(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VII « STORIA CRITICA DE’ TEATRI. LIBRO VII. Teatri Oltramontani del XVII secolo. — CAPO I. Teatro Spagnuolo. » pp. 4-134
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VII « STORIA CRITICA DE’ TEATRI. LIBRO VII. Teatri Oltramontani del XVII secolo. — CAPO I. Teatro Spagnuolo. » pp. 4-134

CAPO I.

Teatro Spagnuolo.

Che influiscano potentemente sull’eloquenza i modelli che prendonsi ad imitare, oltre all’avvertimento di Orazio che inculcava lo studio ostinato de’ Greci esemplari, vien comprovato per la storia in ogni nazione e singolarmente dalla Spagnuola. Gli abitanti di quella penisola per natura d’ingegno acre, vivo, perspicace ed atto ad ogni impresa, possedendo una lingua figlia generosa di bella madre, ricca, espressiva, maestosa, pieghevole, armoniosa, e nobile, doveano fuor di dubbio segnalarsi nelle amene lettere tosto che ne’ buoni esemplari additata lor si fosse quella forma del Bello che il Gusto inspira ed alimenta negli animi gentili. Una lingua nascente non sempre imbatte alla prima a scegliere la versificazione più armonica e più acconcia a ricevere le forme leggiadre che gli antichi seppero ricavar dalla bella natura. Gli Spagnuoli ne’ tre secoli che precedettero il XVI conobbero in qualche modo i Latini e formaronsi alcuni metri nazionali come Alessandrini di diverso numero di sillabe detti fra loro di arte maggiore, e ridondiglie, decime, quintiglie, ed endecce. Dir però non saprei quando avrebbero essi trasportate nel loro volgare le antiche bellezze, se più lungamente persistevano ad usare la propria versificazione. Giovanni Boscano non prestò picciolo servizio alla nazione col porre in pratica il consiglio dell’italiano Andrea Navagero d’introdurre nella poesia castigliana la tessitura de’ metri italiani, Con ciò egli non solo venne a mostrare il meccanismo di una versificazione straniera, come taluno si diede buonamente a credere. La necessità di apprendere l’artificio e il portamento del nostro sonetto, della canzone, dell’ottava, della terzina, rendè loro famigliare la lettura di Dante, Petrarca, Sannazzaro, Ariosto e Bembo; ed in quel puro fuoco che spirano siffatti scrittori, si riscaldarono Garcilasso, Errera, Argensola ed altri valorosi poeti del secolo XVI.

Ma perchè nella drammatica non valse simile esempio? Forse perchè l’antica severa tragedia quivi originalmente si amò ben poco, e la commedia italiana non si confaceva gran fatto a’ patrii costumi del cielo ispano. Forse ciò avvenne ancora, perchè i primi traduttori spagnuoli delle antiche favole non ne diedero una idea capace d’invitare all’imitazione. Forse la novità tentata dal commediante Naarro coll’introduzione di battaglie, assedii, duelli, dovette allettare assai più una bellicosa nazione; e quindi determinare Lope de Vega, Castro, Mira de Mescua ecc. a ritrarre i costumi e gli evenimenti delle cronache nazionali. Forse lo spirito stesso di cavalleria, e l’amore delle avventure strane che spinse Cervantes a motteggiarne nel Don-Quixote, rendeva alla nazione accetto un teatro che n’era pieno. Forse tutte queste ragioni unite insieme contribuirono a dare a quelle scene un carattere particolare.

I nominati autori spagnuoli, de’ quali molti fiorirono anche sotto Filippo III, scorrendo con piede ardito per ogni parte del Parnasso, osarono calcar nella scenica un nuovo sentiero, e l’intemperanza e la soverchia fiducia gli menò sovente fuori di strada; a somiglianza di un fogoso destriero che trascorrendo a salti per iscoscesi dirupi urta, rovescia, calpesta quanto incontra, e finisce la carriera in un precipizio. L’amor di novità sedusse i contemporanei e i successori, aperse il campo alla soga della fantasia, e sursero i Gongora e i Gongoreschi.

Luigi di Gongora e Argote cordovese nato nel 1561 e morto nel 1627 sortì dalla natura vivacità, robustezza, energia, ma nella lirica battè il sentiero delle stravaganze, dipartendosi dalla gentilezza e verità seguita da Garcilasso ed Argensola. Le di lui poesie sublimi il Polifemo, le Solitudini, le Canzoni sono un tessuto di metafore strane e ridevoli. Noi non ne rechiamo quì gli esempi che avevamo raccolti per presentargli al signor Vicente Huerta che n’era cieco idolatra, perchè la di lui morte ci sciolse dall’impegno seco contratto di dargliele a conoscere. Oltreacciò non ignorano i sensati spagnuoli che l’istesso Lope de Vega, che non fu de’ più sobrii scrittori, caratterizzò come inintelligibili le poesie del Gongora. Quevedo se ne burlava ancora. Il giudizioso Luzan nel nostro secolo si è seagliato parimente contro gli spropositati groppi gongoreschi di matte metafore. La gioventù dee però esser prevenuta che Gongora non manca di merito in altri generi. Egli può dirsi l’inventore di una spezie di romance, in cui narransi avventure di Mori innamorati con moltissima grazia, leggiadria, affetto e naturalezza; nel che ha avuto un emulo gentile e felice nel mio da molti anni defunto amico Nicolàs Fernandez de Moratin. Tra’ sonetti del Gongora alcuno ve n’ha esente da notati difetti: le sue poesie burlesche hanno leggerezza, sale, vivacità: qualche canzone lirica è senza eccessi: vaga e semplice mi sembra la V delle sue canzoni amorose, che incomincia,

Buclas, o tortolilla,
Y el tierno esposo dexas.

Il giovane industrioso ne imiti le grazie additate, e prenda miglior modello nel sublime.

Coltivò Gongora anche la drammatica e scrisse las Firmezas de Isabela commedia, el Doctor Carlino commedia, e una favola Venatoria, le quali lasciò imperfette. Tutte le ciance e i traslati aggroppati del Polifemo e delle Solitudini si trovano nell’Isabella ma con delirio maggiore, perchè in questa parlano in proprio nome le persone introdotte, e non il poeta. Un personaggio chiama la morte alcalde de huesso ; un altro parlando di un vecchio canuto chiama i di lui capegli raggi pettinati del sole della prudenza , e fila da cui pendono (come dalle pergamene de’ privilegii) i sugelli dell’esperienza , carte bianche della storia , in cui la penna della memoria scrive con inchiostro d’argento ; altrove la città di Toledo è chiamata turbante di lavoro affricano , a cui il Tago serve di benda di mosellina bianca listata de oro . In somma in ogni personaggio traspare tutto Gongora allorchè delira. Ne tralascio le buffonerie frammischiate alle cose sacre: l’infelice esposizione della favola, non avendo saputo introdurla se non con fare che il buffone in 160 versi ne racconti a se stesso i fatti che la precedono: le meschinità e improprietà dell’intreccio, l’insipidezza, la moltiplicità delle azioni, l’irregolarità e la mancanza d’interesse. Del Dottor Carlino non si ha che il primo atto e buona parte del secondo. Questa favola è più comica, e sebbene la solita pedanteria vi si trovi da per tutto seminata, non vi è però gettata col carro come nell’altra. Ma quello che ci fa godere che sia rimasta imperfetta, si è l’oscenità de’ fatti che vi si maneggiano con isfacciatagine da bordello. Carlino è un medicastro imbroglione ruffiano che professa tal mestiere senza verun rimorso; ed ha per compagna una Casilda civetta scaltrita che servegli di zimbello. Egli maneggia diversi intrighi amorosi, e specialmente uno di certo Gerardo con una Lucrezia maritata che traffica vergognosamente per compiacerlo a prezzo di cento scudi. L’innamorato chiede in prestanza tal danaro al marito, lo passa alla donna, e dice poscia al prestatore di aver restituito il danaro alla consorte. Questa novella copiata da Giovanni Boccaccio è più dispiacevole posta alla vista sulle scene che nella lettura. Da questa favola del Gongora si vede che la commedia spagnuola non è sempre sì onesta matrona qual se l’immaginava l’innocente Saverio Lampillas. La nominata Venatoria è appena incominciata, e mostra che altro non rebbe divenuta che una copia delle pastorali italiane; perchè il prologo fatto da Cupido imita in parte quello dell’Aminta; e nelle due sole scene che lo seguono si narra l’avventura del bacio dato da Mirtillo del Guarini ad Amarilli col pretesto di farsi guarire dalla puntura dell’ape.

Composero anche pel teatro sotto Filippo III gli autori che soggiungo. Contemporaueo del Gongora fu Giovanni de Tasis y Peralta conte II di Villamediana poeta distinto per la nascita, per le avventure e per la morte, essendo stato di notte in Madrid ucciso nella propria carrozza da braccio sconosciuto mosso, come si espresse Gongora, de impulso soberano . Tralle di lui opere poetiche impresse in Saragoza nel 1619 si legge la Gloria de Niquea recitata dalla Regina colle sue dame, dove intervengono pastori, deità, il Tago ed il mese di Aprile. Cristofero Suarez de Figueroa giureconsulto si distinse colla traduzione del Pastor fido impressa in Valenza nel 1609; ed il sivigliano Giovanni Jauregui buon pittore e poeta emulo del Quevedo e del Gongora che produsse in Roma la bella sua versione dell’Aminta nel 1607, ed in Siviglia con nuova cura nel 1618. Non furono così bene accolte le altre sue commedie. Naturale di Siviglia su ancora Feliciana Henriquez de Guzman che compose los Jardines y Campos Sabeos tragicommedia, cui poscia ne aggiunse un’ altra del medesimo titolo, le quali s’impressero nel 1624 in Coimbra. Bernarda Ferreira de la Cerda portoghese versata nelle matematiche e nella musica compose diverse commedie alla maniera allora dominante senza regolarità ed in istile lirico troppo ricercato; le quali si trovano nel II tomo delle opere di questa dama. Simone Machado anche portoghese poeta rinomato scrisse quattro commedie impresse in Lisbona, ciòè due sull’Assedio di Diu, e due sulla Pastorella Alfea. Scrissero ancora commedie verso la fine del regno di Filippo III e principio del seguente due castigliani Antonio Hurtado de Mendoza, ed Alfonso de Salas Barbadillo. Ma di questi ed altri portoghesi e castigliani che tralasciamo, non essendo state le sceniche produzioni nè per numero nè per fortuna nè per eccellenza degne dell’altrui curiosità, rimasero seppellite ed obbliate universalmente sopraffatte dalla celebrità di quelle che si composero sotto Filippo IV.

Questo monarca che guerreggiò con varia fortuna, specialmente con Anna di Austria sua sorella, come regina di Francia e madre di Luigi XIV, che non seppe riparare i mali dell’espulsione di un immenso popolo di Mori Spagnuoli, e che nutrì ne’ vasalli senza trarne vantaggio l’indole bellica ed il germe della decadenza nazionale, fu poeta e bell’ingegno egli stessoa, e nel proteggere le lettere moltiplico i bell’ingegni senza migliorarne il gusto. Gli spettacoli scenici ch’egli amò con predilezione, fiorirono sotto di lui a tal segno, che il Vega, il Calderòn, il Solis, il Moreto, si lessero e si produssero da’ Francesi che cominciavano a sorgere, e dagl’Italiani che andavano decadendo. Vuolsi che avesse egli stesso composta qualche commedia pubblicata con altro nome o con quello anonimo di un Ingenio secondo l’usanza spagnuola. È tradizione poco contrastata che frutto della penna di Filippo IV su il Conde de Essex conosciuto col titolo Dar la vida per su Dama, la qual commedia non cede a veruna nè per l’irregolarità, nè per le stranezze dello stile, benchè i caratteri vi sieno dipinti con forza. Quando anche Filippo non ne avesse dato che il solo piano, come molti stimano, essa merita di conoscersi originalmente sì in grazia del coronato inventore, che per la commedia stessa la quale da un secolo e mezzo quasi ogni anno si rappresenta in Madrid. L’argomento è la privanza di quel conte presso la regina Elisabetta d’Inghilterra, e la morte da lei ordinatane e pianta.

Giornata I. Bianca amante del conte e fiera nemica occulta d’Elisabetta ne trama la morte introducendo di notte alcuni congiurati in una propria casa di campagna, dove trovasi a diporto la regina. Il conte che veniva a veder Bianca, giugne opportunamente a salvar la regina, la quale coperta di una mascheretta grata al suo liberatore gli dà una banda, che a que’ tempi si reputava un favore e una prova d’inclinazione della dama verso del cavaliere che la riceveva. Si dividono scambievolmente obbligati senza conoscersi. Perchè sappia lo spettatore in qual guisa fu la regina assalita e difesa, il conte lo narra a Cosmo suo servidore fatto a tal sine dal poeta rimanere indietro. Questa sorte di racconti divenuti essenziali nelle commedie spagnuole diconsi relaciones; ed in esse l’autore arzigogola senza freno sfoggiando in descrizioni ampollose ed in concetti falsi e puerili, e l’attore seguendo i delirii della poesia con gesti di scimie delle mani, de’ piedi, degli occhi, del corpo tuttoa, va dipingendo, non già lo spirito del sentimento e delle passioni, ma le parole delle metafore insolenti accompagnandole tutte con un gesto che le indichi. Di maniera che ho veduto io stesso l’attore tutto grondante di sudore per lo studio che pone ad imitare i movimenti del becco, delle ali, degli artigli di un uccello, lo strisciar della serpe, il corvettar del cavallo, ed il guizzar del pesce. Il conte vuol riferire che entrò nel giardino, trovò una dama mascherata che si bagnava, cui fu tirato un colpo di pistola, e che la difese dalle spade degli assalitori, e ne ricevè una banda. In ciò si spendono ben 125 versi, ne’ quali entra una scarsa vena del Tamigi che si fa un salasso di neve, una folta chioma arruffata di un boschetto pettinata dal vento con difficoltà , l’incertezza del conte in discernere, se le gambe della dama che si bagnava, correvano sciolte in acqua , o se l’acqua congelata formava le di lei gambe , come ancora il bere ch’ella fece dell’acqua colla propria mano, per la quale azione il conte si spaventò temendo non si bevesse parte della mano . Dopo queste scipitezze allora assai di moda parte il conte col servo, cangia la scena, e l’azione passa in città. Essex viene a veder Bianca, la quale piena della mal riuscita impresa ne parla coll’amante con tutto l’impeto di una cieca vendetta, e con tutta l’efficacia dell’amore tenta di tirarlo al suo partito. Il conte seco’ stesso detesta il tradimento, e risolve la distruzione de’ congiurati; ma per manifestar questo pensiero recita a parte 46 versi mentre Bianca attende la risposta. In fine a lei si volge, e si determina ad invitare con una breve lettera i congiurati a Londra, mostrandosi risoluto a dar la morte alla regina. Nell’incontrarsi col conte Elisabetta si avvede dalla banda di dovergli la vita, oltre alla potente inclinazione che glielo raccomanda. Essex da’ moti del di lei volto si accorge esser ella la donatrice della banda. Elisabetta si fa dall’amore abbassare sino al vassallo; egli innalza a lei le sue speranze; l’uno e l’altra frena la lingua che vuol trascorrere. Con un discorso interrotto mostrano i loro interni movimenti; pugna nell’una l’amore colla maestà, nell’altro la speranza di una fortuna brillante colla condizione di suddito.

Giornata II. Interessante è il secondo incontro della regina tiranneggiata dal fasto e rapita dalla propria debolezza, e del conte combattuto dall’amore di Bianca e dalla speranza del possesso di una regina dotata di bellezza. Ma questo punto dell’azione vien raffreddato dalle pedanterie del poeta. Si sente cantare questa redondiglia:

Si acaso mis desvarios
llegaren â tus umbrales,
la lastima de ser males
quitte el orror de ser mios.

Il conte prende l’occasione di scoprirsi amante della regina, parlandole sotto il nome di Laura e glossando (interpretando) questi versi. La regina riprende la timidezza dell’amante che si discolpa col rispetto; entrambi fanno pompa di acutezze, là dove era da disvilupparsi una tenerezza contrastata. Il conte recita anche un sonetto, la cui sostanza è d’insinuare il tacere: la regina con un altro sonetto obbligato alle stesse rime sostiene come più opportuno il parlare. Ognuno vede la stravaganza del secolo che convertiva i personaggi in poeti improvvisatori. Senza tali insipidezze l’azione da questo punto diverrebbe assai interessante e vivace. Il conte animato in tal guisa è in procinto di scoprirsi amante, quando comparisce Bianca colla banda che porta sopra di se, avendola ricevuta dal servo del conte. La regina l’osserva, si agita, dà ordini, gli rivoca, non vede che la sua gelosia. Partita Bianca, il conte comincia a dichiararsi; ma Elisabetta furiosa rivestendosi di tutto il rigore della sovranità irritata, a me temerario (gli dice interrempendolo) a me! mi conosci? sai chi sono? lo rammenti? Parti, allontanati, nè mai più ardire di entrar nella reggia; non so come in questo punto non fo recidere quel capo che nutrì pensieri cotanto audaci. (Oh grandezza tu sforzi il labbro a parlar contro del cuore!) Parte l’una colerica e gelosa, l’altro abbattuto e stordito. Bianca intanto si appiglia al partito di palesare alla Regina tutta la storia de’ proprii amori col conte implorando il real favore perchè le diventi sposo. Ma Elisabetta che dal suo racconto ha bevuto tanto veleno, trasportata le favella come una Regina gelosa che senza confessarlo ne ispira tutto il terrore. Tradurremo questo squarcio, nel quale la passione non è molto tradita dallo stile. Bianca dal suo racconto vuol conchiudere che il conte è suo sposo, e la Regina ripiglia:

Reg.

Come tuo sposo? (Io fremo, io più non vedo!)

Bia.

Come mio sposo? (o ciel che intendo!)

Reg.

Indegna,
Folle, debol…

Bia.

Regina!

Reg.

A un uom perverso
Di te obbliata, a un traditor ti rendi!

Bia.

Confusa io son!

Reg.

Sì l’onor tuo calpesti?
E alla presenza mia svelar non temi
Che il conte adori?

Bia.

Io non credei cotanto
Oltraggiar la maestà, se il conte…

Reg.

(O amore!
Io deliro!) Il mio sdegno, o Bianca, è zelo
Del tuo decoro.

Bia.

E gelosia rassembraa.

Reg.

Io! Gelosa io non son ; mi offende il dubbio.
Ma di un vassallo pur fingi un momento
Presa chi regna, se contender seco
Alma nata a servirla ardisse indegna,
Se amasse il conte… amar? che amar mirarlo
Se ardisse solo, o cosa ancor che meno
Del mirarlo importasse, parti, o donna
Ch’io non saprei co’ denti, colle mani,
Co’ detti ancor, col fiato, con gli sguardi
Trarle le indegne luci, il sangue berne,
Strapparle il cor, incenerir l’audace?
(Ah di me mi scordai?) Bianca, io gelosa
Mi finsi, e finta ancor la gelosia
L’ira in me risvegliò… Delirio strano!
Odimi attenta. Dal mio finto sdegno
Impara, o Bianca, ove tal caso avvenga,
(Ne soffra anche il tuo onor: chè l’onor tuo
È nulla ove son io) la tua sovrana
A non sdegnar; ove ella volga il guardo
Non mirar tu: mai non amar chi ella ami.
Non mi render gelosa; chè se finta
Sì terribile è l’ira in regio petto,
Pensa tu qual saria se fosse vera.
L’onore ancora avventurar dovessi,
Pensa a qual rischio la tua vita esponi.
Specchiati in questa immagine del vero,
E ingelosir chi tutto può, paventa.

Così la lascia. Bianca rabbiosa ingelosita anch’essa, oltraggiata, giura vendicarsi colle proprie mani. La Regina tralle cure del regno e dell’amore si addormenta. Bianca esce con una pistola alla mano che porta il nome del conte. Questi sopraggiugne e l’osserva maravigliato. Bianca si accinge a tirare, il conte la trattiene guadagnando la pistola. Nel contrasto esce il colpo; la Regina si sveglia; accorrono i cortigiani. Dubita la regina; non sa qual de’ due sia il reo, e quale il suo liberatore. Il conte, nelle cui mani è rimasta la pistola nega che Bianca abbia tentato quell’eccesso. Sei tu dunque il traditore? ripiglia la Regina. Nol so , risponde il conte. L’uno e l’altro è arrestato.

Giornata III. Essex è convinto dagl’indizii evidenti di alto tradimento. Per sua difesa altro egli non dice che di essere innocente. E condannato a perdere la testa. Prima di morire chiede il conte di parlare a Bianca; gli è negato; altro non potendo le scrive una lettera, incaricando al servo di consegnarla poichè egli sarà morto. Ma la Regina che ha sottoscritta la sentenza per soddisfare in pubblico alla giustizia, pensa a liberarlo privatamente dalla morte per compensarlo della vita che le ha salvato. Entra a tal fine nella prigione colla mascheretta e coll’abito semplice che portò nella prima scena. La riconosce il conte; ma ella come una dama privata gli presenta la chiave della prigione perchè possa fuggire. Il conte la prega a scoprirsi, e la Regina il compiace dandogli prima la chiave. Il conte le domanda il perdono che suol concedersi a’ rei che veggono la faccia del sovrano. Nega la Regina di altro potere a suo prò dopo avergli dato il mezzo di fuggire. Sdegna il conte di fuggire, getta la chiave nel fiume sottoposto alla finestra della prigione, e le dice che se non vuol essere ingrata, dee cercar nuova guisa di soddisfare al suo debito. La Regina risponde di altro non potere, ed estremamente addolorata, ma conservando la durezza della maestà offesa, ordina l’esecuzione della sentenza. Legge il servo per curiosità la lettera scritta dal conte a Bianca. Scopre il di lei delitto e l’innocenza del padrone, e la reca alla Regina. Se ne rileva ch’egli invitava a Londra i congiurati unicamente per prendere in una volta tutti i ribelli. La lettera termina con un consiglio a Bianca di desistere dall’impresa di vendicarsi della Regina, aggiungendo:

Mira que sin mi te quedas,
y no ha de aver cada dia
quien, por mucho que te quiera,
por conservarte la vida,
por traydor la suya pierda.

Da questa lettera screduta la Regina ordina che si sospenda l’esecuzione della sentenza; ma il conte è già stato decapitato. Le parole della Regina per lo più sobrie e convenienti all’evento tragico ed al di lei carattere, malgrado di non pochi difetti, danno fine a questo componimento interessante. Tommaso Corneille lo spogliò in Francia de’ principali errori, e ne ritenne le situazioni tragiche nel suo Conte d’Essex; ma nella dipintura del carattere del conte egli rimane al di sotto dell’originale. Nella favola spagnuola Essex è un innamorato, tuttochè combatta nel di lui cuore l’ambizione e l’amore; ma eroicamente dà per Bianca la vita per non iscoprirla, e soggiace alla morte colla taccia di traditore. Nella tragedia francese egli comparisce mattamente innammorato, e, come ben dice il conte Pietro di Calepio, muore più per disperazione che per grandezza d’animo.

Il gusto del monarca a guisa del suono si propaga e si diffonde in tutti i sensi per la nazione. La corte di Filippo IV si empì di verseggiatori che produssero a gara un gran numero di favole. Talora si videro tre autori occupati al lavoro di una sola commedia, dividendosene gli atti; ond’ è che se ne leggono più centinaja col titolo di Comedia de tres Ingenios, i quali talvolta vi si nominano. Mendoza, Rosette, e Cancer ne composero molte in tal guisa. Una ne aveva io veduta rarissima intitolata la Balthasara, di cui il primo atto appartiene a Luis Velez de Guevara, autore di molte altre commedie allora stimate morto nel 1640, il secondo ad Antonio Coello, ed il terzo a Francesco Roxas, il quale molte altre favole pur compose. Il primo atto desta la curiosità ed è meno difettoso nello stile; gli altri sono pessimi per istile, per azione e per orditura. L’argomento è una commediante rinomata che si converte, si disgusta dalla propria professione e della vita passata nel più bello di una rappresentazione in Valenza, va a servir Dio e far penitenza in una solitudine, e muore santamente. Nell’atto del Guevara si vede alla prima la dipintura naturale di un teatro spagnuolo qual era a que’ tempi. Esce ad affiggere il cartello di una nuova commedia un servo della compagnia detta di Eredia commediante famoso di quel tempo che n’era il capo. Si figura che tal compagnia rappresenti in Valenza nel teatro dell’Olivera. Apparisce l’interiore del teatro, e si veggono nella platea sparsi alcuni venditori, che, come è stato costume anche in Madrid sino ad alcuni anni fa (prima del tumulto accaduto in tempo di Carlo III), vanno gridando avellanas, piñones, peros de Aragon, turron ecc. Passano i facchini co i fardelli de’ vestiti de’ commedianti. Si vedono venire al teatro Baltassarra, Leonora e la Graziosa. La gente impaziente grida, salgan, salgan, empiezen, per sollecitare i commedianti ad incominciare. Baltassarra rappresenta a cavallo in mezzo della platea (costume conservato sino agli ultimi tempi da’ commedianti) facendo la parte di Rosa Solimana. Nel meglio del recitare si distrae, e fa riflessioni morali sulla vanità de’ piaceri, che non entrano nella parte che rappresenta. Al fine rapita da pio entusiasmo, interrompendo i versi della favola, dice a vista degli spettatori e de’ compagni,

Afuera galas del mundo,
afuera ambiciones locas
que solo me haveis servido
en esta farsa engañosa
por testigos del delito;

e gettati via gli abiti teatrali parte precipitosamente. L’uditorio si scompiglia; chi grida da’ palchi, chi dalla cazuela, chi dalla grada; il Grazioso marito della Baltassarra ed Eredia capo della compagnia vengono fuori confusi e disperati per le loro perdite, e termina l’atto. Il secondo contiene la vita penitente di Baltassarra, le preghiere e le lagrime di un suo amante, i tentativi del demonio per distorla. Nell’atto terzo il Roxas continuò a mostrare le astuzie del demonio, finchè si vede Baltassarra già spirata.

Ma Francesco de Roxas ha prodotte molte favole interamente sue. In quelle che si chiamano istoriche, lo stile è sommamente stravagante, e la condotta difettosissima. Di ciò può servir di esempio quella che intitolò los Aspides de Cleopatra, azione tragica scritta in pessimo stile colla solita trasgressione di ogni regola, e mescolanza di buffonerie arlecchinesche, la quale anche verso gli ultimi tempi, in cui dimorai in Madrid, si vide comparir su quelle scene. Egli è però autore di varie favole non dispregevoli nel genere comico chiamato colà di spada e cappa. In quella intitolata Entre bovos anda el juego degno di notarsi è il carattere comico di un toledano chiamato Don Lucas del Cigarral bellamente dipinto. Vedasene uno squarcio tratto dalla relazione che ne fa un suo servo, da noi tradotto con fedeltà:

Don Luca Cigarral, il cui moderno
Casato non vien già dalla famiglia,
Ma da una macchia o nido di cicale
Da lui piantato, è un cavaliere scarmo,
Gracile, macilento,
Cortissimo di busto,
Longhissimo di gambe, che ha le mani
Più ruvide di quelle de’ villani,
I piedi lunghi bassi al collo e piatti
Come hanno l’oche e pien di nodi e calli,
Goffo un poco, un pò calvo, verdinero
Più che poco, e ancor più schifoso e sozzo,
Più di quaranta volte molto porco.
Se canta la mattina,
Non sol, come si dice,
Spaventa le sue noje,
Ma tutta pur la gente a lui vicina;
Se dorme al suo poder, con tale orrendo
Strepito russa, che s’ode in Toledo.
Mangia come un studente,
Beve come un Tedesco,
Come un signor di mille cose chiede,
Cinguetta al pari d’un ben grasso erede.
Con grazia tal ragiona,
Che ad ogni motto una novella appicca,
Che sempre è lunga, e non è giammai buona.
Non v’ha paese ov’ei stato non sia.
Cosa non sente dir ch’ei non fe pria.
Se taluno dirà d’aver la posta
Corsa sino a Siviglia,
Egli, ad onta del mar che si frappone,
Fino al Perù la corsi anch’io, ripiglia.
Di spade si favella?
Ei solo se ne intende. Ad ogni lama
Che non ha impronta, egli un maestro assegna.
Cento commedie ha insino ad or composte,
E le conserva suggellate e chiuse,
E alle figlie che avrà, vuol darle in dote.
Ma vaglia il ver, benchè non sia gentile,
Benchè sia mal poeta e peggior musico,
Zotico, seccator, bugiardo e stolto,
Con un sol vezzo ogni suo neo compensa,
Che sì sordido ha il cuore e meschinello,
Che non daria quel che tacere è bello.

Questa dipintura, oltre all’essere ben graziosa, ha il merito di prevenire l’uditorio sul carattere del protagonista. Il poeta con altre pennellate ancora avviva il ritratto di Don Luca. Fa che egli imponga che nel passare Isabella sua sposa da Madrid a Toledo, si copra di una mascheretta. Ecco tradotta la lettera che le scrive, la quale spira tutta la gentilezza di Don Luca. Sorella, io possiedo seimila e quarantadue ducati di rendita di un maggiorato, e se io non ho figli, viene ad essere mio cugino il mio successore. Mi vien detto che voi ed io possiamo averne quanti vorremo. Venite questa notte a trattare del primo, che ci sarà tempo poi per gli altri. Mio cugino viene a prendervi;mettetevi una mascheretta, e non gli parlate;perchè finchè io viva, voi non dovete essere nè veduta nè udita. Nell’osteria di Torrejoncillo vi attendo; venite subito, che i tempi correnti non permettono di aspettar molto nelle osterie. Dio vi guardi, e vi dia più figliuoli che a me. Un altro bel colpo di pennello riceve da un altro suo foglio portato dal nominato cugino. Contiene una carta di quitanza così dettata. Ho ricevuto da don Antonio Salazar una donna che ha da essere mia moglie, con suoi contrassegni buoni o cattivi; alta di persona, di pelo nera, e pulcella nelle fattezze. E la consegnerò tale e quanta ella e, sempre che mi sarà domandata in occasione di nullità o divorzio. In Toledo a’ 4 di Settembre del 1638. Don Luca Cigarral. In conseguenza del suo carattere procede don Luca nella briga attaccata co’ passeggieri in Torrejoncillo, e nell’incontro colla sposa nell’atto I, che si rappresenta parte in Madrid e parte nel nominato villaggio. Non si smentisce nelle avventure notturne, quando tutti i passeggieri caminando verso Toledo pernottano in Illescas nell’atto II. Degno di lui è pure nell’atto III che si rappresenta in Cabañas, il pensiero di far maritare Isabella col suo cugino per vendicarsene; perchè essendo poveri, mal grado del loro amore, forza è che vivano malcontenti. I caratteri sono ben dipinti; l’azione non offende l’unità richiesta; il tempo si stende oltre il confine di un giorno, ma non tanto che la favola ne divenga inverisimile, restringendosi al più a due giorni; il luogo solo non è uno, passando l’azione in Madrid, in Torrejoncillo ed in Illescas, e terminando in Cabañas. Lo stile poi è comico, sobrio e vivace in tutto, eccetto nel dialogo degl’innammorati, perchè allora i poeti credevano di cader nel basso, nel famigliare, nel triviale, se i concetti amorosi si esprimessero con semplicità e naturalezza.

Seguace, ammiratore e quasi alunno di Lope de Vega fu Giovanni Perez de Montalbàn nato in Madrid da un librajo. Di anni diciassette cominciò a scrivere commedie che si recitarono con applauso e s’impressero in due volumi nel 1639. Oggi che pochissime commedie dell’istesso Lope si rappresentano, havvene più d’una del Montalbàn che si ripete quasi in ogni anno in Madrid, cioè la Lindona de Galicia, e los Amantes de Teruel.

La Lindona. Una mescolanza di avventure tragiche e comiche, di persone reali, basse e mediocri, un cumolo di fatti che formano anzi un romanzo che un dramma, in cui nell’atto I interviene Sancio re di Castiglia, e nel II l’azione segue sotto il regno del di lui successore Ferdinando, rendono mostruosa questa favola che prende il nome da una Rica-Fembra di Galizia. Due cose secondo me l’hanno fatta conservare in teatro ad onta di tante stravaganze, cioè il carattere vendicativo di questa dama che parla nel proprio dialetto galiziano, e spira certa non usitata bizzarria e fierezza raccomandata dalla beltà; e la bellezza selvaggia di Linda vestita di pelli e cresciuta senza saper parlare, che si va disviluppando a poco a poco per mezzo di una tenera simpatia che le ispira la veduta di un giovane principe. Linda viene indi conosciuta per la figliuola di Lindona che ella avea gettata in mare per vendicarsi del principe Garzia di lei padre.

Los Amantes de Teruel. In questa terra del regno di Aragona corre una tradizione degli amori infelici di due amanti virtuosi morti di dolore l’uno nell’arrivar ricco per isposare la sua innammorata e trovarla moglie del suo rivale, l’altra al vedere estinto l’amante. La tradizione è accreditata presso gli Aragonesi con un sepolcro che si addita in Teruel. Su tale argomento Giovanni Tagur de Salas formò un poema epico tragico intitolandolo los Amantes de Teruel impresso in Valenza nel 1617, e poi Montalbàn ne compose il dramma di cui parliamo.

Malgrado de i difetti consueti l’azione principale è sommamente interessante, e i caratteri degli amanti Diego ed Isabella con molta vivacità delineati. Ferdinando altro amante d’Isabella mal noto e mal gradito, ed Elena di lei cugina occulta amante di Diego formano gli ostacoli della loro felicità. Il padre d’Isabella la destina ad un ricco e Ferdinando è tale, essendo Diego povero di beni e pieno solo di virtù e di valore. L’uno e l’altro nell’atto I la chiedono ad un tempo in isposa. Il vecchio riceve con sommo piacere le istanze del ricco, ma alle fervide insinuanti preghiere del povero egli rimane intenerito ed irresoluto a segno che al fine la nega ad ambedue; al povero perchè è tale, ed al ricco per non dispiacere al povero valoroso degno di miglior fortuna. Diego si avvisa d’implorare un altro favore, cioè di permettergli di sperare la mano della figliuola nel caso che egli migliorasse di fortuna; ed a tale effetto chiede che destini uno spazio competente per tentar la sorte. Condiscende il buon vecchio, e si conviene che Isabella rimarrà senza prender marito tre anni e tre giorni, e questi scorsi nè tornando Diego più ricco, possa dare la mano a Ferdinando. Diego va a militare sotto Carlo V che muove contro Solimano.

Nell’atto II i maneggi di Elena fanno sì che per due anni e mezzo nè le lettere di Diego giungano alla cugina, nè quelle di lei sieno a Diego indirizzate. In oltre per abbattere di un colpo la costanza d’Isabella si fa arrivare un finto soldato colla falsa notizia della morte di Diego, che riduce agli estremi la vita d’Isabella senza indebolirne la passione. Dall’altra parte Diego ha fatti prodigii di valore, ha salvata la vita all’Imperadore, si è fatto ammirare nella Goletta, è stato il primo a montare sul muro di Tunisi, ma sempre sfortunato si trova tuttavia povero. Disperato si vuole ammazzare; giugne all’Imperadore la notizia di quel trasporto; ne intende le avventure ed i meriti; lo dichiara capitano della propria compagnia; gli assegna tremila scudi annui sulle rendite di Teruel per mantenersi, e gliene dà altri quattromila per le spese del viaggio.

Non può disporsi Isabella a sposar Ferdinando prima di compiersi lo spazio accordato al creduto morto suo amante de’ tre anni e tre giorni. Nell’atto III scorso questo tempo un’ ora dopo è costretta a dargli la mano. Dopo un’ altra ora giugne in Teruel Diego vivo ricco e glorioso. L’incontro de’ due amanti è tenero e doloroso. Vorrebbe Isabella narrare come sia condiscesa alle nozze, ma teme che sopraggiunga il marito. L’affretta a partire. Tradurrò esattamente qualche squarcio di questa scena. Vieni tu con salute? dice Isabella. Saprai poi del mio stato , risponde Diego; ma tu come stai? Morta sopra la terra, ella ripiglia e vuol partire. Addio, ella segue agitata:

Addio; con te restar non m’è concesso.
Ti dirò solo in breve, che un soldato
A noi recò di te nuove funeste;
Che sospirai, che piansi,
Che morir volli… Oddio! non è più tempo
Di rammentar quel che obbliare è forza.

Die.

E di che è tempo?

Isa.

Di pensar ch’è questa
L’ultima volta, oimè, ch’io ti favello,
Che tu mi vedi.. Addio… Ti amai, lo sai.
Partisti…

Die.

Die. E bene?

Isa.

Si ostinò Fernando,
L’interesse parlò, l’udì mio padre.
Corse il romor della mentita morte…
Ah maledetto sia l’infame, il falso,
Il comprato messaggio, onde mi vedo
A sì misero stato oggi ridotta!
Passò il tempo prefisso; amante invano
Volli oppormi al destin ; minaccia il padre;
Donna, priva di te, figlia, obedisco.
E infin…. deggio pur dirlo? In fin son moglie.
Vanne, tel dissi già, lasciami, parti,
Chè se ti miro più perdermi posso,
E perdermi non vò.

Die.

Pensa.

Isa.

Non giova.

Die.

Ben mio…

Isa.

Vanne…

Die.

Ah tu speri invan, crudele,
Che tal freddezza e tal contegno io soffra.

Isa.

Che far poss’ io?

Die.

Al padre dir ch’io vivo.

Isa.

È vano.

Die.

Parlar chiaro a don Fernando.

Isa.

Sono già sua.

Die.

Prova la forza.

Isa.

È vana.

Die.

Vientene meco.

Isa.

L’onor mio m’è caro.

Die.

Fuggi sola.

Isa.

Ove?

Die.

A un giudice ricorri.

Isa.

A cui?

Die.

Dì che sei mia.

Isa.

Non è più tempo.

Die.

Uccidimi.

Isa.

Io che t’amo?

Die.

Segui dunque ad amarmi.

Isa.

Ah nobil nacqui!

Die.

Qualche rimedio alfin trovar conviene.

Isa.

E trovato.

Die.

Qual è?

Isa.

Morir tacendo.

Die.

Scelgo il morir, ma palesando al mondo
L’amor tuo, la tua fe.

Isa.

Sai ch’ho un marito.

Die.

Io, io son tuo marito, e dal tuo fianco
Appartarmi potrà solo la morte.

Isa.

E l’onor mio?

Die.

Tutto si perda omai.

Isa.

E la tua vita?

Die.

Oggi finisca.

Isa.

E il mio
Consorte?

Die.

Non ti goda.

Isa.

E i miei parenti?

Die.

Versin tutto il mio sangue.

Isa.

Invano io priego?

Die.

Io nulla ascolto.

Isa.

Ed io con questa mano
Saprò morir.

Die.

Saprò morire anch’io.

Parte Isabella, la segue Diego; ma ella temendo che sia veduto dal marito, per far che vada via gli dice che l’abborrisce. L’anima dell’innammorato oppressa in tante guise dalla piena de’ violenti affetti non resiste a quest’ultimo colpo, e spira di puro dolore, cagionando colla sua morte quella d’Isabella che gli muore accanto. La relazione ch’ella prima di spirare fa della morte del suo amante al marito, e l’estreme sue querele mal corrispondono alla scena patetica e naturale che abbiamo tradotta, essendo il rimanente pieno di arguzie, sofisticherie, scipitezze e concettuzzi impertinenti. Questa composizione per lo più si rappresenta ogni anno sul teatro di Madrid sempre con piacere e concorso, quante volte la parte d’Isabella si eseguisca da un’ anima sensibile che per buona ventura o per arte non sia stata avvelenata da’ pregiudizii istrionici. Tal era negli anni che io vi dimorai, la delicatissima attrice Pepita Huerta mancata nel fior degli anni suoi.

Uno degli scrittori più fecondi trasportati da sfrenata fantasia fu frate Gabriel Tellez di Madrid religioso di s. Maria della Mercede morto verso il 1650. Le sue commedie impresse in tre volumi in Madrid ed in Tortosa nel 1634 portauo il finto nome di Maestro Tirsi de Molina. Egli accumolava di tal sorte gli avvenimenti che oltrepassava gli eccessi de’ suoi contemporanei. A lui appartiene la commedia delle imprese de’ Pizarri, in cui corre dalle Spagne al Perù con somma leggerezza. Il teatro odierno non parmi che di questo frate altra favola rappresenti eccetto il Burlador de Sevilla, per altro titolo il Convitato di pietra. Niuno ignora la fortuna di questa stravagantissima composizione. In Ispagna si è continuato a mostrarsi sulle scene sino al tempo che Antonio de Zamora non prese a trattar questo medesimo argomento con minori assurdità. In Italia però dal Perrucci siciliano si tradusse quella del frate, ed i pubblici commedianti la ridussero a sogetto rendendola ancor più grottesca. Il Moliere la rettificò, facendone una dipintura di un discolo, la spogliò della varietà intemperante, del bizzarro, del miracoloso, e ne dissipò il concorso. Fece altrettanto Carlo Goldoni. Il dramma originale del Tellez ha trionfato per più di cento anni su tanti teatri, e si riproduce da’ ballerini pantomimi; ad onta del re di Napoli che esce col candeliere alla mano ai gridi d’Isabella vituperata e ingannata da uno sconosciuto, di tante amorose avventure di don Giovanni Tenorio, de i di lui duelli, della statua che parla e camina, che va a cena, che invita il Tenorio a cenare, che gli stringe la mano e l’uccide, e dello spettacolo dell’inferno aperto e dell’anima di Don Giovanni tormentata.

Giambatista Diamante è autore di varie favole, alcune delle quali sino a’ giorni nostri si sono conservate in teatro, e nel giro di ciascun anno costantemente vi si ripetono. Ogni prima Dama del teatro spagnuolo per far pompa di abilità apprende a rappresentar la di lui Judia de Toledo. L’argomento appartiene al regno di Alfonso VIII re di Castiglia che per sette anni perseverò nell’amore di una Ebrea toledana chiamata nelle cronache nazionali Fermosa. Don Luis de Ulloa y Pereyra compose de’ fatti di lei un poema di 76 ottave intitolato la Raquel che si trova inserito nel Parnasso Spagnuolo. L’azione del dramma incomincia dall’esiglio degli Ebrei decretato da Alfonso, per cui viene Rachele ad implorar la clemenza del sovrano, prosegue col reciproco innammoramento, e termina colla morte di Rachele per mano de’ Castigliani sollevati. Le stranezze dello stile, l’irregolarità, la buffoneria alternata con gli evenimenti tragici, non offuscano del tutto l’energia e la verità che si osserva nella dipintura delle passioni e de’ caratteri di Rachele innammorata ed ambiziosa, e di Alfonso accecato dall’amore. Traluce agli occhi curiosi e sagaci qualche pensiero vigoroso e naturale, benchè sommerso, per così dire, da una tempesta di metafore spropositate. Tale parmi nella giornata I ciò che Rachele risponde al padre che vuol sugerirle quel che dir debba al re. Non ho bisogno, gli dice, delle vostre ragioni per persuadere; e quando mai, aggiugne, il di lui sdegno confondesse il mio discorso,

Yo harè que enmienden los ojos lo errores de mi labio.

Tale nella giornata II è la risposta data da Rachele ad Alfonso. Lascia il rispetto, le dice il re,

Hablame como à tu amante,
No como à tu rey.

Raq.

No puedo,
Que ha poco que eres mi amante,
Y ha mucho que eres mi dueño.

Tale nella giornata III il congedo che Rachele condotta a morire prende dal padre.

Diamante scrisse anche una favola sul Cid, e Pietro Cornelio ne trasse alcuni pensieri. A lui debbe questo sentimento di Chimene,

Je sai que je suis fille, et que mon pere est mort.

Diamante avea detto ciò forse con maggior precisione,

El Conde es muerto, y yo su hija soy.

Ma in fine che brami? si dice a Chimene, ed ella presso il poeta francese risponde,

Le pursuivre, le perdre, et mourir après luy.

Diamante disse prima,

Perseguille hasta perdelle,
Y morir luego con ela

Ma sotto questo lungo e fecondo regno fiorì principalmente il famoso Pedro Calderòn de la Barca assai conosciuto in Francia ed in Italia, de i cui drammi sacri e profani si valse frequentemente l’istesso Filippo IV. Egli compose almeno centoventi commedie oltre al gran numero di prologhi o loas, delle quali una gran parte sino a nostri dì continua a rappresentarsi, e secondo l’apparenza continuerà ancora. Sino all’anno 1664 non n’erano usciti che tre tomi, i quali poi crebbero a nove oltre a sei altri impressi in Madrid nel 1717, che contengono settantadue autos sacramentales. Ma il numero di questi e delle commedie apparisce molto maggiore perchè gliene attribuirono altre non sue per accreditarle col di lui nome.

Di questo celebre commediografo variamente giudicarono i critici, e forse sempre con ingiustizia. Deificato da alcuni fu trattato da altri qual mostro e corruttore del teatro. Non meritava la cieca idolatria de’ primi, avendo lasciate a’ posteri moltissime cose da migliorare; non le amare invettive degli altri a cagione di molti pregi che possedeva. Blâs de Nasarre, il quale cercò abbassare i più celebri drammatici spagnuoli, per sostituir loro un merito ideale di altri oscuri scrittori, declamò prolissamente contro le stravaganze, gli errori e l’ignoranza di Calderòn. Senza dubbio questo poeta (per accennarne alcuna cosa in generale prima di scendere alle particolarità di qualche sua favola) mostrò di non conoscere, o almeno non si curò di praticare veruna delle regole che è più difficil cosa ignorare che sapere: pensando far pompa di acutezza nell’elevare lo stile, si perdè, non che nel lirico, nello stravagante, e, per dirla col signor Andres medesimo suo compatriota, ne’ ghiribizzi e negli agguindolamenti: abbellì i vizii (errore sopra ogni altro inescusabile) e diede aspetto di virtù alle debolezze: fece alcun componimento di pessimo esempio come el Galàn sin Dama: cadde sovente in errori di mitologia, di storia, di geografia. Ma Calderòn ebbe una immaginazione prodigiosamente feconda: non cedeva allo stesso Lope nell’armonia della versificazione: maneggiò la lingua con somma grazia, dolcezza, facilità ed eleganza: seppe chiamar I’ attenzione degli spettatori con una serie di evenimenti inaspettati che producono continuamente situazioni popolari e vivaci. Sono, è vero, i suoi ritratti per lo più manierati e poco somiglianti agli originali che ci presenta la natura; ma non si allontanano molto dalle opinioni dominanti a’ giorni suoi. Oggi che si conosce colà tutto il ridicolo della smania cavalleresca e de i duellisti mercè del piacevole pennello di Miguèl Cervantes, i personaggi di Calderòn rassembrano tutti Rodomonti e Pentesilee erranti; ma era cosa comune al suo tempo che un cavaliere prendesse di notte le sue armi, andasse in ronda sospirando sotto le finestre della casa della sua bella, e si battesse con chi passava. Per giudicar dritto di un autor comico, non basta intender l’arte, ma convien saper trasportarsi al di lui secolo.

I generi scenici da lui coltivati furono tre, l’allegorico degli auti sacramentali, le favole istoriche, e le commedie di spada e cappa.

Quanto agli auti sembra che egli non avesse compresi gl’inevitabili inconvenienti attaccati al maneggiar sulla scena la delicata materia de’ misteri della nostra religione. Al vedere egli deliziavasi nell’interpretarli con mille giuochetti puerili sulle parole e con tante buffonerie de’ personaggi ridicoli. Eccone qualche prova. Cristo (dicesi in un auto) morì alla strada de las tres Cruces, alludendo con equivoco meschino alle croci del Calvario e alla calle de las tres Cruces di Madrid. Con simile equivoco si dice che la Samaritana abita alla calle del Pozo. Con istrano anacronismo intervengono in un medesimo auto personaggi divisi di tempi e di paesi, come la Trinità, il demonio, san Paolo, Adamo, s. Agostino, Geremia. L’Appetito, il Peccato, una Rosa, un Cedro, il Mondo, si trovano personificati negli autia. In quello intitolato gli Ordini Militari si figura insipidamente che Cristo venga a domandare la Croce al Mondo, e che questo personaggio per concedergliela voglia sentirne l’avviso di Mosè, Giobbe, Davide e Geremia, i quali affermano che egli la meriti pel quarto del Padre; dopo di che il Mondo si determina a dare a Cristo la Croce, affermando non averla sinora concessa a veruno se non per onore. Nel Laberinto del Mondo l’Innocenza rappresentata dalla Graziosa, che corrisponde alle nostre Servette e Buffe, in presenza di Theos che è Gesù Cristo venuto su di una nave a redimere il mondo, dice del mare,

… por mi cuenta he hallado
Que no es grazioso el mar aunque salado;
Mas fuera dicha suma
Que el chocolate hiciera tanta espuma.

Garcia de la Huerta per giustificar l’anacronismo di Calderòn di aver fatto usar l’artiglieria in tempo dell’imperadore Eraclio, citò Milton che pur l’introdusse nel combattimento degli Angeli, ed aggiunse che l’uno e l’altro sublime ingegno pospose con uguale ardire e felicità lo proprio à lo sublime y maravilloso . Non so se nell’auto riferito Calderòn si propose ancora in grazia del sublime e del maraviglioso di mentovar l’uso del chocolate prima della venuta di Cristo; almeno non costa che gli Angeli avessero fatto uso ancora di questa pozione Messicana.

Ma è inutile di più trattenersi su gli auti sacramentali banditi al fine per sempre da teatri spagnuoli. Erano già tre mesi nel settembre del 1765 quando giunsi in Madrid, che per real rescritto del gran monarca Carlo III se n’era proibita la rappresentazione per lo scandalo che producevano le interpretazioni arbitrarie e gli arzigogoli de’ poeti stravaganti su di così gran Mistero, e per l’indecenza di vedersi sulle scene una Laide rappresentar da Maria Vergine, una mima elevar la sfera sacramentale, e cantare il Tantum ergo.

Nelle favole istoriche dove introduconsi personaggi reali, regnano le principali stranezze tanto nello stile per cercarsi il sublime, quanto nelle apparenze e negli accidenti accumulati senza modo per correre dietro alle novità, ed all’inaspettato ad oggetto di chiamare il concorso. Calderòn ne compose moltissime che possono dirsi senza esitanza stravaganti; p. e. las Armas de la Hermosura, in cui Coriolano diventa un vero cavaliere errante de’ bassi tempi: Finezza contra finezza, in cui si ammassano evenimenti disparati ed apparenze senza numero, e si stravolge il bellissimo episodio di Olinto e Sofronia del gran Torquato: la Aurora en Copacavana che a stento m’induco a crederla lavoro del Calderòn. In essa i Peruviani sono delineati a capriccio, e la storia dello scoprimento di Pizarro vi è adulterata ed involta in miracoli ed apparenze senza oggetto e senza giudizio, divenuta tutta fantastica per mezzo dell’Idolatria personaggio allegorico, che si agita, medita, eseguisce mille incantesimi senza perchè e senza sapere ella stessa nè quel che si voglia nè quel che intenti.

Pur tra simili sue favole istoriche se ne leggono alcune più interessanti e più sobrie, per varii tratti poetici e per situazioni pregevoli, se voglia usarsi loro indulgenza per la solita manifesta irregolarità. Prescelgo in questo genere tragico, malgrado delle buffonerie, la Hija del aire, el Tetrarca de Jerusalen, la Niña de Gomes Arias.

Sotto il nome di Hija del aire (figlia del vento) Calderòn non altrimenti che l’italiano Muzio Manfredi, pubblicò due favole sulle avventure di Semiramide. Nella prima ne dimostrò la prima gioventù, l’educazione selvaggia avuta ne’ monti, le sue nozze con Mennone indi con Nino re degli Assiri. Nella seconda trattò del di lei regno dopo la morte di Nino, della maniera come tolse il freno del governo al figliuolo inetto e regnò sotto spoglie virili e della di lei morte. Nell’una e nell’altra è dipinto vivacemente il carattere di questa regina straordinaria piena di valore e di ambizione; ma nella seconda sono gli evenimenti assai più dilettevoli e più atti a tirar l’attenzione dell’uditorio.

El Tetrarca de Jerusalen contiene le avventure di Marianna ed Erode, ed è forse la più famosa delle sue rappresentazioni istoriche, e quella che più spesso ho veduta riprodursi sul teatro di Madrid. La favola si aggira sul timore che ha Marianna di una predizione di un astrologo che ella perirebbe preda di un gran mostro, e che Erode col pugnale che sempre porta allato darebbe la morte alla persona da lui più amata. Risaltano in questa favola il carattere di Marianna virtuosa quanto bella e quello di Erode eccessivamente amante e geloso.

Nell’atto I Erode tenta dissipare i timori di Marianna riguardo al mostro, e perchè non abbia a temere del pugnale, lo getta in mare, supponendo il poeta che Gerusalemme fosse città marittima. Ma questo ferro fatale va a cadere appunto su di un uomo che a nuoto tenta salvarsi da un naufragio, e questi è Tolomeo suo capitano da lui mandato in soccorso di Marcantonio contro di Ottaviano. È condotto questo Tolomeo col pugnale fitto nel corpo, e prima che spiri fa un racconto del trionfo di Ottaviano e dell’armata ebrea distrutta dalla tempesta. Ma egli a dispetto del pugnale che l’ha trafitto, vuole tutto ciò riferire in settantacinque versi ripieni di concettuzzi e di circostanze inutili, entrandovi il bucentoro di Cleopatra lavorato di avorio e di coralli , il mare divenuto Nembrot de’ venti che pone monti sopra monti e città sopra città , la tavola su di cui si salva Tolomeo fatta delfino impietosito , il ferro che l’ha trafitto divenuto cometa errante, che corre la sfera dell’aria contro l’umano vascello del di lui corpo . Un poeta più sobrio avrebbe ad un moribondo risparmiato almeno sessanta di questi versi ed un pajo di dozzine di pensieri stravaganti.

Tout ce qu’on dit de trop est fade et rèbutant.

Intanto Ottaviano in Menfi per alcune carte comprende i disegni di Erode. E quali sono? Aspirare a divenire imperadore di Roma. È una ipotesi troppo inverisimile e ridevole per accreditar le situazioni che seguono, che un Idumeo signore di una parte della Palestina nel tempo che contendevano Ottaviano e Marcantonio dell’impero del mondo, concepisca il disegno di farsi padrone di Roma. Ottaviano tralle carte nominate appartenenti ad Aristobolo ha trovato un ritratto della bella Marianna, e gli vien dato ad intendere esser quella dipintura immagine di una bellezza estinta. Il poeta riconduce lo spettatore a Gerusalemme ad ascoltare un dialogo di Marianna ed Erode che aringano ed argomentano a vicenda.

In Menfi comincia l’atto II che poi termina nella Giudea. Nell’intervallo degli atti si figura il Tetrarca fatto prigioniero, ed è condotto alla presenza di Ottaviano, che ha nelle mani il ritratto di Marianna. Erode s’ingelosisce; Ottaviano lo minaccia e rimprovera, e gli volge le spalle; Erode tenta di ferirlo col suo pugnale. Per render verisimile questo attentato, dovrebbe supporsi che Ottaviano si trattenesse col nemico senza verun testimonio, senza corteggio, senza guardie. Ma chi lo salva dalla morte? Una copia grande al naturale tratta dal ritrattino, la quale cadendo dal muro si frappone e riceve il colpo destinato ad Ottaviano. Il pugnale tolto dalla percossa immagine rimane in potere di Ottaviano, ed Erode è condotto ad una torre per aspettar la sentenza della sua morte. La gelosia gli fa vedere la sua Marianna in potere del nemico che ne tiene varii ritratti. Pensa ad impedirgliene il possesso ancor dopo che egli sarà morto, ed in una lettera ordina la di lei morte, e la manda a Tolomeo. Per un intrigo amoroso di una damigella questa lettera passa nelle mani della stessa Marianna, che con somma maraviglia e dolore ne legge il contenuto. Le giuste sue querele sono patetiche, ma confuse in un mucchio d’espressioni fantastiche. È notabile la situazione di Marianna, dopo la lettura di quel foglio. La tormentano l’amore e l’indignazione; nè a questo punto patetico altro manca che una esecuzione più naturale ed espressioni spogliate da i delirii de’ secentisti.

L’atto III passa in Gerusalemme. Marianna si presenta ad Ottaviano coperta di un velo, e domanda la vita del consorte. Egli non vuole udirla, e le dice,

Si enternecer no espero mis iras, paraque con ellas luchas?

e Marianna con grandezza e vivacità ripiglia,

Paraque tu gobiernas sino esouchas?

Ottaviano convinto da tal detto si arresta, ma ricusa di ascoltarla se non discopre il suo volto. Marianna si discopre, ed è conosciuta per l’originale della pittura. L’imperadore concede la grazia domandata e nobilmente dilegua anche ogni sospetto svegliato in Erode alla vista de’ ritratti. Erode vuol mostrare la sua gratitudine alla moglie, ma ne ammira la somma mestizia e le lagrime. Ne vuol sapere la sorgente, e Marianna gli rimprovera l’ordine dato per farla morire, mostrandogli il foglio di lui. Molti pensieri patetici e vigorosi si trovano sparsi nelle di lei querele; ma sono frammischiati a varie impertinenze pedantesche di quel tempo. Ella si ritira al suo appartamento per mai più non vederlo, giurando por los dioses che adoraa che si getterà in mare, se ardisce entrarvi. Intende Ottaviano la strettezza in cui vive Marianna, e risolve di andar di notte a vederla. Quì Ottaviano diventa un innamorato di spada e cappa che si accinge ad un’ avventura notturna; là dove egli prima per dissipare i sospetti del Tetrarca magnanimamente diede ragione della maniera onde acquistato avea il ritratto, e di più lo lasciò in potere della stessa Marianna. Egli in fatti entra di notte nelle stanze di lei con poco decoro della maestà e con rischio della fama della regina. L’incontra, offerisce liberarla (quando che dovea e potea farlo decentemente colla propria autorità). Marianna gli dice che la sua prigionia è volontaria. Puerilmente ancora Ottaviano s’invaghisce un’altra volta del ritratto che spontaneamente le avea consegnato, e la regina glielo nega e vuol bruciarlo. Ottaviano insiste, l’impedisce, vuol prenderlo a viva forza. Ella minaccia di ammazzarsi col pugnale di Erode che Ottaviano porta al fianco. Non è questa una contesa tutta comica ed indecente contraria alla verisimiglianza ed al decoro di simili personaggi? Ottaviano si arresta; ella fugge e getta via il pugnale; egli le corre dietro. Chi riconosce più in tal conflitto e strano inseguimento l’Ottaviano del resto della favola? Il Tetrarca viene col disegno di tentar di parlare a Marianna. Si maraviglia de’ fregi donneschi sparsi per la stanza; si avvede del suo pugnale che era rimasto in potere dell’imperadore; ode la voce di lui e quella di Marianna; sente tutta la sua gelosia; imbatte in Ottaviano; l’affronta; Marianna per separargli smorza il lume. Erode perde la spada, impugna il pugnale, incontra Marianna e l’ammazza, e poi si getta in mare.

Questa è la favola del Tetrarca de Jerusalèn che l’autore volle chiamar tragedia, ad onta delle buffonerie che quì ho tralasciate, dell’irregolarità e delle avventure comiche notturne; conchiudendo, che quì termina la tragedia, restando adempiuto l’influsso. Ed in ciò ancora è da riprendersi il poeta; perchè in vece di prefiggersi l’insegnamento di una verità, cioè che le passioni sfrenate e la pazza gelosia cagionano ruine e miserie, egli si è studiato d’insegnare che esse provengono dall’influsso degli astri. Era questa una bella moralità da insinuarsi dalle scene? Si combattono in tal guisa gli errori volgari? È questa una dottrina concorde colla libertà umana e colla religione? Calderòn incorse nel medesimo difetto nell’altra sua favola reale la Vida es sueño.

Credè il signor Giovanni Andres che il Francese Tristano avesse tolto l’argomento della sua Marianna dal Tetrarca di Gerusalemme. Ma che mai trovò egli di rassomigliante nella condotta della tragedia francese e della favola spagnuola, in cui si vedono le additate tinte comiche miste alle tragiche, tante irregolarità, que’ ritratti adorati dal poco grave Ottaviano, quelle avventure notturne, il passaggio alternato da Gerusalemme a Menfi e da Menfi a Gerusalemme, la cura puerile del poeta di accreditar gli errori volgari dell’influsso? Ben però è certo che Lodovico Dolce precedè di un secolo Calderone e Tristano nel porre sulle scene l’argomento della morte di Marianna e della gelosia di Erode riferita da Giuseppe Ebreo, e ne formò una tragedia regolare recitata con tale applauso in casa di Sebastiano Erizzo che quando volle ripetersi nel ducal palazzo di Ferrara, la calca che vi accorse ne impedì la rappresentanza. E chi non vede quanto più la Marianna di Tristano rassomigli quella del Dolce, il quale, se ne togli qualche languidezza ed espressione troppo famigliare, formò con giudizio di quella storia una vera tragedia regolare ed interessante? Ma siccome non dubitiamo di affermare che il Dolce per invenzione ed arte di tanto precedè il francese e lo spagnuolo, così confessiamo che egli, non osando abbandonar la storia, non migliorò quanto doveva i caratteri di Marianna e di Erode; là dove a mio avviso Calderòn dipinse più vivacemente il geloso furor di Erode, e rendè più interessante il carattere di Marianna amante, offesa, virtuosa, sensibile e grande. Osserviamo ancora che l’Italiano nello scioglimento produsse assai meglio l’effetto tragico di quello che fece lo spagnuolo colla morte di Marianna seguita all’oscuro per un equivoco mal congegnato. Ci sembra però nel tempo stesso che il Dolce avrebbe meglio eccitato il terrore, se non avesse scemata l’odiosità prodotta dall’insana sevizia del tiranno coll’infruttuoso suo pentimento; o se dopo l’eccidio egli avesse con tutta evidenza fatto conoscere al geloso il suo inganno e l’innocenza di Marianna.

La Niña de Gomes Arias contiene la detestabile dipintura di un soldato discolo colpevole di più delitti, e segnatamente di tradire tutte le semplici donzelle che le prestano fede. Dorotea trafugata dalla casa paterna viene da lui, che già n’è sazio, abbandonata in un deserto mentre dorme a piè dell’Alpujarra, ne’ cui monti (presa Granata da Ferdinando ed Isabella) si permise che dimorassero alcuni Mori come tributarii, i quali di tempo in tempo calavano al piano e rendevano schiavi i passeggieri. Allo svegliarsi Dorotea, vedendosi dappresso un Affricano, cerca lo sposo. Questa situazioue esigeva altre espressioni che le seguenti false e inverisimili. Ella domanda al Moro:

Dime que has hecho del dia,
Atezada nube parda?
Sombra que has hecho del sol?
Noche que has hecho del alba?

È presa da’ Mori, ma vien liberata da alcuni soldati cristiani, e condotta in una casa dove dimora l’istesso Gomes suo traditore. Stà egli colà pensando di menar via un’altra donzella di quella casa stessa, e per errore porta seco Dorotea. All’apparir del dì nell’atto III la riconosce, e si trovano nel medesimo luogo dove l’abbandonò la prima volta, cioè a vista di Benamexì città de’ Mori. Dispettoso l’oltraggia, l’ingiuria, vuol di nuovo abbandonarla. Piagne la meschina, domanda la morte; ma l’inumano fa una risoluzione più barbara, e invitando i Mori a calare tratta di venderla. Meritano di notarsi le querele di Dorotea, malgrado de’ freddi concetti che le deturpano. Nedarò una mia traduzione, e ne’ passi dove i tratti patetici vengono traditi dalle false espressioni, non sostituirò ad esse i miei pensieri, ma le trascriverò a piè di pagina. Ecco come a lui parla Dorotea.

Mostro, barbaro, ingrato, ove, trascorria?
Vender mi vuoi tiranno? A un mostro vile
Vendermi! oimè! senza pensar che schiava
Se mi fe un folle amor, libera io nacqui?
Di qual barbaro mai, di qual selvagio
Tanta infamia si udì? Quella che amasti,
Nè vo’ già dir la sposa tua, tu stesso
Meni di un altro in braccio? Il giusto cielo
Mi vendichi di te ; l’aria ti manchi,
Ti nieghi il sol la luce, e del tuo sangue
Ti vegga asperso, e dell’infame busto
Un cernefice vil quell’empio capo
Recida… Ma che dico ? Oimè, ben mio,
Mio sposo, mio signor, tua schiava io sono,
Fa di me quel che vuoi. Ma se ti offesi,
Se nel tuo sdegno incorsi, uccidi, mora
La schiava tua senza cangiar catena.
Splenda a te sempre mai propizio il sole,
Placida l’aura ti vezzeggi, un terso
Specchio l’acqua ti sia, per te la terra
In ridente giardin tutta si cangi.
Il fiero Cagnerì cui tu mi vendi,
Quel dì che in preda mi lasciasti al sonno,
Amante si mostrò, chè il ciel dispone
Ch’io nell’essere amata ed abborrita
Sia del pari infelicea ! Or tu vorrai
Darmi in sua man, nè sentirai quel gelo
Che suol provarsi ancor per chi si abborre?
Se amor non può, ti renda onor geloso.
Io pure udii dal labbro tuo talvolta
Che sposo mio saresti. Ah per sì caro
Nome che meritai qualche momento,
Signor, pietà, mercè,
Deh non lasciarmi, oimè!
Presa in Benamexì
In man del Cagneria
Chè se per non serbar la data fede,
Fuggir mi vuoi, ben ti prometto e giuro
Obbliarla per sempre ed in un chiostro
Girmi a chiuder di quì, dove co’ voti
Dal Ciel t’implorerò giorni felici
Quel tempo che il dolor della tua assenza,
Della perdita tua, mi lasci in vita.
E se Beatrice ingelosir pur temi,
Se mi vedrà tornar teco a Granata,
Io stessa a lei dirò che per errore
Di sua casa salii, che vi ritorno
I suoi dubbii a calmar, che di mio padre
L’ira io fuggia, tu lei salvar credendo
Salvasti me ; ma che non v’è fra noi
Ne mai fu arcano onde si adombri e offenda.
E quando in servitù vuoi pur ch’io viva,
Dia legge a me chi innammorar te seppe ;
Lei servirò ; nè più avvilir si puote
Disingannato amor, femminil fasto.
Ma se il mio pianto a intenerirti è vano
Per quel che sono, a quel che fui deh pensa
Nacqui di nobil padre, il sai, da lui
Amata mi vedesti, e rispettata
Nella patria da nobili e volgari.
Ti ascoltai, ti credei ; patria ed onore
O memoria crudel !) per te perdei.
Pietà, signor, quel miserabil vecchio
Pensa qual resterà, quando l’infausta
Novella a lui del mio destin pervenga.
Vendicarsi vorrà, quando non sia
Altri uccidendo, colla propria morte.
Ma già…. misera me…! mi manca il fiato..
Mi balza il cor… dalla funesta rupe
Già scende il Cagnerìa….
Signor, mio bene,
Pietà di me,
In te stesso per te ; cangi il pentirti
In merito il delitto ; o tu vedrai
Congiurato in tuo danno e cielo e terraa.
Signor, pietà, mercè,
Non mi lasciare, oimè!
Presa in Benamexì
In man del Cagnerì.

Ma l’infelice è dall’inumano Gomes data la potere dell’Affricano. Viene poi liberata dalle armi della regina Isabella, la quale informata delle di lei aventure, ed avuto in suo potere lo spietato Arias, decreta ch’egli risa rcisca l’onore di Dorotea sposandola ed indi perda la testa su di un palco.

Ognuno vede che questo atroce misfatto è lo stesso che commise un mostro Inglese in persona di una Caraiba, la quale oltre all’avergli dato il cuore e il possesso di se stessa, gli avea di più salvata la vita. L’uomo ingrato in ricompensa, giunto con lei a salvamento nella Barbata, vendè la sua benefattrice. Se l’argomento della favola del Calderòn è finto, egli immaginò quel che eseguì il detestabile Inglese. Se egli trasse dal fatto della Caraìba l’argomento del suo dramma, perchè mai trasportò dalla nazione inglese alla propria quell’infamia che eccita il fremito dell’umanità? E se tralle antiche leggende spagnuole si rinviene eziandio questa spietatezza (di che lascio a’ nazionali la cura d’investigarlo) egli è da dire che l’umana malvagità volle copiare se stessa, e far ripetere nel declinar del passato secolo ad un Inglese quel che già avea eseguito uno Spagnuolo.

Ma il merito particolare del Calderòn non si appalesa nelle favole istoriche, ove per lo più volendo esser tragico, grande, sublime, diventa turgido, pedantesco, puerile. Egli trionfa nelle commedie dette di spada e cappa, presentando a’ sagaci osservatori un gran numero di situazioni interessanti, colpi di teatro curiosi disposti acconciamente, regolarità maggiore, stile più proprio del genere, e dialogo quasi sempre naturale. Quindi è avvenuto che mentre le commedie dello stesso Lope e di quasi tutti i suoi coetanei più non compariscono sulle scene di Madrid, vi si sostengono quelle del Calderòn. Noi qui potremmo addurne diverse degne di leggersi; ma ci contenteremo di quelle che più spesso si rappresentano, o che hanno alcun pregio particolare. Ben tessuto è il viluppo delle due commedie Casa con dos puertas mala es de guardar, e Tambien ay duelo en las Damas, le quali si rassomigliano ne’ colpi scenici. Tiene l’uditorio svegliato l’intrigo della commedia los Empeños de un acaso, dove per accidente più che per interesse passano i personaggi d’uno in un altro impegno. Lo stile è proprio del genere eccetto quando gli amanti vogliono parere spiritosi, fioriti, leggiadri, perchè allora diventano enimmatici e pedanteschi. Fu tradotta da’ Francesi col titolo les Engagemens du hazard.

Si rassomigliano in varie cose le commedie Nadie fie su secreto, ed il Secreto à voces; ma sono artificiose e naturali per alcune situazioni comiche. Nella prima un principe ama l’innamorata del suo favorito, e sapendone i secreti toglie agli amanti l’opportunità di parlarsi, di sposarsi, e di fuggirsi via. Nell’altra un servo diventa la spia del proprio padrone, che è il segretario di una principessa da cui è occultamente amato. Egli ama una dama della corte di lei, e la principessa ne sa l’amore, ma non l’amata. Gl’innamorati per comunicarsi anche in pubblico quanto passa, hanno stabilito tra loro una cifra, che rende inutili tutte le diligenze e gli avvisi della spia. Questo intrigo riesce piacevole, e sarebbe a desiderarsi che il poeta avesse renduta più verisimile la pratica della cifra. Senza mettersi per ipotesi che gli amanti sieno un Perfetti e una Corilla, cioè verseggiatori estemporanei, è impossibile persuadere all’uditorio ch’essi s’intendano. Ecco in che consiste la cifra. Colui che comincia a parlare, prende in mano un fazzoletto per avvisare all’altro che stia attento. Indirizza poi a’ circostanti un discorso diverso dal secreto, del qual discorso però ogni prima parola di un verso s’intende diretta all’amante; di modo che raccogliendo in fine tutte le prime voci, ne risulti l’avviso che si vuol dare. Questa cifra è soggetta a due opposizioni. Primieramente la prima voce da prendersi nella favola del Calderòn è sempre il principio di un verso, e non già di un periodo terminato. Di poi la lunghezza del discorso riesce inverisimile all’improvviso nel parlare, dovendosi fare due discorsi seguiti di materie differenti colle medesime parole. E se Calderòn vivesse, confesserebbe che a tavolino distese egli con qualche studio ciò che suppone che i suoi personaggi facessero estemporaneamente. Siane un saggio l’avviso che dà Laura all’amante nella giornata II. Ella vuol dirgli ciò che segue:

Flerida ha sabido ya
que de aqui no te ausentaste,
y que con tu dama hablaste,
de que muy zelosa està.

Ciascuna parola di questi quattro versi dee servire per prima parola di ogni verso del discorso generale indirizzato a tutti gli altri; di maniera che ciascuno di questi versi fornisce le quattro prime parole de’ quattro versi del sentimento che si dirige agli astanti. Eccone la prima strofa:

Flerida, cuya beltad
ha con tu ingenio igualado
sabido es quanto ha mostrado.
ya mi afecto mi humildad.

Da ciò apparisce l’inverisimiglianza della pratica esecuzione di tal cifra parlando. Vi è però la maniera di migliorar tale artificio, per fuggir l’incoveniente che risulta dal far parere che il personaggio sappia esser la commedia scritta in versi.

Contansi tralle migliori commedie del medesimo autore per situazioni interessanti e per caratteri ben distinti: el Medico de su honra, Primero soy yo, Dicha y desdicha del nombre, el Garrote mas bien dado. La commedia No ay burlas con el amor contiene i caratteri di due sorelle che si contrastano; Leonora sensibile, facile e nell’espressioni e nelle maniere naturale: Beatrice schiva, ritrosa, nojosamente stoica, affettata. L’ostentazione dell’erudizione, greca e latina di Beatrice c’induce a sospettare che Moliere ne avesse tolta l’idea del suo componimento le Donne Letterate; ma ciò è incerto, e dall’altra parte è sicuro che il vivacissimo colorito della favola francese ha un impasto originale. La commedia Mejor està que estaba è fondata ( come la maggior parte delle spagnuole ) nel concorso di varii colpi di teatro. Ma ben notabile ( e l’avvertì anche il signor Linguet a ) è la situazione delle prime scene, in cui Carlo si ricovera in casa di Flora per avere ammazzato un uomo, ed è da Flora nascosto. Ella intende poscia che l’ucciso è il di lei cugino, nè perciò lascia di proteggerlò e salvarlo. In questa favola Calderòn non ha evitato il solito difetto di mescolar colle scurrilità le cose sacre. Il buffone stà parlando col Podestà, e gli è detto che si contenga nel dovuto rispetto alla presenza del Podestà. Norabuena, egli risponde,

Diciendo yo la verdad,
ser que importa en conclusion
el Trono, ò Dominacion,
Quanto mas el Potestad.

In tutte le favole Calderoniche non è da cercarsi regolarità ed unità nel tempo, nel luogo, nell’azione e nell’interesse. Ma nella sola favola los Empeños en seis horas si trova di’ proposito racchiusa l’azione quasi nel tempo della rappresentazione. Ben si vede che l’autore volle tesserla con tale angustia, non per osservar le regole che prescrive la verisimiglianza, ma per desiderio di riuscire in una impresa allora forse riputata difficilissima. Di fatti egli si studiò sempre di trovare argomenti artificiosi capaci di recar meraviglia; senza industriarsi di cercarli idonei ad ispirare amore per qualche virtù o a rilevare alcuna massima istruttiva. E che insegna quest’intrigo degl’Impegni in sei ore? Per mezzo di un manto si prende senza verisimiglianza un equivoco, per cui Nisa è creduta Porzia da un personaggio che viene a sposar quest’ultima. E quando l’equivoco si scioglie, che mai vi s’impara? Sarebbe incessantemente da inculcarsi a’ poeti scenici, che il diletto non mai dee andar disgiunto dall’insegnamento. Ma ad onta di tanti difetti di regolarità, di stile ed istruzione, le favole di Pietro Calderòn de la Barca contengono molti pregi, pe’ quali piacquero e piacciono ancora in Ispagna, e trovarono traduttori ed imitatori in Francia prima di Moliere ed in Italia nel passato secolo. Chè se altrettanto non è concesso a tanti e tanti commediografi, bisogna dire che nelle di lui favole si nasconda un perchè, uno spirito attivo vivace incantatore, per cui, secondo Orazio, sogliono i poemi ascoltarsi con diletto quante volte si ripetono. Egli è questo perchè, questo spirito elettrico che sfugge al tatto grossolano di certi freddi censori di Calderòn.

Nel tempo che egli di tanti componimenti arricchiva il teatro castigliano, altri poeti fiorirono ancora, ma principalmente Agostino Moreto ed Antonio Solis, i quali per avventura nulla a lui cedevano per fantasia, e lo superavano per qualche altro pregio.

Moreto giusta il costume del secolo scrisse varie commedie in compagnia di altri poeti, e non poche ne produsse solo raccolte in tre volumi, de’ quali il primo uscì in Madrid l’anno 1654; ma cessò di comporne tosto che fu iniziato negli ordini sacri, ai quali indi ascese. In generale questo scrittore usa della libertà spagnuola meno dal Calderòn, per lo più nelle sue favole distendendosi la durata dell’azione a pochi giorni. Ha parimente più copia di sali e più lepidezza; dipinge i caratteri con maggior vivacità comica; i suoi colpi di teatro hanno più varietà. Se la moda e l’esempio non avesse rapito Moreto, forse in lui sarebbe surto il Moliere delle Spagne. La perizia che possedeva in rilevare il ridicolo di un carattere, comparisce singolarmente nella sua commedia el Marquès del Cigarral. Questo marchese è un ridicoloso vantatore tutto pieno di una sognata nobiltà, di cui pretende tirar l’origine da Noè. Il signor Scarron, la tradusse in Francia intitolandola Don Japhet, ma non contentandosi di ritenerne le grazie, la caricò fuor di proposito. Lo stile di Moreto generalmente è moderato e proprio del genere comico, eccetto quando parla l’innamorato, perchè allora egli si perde nel lirico e nello stravagante al pari degli altri. Le facezie ed i motteggi sono graziosi e frequenti; ma egli segue i compatrioti nell’usanza di scherzare sulle parole sacre. Don Cosmo dice nella giornata I ad Ephesios responsion , nella II giura il personaggio por el santisimo bote de la Magdalena santa , nella III esclama valgame todo el Psalterio . Lo spettatore volgare che altra scuola pubblica non suole avere che il teatro, si conferma con ciò nell’abito di abusare delle sacre espressioni. Moreto non pertanto pieno di buon senso vide molti difetti del teatro spagnuolo, e più di una volta ne rise. In questa favola motteggia sull’uso d’introdurre i servi buffoni, che sono gli arlecchini di quelle scene, ad assistere ai discorsi de’ principi, ed a mettervi il loro sale. Quanto alle unità di tempo e di luogo si vale de’ privilegii nazionali ma con discretezza. L’azione comincia in Ortaz e prosegue e termina in Consuegra, e vi s’impiega almeno lo spazio di dodici giorni; dicendo don Cosmo nella I giornata a Leonora che vada a Consuegra, dove egli si porterà passati dieci giorni e nella prima scena poi della II giornata,

Ayer se cumplio el plazo prometido,
En que ha señalado su venida.

Sono dunque trascorsi undici giorni, e l’azione principale non è pure incominciata,

Ma egli compose la Confusion de un Jardin, in cui seppe tessere un’azione regolare passata in un giardino nel giro di una notte. Anche in essa riprese i compatriotti che appiccavano indivisibilmente agli innamorati i buffoni con manifesto detrimento della verisimiglianza. Egli fa che l’innamorato all’entrar nel giardino dia congedo al suo servo, il quale si lagna di essere il primo servo con cui il padrone non si consigli, e che rimanga escluso da i di lui secreti maneggi. Si vede che Moreto volle comporre una favola dentro le regole senza dipendere dall’uso spagnuolo. Essa è tanto regolare quanto gl’Impegni in sei ore del Calderòn; ma è più semplice, meno caricata di accidenti, e non meno dilettevole. Ma queste commedie che noi con ingenuità mettiamo alla vista, sono state forse additate da’ Nasarri e da’ Lampilli? E lasciando gl’innumerabili insetti del Parnasso spagnuolo che professano di tutto ignorare, il signor Andres le ha mai contate fralle buone della sua nazione, egli che s’immaginò di avere assicurato il suo trionfo colla Celestina alla mano la quale, mel permetta pure, egli mal conobbe? E Garzia de la Huerta, inurbano Gongorista, che solo stava bene in Orano, le ha mai poste in vista? Si confrontino le loro scritture. Anche in questa favola si osservano le solite allusioni buffonesche alle cose sacre; essendo preso un cavaliere nel giardino, la Graciosa dice,

Es noche de Jueves santo,
Que se hace prision en huerto.

Non dee, però dissimularsi che nè gl’Impegni in sei ore, nè la Confusione di un Giardino ho mai veduto rappresentare in Madrid nella mia ben lunga dimora.

El desdèn con el desdèn, altra commedia del Moreto, comparisce sempre con nuovo diletto sulle scene castigliane. Benchè sottoposta ai soliti difetti d’irregolarità, vi si ammirano pennelleggiate con somma maestria le passioni di una dama bizzarra che vuol parere superiore all’amore. Moliere la tradusse intitolandola la Princesse d’Elide; ma questa copia, fatta per altro frettolosamente, sembra assai fredda a fronte dell’originale. Che vivacità in Moreto! Che delicato contrasto di un orgoglio nutrito sin dalla fanciullezza, e di un amor nascente nel cuore di Diana! Che interesse in tutta la favola progressivamente accresciuto a misura che si avanza verso il fine! Tutto questo si desidera nella copia che ne abbozzò Moliere. In prima questo gran comico francese trasportò l’azione fra remotissimi principi Greci d’Elide, d’Itaca, di Pilo e della Messenia; e con ciò alla bella prima ne diminuì l’evidenza e l’interesse, che fuor di dubbio noi prendiamo più facilmente per oggetti che più a noi si avvicinano. Di poi quel Moròn francese comparato col ben grazioso Polilla spagnuolo comparisce un freddo buffone. Appresso l’Eurialo di Moliere, che è il conte di Urgel di Moreto, introduce il suo stratagemma di fingersi nemico d’amore spogliato di circostanze che l’accreditino, ed in un modo languido che annoja coloro che conoscono l’originale spagnuolo. Inoltre l’insipidezza colla quale la principessa d’Elide entra nell’impegno d’innammorare Eurialo, copre di gelo l’invenzione di Moreto. Je vous avove (atto 2 scena 5) que cela m’a donnè de l’émotion, et je souhaiteroisfort de trover les moyens de chàtier cette hauteur. Qual differenza da queste parole a quelle della scena di Diana con Cintia in cui nasce l’impegno di lei! Con quanta energia ella s’irrita alla freddezza di Carlo! Qual pennellata maestrevole in questi due versetti:

Aunque me cueste un cuidado,
He de rendir à este necio,

ne’ quali tutta si manifesta l’anima orgogliosa di Diana, e la facilità ch’ella si lusinga d’incontrare a vincerlo! Giunto io in Madrid la prima volta m’imbattei ad udirli espressi dalla singolare attrice Mariquita Ladvenant con tal sagace misto di certa sicurezza maestosa, di dispetto, e di un riso ironico, che pareva di aver letto nell’anima di Moreto. Nè anche la copia francese rappresenta in menoma parte le vaghe tinte originali di una scena della II giornata, in cui Carlo cade a palesarsi amante, e vien trattato da Diana coll’ultima fierezza e col disdegno più altiero. Per la qual cosa egli scaltramente ripiglia la dissimulazione, ed ella rimane mortificata e sempre più impegnata ad innamorarlo davvero. Invano parimente si cerca nella copia la bellezza della scena della III giornata, in cui Carlo si finge preso di un’ altra e la chiede in isposa, così che la gelosia finisce di trionfare del cuore di Diana. E finalmente la languidezza, con cui la principessa d’Elide vuole esigere da Aglante che la vendichi rifiutando la mano di Eurialo, se si confronti colle infocate espressioni di Diana gelosa, superba e disprezzata, rassomiglia un suoco fiaccamente dipinto alla vista di una fornace ardente.

Anche l’altro valoroso comico francese Regnard rimase al di sotto di Moreto nell’imitare ne’ suoi Menecmi varie scene piacevoli della commedia di Moreto la Occasion hace el ladron. In essa una baligia cambiata ed un nome preso a caso da un cavaliere cui importa di non esser conosciuto, forma un intrigo assai vivace. Vi si veggono con molto artificio condotte le comiche situazioni, e con verità dipinti i caratteri, specialmente quello di don Manuel de Herrera in cui sí ravvisa un natural ritratto dei discendenti de’ nobili, che commettono azioni ingiuste degne d’ogni rimprovero, e pure credonsi onorati, purchè non rubino; quasi che l’infamia dipenda da questo solo genere di delitti. Il sign. Linguet ha renduto a Moreto tutta la giustizia per questa favola preferendola a quella de’ Menecmi di Regnard. Egli l’ha inserita nel suo Teatro Spagnuolo con altre due del medesimo autore, cioè col Parecido en la corte, e con No puede ser guardar la muger. Il Parecido è una commedia di rassomiglianza che ha varie scene piacevoli, e dove il buffone ha una parte competente. L’altra è stata adottata dagl’istrioni dell’Italia e recitata spesso estemporaneamente, ossia a sogetto. Ma in questa si vuole osservare che il poeta per sostenere il sentimento opposto introduce un fratello che non è la persona più scaltra del mondo nè la più atta a vegliare su gli andamenti della sorella; ed oltre a ciò essa è da riporsi tralle favole di cattivo esempio che danno peso appo i volgari alle massime perverse del libertinaggioa.

Termineremo di parlar del Moreto colla commedia intitolata el Valiente Justiciero, nella quale si ritraggono al vivo le tirannie baronali, quando regnava in Ispagna con tutto il vigore il governo feodale. Vi si rappresenta un Rico-Hombre di Castiglia padrone di Alcalà e delle città, castelle e villaggi che le sono intorno, vantandosi egli di passeggiare sempre per le proprie possessioni per dieci miglia di circuito , e queste non ottenute già per mercede da qualche sovrano, ma guadagnate contro i Mori a colpi di lancia. Egli gonfio non meno della ricchezza, che del legnaggio dice,

… que en Castilla
viò Ricos-hombres mi casa
antes que Reyes su silla;

laonde rende a se stesso giustizia in questa guisa,

Pues quien ha de poner ley
en un hombre como yo,
que ya que Rey no naciò,
tampoco es menos que el Rey?

Queste pennellate eccellenti preparano ad intenderne le ingiustizie e le violenze; e vien descritto come ingannatore di nobili donzelle deluse con parola di matrimonio, e poi rifiutate con discortesia e disprezzo, come rapitore di spose illustri, come derisore dell’autorità reale quando si tratta della sua pretesa giurisdizione. È degna di osservarsi l’ultima scena della prima giornata, in cui il rico-hombre chiamato Don Tello riceve nella propria casa il re don Pietro detto il crudele in qualità di un privato cortigiano chiamato Aguilera. Don Tello parla con poco rispetto del re che crede assente, ed il finto Aguilera alzandosi ne lo riprende con bizzarria; ma don Tello quasi sdegnandosi di corrucciarsi con una persona tanto, al suo credere, a lui inferiore per nobiltà e per valore, gli dice con tranquilla superiorità,

Sientese el buen Aguilera.

Questo tratto di alterigia è vendicato nella II giornata. Don Tello è costretto dal re a venire a Madrid. Entra nella reale udienza, ed è obbligato ad aspettar lungo tempo il sovrano, il quale esce al fine ad ascoltarlo, ma mostrando di leggere una lettera, nè badando a don Tello che gli s’inginocchia davanti. Il buffone che al solito assiste a questo incontro, rileva cotal disprezzo, e motteggia sul padrone mortificato col ripetere quel verso

Sientese el buen Aguilera.

Dipoi don Tello pe’ suoi delitti è condannato a morte. Perchè egli più di una volta ha mostrato disprezzo del valor personale del re che si teneva per prode, per ordine secreto del sovrano è condotto fuori della prigione e di Madrid. Il re senza farsi conoscere duella con lui, lo disarma, e si scopre, godendo di avere umiliato e convinto l’orgoglioso vassallo non meno del proprio podere che della gagliardia.

Prima di passare alle commedie di Antonio Solis, quest’ultima favola del Moreto ci torna in mente quante volte i poeti spagnuoli hanno introdotti i sovrani, che deposta la maestà si trattengono in domestici colloquii con contadini senza scoprirsi. Distinguonsi in tal particolare altre due commedie applaudite, e solite anche al presente a rappresentarsi in Madrid, cioè el Montattes Juan Pasqual, ed el Sabio en su retiro. La prima dicesi composta da un Ingenio, e vi è introdotto anche il re Don Pietro il crudele, il quale andando alla caccia obbligato da una improvvisa tempesta si raccoglie in casa del lavrador Juan Pasqual, con cui nel tempo della cena ragiona allegramente, ed intende parlar di se senza le basse lusinghe cortigianesche da un uomo di buon carattere, e fornito di saviezza. L’altra commedia, el Sabio en su retiro, appartiene a Giovanni Matos Fregoso, ed è la migliore delle sue favolea. Notabili sono in essa il carattere del re Alfonso detto il savio, e quello di un uomo di campagna pieno di virtù, e di buon senso naturale. Interessante singolarmente è la scena della loro cena; ed i discorsi del re, e di Juan Pasqual sono ben degni degli elogii de’ giornalisti francesi, e di Linguet. I miei leggitori vedranno forse con piacere tradotto qualche squarcio di questa favola; ed io prescelgo un discorso di Juan Pasqual, col quale s’indirizza all’autore della natura, perchè ne manifesta il carattere.

Arbitro di natura, alto sovrano
Della terra e del ciel, quali non debbo
Grazie alla tua pietà, che di tai doni
Sì mi colmasti, che quanto si scopre
Dalla vicina rupe a quella valle
Che di alte olive sì folta verdeggia,
Tutto a me serve! I copiosi favia
Quanto mele raccolgono, al suol quanti
Gravosi tralci di dolcissime uve
Inchina il ricco peso, quanti monti
Di dorato frumento ingombran l’aje,
Tutto, tua gran mercè, per me si aduna.
Nè la ricchezza è la maggior ventura
Che mi donasti; un placido riposo
Una gioja innocente appien gradito
Rende lo stato mio; che l’uom felice
Tant’è quant’ei si reputa. Lontano
Da cure ambiziose infra i castagni
Infra le quercie, in rustico abituro
Nacqui, e dodici lustri io vissi lieto ;
Nè il re vidi giammai, nè di Siviglia
L’altera corte, e sol due leghe appena
Lunge è da quì; tal mi cagiona orrore
Il doppio mascherato cortigiano !
Meno tranquilli i dì fra miei pastori
Che mi onorano a gara, ed i miei voti
A’ cittadini onori io non sollevo :
Chè gir sì alto è ben somma follia
Per cader poi con più fatal ruina.
Temo l’esempio di robusta quercia
Che de’ venti al soffiar spesso si spezza,
Quando debole canna il lor furore
Stanca cedendo, e col piegarsi vince.

G l’Inglesi hanno un picciolo componimento intitolato il Re ed il Mugnajo di Mansfield, cui l’autore Dodsley dà modestamente il nome di novella drammatica. Vi si vede un re d’Inghilterra che smarrito in una foresta si ricovera solo in casa del mugnajo, dove ascolta i propositi de’ campagnuoli e l’infedeltà usata da un suo cortigiano ad una contadinaa Verisimilmente l’autore ne tolse l’argomento dalle favole del Moreto e dell’anonimo o di Matos. Non per tanto m. Sedaine, che ha scritto in Francia le Roi et le Fermier, e m. Collet autore della Partie de chasse de Henri IV, confessarono di aver seguita la favoletta inglese, ignorando che questa era una debole copia delle mentovate commedie spagnuole.

L’altro degno contemporaneo del Calderòn e del Moreto è il celebre autore della storia della Conquista del Messico Antonio Solis. Senza eccettuarne l’istesso Moreto, egli ha rispettate più di ogni spagnuolo le regole del verisimile. Circa l’unità di tempo quasi mai non si valse della libertà nazionale nelle favole di spada e cappa, e si limitò a un giorno di ventiquatr’ore, e talora di poco eccede i due. Non manca di colpi di teatro e di comiche situazioni, e supera l’istesso Calderòn se non nell’eleganza nella proprietà della comica locuzione, non vedendosi nelle di lui favole que’ groppi di stravaganze ne’ quali cade Calderòn. Solis fa parlare i personaggi con naturalezza, giusta il carattere e la passione, e se alcuna volta sottilizza rapito dal turbine che tutti gli altri aggirava, non mai incorre in metafore stranissime, o nella mostruosa mescolanza del tragico col comico. M. Linguet hadel Solis tradotto soltanto Un bovo hace ciento, commedia avviluppata che si continua a rappresentare; ma forse poteva fare scelta migliore fralle seguenti: Amparar al enemigo, che dal Celano in Napoli si tradusse in prosa intitolandola Proteggere l’inimico che ha più di una situazione interessante, locuzione propria, nè l’azione dura più di due notti e tre giorni. La Xitanilla de Madrid si tradusse dal medesimo Celano col titolo la Zingaretta di Madrid. Una novella di Cervantes diede l’argomento a questa favola, che ha somma grazia in castigliano, e perde assai di naturalezza nelle traduzioni. Le communi passioni, le gelosie, gli amori, gli sdegni, le riconciliazioni, hanno in essa un grazioso e nuovo colorito. La durata dell’azione passa di poche ore le ventiquattro. Sebbene per le passioni generali e per l’intreccio si è veduto con piacere anche ne’ teatri italiani, tutta volta fuori delle Spagne è impossibile ritenere i tratti originali della dipintura degli zingani Andaluzzi che acquistano ancor grazia maggiore nella rappresentazione che ne fanno i nazionali. Più di una fiata ho veduta rappresentare questa commedia (perchè quasi ogni anno si ripete) or dall’eccellente attrice Pepita Huerta, morta da molti anni, or dalla Carreras che già si era ritirata dal teatro quando io nella fine del 1783 lasciai le Spagne. L’una e l’altra con pari applauso, benchè per differenti pregi, si segnalarono nel carattere di Preziosa. Rendevasi accetta la prima per certa grazia naturale tutta nobile che faceva trasparire in mezzo ai modi ed ai gerghi zingareschi. Questo bel misto di grazia, di spirito e di nobiltà mirabilmente conviene ad una giovinetta di sommo talento e vivacità ma disdegnosa e bizzarra ancor nell’amore, la quale in fine si scopre di esser nata di famiglia distinta. Si fece ammirare in seguito la Carreras nella rappresentazione fattasene nel 1781 per la viva imitazione delle maniere di quel ceto da non potersi migliorare. Stando poi nella convalescenza di una grave infermità si destinò l’anno 1782 a rappresentarla nel passar che fece il Conte d’Artois per Madrid andando al campo di San Roque; ma dopo la prima scena ella cadde in un profondo deliquio e convenne che la Graziosa per nome Apollonia supplisse sul fatto la parte di Preziosa; nè poichè si riebbe dalla nuova infermità volle la Carreras, benchè giovane, tornar più sulle scene. Altra commedia del Solis è il Doctor Carlino, la quale anche si contiene nel termine di poco più di un giorno. Il personaggio che dà il titolo alla favola è tratto della commedia imperfetta del Gongora, ed è felicemente dipinto; ma questa commedia non è rimasta al teatro. Nella commedia el Amor al uso (che Tommaso Corneille tradusse ed intitolò l’Amour à la mode) Solis ha pure rappresentata un’ azione che si compie in ventiquattro ore. Vi si dipingono vivacemente in istil faceto e naturale i costumi e le leggerezze giovanili. È posta in vista la galanteria di una dama ed un cavaliere che mostrano di amarsi, avendo però ciascuno più d’un intrigo amoroso per le mani. Solis sopravvisse a Calderòn, il quale morì assai vecchio nel 1681, e tutti si rivolsero a Solis, perchè succedesse all’estinto commediografo nel comporre gli autos sacramentales; ma egli risolutamente ricusò di porvi la mano, confessandosi insufficiente di seguirlo in tal carriera. Verisimilmente questo valoroso scrittore che non calcò le vestigia nè di Lope nè di Calderòn nè de’ loro seguaci, nell’irregolarità delle commedie e nello stile, conobbe ancora gl’incovenienti e le mostruosità annesse a quell’informe specie di dramma.

Si avvicinano a’ soprallodati poeti il messicano Giovanni Ruiz de Alarcòn, Antonio Zamora, Giovanni La Hoz e Francesco Bances de Candamo. Molte commedie essi diedero al teatro spagnuolo, benchè oggi poche se ne rappresentino.

Comparisce alcuna volta la commedia di Alarcòn intitolata No ay mal que por bien no venga, Don Domingo de Don Blas. Scorgesi in essa veramente la solita viziosa mescolanza di grandi interessi reali con avventure mediocri e di persone tragiche con caratteri comici senza rispettarvisi le unità. Notabile nonpertanto per le stravaganze è il carattere originale di Don Domingo, cavaliere onorato e valoroso, ma talmente innamorato del proprio comodo e così avverso a quanto possa torgli il menomo uso della propria libertà, che giugne all’eccesso e ne diviene ridicolo. Il re di Leone passa per Zamora? Don Domingo non si cura di andar con gli altri nobili a corteggiarlo. Il re manda a chiamarlo? Egli si affretta ad obedire sol per liberarsi presto da quella noja. Il re vuol fargli qualche grazia, e lo sprona a domandarne alcuna? Egli lo prega che se continua a dimorare in Zamora gli risparmii l’onore di più chiamarlo. Ode che in una casa si stà cantando? Per goder da vicino di quella musica, senza invito monta su e si pone a sedere. Giugne chi se ne ingelosisce e lo disfida; egli accetta, ma vuol battersi senza levarsi da sedere. Andando per la città mena seco un servo che oltre ad un parasole porta sotto il braccio uno scabello, di cui Don Domingo si serve in istrada quando vuol riposarsi. Questo personaggio capriccioso che tal volta eccede e si rende inverisimile e tocca il buffonesco della farsa, è non per tanto interessante pel valore di cui è dotato, e per la fedeltà che in ogni incontro mostra verso il sovrano.

Tralle commedie di Antonio Zamora che raccolte in due tomi si sono impresse ne’ principii del secolo XVIII, havvene due che oggi si rappresentano. La prima s’intitola No ay plazo que no se compla, ni deuda que no se pague, cioè non vi è tempo prefisso che non arrivi, nè debito che non si paghi; ed è il Convitato di pietra in parte rettificato. Zamora spogliò la mostruosa favola del frate di molte inverisimiglianze; colorì assai meglio il carattere del libertino; circoscrisse l’azione all’ammazzamento del comendatore, rammentando per racconto i trascorsi del Tenorio in Napoli, e ritenne solo il prodigio della statua convitata che parla e camina e convita ed uccide Don Giovanni. Quanto al tempo egli si permise la licenza di tre mesi d’intervallo dal I al II atto, nel qual tempo si scolpisce il magnifico sepolcro dell’Ulloa. Anche lo stile è più sobrio e lontano da molte stranezze nazionali di que’ tempi. L’altra commedia del Zamora solita a rappresentarsi è l’Hechizado por fuerza, l’ammaliato a forza, di cui lo stile, l’azione, i caratteri si contengono ne’ limiti di quel genere comico che si appressa alla farsa. Pecca ancora nell’unità del tempo, durando l’azione intorno ad un mese; come altresi in quella del luogo, benchè non esca da’ contorni di Madrid; ma l’uno e l’altro difetto rimarrebbe dissimulato sopprimendosene alcuni versi. Poche commedie spagnuole hanno la piacevolezza di questa ridicola favola.

El Castigo de la miseria, il castigo dell’avarizia di Giovanni La-Hoz lascia alla critica poche cose da censurare, e non poche da lodare. La sudicia avarizia di Don Marcos Gil, che oltrapassa gli Euclioni e gli Arpagoni, è colorita con tratti vigorosi e ben punita con un matrimonio di una finta ricchezza di una vedova indiana che in effetto è una povera donna di Salamanca. Anche questa favola partecipa assai della farsa; ma i caratteri sono felicemente dipinti, e lo stile è buono, comico, grazioso.

Francesco Bances de Candamo compose più commedie, delle quali tre sole si riveggono alcuna volta sulle scene, lo Schiavo in catene d’oro, il Sarto del Campiglio, il Duello contra l’Innamorata. Non v’ha regola di verisimile che in esse non si trasgredisca, nè stranezza di stile che non possa notarvisi; e pur vi si scorge un artificio che ne rende gli argomenti interessanti. Imprese Candamo a dar nella prima favola una lezione scenica a’ principi col medesimo intento che ebbe il signor di Marmontel ne’ discorsi di Giustiniano e Belisario. E siccome nel libro di tal Francese la morale e la politica che vi si spargono, vengono avvelenate da una perpetua languidezza, dall’inverisimiglianza, e da più errori di calcolo politico e morale, oltre a quelli di religione; così nel dramma spagnuolo la lezione che si pretende dare a’ sovrani tende a distruggere un principio erroneo ed a stabilire una falsità opposta. Un vassallo ardito che crede avere studiato, censura il governo di Trajano, e si ribella. L’imperadore benigno per castigarlo se l’associa al trono. Il suo disegno e di mostrare che non vale lo studio scompagnato dall’esperienza; ma viene a fondare questa massima: que no es ciencia que se studia la del reinar , cioè che l’arte di regnare non si studia, la quale è manifestamente falsa. Studio richiede il regno; ma studio saldo, profondo; studio di cognizioni immediatamente necessarie a’ diversi rami della politica, della pubblica economia e della legislazione; studio non iscompagnato dall’intelligenza degli affari. Il Camillo di Candamo avea studiato male; si doveva dunque insegnare che al principe conviene studiar bene. In fatti egli vien dipinto ignorante non solo ne’ principii politici che mettono capo nella ragion naturale e delle genti, ma ancor nella geografia e nella storia. Or che avea egli studiato? delle ciance pedantesche? Candamo dunque dovea insegnare, non a disprezzare i libri, ma bensì a saperli scegliere per l’oggetto di studiar l’arte di regnare, e che questa si apprende non meno ne’ buoni libri che nel maneggio degli affari; altrimenti il popolo nella scuola pubblica del teatro porterà a casa un grossolano pregiudizio contro il sapere. Se i principi studieranno l’arte di cantare, danzare e verseggiare come Nerone, in vece di quella di regnare, diventeranno musici, ballerini e rimatori, e non già principi illuminati dalla sapienza. Se come Alfonso che fu detto il Savio, studieranno l’astronomia a segno di credersi abili a dar consigli all’Autor delle cose per migliorare il sistema celeste, essi diventeranno astronomi temerarii e principi inetti. Ma se impareranno l’arte di ben conoscere i proprii popoli, di pesarne l’energia, di dirigerla a vantaggio dello stato, di calcolarne la forza e la debolezza, di moderarne gli eccessi e di correggerne i difetti, di animarne la virtù co’ premii in vece di scoraggiarla col disprezzo, di emendarne gli errori da padre e non da despoto; i principi che si dedicheranno a questo studio, calcheranno le orme de’ Titi e degli Antonini, i quali furono dotti non meno che grandi e degni principi. Se apprenderanno a ben ragionare, a sapere i doveri di ogni classe di uomini, a scemare i loro bisogni e per conseguenza i loro delitti, in vece di aumentarli, e si faranno istruire da’ veri filosofi, da’ Leibnitz, da’ Volfii, da’ Locki, da’ Montesquieu, da’ Genovesi, applicandone le dottrine al maneggio degli affari, ed imitando i regnanti benefici e scienziati, essi riscuoteranno gli applausi universali e l’approvazione di se stessi. Se s’illumineranno co’ viaggi, co’ libri savii e colla conversazione de’ sapienti e de’ buoni, come fece Pietro il grande di Russia, e come hanno fatto a’ nostri giorni diversi altri principi, essi sapranno in pochi anni, rifondere e rigenerare le nazioni, e divenirne i creatori. Se volgeranno le cure ad allegerire il popolo dal pesante fardello delle leggi senza numero fra se talora discordi e talora avverse all’umanità, e quasi sempre bisognose di una legione di comentatori, come pensò in Napoli Carlo III Borbone, e come eseguì in Pietroburgo Caterina II col codice Russiano, se veglieranno poi all’esecuzione della nuova legislazione; essi renderanno i soggetti e se stessi felici e gloriosi. Adunque dalla favola di Candamo risulta uno sciocco insegnamento, cioè che l’arte del regnare non s’impara se non col solo maneggio degli affari. Se per apprendere ogni arte si richiede disposizione naturale, studio ostinato e pratica ragionata, di grazia l’arte di regnare ch’è l’ultimo sforzo dell’umana ragione, si dovrà attendere dalla sola presenza de’ casi, i quali sempre sono infinitamente scarsi e fra se diversi, e quindi insufficienti a darne principii applicabili ad ogni evento? E come maneggiarsi bene senza una norma, senza bussola, senza aver coltivata la ragione? ogni arte che si acquista a forza di pratica materiale, s’impara errando, e gli errori de’ principi sono sempre fatali. Questo soltanto che nella favola di Candamo merita lode, è che vi si mostra coll’esempio di Camillo questa verità morale, cioè che un principe buono, che voglia bene adempiere il proprio dovere, è un vero schiavo, che col manto reale ricopre le proprie dorate catene, dovendo per bene de’ popoli rinunziare a non poche delizie concesse a’ privati. E questa verità imparata colla pratica di un lungo regno ha prodotto di tempo in tempo le abdicazioni di Silla, di Diocleziano, di Amorat, di Carlo V, di Cristina di Svezia ecc.

L’altra commedia di Candamo il Sarto del Campiglio è una mescolanza di affari pubblici di affetti privati, e di accidenti mal disposti con qualche situazione interessante. Io l’ho veduta tradotta in prosa italiana poco felice, ma spogliata in gran parte delle arditezze dello stile e delle solite irregolarità.

Il Duello contro l’innamorata chiama il concorso coll’azione principale, benchè si aggirì per vie tortuose. Una dama bizzarra esige dall’amante infedele un giuramento di non palesarla, e prende l’apparenza di un principe nella corte della sua rivale. Col nome finto, altro non potendo, sfida l’amante. Egli trovasi nell’angustia o di combattere contro una donna amata nella pubblica piazza, o di rimaner disonorato, o di mancare al giuramento fatto di non iscoprirla. Ma toccando a lui l’elezione dell’armi, esce dall’impegno scegliendo di combattere colla sola spada e col petto nudo non solo di armi ma di vesti. La donna altera vinta da questo artificio è costretta a palesarsi col pianto. Nel tempo stesso l’innamorato, il quale si era raffreddato nel di lei amore per un sospetto ingiusto, si trova disingannato per altri accidenti, e le dà la mano di sposo, Questo scioglimento curioso ha renduto noto questo dramma, ed il signor Linguet l’ha inserito nel suo Teatro Spagnuolo, intitolandolo poco felicemente la Fidelitè difficile.

Incredibile è il numero de’ contemporanei e successori del Calderòn, i quali con minor vena, fuoco e felicità hanno seguito il di lui metodo. Io potrei impinguare questa parte del mio libro con più migliaja di commedie e de’ già nominati scrittori e di molti altri, come Godinez, Bocangel, Cuellar, Paz, Huerta, Zarate, Monroy, Anna di Caro ecc. Ma qual vantaggio o diletto apporterebbe un catalogo di favole per lo più mancanti d’arte, di gusto e di giudizio? Qual gloria alla nazione numero sì grande di talenti abbandonati al trasporto di una immaginazione calda e disordinata, ed innamorati di un parlar gergone metaforico enimmatico gigantesco? Essi tutto posero lo studio a riempiere le sregolate loro favole di ripetute impertinenti descrizioni e pitture di cavalli, tori, armature, navi, giardini, palagi, duelli, battaglie navali e terrestri, naufragii, di avventure romanzesche di ogni maniera. Questi ornamenti ridondanti strani capricci osi contrarii al genere rappresentativo, formavano allora il sublime delle favole spagnuole e niuno de’ loro autori ne andò libero. Per la qual cosa tanti giudiziosi critici nazionali strepitarono negli ultimi tre secoli contro le follie teatrali, lusingandosi di arrestare l’inondazione fangosa colle loro letterarie querelea. Più grave ancora è l’accusa fatta a’ loro compatriotti per l’oscenità de’ loro drammi negata invano col solito capriccio dal nominato apologista Catalano, e ripresa con forti espressioni dal Canariese Giovanni Ceverio de Vera, morto in concetto di santità nel 1600, con un dialogo contro le commedie spagnuole; indi dal p. f. Giovanni della Concezione, dal lodato Nasarro, e dall’amico Nicolàs Fernandez de Moratin. Laonde confessando l’immensa fecondità degl’ingegni spagnuoli, ed il loro sale comico non bene avvertito da Saverio Bettinelli, che volle scherzare con una asserzione non vera, cioè che essi nè anche sapevano ridere senza gravità ; per servire alle leggi della storia che sol del vero si alimenta e si pregia, osserviamo che rarissime sono le commedie che da tali rimproveri si esimono. Ma non lasciamo di dire che se essi al loro sale nativo, alla vivacità e fecondità dell’immaginazione, alla predilezione che hanno pel teatro, accoppiato avessero un prudente timore di offendere la verisimiglianza, e si fossero appigliati ad uno stile più conveniente al genere, superati forse avrebbero in tal carriera i loro vicini e i lontani.

Da quanto abbiamo ora quì appena accennato, ben si rileva perchè nel XVII ancor meno che nel precedente secolo si rinvengano vere tragedie. Montiano che ne fu il più diligente investigatore, appena giunse a contarne sette o otto e pure sregolate. Perciò (dirò sempre) voglionsi compatire alcuni forestieri, e fra questi il signor Linguet (cui non ha punto liberato dalle insolenze ingiuste per lo più del fu Vicente Garcia de la Huerta l’essere stato tanto benemerito del teatro spagnuolo) se avanzano che la vera tragedia o non si è coltivata o non si è conosciuta dalla maggior parte della nazione.

Quasi tutte le tragedie del secolo XVII appartengono a Cristofaro Virues, avendone egli solo prodotto cinque nel 1609. S’intitolano la Gran Semiramis, la Cruel Cassandra, Atila furioso, la Infelix Marcella, l’Elisa Dido. La prima sulla regina Semiramide non può a buona ragione reputarsi una tragedia divisa in tre giornate, o dicansi atti, ma sì bene una rappresentazione de’ fatti di essa in tre favole separate. Trattasi nell’atto primo dell’incontro di Nino con Semiramide moglie di Mennone, cui il re propone di cedergliela; e ricusando egli, il regliela toglie per forza, e Mennone s’impicca. Dal primo atto al secondo passano sedici anni, e l’azione consiste nell’esser Nino avvelenato, nel chiudersi tralle Vestali d’ordine della regina il proprio figliuolo Ninia avuto da Nino, e nel farsi ella stessa coronar re, essendo per la somiglianza creduta Ninia suo figliuolo. Corrono altri sei anni dal secondo al terzo atto, in cui si tratta della dichiarazione che fa Semiramide di esser donna, della cessione dello scettro a Ninia palesandosene innamorata, e della morte che ne riceve. La Cruel Cassandra contiene molti fatti e molte uccisioni, ed è la più spropositata delle favole del Virues. Ad eccezione di uno o di due personaggi che poco figurano nella multiplicità delle azioni contenute in tal componimento, tutti gli altri sono scelerati. Muojonvi otto personaggi, e nello scioglimento veggonsi sulla scena cinque cadaveri in una volta; talche soleva dire un erudito spagnuolo, che in vece di una tragica azione gli sembrava una rappresentazione di una peste. Tutto in essa è sconcerto, stranezza, puerilità; nè lo stile e la versificazione rendono tanti spropositi meno nojosi ed in certo modo tollerabili. Atila Furioso, non cede alle altre nelle scempiagini, e tutte le vince in atrocità. Muojono in essa intorno a cinquantasei persone, oltre di una galera bruciata con tutto l’equipaggio e i passeggieri. La furia di Atila non disapprovata dal signor Montiano, mi sembra poi la cosa più sciocca e ridicola del dramma. Atila dovrebbe dipingersi furioso, se non come Oreste pieno di rimorsi, almeno come dominato dall’ira in estremo grado, ma non già ridicolo e impetuoso come un pazzo. La terza tragedia la Infeliz Marcela non è solo una specie di novella, come diceva il medesimo Montiano, ma un tessuto di scene sconnesse, improprie, talvolta buffonesche, talvolta atroci. I personaggi per lo più sono inutili ed episodici, le inconseguenze continue, lo stile ineguale, ora plebeo della feccia del volgo, ora fuor di proposito elevato, sempre sconvenevole e lontano dalla tragica gravità, la versificazione in un luogo pomposa in un altro triviale. L’autore volle in Marcella rappresentare le sventure d’Isabella amata da Zerbino dipinte dall’Ariosto. Ed appunto nella prima parte Virues mostra il caso d’Isabella condotta da tre seguaci del suo amante e restata in potere di uno di essi preso per lei d’amore, il quale allontanato con un pretesto il più forte de i due, ferisce l’altro. Alarico nel componimento del Virues mentre Marcella dorme, invia Ismenio a procurare un cocchio, e ferisce Tersillo che ricusa di secondarlo. Marcella tenta di fuggire; Alarico la trattiene; accorrono alle grida di lei alcuni banditi, ed Alarico fugge. Formio capo della masnada consegna Marcella a Felina, come Isabella è data in custodia nell’Ariosto alla vecchia Gabrina. Manca poi al Virues la guida del Ferrarese, e si avvolge nel resto in avventure mal accozzate, in bassezze e indecenze. La favola di Elisa Dido non rappresenta questa regina di Cartagine amante di Enea come immaginò Virgilio. La favola spagnuola si aggira sul matrimonio che Jarba vuol contrarre con Didone. Ella tuttochè piena della memoria di Sicheo, promette nella prima scena di unirsi all’Affricano. Alcuni capitani suoi vassalli che aspirano alle sue nozze, per turbare il trattato, assaltano il campo de’ Mori, e rimangono uccisi. L’ambasciadore moro torna a Didone, ed a nome di Jarba le presenta una spada, una corona ed un anello. Didone presso a conchiudere le nozze con Jarba torna col pensiero a Sicheo; ma pur comanda che Jarba sia introdotto nella città. Questo re che non si è veduto ne’ primi quattro atti, comparisce nel quinto, ed il Coro apre le stanze ove dimorava Didone, e si vede questa regina trafitta dalla spada di Jarba ed ha la corona a’ piedi ed una lettera in mano. Jarba (che sembra venuto in iscena unicamente a leggere quel foglio e a disporre l’esequie di Didone) comprende dalla lettera che la regina per mantenere eterna fede a Sicheo ha scelta la morte. Impone dunque, altro non potendo, a’ Cartaginesi di adorarla come una divinità, e finisce la tragedia. Tutti i cinque atti sono ripieni d’inutili inverisimili e freddi amori de’ capitani di Dido e di un racconto de’ suoi andati casi impertinentemente cominciato nell’atto I, narrato a spezzoni ne’ seguenti, interrotto quattro volte, e terminato nel quinto. Il signor Montiano affermava che in questa favola si rispettano le regole; ma per regole egli intende soltanto le unità di tempo o di luogo. Il signor Lampillas poco intelligente di poesia che volle parlar di drammatica, stimò questa Dido una tragedia perfetta. Compete questo suo decreto ad una favola di cui tre atti almeno sono inutili, e nella quale Didone senza apparire la necessità che l’astringe a promettersi a Jarba, è posta nel caso di darsi la morte per non isposarlo? Ciò è tanto più sconvenevole, quanto più Jarba che viene in iscena sì tardi, si dimostra ben lontano da ogni fierezza, dotato di un cuor compassionevole e religioso. Si dirà perfetta una tragedia, in cui Seleuco, Carchedonio, Pirro e Ismenia, personaggi totalmente oziosi, la riempiono sino alla noja di declamazioni e di racconti gratuiti e seccanti ? È argomento di perfezione, che mentre i personaggi subalterni cianciano a buon dato, Elisa figura principale del quadro, in cinque atti appena recita 170 versi e Jarba non meno necessario all’azione è riserbato unicamente a sotterrar Didone? Piano così assurdo verseggiato inegualmente in istile lontano dalla gravità e dalla correzione, a chi poteva parer tragedia perfetta se non al signor Lampillas?

Una tragedia intitolata Pompeyo compose Cristofero de Mesa traduttore dell’Iliade di Omero, e dell’Eneide di Virgilio impressa nel 1615, ed anche dell’Ecloghe, e della Georgica pubblicate nel 1618 insieme colle proprie Rime Rime, e colla nominata tragedia. Reca però maraviglia che un ingegno così esercitato, e che oltreacciò pregiavasi di avere per ben cinque anni frequentato, ed ascoltato in Italia Torquato Tasso, avesse scritta una tragedia sì cattiva, seguendo il sistema erroneo de’ compatriotti, anzi che l’esempio degli antichi e di Torquato. Il suo Pompeo comparisce in Lesbo, passa in Farsaglia, s’imbarca, ritorna a Lesbo, e va a morire in Egitto.

Forse dopo l’Elisa Dido del Virues non possiamo contare altre tragedie del XVII secolo, che la traduzione delle Troadi di Seneca fatta da Giuseppe Antonio Gonzalez de Salas che s’impresse nel 1633, ma in essa quasi sempre egli superò l’originale in gonfiezza, come pure l’Hercules Furente y Oeteo di Francesco Lopez de Zarate pubblicata con altre opere nel 1651, nella quale si nota qualche squarcio sublime. Ma nè queste nè quelle del Virues sono mai state rappresentate ne’ teatri di Madrid negli anni che io vi dimorai.

Tale è la storia del Teatro Spagnuolo fino alla fine del passato secolo da me con pazienza e fede compilata senza averne trovato esempioa. Varie cose ne trattarono i lodati Montiano, Luzan, Nasarre, l’Antonio, le cui lodi o invettive non volli adottare senza averle pesate con imparzialità. Sopratutto ho atteso a schivare le loro inutili decisioni generali. E che giovano esse quando non sono verificate su i medesimi drammi? Io ne ho scelti ed esaminati i migliori, ed ho potuto su di essi particolareggiare, ed accennarne con fondamento i difetti assai noti, e le bellezze, delle quali non ancora si erano avvisati i nazionali di far diligente inchiesta. Possa questo mio lavoro inspirar loro il disegno di fare una collezione di favole sceniche spagnuole scelta e ragionata, mille volte promessa, e mai non intrapresa! Possa facilitarne l’esecuzione questa mia storia! Allora gli Spagnuoli che mostrano già molti progressi fatti nelle scienze, e nelle arti, vedranno a tutta luce le loro forze, e le debolezze teatrali, e si volgeranno a calcare miglier sentiero. Allora si avvedranno, che tralle potenti cagioni che vi ostano; son da noverarsi gli scritti de’ Lampillas, dei Garcia de la Huerta, e di altri simili tagliacantoni letterarii, ed infedeli adulatori di se stessi, e de i difetti del teatro nazionale. Allora (o che io m’inganno) da scrittore antispagnuolo qual mi vollero dipingere, sarò tenuto per uno de’ benemeriti di una nazione, di cui non meno nel Discorso sopra le sviste del Lampillas, che nell’Orazione funebre per Carlo III recitata ed impressa nell’aprile del 1789, ed altre volte reimpressa, abbozzai un sincero elogio dettato dalla verità a me sempre cara, e non già dalle sordide speranze, o da bassezze lusinghiere.