresta il veleno al proprio figlio per rendere l’ambizioso amante signore di se stessa e del suo stato. Qualche verseggiatore del secolo XVII avea scioccamente maneggiato quest’argomento, ed il signor Cadahalso volle rettificarlo trattandolo con arte e decoro ed in buono stile; ma la versificazione di due endecasillabi rimati perpetuamente per coppia produce qualche rincrescimento. Gli affetti della Contessa combattuta da un eccessivo amore per l’avido Moro, e dalla tenerezza materna, sono bene espressi. Solo vi ho sempre desiderato che la richiesta del Moro fosse preparata con più arte. Per prova di amore egli esige da una madre la morte dell’unico di lei figlio; ed in che fonda la speranza di conseguirlo? nella sfrenata passione che ha per lui la Contessa. Ma non dovea il poeta riflettere che, perchè il Moro potesse fondare sulla di lei passione, avrebbe dovuto con più artifizio velare la sordidezza de’ suoi disegni, i quali colla cruda richiesta scoprendone tutta l’ambizione, potevano atterrirla, e rendere meno cieca la di lei passione? L’arte del poeta dovea sugerire al Moro un colore da occultar meglio la di lui avidità di regnare in Castiglia per non indebolire l’unica molla della di lui speranza. Si osserva per altro in questa tragedia più di una scena di gran forza, e specialmente la quarta dell’atto II, in cui vedesi ben colorito il contrasto di una passione sfrenata colla tenerezza di madre. L’atto termina con quest’ottima riflessione, che fa la combattuta Elvira :
Que lexos de la culpa està el reposo!y que cerca del crimen el castigo!
Siffatta tragedia in una nazione che ne ha sì poche, dovea accogliersi, ripetersi, acclamarsi, e pure fu essa lo scopo delle maligne satire de’ piccioli rimatori. Maria Ignacia Ordoñes, già prima dama ne’ teatri di Madrid rappresentò non senza energia tanto la parte di Ormesinda nella tragedia del Moratin, quanto quella di Elvira nel Sancho Garcia, e morì pochi mesi dopo. Il Cadahalso autore di varie poesie, e del piacevole libretto los Eruditos à la violeta, e di un altra tragedia inedita la Numancia, graduato colonnello terminò gloriosamente i suoi giorni l’anno 1782 nella trincea del campo di San-Roque sotto Gibilterra.
L’esposta mia critica moderata, imparziale, lodativa ed amichevole, anzi che
no, punto non dispiacque allo stesso autore, che accoppiava gusto e buon
senno alla domestica e straniera erudizione, ed onorò la mia Storia, e
queste mie osservazioni lettegli prima d’imprimersi
di un suo sonettoa. Approvò il mio giudizio parimente Giovanni
Sampere, o dottor Guarinos che siasi, il quale
dopo la mia partenza da Madrid compose una Biblioteca di
autori Spagnuoli del tempo di Carlo III. Egli ebbe la compiacenza di
convenir meco in quanto al dover
essere mas vestida aquella declaration del Moro. Discorda però
sulla versificazione degli endecasillabi rimati per coppia usata dal Cadahalso, e da me non approvata.
Si
es un vicio
(egli dice gravemente)
la rima de los pareados, està autorizado con el exemplo de
los mejores drammaticos franceses Corneille, Moliere y
Voltaire.
Ma senza pregiudicare alla sua erudizione, mi
permetta di dirgli che egli ha indebolito codesto suo argomento, per avere
ignorato forse che non solo i tre nominati poeti, ma tutti i Francesi non
possono altrimenti scrivere in versi se non rimati. Si contenti in oltre che
gli faccia sovvenire di poche altre cose se non le ignora; e primieramente
che il Sancho è scritto in castigliano e non in francese,
e che i Francesi rimano sempre per necessità, e non per elezione, perchè
mancano del verso bianco che noi chiamiamo sciolto; di più che la poesia castigliana al pari dell’italiana, e
dell’inglese ha il suo bel verso suelto,
oltre di un endecasillabo coll’assonante
ottimo per la scena nazionale. Se a queste cose avvertiva il bibliografo, mi
avrebbe conceduto parimente che i versi rimati per coppia nella scena non
sono i migliori tra’ metri castigliani, e non si sarebbe appoggiato
sull’esempio di chi non ha che un solo vestito, per togliere l’arbitrio
della buona scelta a chi ne possiede di molti e cari. Ma perchè (potrà egli
dire) dee preferirsi il verso sciolto o quello coll’assonante à
los pareados? Domandi ciò egli stesso al proprio orecchio, il cui
giudizio vien da Cicerone chiamato superbissimum. Io
compiango i dottori e i bibliografi che non sentissero la monotonia
dell’endecasillabo pareado perpetuamente in tutto un
dramma.
Due anni dopo, cioè nel 1773 don Tommaso Sebastian y Latre aragonese pubblicò una tragedia rappresentata l’anno stesso, in cui pretese rettificare la favola di Francesco de Roxas Progne e Filomena. La buona intenzione, ed il patriotismo dell’autore desideroso del miglioramento del teatro nazionale merita ogni lode. Ma il mezzo che scelse di ripetere le antiche favole del teatro patrio col solo vantaggio di renderle più regolari, secondò male il di lui disegno. Nocquegli per avventura anche l’elezione di un argomento della rancida mitologia pagana a’ nostri dì poco interessante, come ancora quel radicale ostacolo che oggi secoloro portano in teatro le deflorazioni, e simili violenze, senza parlare della mancanza di novità e d’invenzione nelle situazioni, e di spirito tragico, e di sublimità di stile.
Ignazioa Ayala andaluzzo regio professore di poetica in Madrid morto nella sua patria nel 1789, volle pure contribuire agli avanzamenti del teatro nazionale, di cui da più anni era censore. Egli pubblicò nel 1775 la Numancia destruida in cinque atti verseggiata con endecasillabi con l’assonante. La storia di sì famosa città è senza dubbio compassionevole, e basterebbe ad apprestar materia per un poema epico; ma nella guisa che si vede maneggiata dall’Ayala, divide per tal modo l’interesse colla distruzione di un popolo intero per mezzo della fame e del ferro e del fuoco, che, in vece di commuovere, esaurisce il fondo della compassione senza fissarla a un oggetto principale, e non ottiene il fine della tragedia. L’autore dotto nelle greche e latine lettere v’incastrò varii squarci di poeti antichi. Vi si nota un dialogo elegiaco uniforme più che un’ azione tragica, e non poca durezza nello stile. Annojano parimenti le frequenti declamazioni contro Roma, le quali a tempo, e parcamente usate converrebbero a’ Numantini, ma colla copia e col trasporto manifestano troppo il poeta.
Tali cose da me dette nella prima storia teatrale in un volume, dispiacquero
in parte al prelodato bibliografo de’ viventi, e prese a giustificare l’Ayala, il quale non pertanto dopo la pubblicazione del mio
libro erami rimasto amico fino alla mia partenza da Madrid. Il dottor Guarinos punto non risentissi di ciò che accennai del
dialogo
uniforme
ed
elegiaco
, e della
durezza dello
stile
. Gl’increbbe sì bene che avessi reputato tale
argomento più proprio per un poema epico che drammatico, come anche
l’osservazione sulle frequenti declamazioni intempestive e soverchie
prodotte da un eccessivo affettato patriotismo. La censura del
Napoli-Signorelli (dice il
difensore)
suppone pochissima riflessione sulla natura del poema epico
e della tragedia
. Secondo il Guarinos
il poema epico
ha sempre un esito felice
, e
la distruzione di Numanzia funestissima, all’epopea non
conviene. Domando in prima, perchè tale distruzione non potrebbe avere un
esito felice? Un encomiatore di Scipione non se ne varrebbe degnamente a
gloria del suo eroe? Or non sarebbe ottima materia, benchè funestissima, per
l’epopea, come io dissi? Chi ha poi insegnato a codesto bibliografo che il
poema epico aver debba sempre un esito felice? Se ciò è
vero, errò Omero che nell’Iliade si prefisse di cantar
solo
l’ira perniciosa (μηνιν ουλομενεν) di Achille che tanti dolori cagionò agli
Achivi
? Errò Stazio cantando la Tebaide,
cioè
le discordie fraterne ed il regno alternato
combattuto con odii profani e scellerati
? Errò Lucano
nella Farsalia cantando
le
funestissime guerre più che civili, la scelleratezza divenuta
diritto, ed
un popolo potente che converte
la destra vincitrice contro le proprie viscere
? Errò
Milton nel Paradiso perduto facendo
un poema eroico del funestissimo precipizio di tanti angelici cori? Se
codesto Sampere o Guarinos non ha
prestato (come mi fu dato a credere) alla guisa di un automato la bocca al
fiato altrui nel compilar la sua gazzetta bibliografica, io l’esorto a
provvedersi di più pure e chiare idee di poetica prima di altro scrivere. Ma
venghiamo a più stretta pugna.
Perchè mai affermò il Napoli-Signorelli che tale argomento nella guisa che
l’ha trattato l’Ayala, mal conviene ad un’ azione
drammatica? Perchè (degni notar ciò il patrocinatore de los
menesterosos) una distruzione collettiva, vaga, generica di un
popolo intero istupidisce i sensi, distrae a mille oggetti l’attenzione e
l’interesse, e non determina la compassione ad uno scopo principale per
serbar l’unità dell’azione e del protagonista. Un poco più di filosofia
gl’insegnerebbe l’arte
usata da’ tragici della
Grecia nelle Trojane, nelle Fenicie,
negli Eraclidi, nelle Supplici, ne’ Persi, nelle quali favole essi presero un oggetto
principale per iscopo collocando quasi in lontananza il rimanente o
serbandolo al Coro. Lo spirito umano nella mescolanza delle tinte e de’
suoni non meno che nella moltiplicità mal graduata delle stragi rimane,
diciam così, ottuso, rintuzzato, privo di sensibilità; là dove la tragedia
esige energia ed elasticità per eccitar la commiserazione e conservar la sua
natura, e non convertirsi in flebili nenie elegiache, in lugubri epicedii.
Circa poi le declamazioni dice il protettor dell’Ayala che
il Napoli-Signorelli doveva farsi
bien
cargo
della situazione de’ Numantini. Ma egli stesso no se ha hecho bien cargo di ciò che io dissi e ripeto,
cioè che esse converrebbero a’ Numantini,
usate a tempo
e parcamente
, la qual cosa tradotta in volgare
significa che esse sono proprie di un popolo irritato contro Roma, ma non
dovrebbero
occupare il luogo dell’azione essenza
del dramma; non risentire l’affettazione ma derivare naturalmente dalle
situazioni, e non essere, come sono quasi tutte, una pretta borra
intempestiva. Noi avremmo dimostrato subito e pienamente tutto ciò con
pubblicare l’analisi intera che scrissi sulla Numancia; ma
me ne distolse lo spiacevole annunzio che ricevei della morte dell’erudito
autore. Ci saremmo contentati poi del semplice primo giudizio moderato che
già ne demmo senza gli stimoli del cattivo avvocato bibliografo. A lui
dunque s’imputi, se, per renderlo avveduto del suo torto, ne soggiugneremo
alcuni tratti.
L’atto I è composto di due principali lunghissime scene. Nella prima s’imita
l’apertura e l’oracolo dell’Edipo tiranno mostrandosi il
popolo supplice all’ara del nume Endobelico e narrandosi con inutili
circostanze un oracolo di Ercole Gaditano dato quattordici anni innanzi, che
però in niun modo si appressa alle bellezze del
greco oracolo, essendone la rancida risposta nè semplice nè interessante
nè necessaria all’azione. Terma sacerdotessa dipinge a lungo quel che tutti
sanno, cioè la strage che fa la fame ne’ Numantini ridotti, mancate l’erbe e
le foglie stesse degli alberi, a cibarsi di cadaveri umani. A questa lugubre
scena una ne segue amorosa di sette pagine di Olvia ed Aluro che conchiude
l’atto. Giudichi il leggitore se in tale argomento siesi convenevolmente
inserito un languido amore subalterno che contrasta coll’immagine di un
popolo che stà morendo di fame. E pur non è il peggior male un amor sì
impertinente. Olvia innamorata vicina a morir di fame insieme coll’amante e
con tutti, di che si occupa singolarmente in questa scena? forse del
prossimo esterminio della patria? no; ella pensa a vendicare certo suo
fratello già morto col sangue dell’uccisore che non sa chi sia. Dopo ciò
mostrasi sorpresa da un nuovo doloroso pensiero. Aluro amante sì paziente
vuol saperne
la cagione, ed ella dopo di aver posto
in contrasto l’amore che Aluro ha per lei con quello della patria, dopo di
aver tenuto sulle spine Aluro e l’ascoltatore per altri ottanta versi, dice;
Senti la tua pena e l’angustia mia.
Giugurta
… quì si trattiene
soggiungendo…
ma viene Megara frettoloso, te lo dirò poi
; e
finisce l’atto così, senza che niuno nè frettolosò nè a bell’agio venga
fuori. Essi partono. Non dubiti però chi ascolta; essi nulla diranno senza
che vi sia chi ascolti. Ma (si dirà) se ne anderanno uniti o disgiunti? se
uniti non diranno più una parola sola di ciò che hanno incominciato a dire?
Non dubiti punto lo spettatore che Olvia non paleserà ad Aluro l’arcano fino
a che il poeta non riconduca l’uno e l’altra nel medesimo luogo e nel
medesimo punto del loro discorso; ma bisogna attendere che passi tutto
intero l’atto II. Notisi intanto che è questa una delle scene
patetiche in cui Olvia delibera e risolve il sacrificio del
suo amore
, la quale ha
riscosse tante lodi dal precitato bibliografo.
L’atto II incomincia con una scena di Olvia stessa e di Aluro. Essi come partirono senza perchè, senza perchè sono tornati, e nella stessa maniera dell’atto I viene appresso Megara. Hanno però essi nulla detto o in quella scena o nell’intervallo dell’atto di ciò che voleva Olvia nell’atto I narrare all’amante? Non è ancor tempo; bisogna attendere ancora. Fa poi l’autore venir Giugurta come ambasciadore de’ Romani per la ragione che egli è imparziale. Ma questo principe affricano che dicesi imparziale, e milita a favor de’ Romani con diecimila soldati e venti elefanti, viene a consegnare il console Cajo Ostilio rimesso dal Senato di Roma. Egli per dar altra prova d’imparzialità tradisce i Romani, e consiglia i Numantini a non accettare la vile soddisfazione. Il leggitore o l’ascoltatore sin dal principio osservato avrà in questa favola accozzata una serie di minuti fatti spogliati della necessaria dipendenza che risveglia e sostiene l’attenzione, guidandola ad un oggetto grande. Il resto dell’atto s’impiega a proporsi qualche mezzo da cacciar via la fame. Non vi sono più cadaveri umani, e si pensa a tirare a sorte tra’ vivi chi debba morire e servire d’alimento de’ superstiti. Si propone altresì che si ammazzino i vecchi per prolongare la vita de’ giovani. Un popolo ridotto nell’atto II a tanta estremità presenterà nel proseguimento quel necessario progressivo incremento nell’azione? Il poeta ha bisogno di Megara in tale occasione, e lo fa venire di nuovo. Egli vuole esser incluso nella sortizione, cui resiste Dulcidio per questa ragione; perchè è proprio solo de’ Romani il discacciare per politica i Tarquinii. Questo pensiero eterogeneo aumenta ovvero diminuisce e copre di gelo l’espediente patetico proposto? Dovea il buon sacerdote Numantino risalir col pensiero a’ Tarquinii Romani? E quale analogia v’ha tra Megara capo e difensore amato da’ Numantini per vantaggio de’ quali offre di morire, con Tarquinio tiranno oppressore abborrito dal suo popolo? Ci dica il bibliografo Guarinos, qui è forse la situazione de’ Numantini (di cui se ha da hacer bien cargo il Signorelli) che eccita Dulcidio a motteggiare e a declamare contro i Romani, ovvero è questa una scorreria del poeta che vuol comparire tra’ personaggi?
Eccoci all’atto III, in cui Olvia torna con Aluro a soddisfare alla promessa fatta nell’atto I e rimasta sospesa senza perchè sino a questo punto. Essi trattengonsi in tre soli versi sulla picciola bagattella del tirarsi a sorte colui che dee morir prima; e si occupano per cinque pagine intere di un più grave affare. Olvia dunque palesa al suo idolatrado Aluro che Giugurta preso di lei promette di passare a Numanzia colle sue schiere, purchè ella l’accetti per isposo. Ella gli chiede su di ciò consiglio. Questa situazione rimane priva dell’usato effetto di simili dolorose alternative per essere assai mal combinata. In prima Olvia può disporre di se stessa senza intelligenza del fratello capo della repubblica? In secondo luogo Olvia ha considerato che diecimila persone vogliono mangiare, e che Numanzia manca pur di cadaveri da ripartire co’ nuovi alleati? Per terzo Olvia ignora che oggi la salute della patria non dipende dal minorar le forze nemiche, ma dal provvedere di nutrimento i Numantini? Ignora che le utili conseguenze dello scemare il numero degli assalitori, sono assai più lente de’ funesti rapidi progressi della fame? Appresso Olvia è sicura poi che la diserzione di Giugurta sia sincera, e che non possa essere uno stratagemma? È sicura in oltre che la salute della patria dipenda da Giugurta ancorchè fosse solo? E che altro spererebbe Olvia se avesse pattuito collo stesso Scipione? Anche questa scena fondata su ipotesi tutte false e mancante d’interesse, di verisimiglianza e di grazia, sembrò pregevole al buon bibliografo encomiatore. Stanno poi in essa assai bene accomodate allo stato de’ Numantini ridotti a mangiarsi l’un l’altro, le care espressioni di Aluro; addio, Olvia, col tuo nuovo amante vivi felice? (morendo di fame?) loro stanno pur bene le risposte della savia e tenera Olvia? Dulcidio annunzia al figlio Aluro che dee morire essendo il di lui nome uscito dall’urna. Piange con lui per due pagine intere, dopo delle quali si ricorda di dire che vuol morire in di lui vece. Gareggiano su di ciò; ma tutto dee sospendersi, perchè Scipione viene a trattar di pace. La fame numantina discretamente vi si accomoda. Scipione senza ostaggi da pessimo capitano mettendo a rischio la sorte dell’armata e la speranza di Roma viene a parlare in mezzo a’ nemici disperati, i quali incolpano i Romani di tradita fede. In questa conferenza tutta declamatoria Scipione soffre con indicibile bassezza le ingiurie del Numantino, e questi insolentisce quasi altro oggetto non avesse che d’irritar gli assalitori. E questa scena inutile e cattiva viene anche prescelta come eccellente dal dottor Guarinos.
Nell’atto IV quando dovrebbe l’azione accelerare il suo moto mirando al fine, si vede graziosamente fare un passo retrogrado, e si consumano tre lunghe scene a ricordare ed esagerare un antico tradimento fatto da Galba a’ Numantini rammemorandosi divotamente le ossa sacrosante, reliquie venerabili, di Spagnuoli assassinati. Può lodarsi simile distribuzione di materiali? Megara partendo dice ad Olvia, observa esta parte; ella rimane a far l’uffizio di sentinella; e Giugurta vedendola sola viene a parlarle; di maniera che i nemici colla facilità di un attore che esce al proscenio, potevano penetrar fra’ Numantini. Or chi non ne conchiuderà che erano due inettissimi generali Megara che sì male guardavasi dalle sorprese, e Scipione che non sapeva approfittarsi delle negligenze? Incogruo è pure l’abboccamento di Giugurta con Olvia. Ella gli dice che passi co’ suoi a Numanzia, perchè ella l’attenderà presso di un sepolcro che si eleva più degli altri, e gliele addita. Si, si (ripiglia lo stupido Giugurta) colui che vi giace fu da me ucciso, e perchè spirando ti chiamava in soccorso, io m’innammorai di te. Salta agli occhi l’inetta origine di un insipido innamoramento, e la balordaggine di vantarsi di un fatto che poteva averla offesa. Olvia sdegnatá lo discaccia, indi vuole che impugni la spada disfidandolo; Giugurta pensa a fare a suo modo, e parte. Un andare e venire de’ personaggi senza perchè empie le scene 6, 7 ed 8. Terma dà avviso a Dulcidio che Olvia se disfraza (si traveste; e quanto opportunamente ella va in maschera!); Dulcidio al vederla venire la ravvisa. Olvia viene (dice il poeta) con algun disfraz che si lascia immaginare al discreto lettore, o alla cura del capo di compagnia. Ella va esclamando, o cenizas infaustas! (o ceneri infauste) colla stessa grazia della Tomiri di Quinault che cercava per terra ses tablettes. Dulcidio l’esorta a sposar Giugurta (quante belle disposizioni mentre si stà morendo di fame!) per corrispondere a un tempo
A amante, à patria, al padre i al hermano,
che verso eccellente per numero e per regolarità, come ognuno che ha
orecchio, ben sente! Olvia dopo un contrasto inutile di cinque pagine, in
cui Dulcidio la chiama
boja della patria, e ramo indegno della
sua stirpe
, si rende, e gli dà la propria spada per mandarsi a
Giugurta in segno di pace, geroglifico per altro mal
sicuro, ma l’Affricano per compiacere al poeta riconoscerà subito essere di
Olvia. Dulcidio è il più savio sacerdote del mondo; egli ha persuasa Olvia,
ha spedito un soldato a Giugurta senza prevenirne il generale, si è
sull’affare trattenuto per cinque pagine, ed al fine si ricorda di domandare
ad Olvia, se Megara sappia nulla del trattato. Nò, ella risponde,
ho taciuto per timore
e per vergogna,
perchè
(notisi il di lei talento politico)
chi comanda
ama di vedere eseguite certe cose che sapute prima egli non
permetterebbe che si tentassero
. Da tale potente ragione rimane
persuaso il dolce Dulcidio.
Annotta nell’atto V, e Giugurta al solito va e viene liberamente dal campo Romano al Numantino senza che Megara abbia mai saputo prevedere simili visite nemiche. Olvia viene parlando sola a voce alta, e l’ode lo spettatore e Giugurta che dice,
Olvia es, i su espada me asegura.
Viene anche Terma, e più fina, a dispetto della notte, e della mascherata, e
senza udirne la voce, raffigura Olvia e la rimprovera. Giugurta che avea
udito Olvia che parlava sola, ora non ode più ciò che esse dicono. Terma
vuol sapere in ogni conto i disegni della sorella; ma questa che gli ha
comunicati a Dulcidio e ad Aluro, ed ha pure fidata al soldato la sua spada,
si guarda gelosamente della sorella senza
vedersene la ragione. Giugurta si ritira nè per altro motivo se non perchè
abbia Olvia tutto l’agio di dire a Terma una inutile bugia. Le dice dunque
che si è travestita per uccidere Giugurta; ma è questo il fine per cui gli
ha mandata la spada? Stando altercando esce Aluro in tempo che Terma dice,
refrena tu furor
, ed egli ciò udendo dice; questa che parla è Olvia; certamente questo è inganno di
Giugurta
. Onde ciò deduca, non appare. E poi Aluro non sa
distinguere la voce della sua innamorata da quella di Terma, due persone a
lui sì note? Di più due voci femminili possono svegliargli l’idea di un
nemico che a quell’ora è verisimile che si trovi nel campo Romano? Viene per
quarto Dulcidio, e benchè sia notte, riconosce Aluro, il quale avea presa
l’innamorata per un guerriero affricano,
Megara ti
attende
, dice Dulcidio al figlio, e questi differisce di obedire per
ammazzare prima Giugurta. Dulcidio
parte; e
seguitando le donne a contrastare, Terma grida, Numantinos, ed Aluro sempre la crede Olvia, e ferisce l’altra da lui
mattamente creduta Giugurta. Olvia trafitta grida,
ai de
mi
. Non importa; Aluro la crede sempre il
traditore
Giugurta
. Torna Dulcidio con fiaccola accesa, ed Olvia spira
mentendo con dire che
ella amava Giugurta
, quando Io
spettatore non ignora che ella amava Aluro. L’autore dunque ne ha sì
destramente condotto il carattere e l’affetto, che il sangue di lei non
muove veruna compassione tragica. Se tali garbugli notturni, tali languidi
amori ed equivoci mal fondati, e così fatta mascherata senza oggetto,
convengano col genere tragico, e colla distruzione di Numanzia, ne giudichi
il leggitore. Durando apparentemente la notte, Megara che ha saputa, la
disfatta de’ Luziani ausiliarii, e la debolezza de’ Vasei che si sono dati
a’ Romani, chiama al campo di Scipione, come alla porta di una casa vicina.
Gli risponde
un soldato, cui egli dice;
giacchè la tenda di Scipione stà vicina
(verisimilmente nè
la notte nè le trincee gliene impedivano la veduta)
ditegli che
vò parlargli. Che pretendi, Numantino?
Risponde Scipione
affacciandosi. Megara lo riconosce subito alla voce, quando poco prima i
suoi parenti e seguaci di orecchio più duro non hanno saputo distinguere le
voci delle sue sorelle. Megara domanda o che Scipione gli dia l’assalto, o
che mandi le legioni a trucidarli. A questa richiesta senza sale risponde
Scipione:
spada o catena
, gettando giù l’una e l’altra. Ma
i Numantini determinati a morire abbisognano dell’opera e del consenso di
Scipione? Non possono essi stessi assaltar le trincee, e morir nell’impresa?
I valorosi Numantini della storia riescono nella tragedia inetti, cicaloni,
insensati. Risolvono al fine di uccidersi fra loro, indi si vede il tempio e
la città incendiata. Mentre Numanzia arde, Megara predica recitando più di
cento versi, e declama
sulle discordie della
Spagna, ed esita nel voler dar la morte ad un suo figliuolo, che non prima
di allora comparisce, e va a precipitarsi nelle fiamme, come fa Megara
stesso dopo di aver recitati altri cinquanta versi.
Così termina la tragedia di Numanzia distrutta, il cui
piano tessuto per quattro atti e mezzo di episodii mal connessi, e di freddi
amori, sconvenevoli, intempestivi, e di equivoci inverisimili, abbiamo
voluto esporre agli occhi imparziali del pubblico. Vedrà per se questo
supremo giudice, se nel 1777 siesene da me portato un moderato giudizio, e
se dovea rincrescere al bibliografo de’ viventi. Vedrà l’istesso giudice se
alla Numanzia dell’Ayala convenga ciò
che ne disse il sig. Andres, cui piacque di collocarla in
ugual grado col Sancho del Cadahalso
così fuor di ragione, e di affermare che essa non sia priva di
calore
e di
spirito tragico
. Dobbiamo credere
che avesse egli mai letta la Numanzia? Non è
possibile.
Giovanni Giuseppe Lopez de Sedano compilatore del Parnaso Español accrebbe le tragedie moderne del suo paese colla Jahel in versi sciolti in cinque atti, là dove la morte di Sisara appena darebbe materia per un oratorio di due parti. Quindi nasce la mancanza d’azione e d’intreccio, e quella serie di lunghe dicerie, e de’ sermoni di Debora. Non manca di regolarità, e di qualche tratto lodevole; ma vi si desidera calore ed interesse. La maggior parte de’ personaggi introdotti, e segnatamente Haber e Barach, sono oziosi. Lo stile è diffuso e pesante, e sparso nel tempo stesso di formole famigliari, e poco gravi, sia per esempio questa della prima scena
Romper de mi silencio la clausura, e quest’altraBasta à quedar solvente de mi cargo,Y aùn tal vez accreedor à gracias tuyas.
Lascio poi che tal favola non ha verun carattere, non eccitando nè compassione, nè terrore, nè ammirazione.
Era inedita nel 1777 la Raquel tragedia di Vincenzo Garcia de la Huerta, ma s’impresse poi in Barcellona e in
Madrid nel 1778. La Raquel
(dice l’editore di Madrid) si
compose quando uscirono la Lucrecia, la Hormesinda, e le altre già riferite; dal che si deduce che
l’autore tardò a produrla quindici anni in circa. Rileva di più l’editore,
che se i Francesi dividendo le favole in cinque atti hanno la libertà di
abbandonar quattro volte la scena, l’autore della Rachele
privandosi spontaneamente di sì comodo sussidio riduce a un atto la sua,
perchè quantunque divisa in tre giornate, nè vi s’interrompe l’azione,
nè da una giornata all’altra s’interpone tempo
, la qual volontaria
legge impostasi dal poeta,
dà un singular merito à su
obra
. Conchiude l’editore che il piano della Rachele è pur
sistema particolare
del poeta,
persuaso che
ammaestra più e corregge
meglio i costumi, e diletta maggiormente il gastigo del vizio, ed il
premio della virtù, che la compassione
. Sappiamo in oltre per mezzo
del medesimo editore, che si rappresentò
repetidas veces
,
e che ne corsero manoscritte più di duemila copie per
America, Spagna, Francia, Italia, e Portogalloa. Che che sia di ciò in
Madrid si rappresentò quindici anni dopo che fu scritta, e vi sostenne la
parte di Rachele la sensibile attrice Pepita Huerta morta
nell’ottobre del 1779 nell’acerba età di anni ventuno in circa, ma
recitatasi appena due volte fu per ordine superiore proibita. A chi non ne
avesse veduta qualche copia
delle duemila che se ne
sparsero per li due mondi, non increscerà di vederne quì il più breve
estratto che si possa. L’argomento e la condotta a un di presso è la stessa
della Judia de Toledo del poeta Diamante da noi mentovata
nel secolo XVII, cioè la morte data da’ Castigliani a una Ebrea di Toledo,
di cui il re Alfonso VIII visse per sette anni ciecamente innamorato.
Giornata I. Apresi con un dialogo di Garceran Manrique, ed Hernan Garcia, dicendosi che Toledo è in festa, perchè compie quel dì il decennio da che Alfonso VIII tornò da Palestina dopo aver dalle forze del Saladino tolto il Sepolcro di Cristo perduto dal francese Lusignano. Non so se ciò dica l’autore come storico o come poeta. So che nella terza crociata Riccardo re d’Inghilterra detto Cor di lione, e Filippo Augusto re di Francia, e Corrado marchese di Monferrato fecero guerra al Saladino soldano di Egitto, e di Siria per ricuperare Gerusalemme tolta da questo saracino nel 1187 a’ Guido Lusignano. So di più che nella difesa di Tiro si segnalò l’italiano Corrado e distrusse due eserciti del Saladino, e co’ nominati re fece meraviglie nell’assedio di Acra o Tolemaide, che venne in lor poterea; e che poi si accordarono col Soldano, restando a Lusignano il titolo di re di Gerusalemme da passar dopo la di lui morte al prode Corrado. Ma in ciò altri non ebbe parte, e molto meno Alfonso VIII occupato sin da’ suoi più teneri anni al riacquisto delle terre Castigliane, tutte le operazioni in Terra Santa non avendo allora passato oltre del 1192, quando il re Filippo tornè in Francia, ed il marchese di Monferrato fu assassinato in Tirob. So ancora che il Saladino seguitò a possedere Gerusalemme col Sepolcro, e colla maggior parte di quel regno, nè i Cristiani lo molestarono, finchè non vi ando Federigo II imperadore di origine Suevo, di nascita Italiano, e re di Sicilia e di Gerusalemme sin dal 1225 quando ne acquistò le ragioni per cessione di Giovanni di Brenna padre di Jolanda da lui sposata, che era figlia ed erede di Maria primogenita d’Isabella figliuola di Amorico re di Gerusalemmea. Fu questo imperadore e re di Napoli e di Sicilia che nel 1228 passò in Terra Santa, guerreggiò, conquistò il regno di Gerusalemme, ed aprì il Santo Sepolcro alla devozione de’ Cristiani; benchè per accordo fatto col Saladino lasciato si fosse in mano de’ Saracini colà avvezzi ad orare senza escludersene i Cristiania. So che a tale spedizione accorsero molte migliaja di fedeli dalla Francia, dalla Baviera, dalla Turingia, e spezialmente dall’Inghilterra, donde, secondo il medesimo Abate Uspergense, ne vennero ben sessantamila. Ma niuno de’ citati cronisti ci dice che Alfonso VIII vi fosse andato con gli altri. Era egli troppo angustiato dentro di casa, e spogliato da’ Mori di Spagna, e dai quattro re Cristiani di Leone, di Portogallo, di Aragona, e di Navarra. Ora se tutto ciò è storia non contrastata, perchè il sig. de la Huerta individuo dell’Accademia dell’Istoria afferma che Alfonso guerreggiò in Palestina, e conquistò Gerusalemme ed il sepolcro? Non è questa una menzogna garrafal? Ciò verifica vie più il dettato di prudenza e di critica, cioè che non sempre le ricerche istoriche debbono attendersi da’ possessori de’ diplomi di un’ Accademia d’Istoria sa Dio come conseguiti!
Direbbe de la Huerta, se ancor vivesse, che in una tragedia egli è poeta e non istorico. Ma niuno ignora che nelle circostanze istoriche delle persone introdotte, e de’ fatti noti e sicuri il poeta non ha la libertà di mentire grossolanamente ingannando il popolo, benchè gli si permetta qualche discreto anacronismo specialmente nelle cose remote. Omero non avrebbe decorato col reame di Persia l’Itacese Ulisse. Virgilio potè in tanta antichità avvicinare Didone ed Enea (quando anche non fossero stati contemporanei, come pretese di aver dimostrato il sig. Andres); ma sarebbe stato incolpato d’ignoranza facendo quel pio Trojano padrone della Betica, ovvero la fondatrice di Cartagine regina di Numanzia o di Sagunto. Sofocle ridicolosamente avrebbe enunciato Edipo tiranno di Tebe come conquistatore de’ Turdetani o de’ Cantabri. Huerta accademico della Storia commise quest’errore madornale, perchè il poeta Diamante sua fida scorta vi era caduto prima.
Manrique aggiugne che Alfonso sette anni prima vinse i Saracini nella battaglia data en las Navas di Tolosa tra Sierra-Morena e Guadalquivir, la quale però fu posteriore alla morte di Rachele. Ciò potrebbe comportarsi, se per rendere cospicuo il carattere di Alfonso la storia non ci additasse altre sue splendide vittorie riportate prima del suo innamoramento. In somma in tutta la scena Manrique conta false vittorie del re, e Garcia gliele mena buone, sol che questi si lagna che sia il re divenuto schiavo di Rachele, ed il popolo sacrificato si vegga
De esa ramera a vil à la codicia.
I medesimi errori di storia ripete Garcia a Rachele nella scena seconda, la quale accoglie con fasto le adulazioni di Manrique e manifesta avversione per Garcia. Egli ne sprezza le minacce, dicendo che i suoi pari
Aquellos que en sangrientos caracteresde heridas por su nombre recebidas llevan la executoria de sus hechos sobre el noble papel del pecho escrita.
In prima i Castigliani che anche nella prosa schivano con senno la vicinanza
delle cadenze simili delle voci, udiranno’ con nausea il cattivo suono di un
verso sciolto rimato nel mezzo, come è il secondo, che con
heridas recibidas
diventa verso leonino. Di poi que’
caratteri sanguigni
e quella
carta di nobiltà scritta
nel foglio del petto
è un contrabbando Gongoresco ridicolo nel
secolo XVIII, ed assai più nel genere drammatico. Ed ecco una delle prove
che dimostrano che il Signorelli non ebbe torto in asserire nelle Vicende della Coltura delle Sicilie che
de la
Huerta gongoreggia
. Rachele
resta con
Ruben fremendo, e viene Alfonso irritato per le voci sediziose del popolo
minacciando,
Tiemble Castilla, España, Europa, el Orbe,
e parte senza dar retta a Rachele che resta con Ruben in una seconda sessione. Si vanno distinguendo le voci che chiedono la morte di Rachele, la quale fugge all’avviso di Manrique. Alfonso che va e viene in quella sala senza sapersi perchè, torna frettoloso, intende che Garcia conduce i sollevati, e si sdegna, e dice,
su gargantaEl hilo probarà de mi cuchillacentella de las nubes desprendida.
Una spada figuratamente può chiamarsi fulmine per esagerarne i rapidi funesti
effetti; ma aggiugnere che questo fulmine figurato
siasi
spiccato dalle nubi
, è falsità di sentenza gongoresca. Garcia si
presenta al re, e gli dimostra che coloro che chiedono la morte di Rachele,
sono i più leali vassalli, quelli stessi che l’accompagnarono in
Palestina, che lo coronarono re di Gerusalemme (Alfonso
ben poteva dargli una sollenne mentita) che insieme con lui in Alarcos
furono terrore degl’immensi squadroni Affricani. Garcia mentova
imprudentemente anche le battaglie date in Alarcos, perchè Alfonso non
ignora che quivi appunto egli superiore di truppe, d’esperienza e di valore,
fu pur da’ Mori sconfitto, e restò in loro balìa il regno di Toledoa. Alfonso ravveduto alle sue ragioni
pronunzia il bando di Rachele e degli Ebrei. Ma per togliere al di lui
cangiamento un’ aria di volubilità, non conveniva manifestar l’interna pugna
della propria ragione con una passione eccessiva di sette anni di durata?
Rachele cui è già nota la sua disgrazia ed
è
stata chiamata, ambiziosa e amante viene a tentar di commuoverlo.
M’hai chiamata, o signore
, gli dice, per
darmi in potere de’ sollevati?
Lagnasi il re di tali parole, e le
dice che egli l’esilia per salvarle la vita. Ella vuole riaccendere la di
lui collera, e l’incoraggia a resistere a’ ribelli.
Io
stessa
, aggiugne,
gli affronterò.
Ciò poteva
bastare, ma Huerta con una tirata istrionica di primiera dama la fa continuare così :
Pues si enciendo la collera en mi pecho,si el hierro empuño, si el arñes embrazo,Semiramis segunda oy en Toledoà tus pies postrarè quantos osadosquantos rebeldes quantos alevososaliento dàn al sedicioso bando.
bravata da farsa. Convengono queste inutili tagliacantonate alla molle ramera Rachele dipinta in tutta la tragedia timidissima nelle avversità?
Giornata II. Esce Rachele piangendo con Ruben. Ma
frall’intervallo de’ due atti che cosa è avvenuta? nulla? l’azione si è
riposata? Ciò sarebbe contro la verità e la savia pratica de’ nostri tempi.
Oggi si esige che l’azione inevitabilmente si avanzi al suo fine o sulla
scena o fuori di essa. Diceva l’editore che l’azione della Rachele è tutta alla vista. Ma si può arrestare il tempo in
quell’intervallo in cui i personaggi non compariscono? Che hanno essi fatto
sinora (può dire lo spettatore)? Rachele che esce di nuovo con Ruben, fa
supporre che la di lei disperazione, il suo pianto, l’accingersi alla
dolorosa partenza, abbiano empiuto quel voto. Or ciò essendo l’editore (cioè
l’autore sotto il di lui nome) invano si millantò di aver fatta una tragedia
più artificiosa di ogni altra, perchè per questa parte (e non è poco) in
essa nè si migliora nè si peggiora il metodo degli antichi e de’ moderni.
Ruben la consiglia ad impiegare tutto l’artificio di un pianto insidioso per
vincere il re; ma ella già poco spera nelle
proprie lagrime.
Altra volta
, ella dice,
avrebbe per esse dichiarata la guerra a chi che sia
, e ciò non è
fuor di proposito; ma soggiunge
che avrebbe fatto retrocedere
il Tago verso la sorgente e convertita la notte in giorno
; e ciò è
scherzare, mentre queste espressioni appena si permettono al genere lirico
in cui parla un poeta ispirato, ma si reputano sulla scena false fantastiche
contrarie all’effetto ed allo stato di Rachele. Anche Ruben scherza facendo
in tal punto pericoloso una enumerazione lirica delle
perle di
Oriente
, dell’
oro dell’Arabia
,
delle
sete del Catai
, delle
porpore di
Tiro
, degli
odori Sabei
, de’
tapeti
di Turchia
, delle
tele di Persia
, e aggiunge
infine,
quanto oro encierra en sus abismosel hondo mar, y quanta plata, cuentan,sudaron los famosos Pirineosquando Vulcano liquidò sur venas.
Con minore sfoggio il medesimo pensiero
produrrebbe migliore effetto, e sarebbe più proprio di chi vuol persuadere.
Ma quel Vulcano della gentilità per dir fuoco, conviene ad un Ebreo? Quel sudor d’argento de’
Pirenei, mentre Vulcano ne rende liquide le vene,
è alchimia del secolo XVII. I Pirenei non sudano argento
se non in bocca di Garcia de la Huerta, come
sudarono
una volta
i fuochi
in un sonetto
italianoa. Il popolo è sedato;
ma il re per cautela ba ordinato a un campo di duemila cavalli e cento
bandiere che maroiavano verso Cuenca, a tornare a Toledo per fortificare la
Rocca di San-Cervantes. Questi ordini quando si sono dati? queste marce
quando si sono eseguite? Dopo che il re ha
disposto il bando di Rachele verso la fine dell’atto I. Ordini a un campo di
dodicimila soldati di partire, loro marcia diretta verso Toledo, presidio
introdotto nella fortezza, esigono tempo, e due scenette non bastano per
tutto ciò, se voglia attendersi alla verisimiglianza. Adunque anche
nell’intervallo degli atti è passata questa parte importante dell’azione, ed
essa non è tutta alla vista, come si gloriava l’autore senza utilità e senza
verità. Alfonso riposando su tali disposizioni riflette sulla condizione de’
principi bene infelice, e si vale di alcuni pensieri di Orazio, o
, ornamento tutto
lirico, impertinente in bocca di un appassionato e ridondante, e vi si
compara oziosamente la vita rustica e la reale per cinquantotto versi.
L’immortale Metastasio sobriamente adoprò questo colore nella Clemenza di Tito, ma v’impiegò soli dieci versi, e Tito era un
sovrano pieno di cure, ma non un Alfonso dominato da una
cieca passione. Viene Rachele piangendo, ed Alfonso dice:
fortuna invidiabile del villano ec.
Raquel llora! mucho de ti recelo valor mio.
Anderebbe
bene questo suo dubbio di non poter resistere, se Rachele non avesse pianto
un’ altra volta nell’atto I senza aver nulla ottenuto. Rachele viene a fare
l’ultima pruova del potere del suo pianto. Alfonso però, come se non
l’avesse mai veduta piangere, si meraviglia dell’ardore straordinario che in
lui produce;
quando se ha vistosino en mi daño tan extraño exemplo,fenomeno tan raro y peregrino?
Non si capisce come possa dirsi fenomeno rarissimo e pellegrino l’ardore che
in lui cagiona il pianto di Rachele. Huerta che in altro
non si è occupato in tutto il tempo della sua vita che in verseggiare, non
si accorgeva de’ versi leonini che gli scappavano dalla penna di tempo in
tempo, quale è il secondo di questi tre pel daño tan
extraño. Egli alfine mal grado
delle di
lei lagrime le rinnova l’ordine di partire; ma tosto ripiglia;
che ho io profferito? posso pensarlo? posso permetterlo
? Perchè no
(potrebbe dirgli lo spettatore) se poche ore prima l’avete eseguito senza
tanto dolore? La scena dell’atto I rende incostante il carattere di Alfonso,
e scema la verità ed il patetico di quest’altra. Rachele stessa non può
dissimularlo, e gli dice; non ordinaste voi stesso il mio esiglio? È vero,
dice Alfonso, ma ne fu cagione la paura che io ebbi,
temor lo
hizo
. Questa ingenua confessione del timoroso Alfonso potrebbe far
ridere chi si ricordasse delle di lui speciose minacce trasoniche dell’atto
I,
Tiemble Castilla, España, Europa, el Orbe.
In somma il carattere di Alfonso è picciolo ed inconcludente; ed il poeta Diamante un secolo prima ne fece una dipintura più uguale. Dopo ciò Rachele affetta desiderio di partire, ed il re si ostina a farla rimanere, perdona agli Ebrei, vuol pure che ella governi per lui, e colla maggior gravità di sovrano impone alla guardia che a lei obedisca e la colloca sul trono. Rachele ammette al bacio della mano i Castigliani trattandoli con sommo orgoglio. Essi si meravigliano della leggerezza di Alfonso, e non hanno torto, giacchè ora minaccia, ora teme, ora ordina il bando degli Ebrei, ora si pente, ora esiglia Rachele, ora la pone sul trono, e non è mai lo stesso.
Giornata III. I medesimi personaggi escono con altri sollevati della scena
ultima dell’atto precedente. Or perchè entrare per uscir di nuovo? Se per
unirsi in maggior numero e deliberare, dunque nell’intervallo degli atti si
è fatta qualche altra cosa che non si vede in iscena a dispetto della
jattanzia dell’autore che si arrogava un merito esclusivo. Se poi nulla si
fa nel voto degli atti, cade Huerta ancora nel ridevole
difetto di lasciar l’azione interrotta, che abbiamo notata in Ayala patrocinato dal Sampere o Guarinos. È però assai piacevol cosa vedere
nella stessa regia sala di udienza in faccia al trono
raccorsi i congiurati, machinare, altercare, schiamazzare, sguainar le spade
e gridar
muera muera
, senza che vi sia almeno un domestico
del partito del re o di Rachele che gli ascolti o gli osservi. Essi partono
ad istanza di Garcia che ne ottiene che si differisca l’eccidio di Rachele
sino a che il re vada alla caccia. Maurique fa sapere a Garcia che Rachele
l’esilia da Toledo, al che egli risponde magnanimamente. Quì l’autore fa
nascere per incidente un contrasto fra loro, e Garcia rimprovera a Manrique
varii tradimenti commessi dalle famiglie de’ Lara e de’
Castro, rimprovero nulla conducente all’argomento, ed
inserito dall’autore per astio o per adulazione per la famiglia Garcia
contro di quell’altre; e ciò unito alla menzione della predilezione del re
per la caccia che svegliava l’idea di qualche allusione temeraria, sembra
che avesse dato motivo alla sospensione della rappresentazione della
tragedia. Rachele si
presenta di nuovo piangendo,
perchè il re ha determinato di andare alla caccia senza riflettere ai di lei
pericoli. L’autore è caduto in quest’altro incoveniente per seguire anche
quì la traccia di Diamante. Ma nel componimento di costui
che non si limita alla durata di un giorno, ma abbraccia sette anni, la
caccia per cui il re si allontana dalla reggia non è ripiego inverisimile,
là dove nella favola congegnata da Huerta il re s’invoglia
risolutamente di andare a caccia poche ore dopo che il popolo ha chiesta la
morte di Rachele, quel popolo ch’egli ha poco prima mortificato con far
sedere l’abborrita favorita sul trono e con rivocare il bando degli Ebrei.
Ed in che egli si fida? Ne’ soldati che ha chiamati in Toledo? Ma la sua
passione dovea sugerirgli che que’ nobili vantati da Garcia potevano aver
fra essi qualche aderenza. Le lagrime di Rachele, cagione poco fa di fenomeni rari e pellegrini, riescono questa volta
infruttuose. Il re va alla caccia. Rachele si
consola alla meglio, si asside un’ altra volta sul trono, parla de’
pubblici affari, decreta, e fa quello stesso ch’ella un secolo prima fece
nella favola di Diamante la Judia de Toledo. Pensa di far
troncar la testa a Garcia, ma viene interrotta da nuovi schiamazzi de’
Castigliani. Chiama impaurita la guardia che l’ha abbandonata; si volge a
Manrique che si ritira per avvertirne il re; s’indrizza a Ruben che le dà un
freddo consiglio e parte. Queste circostanze esigerebbero un discorso
rapido, cocente, e non ciò che ella dice in ventiquattro versi freddi
anziche nò, per li quali si spende più tempo che non dovrebbero darle i
Castigliani irritati, e non trattenuti da ostacolo veruno. L’azione si
rallenta ancora per altri trenta versi recitati da Garcia prima di offerirle
di salvarla facendola uscire per una porta secreta. Questo punto dell’azione
richiedeva più moto che parole. Rachele non accetta l’esibizione di Garcia,
ed i congiurati tornano colle spade alla
mano e
vanno in traccia di lei. Garcia vorrebbe pur liberarla dalla morte e
trattenerli, ma vedendo Ruben sì ferma per rimproverargli con molte parole i
perversi consigli dati a Rachele. N’era questo il tempo? L’azione corre,
vola, e non permette indugio veruno. Osservo che la favola di Diamante in
questo passo è più rapida. Ruben si nasconde dietro del trono, Rachele vuol
far lo stesso, e trovandovi Ruben gli rinfaccia i pravi suoi consigli.
Giungono i Castigliani, e Rachele va loro incontro, dicendo,
Traidores… mas que digo? en vano animo!Nobleza de este reyno, asi la diestraArmais con tanto obbrobrio de la famaContra mi vida?
Questo tratto è copiato, benchè male, dal poema Raquel inserito nel Parnaso Español. Luis de Ulloa che n’è l’autore, dice così :
Traidores, fue decirles, y turbada viendo cerca del pecho las cuchillas,mudò la voz, y dijo, caballeros,asi infamais los inclitos aceros?
Ognuno si accorge che tal pensiero si è peggiorato dal copiatore Huerta. Nel poema si concepisce, ma non si pronuncia la voce traidores, e con ciò si lascia luogo alla preghiera; nella
tragedia l’ingiuria è scoccata, e la correzione giugne fuor di tempo. Nel
poema Rachele vuol dire che ferendola essi macchiano i loro acciari col
sangue di una femmina; nella tragedia si chiama obbrobriosa l’azione di armarsi contro di lei, ritrattando così la
correzione; e rinfacciando loro la ribellione, la qual cosa rende inutile la
preghiera.
Inclitos aceros
nel poema contiene una lusinga,
che nobilita la condizione de’ congiurati, il che non esprime la diestra detto nudamente nella tragedia. Finalmente la
stessa energica concisione dell’originale nelle parole
Asi infamais los inclitos aceros
si snerva nella tragedia distendendosene il pensiero in due endecasillabi e mezzo.
Mentre Fañez pensa a fare uccidere Rachele, Ruben in mezzo a tanti robusti armati solo debole e vile cava fuori un pugnale (come dice) per difendersi. Fañez per non far macchiare le spade de’ compagni nel sangue di una femmina, impone all’Ebreo di ucciderla promettendo a lui la vita. Ruben non si fa pregare, e la ferisce. I Castigliani si ritirano. Si domandi al poeta, perchè mai Ruben non seguita coloro che gli hanno promessa la vita? perchè rimane colà stupidamente col pugnale insanguinato alla mano? Rachele spirando chiama Alfonso, che giugne, ed ella ha tanto di fiato che può dirgli che la plebe sollevata l’ha destinata alla morte, e che Ruben l’ha ferita. Alfonso recita un lamento di venticinque versi. Ruben si sente accusare da Rachele, vede il furore del re, ascolta ciò che egli dice, e non fugge. Chi vide rappresentar la tragedia, mi assicurò che il pubblico si stomacò di vedere quell’insipida figura rimasta sì lungo tempo col pugnale alla mano. E doveva così avvenire. Il poeta voleva farlo morire, e non seppe trattenerlo in iscena con verisimiglianza. Alfonso alfine a lui si volge, gli strappa il pugnale, e glie l’immerge nel seno macchiando la sua mano reale del sangue vile dello scellerato Ebreo. Alfonso nella conchiusione procede in conseguenza del carattere datogli dal poeta, e le prime sue riferite incostanze non sono smentite dalle ultime. Egli incomincia dal fare l’uffizio del carnefice nella persona di Ruben; ma benchè prima alla sola idea che Rachele dovea allontanarsi avea chiesto ad un vassallo che gli togliesse la vita, ora alla vista del sangue e del cadavere di Rachele caldo ancora, repentinamente acquista dominio sulla sua disperazione, ed ammette in quel medesimo istante gli uccisori alla sua presenza e gli perdona, contentandosi dire che serva loro di pena,
Contemplar lo horroroso de la hazaña.
Così termina questa tragedia di Garcia de la Huerta lavoro di quindici anni.
L’autore nella morte e nel carattere di Rachele non ha alterata la storia
(benchè in tanti altri fatti l’abbia senza necessità falsificata) perchè era
persuaso che
corregge meglio i costumi il gastigo del vizio ed
il premio della virtù
. Quì di premio di virtù non si favella, se
l’autore non istimasse virtù la ribellione ed il conculcare ogni riguardo
dovuto alla maestà. Si tratta solo del gastigo del vizio. Rachele enunciata
come una prostituta, ramera, avara, ambiziosa, nociva allo
stato, cagione del letargo del re, merita la morte; nè può eccitare veruna
compassione tragica, ma quella soltanto che detta
l’umanità per gli rei che vanno al patibolo. Per convenire alla tragedia
dovea rendersi meno odiosa senza lasciarla impunita. Questa è la
differenza che passa tra una vera esecuzione di giustizia
ed un evento esposto sulla scena tragica. L’esecuzione reale lascia il fatto
come è, la teatrale l’accommoda al fine della tragedia. Il poeta dee
maneggiarlo in guisa che il personaggio destinato a commuovere si renda
degno di pietà, affetto ammesso come naturale all’uomo ed opportuno a metter
l’anima in agitazione per disporlo a ricevere l’ammaestramento che è
l’oggetto morale della poesia. Rachele (eccetto la gioventù e la bellezza)
non ha qualità veruna che faccia sospirare per la sua morte. Il poeta
Diamante in questa medesima guisa dipinse la sua Rachele, ed Huerta calcandone le orme si diede un vanto non vero, dicendo
esser tal piano
un suo sistema particolare
. Si noti però
che la Rachele del Diamante desta più
acconciamente la tragica compassione, perchè, oltre alla gioventù e alla
bellezza, la mostra più innamorata, e nel fatal momento in cui è uccisa, le
pose accanto il canuto suo padre, il quale
maltrattato da’ sollevati ne aumenta l’infelicità, e la rende più
compassionevole. La Rachele dunque di Huerta manca d’invenzione, perchè ne tolse la traccia tutta da Diamante. Ed il sig. Andres errò anche
in ciò che la stimò
originale e propria
di Huerta, non sapendo che egli altro non fece che versificare in
nuova forma la Judia de Toledo. In questa guisa il sig.
Sebastian y Latre non fece che verseggiar diversamente
la Procne y Filomena di Francesco Roxas;
nè altra differenza vi è tra questi due autori, se non che l’Aragonese
ingenuamente ne prevenne il pubblico, ed Huerta lo
dissimulò. Egli fe peggio ancora. In ricompensa di quanto egli prese dal Diamante, stimò bene di escludere la Judia de
Toledo dalla collezione che eseguì al fine del Teatro
Spagnuolo. Questa abbraccia trentacinque favole oltre della sua Rachele e delle sue traduzioni di cui bentosto parleremo.
Ma qual pro reca alla nazione una collezione che non è nè ragionata, nè
completa, nè scelta? Non è ragionata perchè nulla
addita nè degli errori nè delle bellezze de i drammi; non completa perchè
non pochi altri componimenti dovrebbe contenere; non iscelta, perchè alcuni
in essa s’inserirono senza merito particolare. Chi avrebbe (diamone un
esempio) omessa nelle favole eroiche o la
Judia de Toledo, o Dar la vida por su Dama, o los Amantes de Teruel, le quali sempre riempiono di
spettatori le scene spagnuole, per eleggere Eco y Narciso
nojosa favola mitologica di Calderòn de la Barca che più
non si recita? La Raquel moderna per altro supera la Judia del Diamante per la versificazione
che non è senza dolcezza, e per lo stile, eccetto ne’ passi indicati dove
degenera in gongoresco. È anche dell’antica più regolare, benchè per questa
parte già si erano prima di Huerta distinti Montiano, Cadahalso, Moratin, Ayala, Sedano.
Ne’ due tometti delle Opere Poetiche di Garcia de la Huerta si vede un rame coll’incisione di Rachele moribonda, e dell’oziosa figura di Ruben, che col pugnale alla destra stà aspettando colla sinistra nel mento che venga Alfonso e l’uccida. Questo rame è animato dal seguente distico dell’autore :
Plebs ferro me saeva petit; pereoque libenterCarnificis doctâ sic mage pulcra manu.
Il lettore non ne può comprendere il pensiero. Rachele (egli dirà) non può morir di buon grado, nè per l’esperta mano del boja divenir più bella. Ma eccone il comento. L’incisione del rame fu opera di don Isidro Carnicero; e l’autore per lodarlo volle fare una puerile allusione al di lui cognome Carnicero, scherzando sulla parola carnifex con darle erroneamente un doppio significato. Carnicero in castigliano dinota ciò che i Latini dicono lanio, e gl’Italiani macellajo. Huerta voleva che carnifex destasse l’idea di boja insieme, e di macellajo, di boja per adattarsi alla morte ricevuta da Rachele, e di macellajo per alludere al nome dell’incisore. Ma carnifex in latino significa soltanto il verdugo dell’idioma castigliano, che è il manigoldo dell’italiano; nè mai nella lingua degli Orazii e de’ Tullii significò il bottegajo di un macello, come significa carnicero, e perciò il pensiero rimane nella testa dell’autore.
Volle anche il sig. Huerta rifare la Venganza
de Agamemnon del maestro Perez de Oliva che la
compose in prosa, e la scrisse sul gusto stravagante del Bermudez con ottave, odi, stanze, e con ogni sorte di versi
rimati, ed anche con assonanti. Egli nell’azione si attiene al Perez, che seguita le orme di Sofocle, facendo anche riconoscere
Oreste per mezzo dell’anello. Huerta in una nota
coll’usata sua modestia si vanta di correggere Sofocle per far che
quedase con menos impropriedades
, cioè rimanesse spoglio
della maggior parte de’ suoi errori. Per conseguirlo bisognava in
prima che egli sapesse quali errori ed
improprietà appartenessero a Sofocle, e quali a’ suoi traduttori ed
indovini; di poi che egli avesse giuste idee delle proprietà convenienti al
greco argomento, ed a’ greci costumi, volendo rimpastare quella tragedia.
Osservo intanto che egli ha preso un cammino che lo conduce al contrario
della sua promessa. In prima tratto tratto egli ingigantisce le idee
semplici naturali e patetiche del greco originale; ne perde le bellezze del
Coro senza rimpiazzarle in verun modo; rende la favola pesante colla nojosa
lunghezza e languore de’ ragionamenti; per troncarne le pretese improprietà, rimoderna alcune usanze, e ne aggiugne altre nuove
inescusabili. Che utile cambiamento è quello d’introdurre una cassa capace di un cadavere intero da portarsi sugli omeri de’
Greci alla guisa de’ facchini, in vece di lasciarvi l’urna antica che
conteneva le ceneri di un estinto, e che poteva portarsi in mano, come
rilevasi da Aulo Gellio nel
parlar di Polo, e
dall’istesso Sofocle. Egli sin dalla prima scena fa dire ad Oreste;
torneranno portando nelle mani χεροιν)
una picciola urna di
bronzo, fingendo che contenga il mio corpo bruciato, e ridotto in
cenere
. Anche nella scena della riconoscenza Elettra indirizzando
la parola ad Oreste che crede morto, dice come io traduco,
Vieni pondo ben lieve in picciol vaso,
che picciol vaso significa quell’εν σμικρῷ κυτειν
, e non già
un atahud o cataletto, come è tal passo deformato dal
miglioratore Huerta. Che miglioramento è quest’altro di
far che nasca in iscena, e si proponga da Cillenio il pensiere di singere
l’arca che ha da contenere un peso proporzionato ad un corpo umano, quando
Sofocle provvidamente suppone questi preparativi già fatti prima che Oreste
capiti coll’ajo in Micene? E perchè in oltre non imitare la vivacità
dell’originale nella riconoscenza di Oreste in vece di raffreddarla
sgarbatamente con
fanciulleschi enigmi?
Chi sei?
dice l’Elettra dell’Huerta, ed
il di lui Oreste risponde a maniera di oracolo,
Un hombre soy que en su sepulcro sulcalos mares de fortuna.
Queste sciocchezze doveano in Ispagna esser sostituite alla sobrietà di
Sofocle? Così si sarebbe spiegato Gongora nel colmo del delirio, e così si è
spiegato il di lui ammiratore Huerta, il quale
apparentemente cambiò l’urna in atahud, per mettere in
bocca di Oreste l’indovinello,
io sono un uomo che nel mio
sepolcro solco i mari della fortuna
. Sofocle si era ben guardato
dall’avventurare in faccia all’uditorio Clitennestra moribonda; ed Huerta nemico delle improprietà ve la spinge senza perchè,
ed a solo oggetto di declamar tutta sola venti versi, e poi senza perchè
ancora se ne torna dentro. Ora quando in argomenti sì rancidi, e trattati
ottimamente da più di cento poeti, non si sanno combinar nuove situazioni
patetiche che formino quadri
terribili alla
maniera di Michelangelo; quando si hanno da riprodurre con nuovi spropositi,
perchè esporsi a far di se spettacolo col paragone? Huerta
ha pur tradotta (dicesi) la Zaira da me non veduta; e mi
auguro che ne abbia tolte le improprietà meglio che non ha fatto nell’Agamennone di Sofocle. Il suo compatriotto Andres disse di tal fatica di Huerta sull’Agamennone, che egli
volle far gustare a’
suoi le bellezze del greco teatro
. Si è veduto che diverso fu
l’intento dell’orgoglioso traduttore. Dovea però dire che volle rendere in
castigliano tale argomento; perchè quale greca bellezza vi ha egli
trasportata in vantaggio del teatro moderno? Ma neppure rettificando così il
suo giudizio avrebbe profferita una giusta sentenza, perchè l’argomento
dell’Agamennone già era nato in Ispagna per la
traduzione del Perez. Tanti giudizii mal fondati, e tanti fatti erroneamente esposti, non che sulla
letteratura straniera, sulla spagnuola, mostrano ad evidenza essersi il sig.
Andres ben poco curato di
leggere gli scrittori nazionali, de’ quali volle prendere la difesa. Senza
ciò, come conciliare i lumi e i talenti di questo letterato colle sentenze
che pronunzia?
Altre tragedie si composero in Madrid finchè io vi dimorai, ma non si rappresentarono. Lorenzo de Villaroel marchese di Palacios produsse una tragedia intitolata Ana Bolena, ed un’ altra il Conde Don Garcia de Castilla, lodate dal sig. Huerta, ma da me non lette a cagione del mio passaggio in Italia. Vi erano ancora rimaste inedite il Pelagio, l’Eumenidi, i due Gusmani. Il sig. Andres rigido investigatore del perfetto a segno che in Italia non trova altra buona tragedia che la Merope, non ha poi trascurato d’inserire nella sua bell’opera non solo i componimenti gesuitici fatti rappresentare nelle loro scuole e colà rimasti, Filottete, Gionata, Giuseppe, Sancio de Abarca, ma quelli che pubblicarono Bazo, Quadrado, Guerrero, Sedano, Ibañez tutti derisi da’ nazionali al pari del Paolino di Aüorbe y Corregel e della Briseida musicale di don Ramon La-Cruz. Io rispettando l’ingegnosa sua nazione lascio tutte siffatte filastrocche a i di lui sforzi per rapirle all’irreparabile dimenticanza.
Con più vantaggio ed onore della nazione rammenteremo alcune traduzioni delle
tragedie francesi uscite dopo del Cinna del Pizzarro Piccolomini. Eugenio Llaguno y Amirola
tradusse ottimamente l’Atalia del Racine
spregiata dall’Huerta, e la pubblicò nel 1754. È
verseggiata in endecasillabi sciolti interrotti da qualche rima arbitraria.
La tradusse eziandio in Portogallo il dotto p. Freire
prete dell’Oratorio occultandosi col nome di Candido
Lusitano sotto di cui pubblico più opere nel 1758. Vi premise una
erudita dissertazione, in cui additò le bellezze di quell’originale capo
d’opera che il sig. Huerta ingannando gl’innocenti suoi
ammiratori stimò componimento cattivo di un
imbecille
.
L’Ifigenia del medesimo Racine
(a
giudizio del famoso
Huerta)
poeta dozzinale, si trasportò con tutto il garbo in castigliano dal duca di
Medina-Sidonia Pietro de Guzman, e si pubblicò nel 1768.
Questo medesimo cavaliere nel 1776 fece imprimere la sua versione del Fernando Cortes di Alessio Piron. Egli
cessò di vivere nel 1778.
Rimane a parlare di tre esgesuiti spagnuoli tra noi traspiantati, i quali spesero onoratamente il loro ozio in comporre alcune tragedie nell’idioma italiano, cioè dell’abate Giovanni Colomès catalano, di Emmanuele Lassala valenziano, e di Pietro Garcia de la Huerta fratello dell’autore della Raquel.
L’ab. Colomès nel 1779 pubblicò in Bologna il suo Marzio Coriolano, argomento trattato colla solita irregolarità dal Shakespear e dal Calderòn de la Barca, e languidamente da altri. Non è tanto la sterilità che lo renda scabroso a maneggiarsi, quanto l’impossibilità di combinare verisimilmente in un giorno ed in un luogo l’angustia di Roma assediata da’ Volsci, e quella di Marzio combattuto dalla vendetta che vuol prendere de’ suoi nemici nazionali e dall’amor filiale. Chi vuole spaziarsi sullo stato di Roma, è costretto a render Marzio invisibile, come fece nella sua tragedia il nostro Cavazzoni-Zanotti. Chi vuol trattare dell’inflessibilità di Marzio espugnata da Vetturia, troverà sterile la materia per cinque atti. Non so però perchè non si è procurato di trattare in soli tre atti il contrasto dell’amor filiale, e del desiderio di vendicarsi nel cuor di Marzio, colla vittoria del primo che ne cagiona la morte. Il Colomès ha unito lo stato di Roma, la vittoria di Vetturia, la morte di Coriolano; ma ne riduce l’azione ne’ contorni di Roma, ora nel campo Marzio, ora nel tempio di Marte, ora nel campo de’ Volsci, e tutta la ristringe con qualche violenza nel tempo prescritto dal verisimile. Essa incomincia da un punto lontano trattenendosi i Romani ne’ Comizii senza punto sapere dell’invasione de’ Volsci, i quali hanno già espugnata Lavinio, cacciati i Coloni Romani da Circe, Trebbia, Vitellia e Polusca, dilatati i proprii confini sino al Tebro. Si rinserrano poi troppe cose nella durata di un giorno, dovendosi fare accampare i Volsci, dar luogo ad una tregua, superare il Gianicolo, tramarsi una congiura contro Marzio dichiarato dittatore, rompersi la tregua, venirsi a un altro fatto d’armi, allestirsi barche e legni per passare il Tevere, farsi due abboccamenti colla madre, una zuffa nel campo de’ Volsci, seguir la morte di Tullo, la sortita de’ Romani, la fuga de’ Volsci, l’uccisione di Coriolano. Contuttociò lodevoli soprammodo sono gli sforzi dell’autore per averla scritta con felicità in un linguaggio straniero. E chi oserebbe far motto di qualche squarcio prosaico, di alcun verso duro, o di qualche sentimento spiegato men precisamente? Questo è il caso in cui l’indulgenza è giustizia. Accennerò anzi con piacere qualche tratto pregevole. Nell’atto I si osserva una felice imitazione di un pensiero di Metastasio. Zenobia dice,
Salvami entrambi,Se pur vuoi ch’io ti debba il mio riposo,E se entrambi non puoi, salva il mio sposo.
Vetturia nel Marzio dice :
Ad una madreTu ridona il sostegno, e con la patria,Se puoi, lo riconcilia; ma rammenta,Che di Roma sei padre. Salva entrambi,Ma se il figlio non puoi, Roma almen salva.
Patetico è il discorso del sacerdote nell’atto III; felice l’immagine che Volunnia rappresenta a Marzio di se stesso posseduto da’ rimorsi nel caso che trionfasse di Roma; grave la seconda scena dell’atto V, in cui Vetturia espugna la durezza del figlio; buone imitazioni di Torquato Tasso si scorgono nella scena sesta descrivendosi la rotta de’ Volsci; interessante in fine l’ultima scena per la morte di Coriolano.
Del medesimo abate Colomès è l’Agnese di
Castro uscita in Livorno nel 1781. La Castro del
Ferreira, come già narrammo, copiata e piggiorata dal
Bermudeza, è la sorgente delle
Agnesi posteriori. La Cerda ed altri
Spagnuoli la trasformarono in un mostro tragicomico. La Motte ne fece la felice sua Inès. Apostolo Zeno
trasferendola ad un’ altra nazione ne compose il melodramma Mitridate. Più felicemente si allontanò dalle altrui vestigia
Pietro Metastasio nel Demofoonte, il quale mette capo
ancor più nell’Edipo di Sofocle, e nella Semiramide del Manfredi, che nella Inès. Il sig.
Colomès ha seguita l’Inès del La-Motte nelle principali situazioni e nello scioglimento,
benchè non lascia di render nobilmente giustizia alla bella produzione del
Cesareo poeta Romano. La sostanza dell’Inès e dell’Agnese è la stessa, variando solo in alcune circostanze.
Ciocchè nella tragedia del La-Motte opera la regina, viene
nell’Agnese del Colomès eseguito
dal siniscalco del regno; ma i motivi che agitano
la regina sono assai più attivi, perchè concernono direttamente la persona
di Agnese, per cui viene rifiutata la propria figlia; là
dove l’odio di Alvaro è contro Ferdinando, e non contro la di lui sorella.
La parola data da Alfonso al re di Castiglia cagiona nell’uno e nell’altro
dramma il pericolo di Agnese, e la ribellione del principe. Ma il carattere
di Alfonso nella favola francese è di un padre sensibile che ama il valore
del figliuolo, benchè sia disposto a punirlo, nè il poeta Cesareo ha calcato
diverso sentiero nel Demofoonte; là dove il Colomès fa nascere perturbazioni meno tragiche col formare il suo
Alfonso severissimo per natura, poco sensibile agli affetti di padre, e
prevenuto contro del figliuolo. Il secreto delle nozze occulte svelato al re
forma una scena interessante dell’atto V dell’uno e dell’altro dramma. Nel
francese però fa più grande effetto; perchè l’arcano si è conservato solo
tra il principe e
la consorte, e bisogna dire a
gloria di Metastasio che è maggiore ancora nel Demofoonte,
perchè la sola necessità lo strappa dalla bocca di Timante per salvar Dircea
dal sacrifizio. Nel dramma del Colomès però in prima non è
sì pressante la necessità di svelare il secreto alla regina sin dal
principio, e poi ne restano di mano in mano istruiti molti personaggi. Nel
dramma francese al racconto d’Inès il re si commuove e concede il perdono,
la riconosce per moglie del principe ed abbraccia i nipoti; ed il Colomès si è bene approfittato di questa bella scena. Il
veleno apprestato dalla regina ad Agnese, per cui diviene inutile il perdono
ottenuto, e ne rimane estinta, è ritrovato dell’autor francese, e gli è
stato rubato da diversi tragici dozzinali. Certo La-Motte
non lo dee a veruno, nè gli fu sugerito dalla storia della Castro. Era
dunque più bello che il Colomès, ingenuo per altro, e
probo uomo, dopo di averlo trascritto, lo riconoscesse da quel Francese, che
dire con poca gratitudine, che
per necessità dell’azione ha dovuto incontrarsi con lui. La sua
candidezza avrebbe accresciuto il proprio merito di avere abbellito questo
colpo con nuove acconce espressioni. La stessa istorica imparzialità che ci
obbliga a tal confronto, ci fa dire, che il Colomès ha
prestate a questo argomento nuove bellezze. Tale ci sembra la voce sparsa ad
arte dal falso Alvaro della finta morte del re, per leggere nell’animo del
principe, e per assicurarsi che Agnese sia da lui amata.
Per lo stile lascia rare volte di esser grave, ed il patetico n’è ben
sostenuto, e con passi armoniosi e robusti compensa certe espressioni che
parranno intralciate, più prosaiche, e meno precise e vibrate. Debbo pur
anche far notare che la ricchezza, l’energia, e la maestà della lingua
italiana, e le maniere usate da’ nostri poeti grandi, danno all’Agnese un certo che più grande che manca al cattivo verseggiatore
La-Motte. Pieno di poetica vivacità non iscompagnata
dalla passione, è il racconto di Agnese alla regina nell’atto II; quanto ella dice nell’atto V, è
parimente espresso con verità ed affetto; chiama l’attenzione il discorso
ch’ella sa al re quando discolpa il principe. In somma il sig. Colomès con iscelta più felice in questa seconda tragedia ha dato
al teatro un’ Agnese non indegna degli sguardi degli
eruditi; e la Spagna dovrebbe gloriarsene, come la più regolare ed
appassionata uscita da un suo figlio, e desiderare che fosse stata composta
in castigliano. Si rileva da una lettera dell’autore scritta al sig.
Pignatelli, che egli avrebbe accompagnata l’Agnese con
altre due tragedie, se la sua salute gli avesse permesso
di
aggiugnere l’ultima lima al suo lavoro
.
Uscì nel 1779 in Bologna l’Ifigenia in Aulide dell’abate
Lassala, che nel dedicarla alla contessa Caprara
descrive l’invenzione del pittore Timante di dipingere Agamennone col volto
coperto. Timante però posteriore a Polignoto che fioriva verso l’olimpiade
XC,
non fu l’inventore di tal ripiego che
appartiene all’istesso Euripide nato l’anno primo dell’olimpiade LXXV.
Euripide disse di Agamennone che
volse il capo indietro, pianse
dirottamente, e si coperse gli occhi con la veste
,
… καμπάλιν στρεψας καραΔακρυα προηγεν ὀμματών πεπλον προθεις.
Nocque al sig. Lassala la scelta di un argomento incapace
di migliorarsi dopo di Euripide e Racine, i quali a’
posteri non lasciarono se non l’alternativa o di copiarli o di traviare.
Egli debbe a quest’ingegni originali la semplicità, l’orditura, lo
scioglimento e le situazioni principali dell’azione. Sarebbe a desiderare
che vi si fosse anche attenuto in certi passi. Il carattere di Menelao, che
pure nella tragedia greca sembra in certo modo incostante, in questa del Lassala comparisce ancor più difettoso. In prima egli è
inoperoso, si esprime con bassezza, e villania col fratello, e nel
cangiamento che fa si dimostra arrogante,
incongruente, ed opposto a’ proprii interessi. Il tragico Greco compensa
il difetto accennato prestando al marito di Elena discorsi lontani da’
colori adoperati dal suo imitatore Valenziano. Con più senno egli ad esempio
del Francese si sarebbe dipartito dal Greco nello scioglimento, in vece di
adottarne la macchina a’ nostri tempi non credibile. Si allontana poi il Lassala dall’uno e dall’altro tragico nell’oziosa scena
seconda dell’atto II, in cui Achille
con gli occhi bassi
dice alle principesse che
gode del loro arrivo
, e che
non può trattenersi
, e parte. Sconcio, intempestivo, e mal
espresso e falso è il seguente pensiero di Agamennone :
Nel cristallo stessoDinanzi a cui ordinando il crine sparsoL’arte accresceva a sua beltà ornamento,Cercherò almen di te la fida immagoImpressa un dì, ma fuggitiva altrove,Sarà disparsa, e cancellata ovunqueEsser solea.
Delicatezza e proprietà si desidera anche nell’atto III nella scena di Clitennestra ed Achille. Lo stile manca di precisione, di proprietà, di forza, e di sublimità, lussureggia, ed enerva i sentimenti col distenderli con verbosità. La frequenza e non variata spezzatura del verso ne toglie ogni armonia. La locuzione è prosaica talmente che scrivendosi seguitamente come si fa in prosa, non vi si distinguerebbe il numero de’ versi. Circa la lingua tutto si dee perdonare a uno straniero che si studia di coltivar quella del paese ove abita. Osservo nonpertanto che vi si trova espresso con passione e felicità ciò che nell’atto IV dice Ifigenia al padre, tratto dal greco, e ciò che ella dice ancora nella conchiusione della settima scena dell’atto V.
L’esgesuita Pedro Garcia de la Huerta non prese a tradurre o imitare favole straniere; ma pieno dello spirito di Vincenzo suo fratello volle recare al nostro idioma in versi sciolti la di lui Raquel, com’egli dice.
Per la gloria di dare all’un germanoDell’altro un segno di verace amore.
Egli ad eccezione di aver soppresse le millanterie stomachevoli della prefazione dell’edizione matritense della Rachele, e ratificata alcuna delle varie espressioni false e gongoresche dell’originale, attende unicamente a servire al dovere di fedel traduttore, e nella sua copia non altera punto la traccia della favola spagnuola, nè rende meno ineguale e più congruenti i caratteri, nè dà più fondamento alla compassione tragica, nè corregge gli errori di storia, nè tutte castiga le intemperanze dello stile. Questo semplice giudizio portato sulla versione della Rachele non è stato punto alterato dopo che seppi che Don Pedro de la Huerta, in non so quale sua operetta che avea trasmessa per istamparsi a Madrid, abbia trattato l’autore della Storia critica de’ Teatri con tutta l’animosità e l’asprezza fraterna. Noi annojati dalle inette sofistiche cicalate de’ piccioli entusiasti apologisti che sacrificano all’amor di partito le arti e la verità, e turbano la tranquillità delle lettere con gli orrori e gl’impeti de’ fazionarii, lasceremo per ora borbottare in pace, ed insolentire a sua posta quest’altro esgesuita, e ci contenteremo per suo meglio di augurargli miglior gusto e minor villania e spleen del di lui fratello.