CAPO V.
Teatro Tragico Francese nel XVII secolo.
Pietro Cornelio nato in Roano nel 1606 il quale sin dal 1625 colla sua Melite cominciò a prendere superiorità su i contemporanei, e le cui sette commedie prime, benchè sì difettose, promettevano un ingegno non volgare che giva formandosi: prese in prima a purgar la scena nazionale dalle indecenze, indi ad ammettere la contrastatà regolarità, e a cercar la nobiltà nello stile co’ precetti e col proprio esempio. Il primo saggio che fe delle sue forze nel tragico, fu la Medea Egli amava con predilezione Lucano e Seneca, e nelle di loro opere attinse non meno l’amor del sublime che l’impeto e la foga che il trasportava al pari de’ suoi modelli nell’enfatico e nell’ampolloso. Il sublime Moi di tal tragedia tirò verso Cornelio gli sguardi della Francia, ed oscurò i drammi tutti de’ contemporanei.
Appresso ad impulso di certo m. Chalons segretario della regina Maria Medici ritirato in Roano, diessi a leggere le commedie spagnuole, e colpito dall’argomento del Cid di Guglielmo di Castro uno de’ mediocri drammatici della Spagna, ne formò una tragedia. Non fu questa la prima nè di Cornelio, perchè la Medea l’avea preceduta, nè del moderno teatro, come affermò l’esgesuita Andres a, perchè la Sofonisba fu la prima in Francia nel decimosettimo secolo, come pure era stato un secolo prima in Italia. Ben fu però la tragedia del Cid la più fortunata, e quella onde l’autore divenne l’oggetto dell’ammirazione e dell’invidia. Tutta l’azione appartiene alla commedia spagnuola, e da questa principalmente si trasse la scena, in cui nel tempo stesso implorano dal sovrano Chimene giustizia, ed il padre di Rodrigo pietà; e l’altra di Rodrigo e Chimene, quando parlando questa con Elvira, l’amante si tiene indisparte ad ascoltare, quella altresì del contrasto del dovere di figlia colla passione amorosa onde Chimene è tormentata, e della vendetta dell’ingiuria paterna coll’amore che ha per Chimene onde Rodrigo è posto in angustia. Vero è che Cornelio trasportando il fatto a Siviglia commise un anacronismo, mentre a tempo del Cid Siviglia trovavasi in potere de’ Mori, e non de’ Cristiani (che è il grande errore che nel Cid di Cornelio notò esultando colla solità insolenza Vicente Garcia de la Huerta); vero è parimente che Scudery e l’Accademia Francese la censurano per varii difetti non senza fondamento, anche per aderire al cardinal di Richelieu, che volle deprimerla non avendo potuto farla passar per sua. Ma il Cid è uno de’ felici frutti del genio che s’invidiano e si criticano più facilmente che non s’imitano.
La parte che il lodato cardinale ebbe a qualche componimento scenico, alcuni piani che ne distribuiva a Desmaret, Boisrobert, Colletet ed altri, i soccorsi che ne tiravano tanti letterati, la guerra stessa che egli faceva al Cid, ed i beneficii che in compenso versava sull’autore; tutto ciò, dico, contribuì a fomentare e a raffinare il gusto in Francia. Pietro Cornelio perseguitato e premiato per le critiche e per le largizioni, diede opera con ogni sforzo ad elevarsi sempre più su i drammatici di quel tempo. Egli impose silenzio agl’invidiosi e ai pedanti con le tragedie gli Orazii, il Cinna, il Poliuto.
Nel maneggiare l’argomento degli Orazii prese Corneille scorta migliore, o che ne dovesse a dirittura la via
all’Orazia di Pietro Aretino, o che vi s’incaminasse
sull’imitazione che di questa tragedia italiana fatta ne avea venticinque
anni dopo Pietro de Laudun Degaliers. L’artificiosa
traccia dell’azione, la vivacità de’ caratteri, la forza delle passioni
episodiche rendono la tragedia degli Orazii di gran lunga
superiore al Cid, e vincono anche pe’ nominati pregi la
lodata Orazia dell’Aretino. Così avesse il Cornelio seguito questo modello italiano nel punto di maggiore
importanza, cioè nell’interessar l’uditorio a favore del vittorioso Orazio.
Egli però attese a rendere più degne di compassione Sabina e Camilla, per la
qual cosa, secondo il Conte di Calepio, i primi tre atti riescono
appassionatissimi, e gli ultimi due freddi ed inutili. Si vorrebbe ancora
ravvisare in que’ primi Romani che
prese a
dipignere rassomiglianza minore co’ più moderni cortigiani Francesi. Non
pertanto l’elevatezza dell’anima del poeta si scorge in diversi tratti. In
quel fiero decantato
qu’il mourut
del vecchio Orazio
sfolgoreggia il sublime di tutto il suo lume. Chi non sente elevarsi e
commuoversi a ciò che dice Orazio a Curiazio suo cognato,
Albe vous a nommè, je ne vous connois plus;
ed alla risposta di Curiazio,
Je vous connois encore, et c’est ce qui me tue.
E chi oggi ignora i rari pregi del Cinna? Ampio campo aprì il Corneille al moderno coturno col grande oggetto politico dell’abdicazione dell’Imperio nella scena in cui Augusto chiede su di ciò il parere di que’ medesimi cortigiani che stanno congiurando contro di lui. Nella seduzione di Emilia, nella congiura di Cinna e nel perdono di Augusto, ci si presenta un saggio ingegnoso misto di grandi passioni private e di pubblici destini, in che è posto il carattere della vera. tragedia. La nobiltà ed il patetico che respirano le parole di Augusto nell’abboccamento con Cinna, formano un grande elogio dell’anima elevata di Corneille:
Tu t’en souviens, Cinna; tant d’heur et tant de gloireNe peuvent pas si tôt sortir de ta memoire.Mai ce qu’on ne pourroit jamais s’imaginer,Cinna, tu t’en souviens, et veux m’assassiner!
Queste memorande parole con quanto si contiene nell’indicata scena si trovano nel libro I cap. 9 de Clementia del filosofo Cordovese Anneo Seneca; ma pure è un tratto di gusto e d’ingegno l’averne ravvisata la bellezza e l’averla bene espressa. Confessiamo non pertanto che nè tragico timore nè compassione desta il pericolo del protagonista Cinna, che è un traditore senza scusa, che al proprio dovere verso un sovrano e un benefattore contrappone la sola propria compiacenza per una donna. Nondimeno questo desiderato vero effetto della tragedia, che in tal favola in verun conto si produce, vien compensato dal nobile perdono di Augusto quanto meno atteso tanto più accetto. Il pubblico plauso e le belle lagrime del gran Condè rendettero ben memorabili i versi dell’ultima scena del Cinna:a:
Je suis maitre de moi comme de l’univers,Je le suis, je veux l’ètre. O siècles, o memoires,Conservèz à jamais ma derniere victoire….Soyons amis, Cinna, c’est moi qui t’en convie.
Queste parole manifestano certamente l’anima grande di chi le profferisce; ma il poeta stesso ne minora la grandezza in più maniere. In prima con fare che Augusto rimproveri a Cinna son peu de merite, e dicendogli, tu faresti pietà anche a chi invidia la tua fortuna, se io ti abbandonassi al tuo demerito. Il popolo potrebbe dirgli; passi che tu gli doni la vita; ma puoi tu divenire amico di un uomo dispregevole e privo di virtù? Per la qual cosa non ebbe torto quel Maresciallo De la Fevillade, che udendo quest’altre parole orgogliose esclamò: oimè! tu mi guasti il soyons amis Cinna. Si abbassa altresì il perdono di Augusto, perchè il poeta fa che Livia, personaggio affatto ozioso, sia quella che esorti Augusto ad esser clemente, togliendoli con ciò il merito di quel perdono magnanimo.
Il Poliuto è un’altra delle applaudite tragedie del Corneille. Benchè le rappresentazioni de’ martiri Cristiani sieno poco atte ad eccitar la tragica compassione, per essere la loro morte un vero trionfo che non lascia allo spettatore luogo a dolersi; pure il Poliuto pel carattere eroico del martire e per l’amore che egli ha per la sua sposa Paolina che egli sacrifica ai doveri della religione abbracciata, è una tragedia che tira tutta l’attenzione. Non meno teatrale è il colorito degli affetti episodici della virtuosa e sensibile Paolina e dell’appassionato e nobile Severo.
Pregiavasi il Cornelio di aver procurato di far sentire nel suo Pompeo e ne’ pensieri e nelle frasi il genio di Lucano, e quindi di essersi elevato più che in altre sue tragedie. Ma gli ornamenti e le figure epiche e liriche, come niuno più ignora riescono troppo impertinenti nella poesia teatrale. I critici giudiziosi riprendono nel Pompeo varie espressioni nella descrizione degli effetti della strage di Farsaglia e non pochi concetti affettati del racconto di Acoreo dell’ammazzamento di Pompeo e del presente fatto a Cesare della di lui testa. Pur vi si scorgono alcuni tratti sublimi che non debbono nascondersi alla gioventù. Tale a me sembra l’immagine contenuta in queste parole:
Il s’avance au trepasAvec le mème front qu’il donnoit des ètats.
Patetica e nobile è pur l’apostrofe di Cesare alla vista dell’urna delle ceneri di Pompeo:
Restes d’un demidieu, dont à peine je puisÈgaler le gran nom, tout vainqueur que je suis.
Le altre tragedie reputate degne del gran Cornelio sono il Nicomede, il Sertorio e la Rodoguna. Quantunque il Nicomede non iscarseggi di difetti, nè sia un argomento che si elevi alla grandezza ed al terror tragico si pel viluppo che per la qualità de’ caratteri di Prusia, di Arsinoe e di Flaminio; pure il cuor grande di Nicomede innamora, e porta la magnanimità a un punto assai luminoso. Nel Sertorio si prefisse di mostrare un modello di politica e di perizia militare, e vi si nota più di un tratto nobile, come questo,
Rome n’est plus dans Rome, elle est toute où je suis,
che forse ebbe presente il Metastasio nel far dire a Catone,
Son Roma i fidi miei, Roma son io.
Con predilezione amava il Cornelio la Rodoguna come la migliore delle sue favole; ed i critici francesi singolarmente ne pregiavano l’atto quinto. Ma l’eccessiva crudeltà di Cleopatra, che qual altra Medea trucida Seleuco suo figlio, e perseguita gli altri, fa fremere lo spettatore ed ispira indignazione.
Poco pregiarono i Francesi, e singolarmente il Voltaire, le altre di lui tragedie, Eraclio, Pertarite, Teodora, Edipo, Berenice, Ottone, Sofonisba, Pulcheria, Agesilao, Sancio, Attila, il Vello d’oro, tutte, malgrado di varie scene eccellenti, si reputarono mediocri, ed insieme colla Medea caddero nel rappresentarsi, nè i posteri ne ristabilirono il credito; per la qual cosa poco parmi conducente al vantaggio delle gioventù particolareggiare su i loro difettia. Il Cornelio che dopo aver cessato di scrivere pel teatro, pure vi era stato di nuovo indotto, al fine da buon senno nel 1675 dopo la rappresentazione del Surena, che non fe scorno alla vigorosa vecchiezza di sì gran tragico, rinunziò alla poesia drammatica.
Questo padre e legislatore del teatro francese morto nel 1684 in Parigi, merita di studiarsi da chi voglia coltivar la tragica poesia. « Non è così facile (disse di lui con verità Giovanni Racine) trovare un poeta che abbia posseduti tanti talenti, l’arte, la forza, il discernimento, l’ingegno ». « Non sarà mai abbastanza ammirata (aggiugueva) la nobiltà, l’economia negli argomenti, la veemenza nelle passioni, la gravità ne’ sentimenti, la dignità e la prodigiosa varietà ne’ caratteri ». Dotato d’ingegno straordinario e soccorso dalla lettura degli antichi mostrò sulla scena la ragione accompagnata da tutta la pompa e da tutti gli ornamenti de’ quali è capace la lingua francese. In tutti gli oggetti egli spande la propria sensibilità. Riscalda ed avviva la stessa politica, come fece specialmente nel Sertorio e nell’Attila. Con un tratto di peunello imprime in chi legge o ascolta la più sublime idea. Palissot ebbe ragione di così dire: « Per mezzo de’ medesimi capi d’opera del Cornelio abbiamo noi imparato a conoscere l’esagerata mediocrità degli ultimi suoi drammi; e pure i più deboli di questi potrebbero passar per eccellenti oggi che ci troviamo sì bisognosi ». Ingegno raro tutte in se raccolse le più rilevanti doti della poesia tragica; il tenero, il patetico, il terribile, il grande, il sublime. Elevandosi all’eroismo più eccelso, solleva e tira seco gli animi tutti. Si è già detto ch’egli è un’ aquila che s’innalza sopra le nubi mirando il sole senza prender cura de’ baleni che si accendono e de’ fulmini che strisciano per l’atmosfera.
Ma perchè la gioventù non creda che tutto nel suo stile sia oro puro, vuolsi avvertire ch’egli pur troppo pagò il tributo al mal gusto delle arguzie viziose che dominava sotto il regno di Luigi XIII e nel principio di quello di Luigi XIV. Troppo abbonda di dialoghi romanzeschi, di monologhi ristucchevoli e di pensieri che oltrepassando i giusti limiti del sublime, cadono nella durezza di certa popolarità ricercata e strana. Per avviso dello stesso suo compatriotto Giambatista Rousseau egli in vece di esprimere negli amanti il carattere dell’amore, ha in essi dipinto il proprio, trasformandoli per lo più in avvocati, in sofisti, in declamatori, e qualche volta in teologi. Ma il Voltaire che poche volte si mostrò indulgente verso il gran Cornelio, colse nel segno affermando che “ il di lui ingegno tutto ha creato in Francia dove prima di lui niuno sapeva pensar con forza, ed esprimersi con nobiltà; appartenendo i suoi difetti al secolo in cui fiorì, e le bellezze unicamente al proprio ingegno ”.
Nel medesimo anno 1666 quando si rappresentò l’Agesilao del Cornelio, comparve sulle scene l’Alessandro di Giovanni Racine nobile e giovane poeta, da cui cominciò una specie di tragedia quasi novella. Nelle tragedie del Cornelio grandeggia la virtù e l’eroismo vi si tratta con una sublimità che riscuote ammirazione; ma vi si accoppiano certi amori per lo più subalterni che riescono freddi e poco tragici. In quelle del Racine trionfa un amor tenero, semplice, vero, vivace, forse non sempre proprio per la grandezza del coturno perchè non sempre principale e furioso, ma sempre idoneo a commuovere. Il felice pennello del Racine con grazia e diligenza al vivo e maestrevolmente ritrae la delicatezza delle anime sensibili. La gioventù, e specialmente le donne pieghevoli alla tenerezza, poco intendono, e poco prendono interesse, p. e., nelle vedute politiche di un tiranno, nell’ambizione di un conquistatore, nel patriotismo eroico di un Romano o di un Greco. Ma subito prestano attenzione a ciò che rassomiglia a quel che sentono in se stesse; e vanno agevolmente seguitando il poeta nelle commozioni che disviluppa, e ne favellano con vivacità e conoscimento. Qual giovinetta posta nelle circostanze di Ermione non vi farà le medesime richieste?
Mais as-tu bien, Clèone, observè son visage?Goûte-t-il des plaisirs tranquilles et parfaitsN’a-t-il point detournè ses yeux vers le palais?Dis-moi, ne t’es tu point prèsentèe à sa vue?L’ingrat a-t-il rougi lorsqu’il t’a reconnue?
Tutte le donne possono comprendere senza stento la dolorosa separazione di Tito e Berenice; parrà loro di trovarsi nel caso; al pari di quella tenera regina si sentiranno penetrate da queste espressioni:
Je n’ècoute plus rien, et pour jamais adieu…Pour jamais!… Ah seigneur, songez-vous en vous mêmeCombien ce mot cruel est affreux quand on aime?
Siffatte analisi delicate della tenerezza, o se vuol dirsi alla francese, del sentimento, anche senza tanti pregi che adornano le favole del Racine avrebbero bastato a farle riuscire in Francia è nella corte di Luigi XIV che respirava per tutto amoreggiamenti anche nelle spedizioni militari. Ma Giovanni Racine al tenero, al seducente accopiò il merito di una versificazione mirabilmente fluida e armoniosa, correzione, leggiadria e nobiltà di stile, ed una eloquenza sempre eguale, che è la divisa dell’immortalità onde si distinguono i poeti grandi da’ volgaria.
In quel secolo per la Francia fortunatissimo forse la poesia francese pervenne alla possibile venustà per le favole del Racine e pe’ componimenti del Boileau; ma il drammatico scrittore ebbe sul legislatore del Parnasso Francese il vantaggio del raro dono della grazia, che la natura concede a’ suoi più cari allievi, agli Apelli, a i Raffaelli, a i Correggi, a i Pergolesi, a i Racini, a i Metastasii.
Tralle tragedie del Racine senza dubbio più giudiziosamente
combinate, meglio ordinate, e più perfette di
quelle di Pietro Corneille, per avviso de’ più scorti
critici, trionfano l’Ifigenia rappresentata nel 1675, in
cui con singolar diletto di chi non ignora il tragico tesoro greco, si
ammirano tante bellezze di Euripide, mal grado delle avventure di Erifile
che muore in vece d’Ifigenia senza destar pietà, trovando lo spettatore
disposto unicamente a compiangere la figliuola di Agamennone; l’Atalia uscita nel 1691, ove il poeta s’innalza e grandeggia
imitando alcuna volta il linguaggio de’ profeti; il Britannico rappresentato nel 1670, in cui si eccita il tragico
terrore per le crudeltà di un mostro di tirannia nascente in Nerone, e di
passaggio s’insegna a’ principi ad astenersi da certi esercizii disdicevoli
alla maestà; e la Fedra comparsa sulle scene nel 1677, la
quale per tanti pregi contenderebbe a tutte il primato senza il freddo
inutile innamoramento d’Ippolito ed Aricia. In fatti questa galanteria, per
dirla alla francese, sconvenevole al carattere d’Ippolito, e fredda a fronte
del
tragico disperato amor di Fedra, non si
approvò nè da’ contemporanei nè da’ posteri, benchè il dotto e giudizioso
Le-Batteux quasi per gentilezza volle discolparne il
Racine con dire che lo stesso Euripide posto nelle
medesime circostanze del tragico francese non l’avrebbe rifiutato. Certo è
che anche Luigi Racine disapprovò quegli amori episodici,
e disse del padre che « doveva esser meno compiacente pel di lui secolo, e
non introdurre un amor galante in un argomento in cui
l’amor tragico dee regnar solo ». E quest’unico difetto trovava nella Fedra
Arnaldo d’Antilly, il quale
confessò che senza tal galanteria la Fedra
nulla conteneva
che non conducesse
alla correzione de’ costumi
.
Adunque (in tal proposito può dirsi da taluno) bandiremo l’amore dalle tragedie? Non so per quale gotica stranezza di gusto i Critici pedanti rendono problematiche le verità più manifeste. L’amore è una delle più attive passioni umane, e può al pari di ogni altro contribuire ad eccitar la compassione ed il terrore per correggere e dilettare. E chi può dubitarne? Muovasi un Polifonte per ambizione all’esterminio di una famiglia legittimamente sovrana, o apporti un Paride per una cieca passione per un’ Elena le fiamme nella sua patria, un ingegno grande saprà usar con arte di entrambe tali furiose passioni per destar le vere commozioni tragiche. Ma se quel Polifonte e quel Paride prendano il linguaggio de’ Celadoni, e si trasformino in pretti signorotti francesi, diventeranno personaggi comici malinconici, ed i loro amori si rigetteranno dal coturno. L’amore (si è ben detto mille volte) perchè sia tragico vuol esser forte, impetuoso, disperato, dominante; e se è mediocre ed episodico, qual è quello d’Ippolito, di Antioco, di Siface e di Farace presso Racine, di Teseo e di Eraclio e di altri nel Corneille, della maggior parte de’ personaggi di Quinault, di Filottete in Voltaire, di Porzia e Marzia e Marco e Porzio e Sempronio e Giuba in Adisson; allora un amor simile è semplice galanteria famigliare da bandirsi dalla vera tragedia. Ippolito innammorato di Aricia nulla ha di tragico; ma Fedra innamorata d’Ippolito figliuolo del di lei consorte, perturba ed atterrisce, e commovendo diletta ed ammaestra. Tragica è la situazione di Fedra:
Je sai mes perfidies,Oenone, et ne suis point de ces femmes hardies,Qui, goûtant dans le crime une tranquille paix,Ont sçu se faire un front qui ne rougi jamais.Je connois mes fureurs, je les rappelle toutes.Il me semble deja que ces murs, que ces voutesVont prendre la parole; et prets à m’accuserAttendent mon epoux pour le desabuser.Mourons.
E nell’atto IV:
Moi jalouse? et Thèsee est celui que j’implore?Mon èpoux est vivant, et moi je brûle encore?Pour qui? quel est le coeur où pretendent mes voeux?Chaque mot sur mon front fait dresser mes cheveux.
Funesti eziandio, disperati, tragici sono gli amori di Torrismondo e di Alvida in Torquato Tasso, di Semiramide e Nino e Dircea in Muzio Manfredi, di Mustafà e Despina nel Bonarelli, di Bibli nel Campi.
Al contrario sparisce ogni idea tragica allorchè Cesare presso Corneille dice di aver combattuto con Pompeo ne’ campi di
Farsaglia
pe’ begli occhi di madama Cleopatra
, espressione
tolta a’ marchesini francesi. Freddo è pure il complimento di Eraclio
agli occhi tutti divini di Eudossa
, e la protesta che egli
fa di aspirare al trono unicamente
per la sorte che ha di farne
parte alla sua bella
. Nel
Sertorio si confonde l’idea del gran capitano e del gran politico
colla poco grave immagine di un vecchio visconte o colonnello francese
innamorato. La Sofonisba del Mairet,
anco per avviso di Saint-Evremont, ci nasconde affatto la
magnanima figliuola di Asdrubale, manifestando solo una coquette comunale. Tomiri che nella Morte di
Ciro del Quinault va cercando sul teatro les tablettes perdute, fu ben meritevole della derisione
del Boileau. Non si domandi dunque se l’amore entrar possa
nelle tragedie come ogni altra eccessiva passione; ma si bene, qual sia
l’amore che le degradi, e che indebolisca quasi tutte le tragedie
francesi,
Giovanni Racine nelle sue belle favole non sempre si
appressa alla perfezione, benchè sempre sia nobile, elegante, armonioso e
saggio. Nulla più lontano dal carattere del vincitor di Dario e dalla
tragica gravità quanto il di lui Alessandro che sembra uno
degli eroi da romanzo. La Tebaide, per
valermi delle parole di Pietro da Calepio, scopre anche
la gioventù del poeta. Si vede nella Berenice tutto ad un
tempo la delicatezza del mirabile suo pennello, e la natural pendenza del
suo ingegno al molle e all’elegiaco. L’Oreste da lui
dipinto nell’Andromaca, la cui rappresentazione costò la
vita al commediante Montfleury, rimane inferiore alla
dipintura fattane dagli antichi. Nel Mitridate la
compassione è più per Monima che pel protagonista, il quale poco più del
nome ritiene di quell’irriconciliabil nemico de’ Romani; e si vale di
un’astuzia poco tragica per iscoprir gli affetti di Monima. Mai non si
ripeterà abbastanza che la tragedia quando rappresenti un’azione rinchiusa
in una famiglia, benchè reale, senza mostrare un necessario incatenamento
degli affetti de’ personaggi coll’interesse dello stato, e quando
singolarmente si aggiri su di amorosi interessi: simil tragedia, dico,
rimarrà sempre nella classe delle favole malinconiche poco degne di Mel
Melpomene. Così Racine,
tuttochè mirabile per tanti pregi, non ci obbliga a fare una piena eccezione
alle tragedie francesi, che quasi tutte sono un tessuto d’interessi proprii
del socco trattati con tetra gravità. Dupin non a torto
conchiudeva così: «Le nostre tragedie più gravi altro non sono che commedie
elevate.»
Dacier, fralle altre critiche fatte alle
tragedie nazionali, diceva: «Noi abbiamo tragedie, la cui costituzione è sì
comica, che per farne una vera commedia basterebbe cangiarne i nomi.»
E
Voltaire diceva ancora: «Non v’ha cosa più insipida,
più volgare, più spiacevole del linguaggio amoroso che ha disonorato il
teatro francese. Io già non parlo dell’amore energico, furioso, terribile
che ben conviene alla vera tragedia; parlo… degli amori proprii
dell’idilio e della commedia anzichè della tragedia.»
Circa lo stile di esse, senza derogare ai pregi inimitabili di Pietro Corneille e di Giovanni Racine e di altri che gli seguirono, vengono in generale tacciati i tragici francesi, e singolarmente il Cornelio, dal marchese Scipione Maffei, dal Muratori, dal Gravina e dal Calepio, di certo lambiccamento di pensieri, di concetti ricercati e tal volta falsi, di tropi profusi e ripetuti sino alla noja, di espressioni affettate, di figure sconvenevoli alla drammatica. A ciò che fra’ Greci e gl’Italiani chiamasi poesia, trovasi ne’ drammi francesi sostituito certo parlar poetico particolare. I vizii e le virtù ed anche gli attributi accidentali nelle loro favole (osserva il Calepio) diventano le persone agenti. L’odio giura, vede, teme; il furore si lascia disarmare; la virtù trema, l’ira chiama; l’amicizia e la gloria arrossiscono. I segni si usano per le cose, come i troni, le corone, gli scettri, gli allori, le catene. Non v’ha scena in cui non s’incontri tempesta per avversità, abisso per oppressione, fulmine per castigo, sacrificio per sofferenza ecc. Sono, è vero, tali figure ammesse an cora nelle poesie de’ Greci e degl’Italiani; ma da’ Francesi drammatici usate con troppa frequenza, e di rado variate colla mescolanza di altre formole poetiche non disdicevoli alla scena, per la qual cosa partoriscono rincrescimento.
Simili maniere abbondano anco nelle tragedia del Racine; ma
ecco in qual cosa egli si distingue da’ tragici mediocri. In questi quel
perpetuo tessuto di astratti i quali diventano persone, e la ripetizione de’
medesimi tropi forma l’unico fondo del loro stile; ma Racine le accompagna con altre maniere poetiche calcando da gran
poeta le tracce degli antichi tragici che studiava e si proponeva per
modelli e per censoria. Non è perciò meraviglia che
avesse portato a così alto punto l’espressione, l’eleganza, l’armonia e la
vaghezza dello stile ed il patetico. Gli si notarono tal volta alcune
trasposizioni inusitate, e certe maniere non
sempre limpide, di che giudichino di pieno diritto i nazionali. Certo è però
che specialmente nell’Alessandro e ne’ Fratelli nemici si osservano molti concetti ricercati, il dolore
espresso con troppo studio, varii contrapposti non proprii della scena,
alcun sentimento freddo e qualche immagine superflua. Più rari sono tali
difetti nelle altre sue favole, benchè alcuno se ne rinvengano anche nel Mitridate, nell’Andromaca e nell’Ifigenia. Nella Fedra, più che la
soverchia pompa del racconto di Teramene da ognuno osservata, ferisce il
gusto ed il buon senno il sentire con figure intempestive e con improprii e
falsi pensieri, che
il cielo guarda con orrore il mostro
marino, la terra n’è scossa, l’aria infettata, e le onde che lo
condussero alla riva, rinculano spaventate
. Ma senza tali nei nel
Racine che studiava sì felicemente il cuore dell’uomo
e la poesia originale de’ Greci, Racine che possedeva il
rarissimo dono dello stile e della grazia,
che avrebbe mai lasciato alla gloria della posterità? Quante poche tragedie
soffrono il confronto dell’Ifigenia, dell’Atalia, del Britannico e della Fedra? Questi componimenti saranno sempre le più preziose gemme
del tragico teatro, per le quali Racine si acclamerà come
principe de’ tragici del secolo XVII dovunque regnerà gusto, sapere,
giudizio, sensibilità ed ingegno. Se pur una di simili prerogative avesse
posseduto Vicente Garcia de la Huerta, quando tutto
mancasse, può ricavarsi da ciò che osò affermar del Racine
in un gran papelon chiamato Prologo. Al
l’avviso di codesto arrogante spagnolo Giovanni Racine fu
uno degl’ingegni più volgari della Francia (
uno de los mas
comunes
): altro merito non ebbe che l’esatta osservanza delle
regole, ed una scrupolosa prolissa pazienza in lavorare stentatamente: mancava di forza, di masculinidad, d’ingegno, di vivacità e di fuoco e d’immaginazione. Per
simile Aristarco
l’Atalia è un
testimonio irrefragabile dell’imbecillità del Racine; e ciò per quali ragioni? perchè vi
si contano
tredici interlocutori
, e vi si trova
un’ affettata
regolarità ed ellenismo, con che procurò di supplire alla mancanza
dell’ingegno
. Nella Fedra
misero lavoro di tre
anni
ravvisò codesto tagliacantone pedante
i più
madornali difetti
; e quali egli ne accenna?
la scelta
di un’azione tanto abbominevole e così piena di orrori
, che egli
stando in Parigi non ebbe valore di veder la seconda volta rappresentare
alla Dumenil il carattere di Fedra, in cui
così sensibilmente si oltraggia la decenza e la verisimiglianza
.
Il leggitore imparziale da se giudicherà tra Racine ed Huerta a qual de’ due meglio competano i gentili elogii
d’ignoranza, d’imbecillità, di meschinità, d’incapacità che lo
spagnuolo declamatore temerario profonde a larga mano sul tragico francese;
e meglio se ne assicurerà allorchè getterà lo sguardo su i componimenti
drammatici del
signor Vincenzo,
che sembra una immonda arpia di Stinfalo che imbratta e corrompe le
imbandite mense reali di Fineo.
Aggiungiamo su questo insigne tragico nato in Fertè-Milon nel dicembre del 1639 e morto in Parigi nell’aprile del 1699, che lasciò tralle sue carte il piano di una Ifigenia in Tauride, dal quale apparisce che egli prima di mettere in versi una tragedia, formatone il piano ne disponeva in prosa tutte le scene sino alla fine senza scriverne un verso, dopo di che diceva di averla terminata; e non avea torto. Da ciò veniva la facilità mirabile che avea nel verseggiare (ciochè è diametralmente opposto alle falsità immaginate dal Garcia); e la ragione fu indicata da Orazio:
Verbaque provisam rem non invita sequentur.
Senza dubbio Racine apprese tal pratica da Menandro, il quale, come già osservammo, non cominciava a comporre i versi delle sue favole prima di averne disposto tutto il piano.
In simil guisa declinando il passato secolo pose in Francia il suo seggio una
specie di tragedia inferiore alla greca per energica semplicità, per
naturalezza e per apparato, ma certamente da essa diversa per disegno e per
ordigni, forse più nobile per li costumi, fondata su di un principio
novello. I Greci che nella poesia ravvisarono l’amore per l’aspetto del
piacer de’ sensi, non l’ammisero nella tragedia come non convenevole. I
moderni sulla scorta del Petrarca attinsero nella filosofia Platonica una
più nobile idea dell’amore, e ne arricchirono la poesia, e quindi cosi
purificato passò alle scene. Pietro Cornelio non mai se ne
valse come oggetto principale, e Racine fu il primo a
introdurlo nella tragedia con decenza e delicatezza; per la qual cosa dee
dirsi che da lui cominciasse la scena tragica ad avere un carattere tutto
suo. Adunque la tragedia greca e la francese in un medesimo genere
presentano due specie differenti; e
giudicar
dell’una col rapportarla all’altra, è veder le cose foscamente, e quali
d’alto mare veggonsi le terre che pajono un groppo di azzurre nuvolette. Il
più volte mentovato avvocato Saverio Mattei nel Nuovo sistema
d’interpretare i tragici greci osservò ancora che la
tragedia de’ francesi non è la tragedia de’ greci
; ma ne fece
consistere la differenza nella
mancanza de’ cori
, la qual
Cosa non là diversifica nell’essenza. Diceva poi altresì che le
tragedie francesi possono definirsi drammi di Menandro e di Terenzio
che contengono soggetti ed argomenti tragici non comici
. Non so
quanto i Francesi possano chiamarsi contenti di codesta specie
d’indovinello, paradosso, o garbuglio.
Mentre i nominati due gran tragici fondavano la tragedia del lor paese ora seguendo i Greci, gl’Italiani e gli Spagnuoli, ora discostandosene, fuvvi qualche altro scrittore che pure vi si occupò con applauso. Tristano Eremita nato nel 1601 e morto nel 16.. rappresentandosi nell’inverno del 1636 il Cid, produsse laMarianne, in cui, facendo la parte di Erode il commediante Mondori declamò con tal vigore che offeso nel petto si rendette inabile a più comparire in teatro ed indi a non molto fini di vivere. Meraviglioso fu il successo di questa Marianne, essendosi sostenuta a fronte del Cid per tante rappresentazioni con estremo piacer del pubblico che la vide senza stancarsene comparire in iscena di tempo in tempo per lo spazio di quasi cento anni, come osservò il sig. di Fontenelle. La rammentò con disprezzo il sig. di Voltaire, nè senza ragione, se si riguardi allo stile generalmente basso e sparso d’inezie, di pensieri falsi e di ornamenti stranieri alla poesia scenica. Ma il carattere di Erode dipinto con bastante forza e verità, ed alcune situazioni che interessano, e l’intrepidezza di Marianne condotta a morire, mostrano che Tristano meritò in certo modo gli applausi che riscosse da’ Francesi di quel tempo. L’abate Giovanni Andres però affermò con troppa sicurezza ciò che la storia rigetta, dicendo che Tristano tratta avesse la sua Marianne dal Tetrarca de Jerusalen del Calderòn. Oltre a ciò che precedentemente noi affermammo della Marianna di Lodovico Dolce, di Don Pedro Calderòn de la Barca e di Tristano, vuolsi quì osservare ancora, che nell’anno 1636 quando si rappresentò la Marianne francese, il teatro spagnuolo non avea ancor veduto il Tetrarca de Jerusalen. Ciò si deduce dalla prima collezione che si fece de las Comedias de Don Pedro Calderòn da Don Joseph suo fratello, impresse in Madrid per Maria Quiñones nel medesimo anno 1636, non trovandosi fralle dodici che l’autore sino a quell’anno avea composte la favola del Tetrarca; la qual cosa sarebbe stata omissione rilevante, avendo tal componimento prodotto tutto l’effetto sulle scene. Noi al contrario possiamo più ragionevolmente assicurare, che se Calderòn non ebbe contezza della Marianna italiana composta cento anni prima, è ben più verisimile che l’autore spagnuolo tolto avesse questo argomento da’ Francesi, approfittandosi o della Marianne di Hardy rappresentata in Parigi nel 1610, o di quella di Tristano che fece recitare e stampò la sua prima che non comparisse il Tetrarca del Calderòn.
Tommaso Cornelio fratello di Pietro minore d’intorno a
venticinque anni compose parimente varie tragedie fortunate. L’Arianna si rappresentò nel 1672 nel tempo stesso che si recitava
il Bajazette del Racine tragedia di gran
lunga superiore alla favola del giovine Cornelio; ma pure
l’Arianna riscosse grandi applausi e si è ripetuta
sino a’ giorni nostri, tuttochè soggiaccia al difetto generale di aggirarsi
sugl’intrighi amorosi proprii di una commedia. L’autore spese in comporla
quaranta giorni; ma il tempo si consuma nel lavoro e nel maneggio della lima
sullo stile, ed è quello che manca
all’Arianna. Trasse Tommaso Cornelio il suo
Conte di Essex dalla commedia spagnuola del Coello o di Filippo IV Dar la vida por su
Dama; ma rendendola più regolare ne peggiorò il carattere dell’Essex. Il di lui Timocrate (componimento
cattivo carico di accidenti romanseschi poco verisimili e mal verseggiato)
tante volte fu dal pubblico richiesto e si ripetè, che i commedianti
infastiditi dopo ottanta recite chiesero in grazia di rappresentare altri
drammi. Tommaso con più debolezza di stile e con minore ingegno del fratello
merita ancor la stima de’ nazionali per essere stato più di Pietro castigato
nell’uso delle arguzie viziose, per la scelta degli argomenti, per la vasta
letteratura ond’era ornato, e per la purezza con cui parlava la propria
lingua. Sotto di Pietro (pronunziò Voltaire) Tommaso al
suo tempo era
il solo degno di essere il primo
,
eccettuandone sempre Racine cui niuno de’ contemporanei fu
comparabile.
Cirano di Bergerac nato nel Perigord nel 1620 e morto nel 1655 fece una tragedia della Morte di Agrippina, e nel personaggio di Sejano diede il primo esempio delle massime ardite usate poscia da moderni tragici della Francia con tal frequenza ed intemperanza, che, al dir del Palissot, ne sono essi divenuti ridicoli; or che diremo di certi ultimi Italiani che hanno portato al colmo questo difetto?
Filippo Quinault nato in Parigi nel 1634 e morto nel 1688, oltre alle opere musicali e alle commedie, delle quali parleremo appresso, compose otto tragicommedie e quattro tragedie. Tralle prime riscosse particolari applausi Agrippa re di Alba, ovvero il Falso Tiberino rappresentata nel 1660 per due mesi continui e rimasta su quelle scene. Piacquero altresì Amalasunta e le altre ad eccezione del Fantôme amoureux tolta dalla commedia spagnuola El Galàn Fantasma, la quale cangiando linguaggio non acquistò punto di vivacità ne’ colpi di teatroa. Le tragedie sono la Morte di Ciro uscita nel 1656, in cui si veggono stranamente avviliti i caratteri del gran Ciro, degli Sciti e della loro regina Tomiri, oltre ai difetti di arte e di verisimiglianza nelle situazioni e ne’ consigli; Astrato re di Tiro rappresentata per tre mesi nel 1663, e rimasto al teatro malgrado de’ motteggi di Boileau; Bellorofonte tragedia fischiata nel 1665 senza esser peggiore delle altre; e Pausania uscita nel 1666 che ebbe miglior fortuna. Invano si rileverebbe l’effemminatezza dello stile, la mancanza di verità nelle situazioni, l’inverisimiglianza de’ colpi, l’ineguaglianza de’ caratteri, ed altri difetti di quelle favole che si ascoltarono per qualche anno e sparvero senza ritorno. Quinault non fu letteratoa, non sapeva la storia, non aveva studiato nè il genio nè i costumi delle nazioni; non ebbe altra scorta che il proprio ingegno e l’immaginazione. Faceva versi ben torniti, ma non mostrò di esser nato per la poesia tragica. Nelle sue tragedie, come osservò Saint-Evremont, si cerca sovente il dolore, e si trova solo certa tenerezza per lo più intempestiva che degenera in mollezza. Fu segno a’ morsi satirici di Desprèaux Boileau amico di Racine e degli antichi, e fu lodato dal Perrault emulo di Boileau e adulatore de’ moderni. Anche Pradon cattivo scrittore di varie tragedie spesso rappresentate con affluenza di spettatori, prese contro il medesimo satirico francese la difesa di Quinault.
Duchè ajutante di camera di Luigi XIV ebbe l’onore di comporre alcune tragedie sacre pel teatro della sala di madama di Maintenon, le quali si recitarono dalla Duchessa di Borgogna e dal duca di Orleans col famoso commediante Baron che le dirigeva. Egli si valse di argomenti tratti dal Testamento Vecchio. Il suo Gionata e l’Assalonne non hanno veruna digressione amorosa che le deturpi, in ciò preferendo con senno la sola Atalia di Racine a tutto il teatro tragico francese. Non per tanto Achinoa moglie di Saulle colle sue figliuole introdotte nel Gionata, e Maaca e Tamar nell’Assalonne, sono persone oziose, inutili a quelle azioni. Viene egli ripreso eziandio per aver nell’Assalonne alterata la storia sacra, facendolo penitente per renderlo atto a muovere la compassione. Ma si loda con ragione l’elezione che egli seppe fare de’ principali personaggi proprii ad eccitar la pietà tragica. Anche l’abate Gênet compose altre tragedie rappresentate dalla duchessa du Maine colle sue dame.
Si composero parimente varie sacre tragedie latine. Le più note sono quelle del celebre Dionigi Petavio, di cui s’impresse in Parigi nel 1620 il Sisara, e quattro anni dopo l’Usthazane, ovvero i Martiri Persiani con altre. Nel medesimo anno 1620 uscirono alla luce la Solima e la santa Felicita di Niccolò Causin. Si pubblicarono nel 1695 anche in Parigi le quattro tragedie di Francesco Le Jay, cioè il Giuseppe riconoscente i Fratelli, il Giuseppe venduto, il Giuseppe Prefetto in Egitto, il Daniele.
Si crede che appartenga al secolo XVII parimente la Morte di
Solone, di cui s’ignora l’autore, non mentovata dagli scrittori
drammatici di quel tempo, e non rappresentata mai nè in francese nè in
italiano. Può veramente accordarsi a’ compilatori francesi della Picciola Biblioteca de’ Teatri che veggansi in tal
tragedia sparsi quà e là alcuni versi felici e certe bellezze. Ma essi con
noi converranno che vi si
scorge principalmente
un tuono continuato di fredda elegia e di galanteria, per cui spariscono i
tratti importanti di libertà che tutta ingombra l’anima di Solone. Le scene
per lo più lunghe, oziose e quasi sempre fredde di quattro donne che
v’intervengono, spargano per tutto, e specialmente ne’ primi tre atti, un
languore mortale. A un tratto poi nel IV si enuncia la morte di Pisistrato,
di cui non cercano di accertarsi nè gli amici nè i nemici, così che poco
dopo Solone avvisa che Pisistrato combatte ancora, e
la libertà
soccombe
; anzi Pisistrato stesso viene fuori, altro male non avendo
che un braccio ferito. Nell’atto V Licurgo esce per far sapere alle donne
del dramma che il Senato è condisceso all’innalzamento di Pisistrato al
trono, e che Solone nell’opporsi a’ soldati di lui è stato mortalmente
ferito. Dopo alcune scene galanti, elegiache al pari delle già indicate,
comparisce nell’ultima Solone moribondo, il quale si mette a declamare
lungamente con tutta
l’inverisimiglianza per uno
che stà spirando, e racconta verbosamente che Policrita, non è sua figlia e
che si chiama Cleorante. In tutto il dramma egli ha usato un artificio ed
una reticenza scrupolosa, poco tragica intorno a i natali di Cleorante ad
oggetto di valersene per impedire con autorità di padre che Pisistrato che
l’ama opprimesse la patria. Ma quale scopo si prefigge morendo con iscoprire
il cambio fatto? Soltanto il far noto che il proprio sangue non si mescolerà
con quello dell’oppressore di Atene. Sembra dunque che l’eroe legislatore
diventi nullo nella tragedia, e che non si vegga in essa la sua virtù posta
in azione sino a che non ne diviene la vittima. Il personaggio che più
chiama l’attenzione è Pisistrato combattuto dall’amore e dall’ambizione, che
vuole il regno e non vuol perdere Policrita. Interessa eziandio la stessa
Policrita appassionata amante di Pisistrato e della libertà, e che seconda
le mire di Solone a costo del proprio amore. Solone altro non fa che
ondeggiare sperando nelle varie fazioni, e
promettendo la pretesa figliuola a colui che contribuisca a distruggere il
partito oppressore: opporsi alla fortuna di Pisistrato contro il volere del
Popolo e del Senato Ateniese: e svelare l’inutile arcano. Tutto potrebbe
condonarsi se nel dramma poi dominasse minor noja, freddezza e languore.