CAPO V.
Rappresentazioni chiamate Regie: Attori Accademici: Commedianti pubblici.
Siccome non va nella società esempio più pericoloso per la virtù che il favore dichiarato per un immeritevole: così non v’ ha nelle lettere più dannoso spettacolo che il trionfo della stravaganza. Il mal gusto prosperoso perverte i deboli e gli conquista, mentre il vero buon gusto ramingo va mendicando ricetto fra pochi sconosciuto dalla moltitudine nella stessa guisa che un uomo probo e pieno di non dubbio merito fimane confuso tralla plebe in una società corrotta, dove tutti gli sguardi e gli applausi e le decorazioni e le ricchezze si attira la malvagità ingorda e l’impostura luminosa.
Le stranezze dell’opera in musica accompagnata da tutti gli allettamenti della vista e dell’udito fecero sempre più intorno alla metà del secolo comparire insipide e fredde le rappresentazioni regolari tragiche e comiche e queste si videro in un tempo stesso abbandonate dagli attori accademici e dagl’istrioni e commedianti pubblici. Gli uni e gli altri s’invaghirono della nuova foggia di commedie spagnuole, che gl’Italiani, non osando dar loro il nome di commedie e tragedie, chiamarono opere regie, opere sceniche, azioni regicomiche, nelle quali alternava il buffonesco e l’eroico, le apparenze fantastiche e la storia, e la vita civile cd il miracoloso. Altre favole si formarono ad imitazione di quelle dette di espada y capa ripiene di evenimenti notturni, di ratti, puntigli, duelli, equivoci, raggiri e sorprese al favor de los mantos. Queste novità tirarono per qualche tempo l’attenzione ed allora si tradussero Calderòn, Moreto, Solis, Roxas ecc.
Allora si composero le commedie di Giambatista Pasca napoletano, il Cavalier trascurato, la Taciturnità loquace, il Figlio della battaglia, la Falsa accusa data alla Duchessa di Sassonia, imitazioni libere del teatro spagnuolo pubblicate dal 1652 al 1672. Raffaele Tauro bitontino allora produsse dal 1615 al 1690 le Ingelosite Speranze, la Contessa di Barcellona, il Fingere per vincere, l’Isabella o la Donna più costante, la Falsa Astrologia traduzioni alterate del Calderòn e di altri spagnuoli. Allora il Pisani toscano compose le sue favole sul medesimo gusto. Lionardo de Lionardis nel 1674 pubblicò il Finto Incanto, che è el Encanto sin encauto del medesimo Calderòn. Il canonico Carlo Celano nato in Napoli nel 1617 e morto nel 1693, col nome di Don Ettore Calcolona tradusse con libertà e rettificò varie commedie spagnuole, come può osservarsi nelle sue date alla luce più Volte in Napoli ed in Roma, l’Ardito vergognoso, Chi tutto vuol tutto perde, la Forza del sangue, l’Infanta villana, la Zingaretta di Madrid, Proteggere l’Inimico, il Consigliere del suo male ecc. Ho detto che rettificò (con pace del Lampillas) i difetti principali degli originali, perchè in fatti ne tolse le irregolarità manifeste sebbene non vò lasciar di dire che alle favole che fece sue traducendole liberamente, manchi la grazia e la purezza e l’eleganza della locuzione del Solis e del Calderòn, e l’amabile difficoltà della versificazione armoniosa. Similmente tradussero ed imitarono le commedie spagnuole Ignazio Capaccio napoletano, Pietro Capaccio catanese, Tommaso Sassi amalfitano, Andrea Perrucci traduttore ed imitatore nel 1678 del Convitato di pietra, ed Onofrio di Castro autore della commedia la Necessità aguzza l’ingegno,in cui si vede qualche regolarità unita ad un’ immagine di comico di carattere alla maniera spagnuola, con uno stile che spira tutta l’affettazione di quel tempo di corruttela.
I pubblici commedianti che aveano inventate in quel secolo con lor vantaggio e buon successo nuove maschere per contraffare le ridicolezze delle diverse popolazioni che compongono la Nazione Italiana, recitavano le loro commedie dell’arte tessute solo a soggetto senza dialogo premeditato, come le cinquanta pubblicate nel 1611 dal commediante Flaminio Scala. Ma l’Arlecchino che ogni di ripeteva in mille guise le medesime lepidezze, cominciava ad invecchiare, mentre l’opera in musica stendeva rapidamente i suoi progressi. Laonde alla mancanza del concorso nel loro teatro pensarono i commedianti di riparare colle accennate imitazioni delle commedie spagnuole, e con altre ancora più difettose, come il Conte di Saldagna, Bernardo del Carpio, Pietro Abailardo ecc. E queste sono le commedie spagnuole sfigurate più dagl’istrioni, come accenna Carlo Goldoni, le quali il Lampillas supponeva che fossero le altre soprannomate tradotte da’ letterati e purgate,come dicemmo, da’ difetti principali. E questi sono, e non altri i pasticci drammatici accennati dal Maffei, che il lodato Andres applicava per difetto di perizia nella storia teatrale, a tutto ciò che si compose in quel secolo pel teatro italiano.
Ma queste cose toglievano di giorno in giorno il credito al teatro istrionico, senza impedirne la desolazione. La moltitudine si affollava sempre con maggior diletto ed avidità alla scena musicale piena di magnificenza che allettavano potentemente più di un senso. Opposero allora i commedianti decorazioni a decorazioni e musica a musica, e si sostennero anche un poco con farse magiche ripiene di apparenze, di voli, di trasformazioni, e con intermezzi in musica, passeggieri ripari a’ loro continui bisogni.
Contribuiva parimenti al loro discredito la destrezza degl’Italiani più culti
nell’arte rappresentativa. Gl’Istrioni non furono sempre i migliori attori.
Le Accademie letterarie de’ Rozzi e degli Intronati che tornarono a fiorire
nel XVII secolo, quella brigata di nobili attori che rappresentava in Napoli
le commedie a soggetto del Porta, gli Squinternati di Palermo, di cui parla
il Perrucci ed il Mongitore, i nobili napoletani Muscettola, Dentice,
Mariconda che pure recitarono eccellentemente, facevano cadere in dispregio
la maniera per lo più plebea caricata declamatoria de’ pubblici commedianti,
Il celebre cavalier Bernini nato in Napoli, e che fiorì in Roma dove morì
nel 1680, rappresentava egregiamente diversi comici caratteria Il
famoso
pittore e poeta Satirico napoletano
Salvador Rosa morto in Roma nel 1673 empì quella città non meno che Firenze
di meraviglia per la copiosa eloquenza estemporanea, per la grazia, per la
copia e novità de’ sali, e per la naturalezza onde si fece ammirare nel
carattere di Formica personaggio raggiratore come il Coviello ed il Brighella, ed in quello
di Pascariello, La di lui casa in Firenze divenne un’
accademia letteraria sotto il titolo de’ Pencossi, ove
intervenivano l’insigne Vangelista Torricelli, il celebre Carlo Dati,
l’erudito Giambatista Ricciardi, i dotti Berni e Chimentelli ecc. ed in
essa rappresentavansi in alcuni mesi dell’anno piacevolissime commedie. Le
parti serie sostenevansi da Pietro Sacchetti, Agnelo Popoleschi, Carlo Dati
e dal Ricciardi. Il dottor Viviani fratello del riputato matematico
Vincenzio faceva la parte di Pasquella, Luigi Ridolfi
nella parte contadinesca di Schitirzi da lui inventata fu
decantato come il miracolo delle scene.
Quanto poi al Rosa
(aggiugne il citato Baldinucci che ciò
racconta)
non è chi possa mai dir tanto che basti, dico della
parte ch’ei fece di Pascariello e Francesco Maria
Agli negoziante Bolognese in età di sessanta anni portava a maraviglia
quella del Dottor Graziano, e durò più anni a venire a posta da Bologna
a Firenze lasciando i negozii per tre mesi, solamente per fine di
trovarsi a recitare con Salvadore, e faceva con esso scene tali, che le
rise che alzavansi fra gli ascoltatori senza intermissione o riposo, e
per lungo spazio, imponevano silenzio talora all’uno talora all’altro
ed io che in que’ tempi mi trovai col Rosa, ed ascoltai alcuna di quelle
commedie, sò che verissima cosa fu che non mancò alcuno che per
soverchio di violenza delle medesime risa fu a pericolo di
crepare.
Oltramonti ancora si fecero applaudire nelle parti graziose e piacevoli
Michelangelo Fracanzano figliuolo di
Cesare
celebre e sfortunato pittore napoletano, e Tiberio Fiorillo. Michelangelo
rappresentava estemporaneamente la parte di Pulcinella
avendola studiata sin dalla fanciullezza da Andrea Calcese ammirato in tal
carattere in Napoli ed in Romaa, e da Francesco Baldo, dal quale ricevè anche
in dono la maschera stessa usata dal primo di lui maestro il nominato
Calceseb. Alcuni francesi testimoni oculari degli applausi che
riscuoteva la maniera graziosa ed il motteggiar di Michelangelo in Napoli,
tornando a Parigi ne divolgarono di tal maniera i pregi che egli venne colà
chiamato nella
giovanezza di Luigi XIV. Piacque
il sua giuoco scenico naturale e grazioso ma come poteva dilettar
pienamente in Francia un carattere di cui non aveasi idea veruna, ed un
dialetto sconosciuto come il napoletano? Pur non lasciò di eccitare il riso
e di fare in parte conoscere il proprio valore, e gli fu continuata la
pensione assegnatagli di mille luigi, colla quale soccorse e chiamò presso
di se i suoi genitori, ed in seguito prese moglie e visse con decenza sino
al 1685. Più ammirato fu nella medesima città di Parigi l’altro napoletano
Tiberio Fiorillo conosciuto col nome di Scaramuccia. Egli
seppe meglio mostrare a’ Francesi i suoi talenti facendo valere la somma sua
arte pantomimica di maniera che poco o nulla gli nocque il patrio
linguaggio. È troppo noto che egli come attore soltanto controbilanciava il
gran Moliere che come autore ed attore quivi spiegava
gl’inimitabili suoi talenti. Non è men noto che il Moliere
non isdegnò di
apprendere da Scaramuccia i più
fini misteri dell’arte di rappresentare, assistendo incessantemente ad
ascoltarlo per copiarne l’espressiva grazia e naturalezza. È noto altresì
che lo stesso Moliere non vide mai così pieno il proprio
teatro come ne’ quattro mesi che Scaramuccia abbandonò Parigi l’anno 1662
per venire in Napoli a vedere i suoi parenti e che al di lui ritorno i
Parigini accorsero di bel nuovo alla Commedia Italiana, ed in tutto il mese
di novembre non si curarono de’ capi d’opera che produceva Moliere. Scaramuccia poi rinunziò al teatro e Menagio applicò a
lui quel motto,
homo non periit, sed periit artifex
,
perchè più non vi comparve. «Egli (aggiugnesi nella collezione de’ di lui
motti detta Menagiana) fu il più perfetto pantomimo de
nostri tempi Moliere original francese non perdè mai una
rappresentazione di quest’originale italiano.»
Egli morì vecchio in Parigi
nel 1694, lasciando ad un suo figliuolo
sacerdote
il valsente di centomila scudia.