(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VI « LIBRO VI. Storia drammatica del secolo XVII. — CAPO I. Teatro Tragico Italiano. » pp. 228-273
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VI « LIBRO VI. Storia drammatica del secolo XVII. — CAPO I. Teatro Tragico Italiano. » pp. 228-273

CAPO I.

Teatro Tragico Italiano.

L’Italia che sulle tracce di Alcide cerco sempre l’onore nel superar le difficoltà, poichè ebbe colti. i primi e più sublimi allori nell’erudizione e nell’eloquenza oratoria e poetica e nel formarsi un teatro regolare e ingegnoso, aspirò a più sudata gloria, e contemplando il mirabile edificio della natura volle investigarne il magistero cessando di fantasticare. Essa possedeva Tassi, Ariosti, Trissini, Raffaelli, Buonarroti, Correggi, Tiziani e Palladii: essa volle ancora i suoi novelli Apollonii, Pappi, Taleti, Anassimandri e Democriti, e n’ebbe copiosa splendidissima schiera nel Porta, nel Galilei, nel Fontana, nel Borrelli, nel Cavalieri, nel Torricelli, nel Viviani, nel Cassini, nel Castelli, nel Monforte, e in tanti altri insigni membri delle Accademie de’ Segreti, de’ Lincei, del Cimento, degl’Investiganti, de’ Fisiocritici, degl’Inquieti, della Società scientifica Rossanese. Non dobbiamo dunque meravigliarci che l’Italia tutta intenta a depurar la scienza dal gergo de’ Peripatetici e degli Arabi per mezzo del calcolo, dell’osservazione e dell’esperienza, consacrando il fiore degl’ingegni ai severi studii, prestasse minor numero di buoni coltivatori alle amene lettere ed al teatro.

Tuttavolta troviamo varie tragedie degne di leggersi con utile e diletto, Non era ne’ primi lustri estinto il gusto e lo spirito di verità nell’espressione e di semplicità nella favola acquistato coll’imitazione de’ Greci. Non aveano ancora i Francesi, non che altro, la Sofonisba del Mairet e la Medea del Corneille, quando i nostri produssero più di cinquanta tragedie ricche di molti pregi.

L’Ingegnieri, il Persio, il Dolce, il Morone, il Campeggi, il Porta diedero alla luce ne’ primi anni del secolo dieci buone tragedie se non esimie - Angelo Ingegnieri autore di un Discorso sulla Poesia Rappresentativa pieno di ottimi avvisi, compose verso la fine del XVI la sua Tomiri che s’impresse nel 1607, regolare nella condotta e non ignobile nello stile, sebbene non esente da qualche ornamento troppo lirico. Non seguì la storia, ma verso la fine introdusse un pentimento di Tomiri per ricavarne lo scopo morale che si prefisse. Orazio Persio di Matera compose il Pompeo Magno tragedia lodevole per la scelta dell’argomento, per la regolarità della condotta ed in certo modo per lo stile, la quale s’impresse in Napoli nel 1603. Agostino Dolce fece imprimere nel 1605 la sua Almida da me non veduta. Cataldo Morone da Taranto che poi si disse frate Bonaventura Morone tra’ minori Osservanti Riformati di san Francesco, pubblicò in Bergamo nel 1611 il Mortorio di Cristo con quattro tramezzi, tragedia interessante e regolare che eccita la compassione corrispondente alla grandezza dell’argomento. Gli applausi che ne riscosse, gl’ispirarono il disegno di proseguire nella carriera tragica, e diede alla luce due altre tragedie di cristiano argomento, la Giustina in versi sciolti impressa in Milano nel 1617, e l’Irene in Napoli nel 1618 dedicata alla città di Lecce. Le colmò di lodi il padre Bianchi nell’opera su i Difetti del Teatro contandole tra le più felici tragedie cristiane. Il conte Ridolfo Campeggi pubblicò nel 1614 il Tancredi tragedia applaudita. Il cavaliere Giambatista della Porta diede alla luce il suo Ulisse nel 1614, nella quale dee lodarsi la scelta del protagonista, la naturalezza, la regolarità ed il patetico, sebbene non possa paragonarsi nell’eloquenza dello stile e nell’armonia della versificazione col Torrismondo e colla Semiramide. Il suo Giorgio però s’impresse nel 1611, e l’approvazione si ottenne nel 1610; anzi l’autore nel dedicarla a Ferrante Rovito dice di averla composta alquanti anni addietro . Contiene la miracolosa vittoria riportata da san Giorgio di un mostro che affliggeva la città di Silena. L’autor sagace e pieno della greca lettura vi seppe innestare l’imitazione dell’Ifigenia in Aulide. Nel re Sileno si raffigura Agamennone, Ifigenia in Alcinoe sua figliuola, Clitennestra nella regina Deiopeia, Achille nell’Africano re Mammolino. Il primo incontro della figliuola col re nell’atto Il è quale avviene nella tragedia greca tra Ifigenia ed Agamennone; gli stessi equivoci sentimenti ed il medesimo cordoglio raffrenato all’apparenza in Sileno; le stesse naturali ed innocenti dimande sulle sue nozze in Alcinoe. È tenero nell’atto III l’abboccamento di Sileno colla moglie e colla figliuola che già sanno la loro sventura, e l’autore ha posto in bocca di Alcinoe le parole d’Ifigenia che procura intenerire il padre. Piena di movimento e di patetici colori è la scena di Alcinoe co’ genitori e con Mammolino, quando ella n’è divisa per andare ad essere esposta al mostro.

Ansaldo Ceva genovese scrittore di più opere, e traduttore de’ Caratteri di Teofrasto, morto di anni 58 nel 1623, compose tre tragedie, la Silandra, l’Alcippo, e le Gemelle Capuane. Lo stile è facile, ricco di concetti giusti, puro e lontano dalle arditezze, che nell’avvanzarsi del secolo si posero in moda. La Silandra dedicata a Marco Antonio Doria fu la prima a prodursi, ma non si ammise, come le altre due, nella raccolta del Teatro Italiano. L’Alcippo breve componimento e pregevole per varii passi espressi con nobiltà, meritò di esservi inserito pel carattere del protagonista ottimo per la tragedia, mentre Alcippo illustre e virtuoso spartano accusato d’intelligenza col re de’ Persi da un malvagio che falsifica il di lui carattere, dà motivo a varie situazioni interessanti e patetiche tra lui, e la sua tenera consorte Damocrita, e alle di lui magnanime querele che palesano l’uomo grande, che soffre, e si lagna con moderazione. Forse in tal tragedia non sembrerà abbastanza verisimile, che Gelendro nel giorno stesso che cagiona la ruina della famiglia di Alcippo, Gelendro che nell’insidiare altra volta l’onestà di Damocrita dovè tornare indietro atterrito dalla gagliarda ripulsa che incontrò nel di lei coraggio, sia poi sì credulo, che si saccia adescare dall’inverisimile speranza di esser soddisfatto, e poche ore dopo della condanna di Alcippo vada alla di lui casa, dove rimane da Damocrita avvelenato. Non si vede ne’ componimenti del Ceba il coro fisso alla greca, ma quattro canzonette di trocaici dimetri da cantarsi da un coro per tramezzi degli atti. Or vediamo se l’altra sua tragedia delle Gemelle Capuane meritava di entrare in una scelta di buone tragedie.

Perchè questo componimento ebbe assai felice riuscita sulle scene, e su comendato da varii letterati, e si vide impresso nella, collezione tragica di Scipione Maffei, mi venne amichevolmente rimproverato l’averlo omesso nell’edizione di questa storia in un sol volume. Nel giudizio che ne soggiungo vedrà il pubblico perchè me ne astenni, e deciderà se feci senno. Benchè lo stile non possa dirsi difettoso per arditezze o arguzie, essendo anzi elegante, vivace, naturale; è non pertanto a mio avviso lontano dal carattere tragico, nè credo che il rimanente, cioè azione, caratteri, interessi, alla tragica maestà più si convenga.

Trasilla e Pirindra gemelle Capuane con promessa di matrimonio ingannate da Annibale: Calavio padre, che per ben corteggiare il suo ospite le spinge a trattenerlo con ogni libertà: il generale Cartaginese che le schernisce abusando della loro credulità o facilità; mi sembrano tutti caratteri mediocri, privati, e proprii piuttosto per la scena cotuica. La favela nulla ha di grande che congiunga all’azione i pubblici interessi; nulla che commuova, e metta in contrasto le passioni eroiche, o che inspiri elevatezza di sentimenti; nulla in somma di tragico se non la morte delle gemelle con cui si scioglie.

Nell’atto I Trasilla racconta alla damigella Metrisca i proprii amori con Annibale, di cui credesi sposa. Dice che si è piegata a compiacerlo, è ad ammetterlo furtivamente nella sua stanza per ambizione di vedersi moglie di sì gran guerriere. Dice anche che egli è accinto a partire, ed ella a seguirlo in abito militare. Ecco un intrigo ed una fuga comica.

Nell’atto II Pirindra alla sua volta viene a far sapere al pubblico, parlando a Gelasga altra damigella, la gran voglia che avea di maritarsi. Ella le dice:

Il padre mio ben sai che a maritarmi
Pensa assai poco…
È poichè il padre mio non mi marita,
Maritar me per me mi son disposta.

Gel.

Gran voglia hai di marito, a quel che sento.

Se vuoi pensar, le risponde, ch’io son sul fior degli anni, che vivo fralle delizie e gli agi, fralle vivande e i vini, fralle feste e i balli, fra gli ozii e i suoni,

Tu non ti ammirerai, se maritarmi
Disponga e cerchi ancor con tanta brama.

Ella seguita sempre sul medesimo gusto, e poi narra il concertato con Annibale, la promessa fattale di matrimonio, i loro congressi notturni, e lo stabilimento di partirsi con lui in abito militare. Secondo intrigo e fuga comica.

Nell’atto III Annibale che pur viene fuori col suo confidente, racconta le sue amorose avventure con Trasilla e Pirindra, confessando di amarle ugualmente. Narrata la festa datagli da Trasilla, aggiugne:

Presi baldanza, e la richiesi, e strinsi,
Ella mi udì senza turbarsi in volto,
Ma nulla consenti, perchè di sposo
Disse che avea bisogno, e non di amante.
Io promisi sposarla.

Maar.

h che facesti!

Ann.

E fui con essa e quella notte ed altre.

Narra anche la festa di Pirindra, la sua dichiarazione, le prime ripugnanze e la resa:

Non consentì però di compiacermi,
Se non come consorte e come sposo.

Maar.

E tu le promettesti?

Ann.

Io le promisi.

Maar.

Ma con che mente? oimè!

Ann.

Con quella mente
Che avea promessa all’altra; intender puoi.

In tutto ciò chi non ravvisa il procedere e l’esprimersi di un don Giovanni Tenorio, o di un Uffizialetto a quartiere d’inverno, che passa da questa a quella bellezza, come l’ape va di fiore in fiore? Parla indi Annibale della promessa fatta ad entrambe di condurle seco, aggiungendo:

Ma l’attener sarà che dall’opposta
Parte, per altre scale e per altr’uscio
Io mi condurrò fuor di queste mura.

Se questa chiamata tragedia piacque tanto, come dicesi, in teatro, io credo che lo spettatore avrà più volte riso pel carattere disinvolto di Annibale che ama ed abbandona con pari facilità militare. Non è meno comica la seconda scena del medesimo atto di molte donne Capuane co’ soldati Cartaginesi.

Nell’atto IV le scene e i monologhi di Trafilla e Pirindra sono al solito uniformi. Ma comica soprammodo, è la scena terza, in cui le sorelle cercano scalzarsi a vicenda, gareggiano e si dileggiano, ciascuna stimandosi la prediletta. Vedasene questo squarcio piacevole. Io so (dice Trasilla) di avere in mano il cor di Annibale che tu credi essere ne’ tuoi lacci. Io so più di te, dice l’altra,


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Mentre so ch’Anniballe in me rivolto
Non degna pur di rimirarti in viso.

Tra.

Come non degna? Ei parla meco ognora
E ride e scherza, e non mi guarda in viso?

Pir.

Io so quel che vo’ dir; la cortesia
Lo stringe teco, e meco il lega amore.

Tra.

Oh come sciocca sei, se tu tel credi.

Pir.

Oh come stolta tu, se no ’l comprendi.

Tra.

Le pugna a mano a man, se tu non taci,
Mi serviran per lingua e per favella.

Pir.

E l’unghie, se tu segui a provocarmi,
Ti suppliran per motti e per risposte.

Con queste pugna e queste unghie non si avvilirebbe anche una commedia sino al genere più triviale e prossimo alla farsa? Lo spettatore avrà certamente desiderato in quel punto l’arrivo di Annibale, ed egli in fatti sopravviene, e le donne vogliono che dichiari qual di esse egli ami. Il generale senza scomporsi risponde:

Io rendo ad ambedue l’amor che debbo.
Io pareggiate v’ho con le parole,
E senza alcuno indugio intenderete,
Che vi pareggerò co’ fatti ancora.

Sventuratamente questi quattro atti comici apportano uno scioglimento, se non tragico, funesto. Le gemelle avvedute dell’inganno prendono dalla mano del loro fratello un veleno, e lo tracannano a gara, indi ridottesi alle loro stanze si animano a combattere fra loro per togliersi que’ momenti di vita che loro rimangono. La singolarità de’ cori è anche notabile in questo dramma. Quattro canzonette di metro anacreontico si cantano alternativamente e con nojosa uniformità da due partiti di Capuani, favorevole l’uno a’ Romani, l’altro a’ Cartaginesi. Or le cose qui narrate annunziano un componimento tragico degno di figurare insieme col Torrismondo e colla Semiramide che accompagnano le Gemelle Capuane nel tomo II del Teatro Italiano?

Seguirono alle nominate prime tragedie del secolo quelle del Gambaruti, del Finella, del Pignatelli, del Luzzago, del Bracciolini, del Manzini, del Zoppio, del Chiabrera, del Gherardelli e dello Scamacca. Tiberio Gambaruti d’Alessandria morto nel 1623 pubblicò la Regina Teano. Filippo Finella filosofo napolitano produsse nel 1617 la Cesonia e nel 1627 la Giudea distrutta da Vespasiano e Tito. Ettore Pignatelli cavaliere napolitano compose co’ materiali del greco romanzo di Eliodoro Cariclea e Teagene la sua tragedia la Carichia che uscì alla luce delle stampe in Napoli nel 1627. Noi ne dicemmo alcuna cosa anche nel tomo V delle Vicende della Coltura delle Sicilie. Il pistojese Francesco Bracciolini compose la Pentesilea, l’Evandro, l’Arpalice: il bolognese Batista Manzini diede alla luce la Flerida gelosa mentovata dal Ghilini. Melchiorre Zoppio anche bolognese fondatore dell’Accademia de’ Gelati morto nel 1634, il quale mostrò troppo amore per le arguzie, ne compose cinque, Medea, Admeto, i Perigli della Regina Creusa, il Re Meandro e Giuliano; ma il suo Diogene accusato che il Ghilini credè tragedia, è commedia scritta in versi di cinque, di sette e di nove sillabe, e s’impresse nel 1598. Il Pindaro di Savona Gabriele Chiabrera pubblicò in Genova la sua tragedia l’Erminia nel 1622, nella quale non rimane a veruno de’ precedenti inferiore per regolarità, per economia, per maneggio di affetti, sebbene manifesti di non aver nascendo sortiti talenti per divenire un gran tragico, come nato era per essere un gran poeta lirico. Filippo Gherardelli scrisse una tragedia intitolata Costantino pubblicata in Roma nel 1653. L’autore la difese contro la censura di Agostino Favoriti, ed in tal lavoro contrasse una febbre che gli tolse la vita nell’età di trenta anni. Ortenzio Scamacca fecondo gesuita siciliano dal 1632 al 1651 pubblicò quaranta tragedie sacre, morali ed imitate dalle greche. Esse meritarono lodi dagli eruditi per la regolarità e perchè ben sostengono il decoro tragico, benchè possa notarvisi molta languidezza nell’azione ed il dialogo soverchio prolisso.

Intorno a questo periodo uscirono alla luce delle stampe tre buone tragedie latine del gesuita Bernardino Stefonio, il Crispo, la Flavia, la Santa Sinforosa. Benchè in esse lo stile alcuna volta appalesi troppo studio, pur vi si osservano molti pregi tragici, oltre alla costante regolarità serbata ne’ drammi tutti prodotti dentro il recinto delle Alpi. Santa Sinforosa fu composta prima delle altre, e si rappresentò nel Collegio Romano. Gian Vittorio Rossi conosciuto col nome di Giano Nicio Eritreo, a preghiere dello Stefonio, prese il carico di apprendere in tre di la parte di Sinforosa che conteneva intorno a settecento senarii, e riuscì così bene in rappresentarla, che ne acquistò e conservò per molto tem- il nome di Sinforosa. Le altre due furono nel medesimo Collegio con somma magnificenza e pari applauso rappresentate a. Il Crispo è di tutte la più interessante. Fausta madrigna ed innamorata di Crispo è un ritratto dell’antica Fedra, Crispo dell’Ippolito, e Costantino di Teseo. Soggiacque questa tragedia a varie censure; ma il padre Gallucci ne prese la difesa con certi Discorsi impressi nel 1633 intitolati Rinnovazione dell’antica Tragedia e difesa del Crispo.

Una delle tragedie più interessanti di questo secolo è il Solimano del conte Prospero Bonarelli gentiluomo anconitano, la quale s’impresse nel 1620, e fu dedicata a Cosimo II gran duca di Toscana. Non ha coro di veruna sorte, ed è notabile per certo portamento moderno, per una grandiosità che invita a leggere, e per un lodevole artificio di occultar ogni studio di seguir gli antichi. Lo stile in generale è nobile naturale e vivace, benchè non manchi di varii tratti lirici lontani dal vero e dal naturale sulla morte del valoroso Mustafà condannato da Solimano re de’ Turchi suo padre per gli artificii di Rusteno e della Regina, la quale con tale ammazzamento si lusinga di salvare il proprio figlio Selino e serbarlo alt Impero. Sventuratamente però questo caro suo Selino si nasconde appunto in Mustafà da lei abborrito; per la qual cosa ella disperata si avvelena. I costumi e i raggiri degli ambiziosi cortigiani vi si dipingono egregiamente colla spoglia delle maniere turche che loro presta novità e vivacità. Il carattere magnanimo di Mustafà si rende ammirabile e caro, ed ha tutti i pregi dell’ottimo personaggio tragico. Lo stesso suo amore con Despina contribuisce ad accrescere la compassione della catastrofe a differenza della galanteria che inlanguidisce tante tragedie francesi. Solimano avido di gloria e geloso della propria, autorità e dell’impero, nel cui animo facilmente allignano i sospetti, dipigne al naturale il genio de i despoti Ottomani che non risparmiano il sangue più caro ad ogni minima ombra. Egregiamente la compassione e la perturbazione aumenta verso il fine essendo riconosciuto l’ucciso Mustafà per Selino, specialmente dalla madre la quale ne cagiona la morte per volerlo salvare. Con tutto ciò varii colpi di teatro formano gli episodii di questa favola, che agli amatori delle situazioni appassionate e di una energica semplicità saranno meno accetti. I dialoghi di Alvante e Despina furono disapprovati anche dal conte Pietro da Calepioa. Essi increscono molto più a cagione del luogo in cui si tengono, cioè vicino alla dimora di Solimano, dove essi debbono certamente ascoltare i segreti propositi de’ congiurati colla Regina, la cui partenza attendono per ripigliare il loro ragionamento, quasi che non potessero altrove proseguirlo. Lo scioglimento prodotto dal racconto di due donne del cambio in culla di Selino si bramerebbe condotto con più verisimiglianza. Dovrebbero queste donne introdursi più a proposito, e comparire meno inaspettamente. Ma queste osservazioni non l’escluderanno dal meritato luogo tralle buone tragedie italiane, e dal piacere in teatro e nella lettura anche a’ giorni nostri.

Si trova nell’atto I qualche imitazione di Torquato Tasso. Il vanto che si dà Rusteno, il peggiore tra gli scellerati, e la risposta di Acmat rassomigliano alla contesa di Tisaferne con Adrasto in presenza di Armida. Nell’atto II lo stesso ambizioso Rusteno al vedere, destinato a Mustafà il comando dell’esercito che egli crede solo a se dovuto, prende il linguaggio di Gernando, che aspira a succedere a Dudone e mormora di Rinaldo. Degna di notarsi è la maniera onde i perfidi calunniatori sogliono rendere sospetta fin anche la virtù manifesta non potendo negarla. Ecco l’arte onde la Regina desta le gelosie di Solimano:

Ah Sire, e tu non vedi
Quell’animo sì altero
Di Mustafà? Non scorgi
Quel valor sì sublime,
Quella virtù, siasi poi finta o vera,
Che d’ogni intorno splende?…
Or dimmi non son questi
Chiari segni e ragioni ond’egli creda
Già meritar lo’mpero, e lo procuri?

Solimano per tali insinuazioni, e per una falsa lettera dell’indegno Rusteno, crede traditore il figlio, e a se lo chiama. Il principe vuole ubbidire, e vi si oppongono amorevolmente Ormusse e Adrasto sapendo che in corte si trami la di lui morte. Mustafà sempre grande resiste alle istanze de’ suoi fedeli che l’esortano a schivare le insidie. La sesta scena dell’atto III del loro nobile contrasto è piena di vigore e di moto, mal grado di qualche espressione lirica. Mustafà dice:

Fugga chi ha il cuor nocente, a me conviene
Sostener di fortuna il duro incontro.

Replica Adrastro:

Signor, com’è viltà fuggir la morte,
Quando è d’uopo il morir, così fuggire
Vanamente la vita è fasto ed onta.

Non cede il magnanimo, e que’ fidi piegano le ginocchia a lui davanti perchè non vada dal re; e vogliono salutarlo imperadore; egli si oppone con nobile costanza. La morte poi dell’appassionata Despina, del generoso Mustafà, della disperata Regina, sono rappresentate rappresentate con tutte le circostanze atte a commuovere, e poche volte l’espressione travia e si scosta dalla gravità naturale che si richiede a tal genere di poesia.

Uscì in Padova l’anno 1657 un’altra tragedia interessante, l’Aristodemo del conte Carlo de’ Dottori padovano, che ne ricavò i principali caratteri e il fondamento istorico dall’opera di Pausaniaa. Aristodemo greco di Messenia può dirsi un nuovo Agamennone, e Merope sua figliuola una novella Ifigenia. Non quella di Euripide che da prima teme la morte, e poi l’affronta coraggiosa; ma bensì una Ifigenia sempre grande e costante nell’amore del pubblico bene, che si fa ammirare in tutte le vicende della sua sorte: vanto che sinora si è dato solo al celebre Racine da chi non seppe che l’aveva prima meritato il Dottori. Il carattere di Aristodemo ottimo per conseguire il fine della tragedia esprime un eroe che non lascia di ricordarsi di esser padre, senza aver bisogno come Agamennone di ricorrere all’astuzia della lettera per salvar la figliuola, allorchè si pente di averla tirata al campo colle finte nozze. Policaro, è un nuovo Achille, ma sempre innamorato e non mai ozioso sino alla morte; e quel che più importa, il di lui amore per Merope lungi dall’indebolire l’interesse della favola, accresce la compassione nello scioglimento. L’azione poi sì avvolge con verisimilitudine, e con tragico terrore si disviluppa. Fin anco i cantici del coro che vi si trovano introdotti, leggonsi con diletto. Nello stile cerca l’autore in ogni incontro con troppa superstiziosa cura la grandezza, la nobiltà, l’eleganza, e la ritrova alcune volte, ma cadendo spesso nell’affettazione di Seneca, per volere essere sempre grave sempre ricercato. Le comparazioni sono giuste, ma troppo lunghe, troppo frequenti, troppo circostanziate pel genero drammatico. Anche la spezzatura’ della versificazione se non fosse quasi continua, contribuirebbe molto a variare il numero e l’armonia. Ma vediamo succintamente ciocchè in ogni atto di questa tragedia c’incresca o ci sembri pregevole.

Nell’atto I si racconta che dall’urna in cui si sono posti i nomi di Merope di Aristodemo e di Arena di Licisco, secondo l’oracolo che richiede il sangue di una vergine matura della famiglia degli Epitidi, è uscito quello di Arena che assicura la vita di Merope con indicibile piacere di Amfia sua madre e di Policare suo amante e sposo. Aristodemo ne ode la notizia col contegno di un eroe che sebbene sensibile alla sventura di Arena, ha pure il pubblico bene nel cuore, e mostra che se mancasse Arena (giacchè Licisco protesta non essere del suo sangue) non ricuserebbe di dar per vittima la figlia. Una imitazione delle preghiere dell’Ercole in Eta di Seneca vedesi in quella di Amfia nella seconda scena, Rotin gli astri innocenti , che possono dirsi nobili ed eleganti; ma la gioventù schiverà sempre queste liriche attillature. Nella scena sesta della Nutrice con Merope si svolge il nobile carattere di questa fanciulla non senza vantaggio dell’azione.

Nell’atto II alla notizia che sopravviene della fuga di Arena, Aristodemo si manifesta più grande di Agamennone. Non è egli un Re de’ Re dell’armata Greca che per non perderne il comando condiscende per ambizione al sacrificio della figliuola. Aristodemo è un uomo grande che mal grado di tutto l’affetto paterno consacra la figlia alla salvezza della Messenia. Ecco come in lui l’eroismo trionfa dell’affetto:

Sento rapirmi, e non so dove ; e pure
Pur son rapito! assai maggior dell’uso
L’animo ferve intumidito, e volge
Pensieri eccelsi. Non ardisce ancora
Confessarli a se stesso. Ah non ha vinto
Sparta; espugnar bisogna
Il cor l’Aristodemo.

Una Clitennestra che non si diffonde in una lunga aringa, ma una madre penetrata dall’orribile immagine del sacrifizio della figliuola vedesi in Amfia dopo la risoluzione presa da Aristodemo.

Nell’atto III poichè il re ha volontariamente offerta a’ Messenii la figlia in cambio della fuggitiva Arena, inorridisce Policare che l’ode, freme, si adira, minaccia, vuol morir per lei; ma patetico è il congedo estremo che da lui prende Merope:

Io vado e nulla meco
Porterò di più nobile e più degno
Della mia fe: tu le memorie mie
Pietoso accogli, e vivi.

Desta tutta la compassione così appassionata dipartita, e più commoverebbe senza le studiate antitesi de’ versi seguenti. Policare n’è trafitto come da una spada; protesta con impeto che morirà prima di lei; la consiglia a fuggire, ella rigetta la proposta, e come amante ed eroina cerca frenarne i trasporti. Ella è condotta a morire, e sente, benchè senza bassezza, quel natural movimento che scuote l’uomo all’idea di finire. Forse quì si desidererebbe veder la pugna dell’eroismo e dell’umanità con pennellate più decisive, più tragiche, e spogliate di quell’aria di ragionamento che rende soverchio tranquilla l’azione.

Nell’atto IV tragica è la situazione di Aristodemo che sente dirsi da Policare:

Merope è mia donna già molto e madre
Sarà fra poco.

Il sacrificio non può seguire; tutti sperano in questa pietosa fola, che però produce funestissimi effetti. Punto Aristodemo nella gloria nell’ambizione e nell’onore è agitato da pensieri atroci:

O sventurato Aristodemo! e invano
Generoso alla patria, a te crudele!
Volli perder la figlia,
Ma perderla innocente, e rea l’acquisto…
Per l’attonito sen scorre un tumulto
Non più sentito, ed alle pigre mani
Insegna un non so che di violento.
Sì, lo farò, sia pena, o sia misfatto,
L’approveranno o fuggiran gli Dei,
Che approvino, che fuggano, sia fatto.

Quest’energia questo tragico trasporto tratto destramente dal fondo del cuore umano, desta l’utile terrore della tragedia, e non poteva esser negletto da chi cerca le bellezze tragiche ne’ componimenti de’ trapassati.

Nell’atto V la nutrice racconta a Tirsi l’uccisione di Merope per mano del padre, e così conchiude:

Un certo che sol mormorò fremendo,
E trafisse là vergine innocente,
Che generata avea. L’anima bella
Osservato l’inditto
Silenzio non si dolse;
Con un gemito sol rispose all’empio
Fremer del padre, e i moribondi lumi
In lui rivolti, ed osservato quale
Il sacerdote inaspettato fosse,
Colla tenera man coprissi il volto
Per non vederlo, e giacque.

E quì ci sembra assai lodevole la condotta del poeta. Merope nobile e magnanima che incontrava da prima la morte senza il comune spavento, sarebbe morta ammirata più che compianta; Merope trafitta per mano del padre stesso ingannato, trafitta senza colpa come rea, assapora tutta l’amarezza della non meritata morte, come dinota l’atto di covrirsi il volto per non vedere il suo uccisore mentre spira, e chiama a se l’interesse della favola. Porta poi Aristodemo all’eccesso la vendetta del proprio onore, e sembra più proprio della tragedia greca che della moderna quell’aprire il seno verginale di Merope, onde si fa palese l’innocenza di lei. La morte di Arena che anche si scopre figlia di Aristodemo, riduce all’ultimo punto la disperazione di tal padre che va furioso a trafiggersi dove uccise l’innocente Merope.

L’eruditissimo Apostolo Zeno preferisce lo stile del Solimano a quello dell’Aristodemo, e certo in questo non iscarseggiano le inezie liriche , come le chiamò il conte di Calepio, benchè di molte se ne veggano anche nella tragedia del Bonarelli. Non dee omettersi però, che per l’economia della favola la vittoria par che rimanga al Dottori. Nel Solimano la compassione si sveglia verso il fine, e nell’Aristodemo comincia dal primo atto, e va gradatamente crescendo con episodii opportuni, e degni del coturno. L’interesse nella favola del Bonarelli è principalmente per Mustafà, e non per Solimano; in quella del Dottori, quantunque in parte sia per Merope, in tutto il dramma è sempre per Aristodemo. La riconoscenza nel Solimano avviene per l’arrivo improvviso di Aidina e Alicola indipendentemente da’ primi fatti; là dove nell’Aristodemo la venuta dì Licisco ha tutta la dipendenza dalle cose riferite sin dall’atto primo.

Il cardinale Sforza Pallavicino noto per la Storia del Concilio di Trento, compose essendo ancor gesuita una sacra tragedia della morte del santo re spagnuolo Ermenegildo eseguita per ordine dell’Ariano Leovigildo suo padre. S’impresse la prima volta nel 1644, e poi di nuovo nel 1665 con un discorso in sua difesa, nel quale anno si recitò nel Seminario Romano. Non manca nè di nobiltà, nè di regolarità, nè porta la taccia degli eccessi di stile, ne’ quali trascorse a suo tempo l’amena letteratura; ma col disborso l’autore tentò invano insegnare che nelle tragedie, sul di lui esempio, dovessero usarsi i versi rimati.

Il conte Fulvio Testi, nato in Ferrara l’anno 1593, e trasportato a Modena nel 1598, indi morto nella cittadella di quella città a’ 28 di agosto del 1646, il quale, ad onta del suo stile per lo più manierato, manifestò ingegno grande nelle sue poesie, e specialmente in alcune pregevoli canzoni Oraziane, lasciò anche qualche componimento rappresentativo, cioè l’Isola d’Alcina, e l’Arsinda non terminata. L’Isola d’Alcina composta nel 1626a è da comendarsi per la semplicità dell’azione che va al suo fine senza avvolgimenti; ma lo stile è totalmente lirico, il metro quasi perpetuamente rimato, e le canzonette delle ninfe lontane dalla tragica gravità. Il secolo ammollito e stanco dal piagnere colla severa tragedia giva desiderando i vezzi della musica in ogni spettacolo. Ariosto introdotto a fare il prologo manifesta l’indole di quell’età. Calzi, egli dice, il coturno Atene, e si compiaccia delle cene di Atreo; indi soggiugne:

Ma d’ogni sangue immaculate e pure
Sian l’Italiche scene, e bastin solo
Per destare in altrui pietade e duolo
D’amante cor le non mortal sciagure.

L’industrioso giovine scorgerà in tal componimento di quando in quando qualche passo energico. Tal mi sembra il discorso del finto Atlante nell’atto III, Dunque con forte destra ; tale la confusione di Rugiero In qual antro mi celo ; ma non è tale una specie di molle elegia recitata da Alcina coll’intercalare, Se Rugiero è partito, Alcina è morta a.

Forse dal fine lieto che preparava all’Arsinda e dalla mescolanza de’ personaggi mediocri fra gli eroici, si mosse il Testi a chiamarla dramma tragicomico. In fatti improprii per la tragedia sono i propositi che tengono Eurilla, Silvio e Rosalba; improprio è lo stile lirico in quasi tutto il dramma e singolarmente nelle scene di Ateste ed Arsinda ove il poeta trascorre senza freno alla maniera spagnuola. Ma l’azione si avvolge tragicamente e vi si trova più d’un passo notabile e vigoroso. Grande è Zenobia nella prima scena, nè il carattere è smentito dallo stile. Grande ancora si mostra ne’ suoi lamenti, quando seco stessa trattenendosi si palesa più sensibile alle disgrazie benchè non meno magnanima. Vigoroso e senza lirico belletto è il linguaggio di Arsinda nella seconda scena dell’atto III. Pieno di grandezza nella sesta è il dialogo di Arsinda ed Aureliano. Quindi a ragione disse Pier Jacopo Martelli de i talenti drammatici e dello stile del Testi: Se l’autore avesse ornato un pò meno, e si fosse alquanto astenuto da certe figure solamente a lirico convenienti, avrebbe dato che fare a’ Franzesi; ma usando un libero verso senza rima pensò che languito avria senza frase; per sollevarlo dalla viltà lo sviò dalla naturalezza, e diede in nojosa lunghezza, fiaccando il vigor degli affetti per altro vivissimi.

Si vogliono mentovare le seguenti tragedie tralle regolari di questo secolo, le quali possono apprestare alla scorta gioventù qualche squarcio energico e sublime in mezzo a molte liriche affettazioni. La Florinda di Giambatista Andreini figliuolo della famosa attrice Isabella, del quale favella Pietro Baile, e il di lui Adamo recitato in Milano, onde dicesi di avere il celebre Milton tratta l’idea di comporre il Paradiso perduto: il Radamisto di Antonio Bruno nato in Manduria nel regno di Napoli censore più volte e segretario degli Umoristi di Romaa: Ildegarde di monsignor Niccolò Lepori pubblicata nel XVII secolo e reimpressa nel 1704 in Viterbo: la Belisa tragedia di lieto fine del cavaliere napolitano Antonio Muscettola data alla luce in Genova nel 1664 ed altamente comendata col nome di Oldauro Scioppio da Angelico Aprosio uscita nell’anno stesso in Lovano; e la di lui Rosminda impressa in Napoli nel 1659 ed anche nella parte II delle sue poesie; ed il Radamisto tragedia destinata alla musica impressa nella parte III delle stesse poesie dell’edizione del Raillard del 1691: e finalmente le tragedie di Bartolommeo Tortoletti veronese mentovate dal Maffei e dal Crescimbeni. Noi ci affrettiamo a chiudere la non numerosa schiera de’ tragici del XVII secolo col cardinal Delfino e col barone Caraccio.

Fiorirono entrambi nel colmo della corruttela del gusto, entrambi se ne preservarono intatti, resistendo al vortice che tutti rapiva gl’ingegni, entrambi possono considerarsi come i precursori della buona tragedia riprodotta, che seppero astenersi da lirici ornamenti de’ tragici del secolo XVI e dalle arditezze de’ letterati del XVII. Finì di vivere il cardinale Giovanni Delfino nel 1699, ed il barone di Corano Antonio Caraccio di Nardò nel 1702. Scrisse il primo nella sua gioventù quattro tragedie, la Cleopatra, la Lucrezia, il Medoro, il Creso, che si rappresentarono con generale applauso, e specialmente la prima, e s’impressero in Utrecht nel 1730, ed in Padova nel 1733 più correttamente. Tutti gli eruditi che hanno gusto, tengono per buone le tragedie di questo porporato. Il Gravina le comendò. Il cardinal Delfino (dice il conte Pietro di Calepio con tutta verità) diede principio all’abbandonamento degli scherzi recando alla tragedia della maestà sì con le sentenze che con la maniera di esporle. Osservisi (per dar qualche esempio della maestà e della proprietà dello stile) il magnanimo carattere di Cleopatra. A Dite, ella dice nell’atto III,

Anderò dall’Egitto, e non da Roma.
Nè voglio in vita impallidir per colpa.
Non vedrà alcuno mai
Questo mio capo alle corone avvezzo
Ad inchinarsi ad altri che alla morte.

Nobili sono i suoi sentimenti allorchè determina di morire, supponendo, che Augusto col pretesto di nozze voglia esporla in Roma al rossor del trionfo. Questa tragedia dovrebbe collocarsi tralle più eccellenti italiane e straniere, se all’arte che si osserva nella condotta dell’azione, alla sobria eleganza e aggiustatezza delle sentenze, e alla ben sostenuta grandezza del carattere dell’Egizia Regina, si accoppiasse più energia e calore negli affetti, espressioni meno studiate in certi incontri, e più vivacità nella favola.

Posteriore di alquanti anni alle tragedie del Delfino fu il Corradino del lodato Caraccio, essendosi pubblicato la prima volta in Roma nel 1694, cioè quattro anni dopo che ebbe dato fuori il suo poema l’Impero vendicato che egli credeva men difficile impresa, che il comporre una vera tragediaa. Egli seppe rendere teatrale e interessante la violenta morte su di un palco data al legittimo padrone del reame di Napoli e di Sicilia, con fare, che l’Angioino Carlo I tra Federigo duca di Austria, e Corradino duca di Svevia e re di Napoli suoi prigionieri, ignorasse,

Chi Corradino siasi, e chi il Cugino,

È ben rancida la gara generosa di due amici di morir l’un per l’altro, e il cambiamento del nome per ingannare le ricerche del tiranno. Sofocle introdusse la gara di Crisotemi colla sorella nell’Antigone, Euripide tra Pilade ed Oreste col proposto cambiamento di nomi nell’Ifigenia in Tauride imitata indi dal Rucellai nell’Oreste, nell’Ariosto Rugiero generosamente prende il nome e le armi dell’amico Leone per esporsi al furore di Bradamante, Olinto nella Gerusalemme del gran Torquato vuol comparir colpevole del furto confessato da Sofronia per morire in di lei vece, il Porta nel suo Moro adoperò ingegnosamente l’artifizio, e l’eroismo narrato dall’Ariosto nell’avventura di Rugiero e Leone, nella Filli di Sciro Tirsi e Filli gareggiano come Crisotemi e Antigone per farsi punire, e salvar l’amante. Ma dopo di questi io non conosco se non il Caraccio che abbia saputo co’ vecchi materiali del contrasto, e cambiamento di nomi di due amici inalzare un nuovo elegante edificio. Ma con qual arte? L’accenna egli forse in una mezza scena puerilmente, e senza cavarne frutto per l’azione, come farebbe qualche povero mendicante, che scarabocchia sempre senza dipinger mai? Il Caraccio secondando l’antica idea della bella contesa di Corradino e Federigo fa nascere una serie di colpi di teatro e di situazioni che tirano l’attenzione. Corradino si ritira a scrivere l’ultimo addio alla Madre; Carlo manda a chiamarlo; Federigo crede che debba esser menato a morte, e si fa condurre in di lui vece. Dichiara poi di non esser egli Corradino tosto che intende che il re vuol farlo suo genero. Carlo prende questa varietà come ostinazione del nemico a tenersi occulto, se ne sdegna, lo rimanda alla prigione e ne risolve la morte. Federigo ignora la mutazione del re, e quando Corradino è chiamato dal custode per la funesta esecuzione, lo lascia uscire, credendo che vada a nozze. L’errore di questo tenero amico aumenta il patetico dell’estremo congedo che prende da lui Corradino. In tal guisa lavorano i buoni artefici; essi prendono gli altrui pensieri per sementi e con nuova cura ne fanno germogliare una nuova pianta. In questa guisa fece l’immortale Metastasio quando dietro alle orme singolarmente dell’Ariosto rinnovò tali gare e cangiamenti di nomi nell’Olimpiade e nel Rugiero. Ma sono molti oggi, non dico i Metastasii, ma i Caracci che hanno uguaglianza e bellezza di stile, armonia di versificazione, giudizio e fecondità di fantasia? Singolarmente vuolsi attendere alla sobrietà e gravità dello stile del Caraccio tanto più degno di encomii quanto meno si attenderebbe da uno scrittore del XVII secolo. Egli nell’indicato Impero vendicato poema di 40 canti seppe reggersi sulle ali sulle tracce dello stile dell’Ariosto. Nel Corradino segui quello del Torrismondo di Torquato. Ed in poemi si lunghi non mai traviò. Un saggio se ne veda nella scena quarta dell’atto I, dove l’autore calcando le orme di Alvida rileva i terrori notturni della Regina. Può vedersi ancora la sobrietà e nobiltà dello stile del Caraccio affatto lontano da i difetti del secolo in cui visse, nella scena terza dell’atto III, in cui Corradino saputa la deliberazione di Carlo di farlo morire parla a Federigo. Il leggitore vi noterà il patetico non meno che la purezza e sobrietà dello stile. Mentre dunque gran parte dell’Europa adulterato il gusto teneva dietro alle stranezze di Lope de Vega, e di Giambatista Marini e di Daniele Gasparo di Lohenstein, il Caraccio ed il Delfino con pochi altri scrittori del loro tempo si considerano dal Gravina e dal Crescimbeni e da altri celebri letterati come i primi ristoratori del buongusto in Italia.

Sarebbe non pertanto a desiderare che il Caraccio non avesse deturpato quest’importante argomento con un intrigo immaginario amoroso, che minora l’odiosità per l’Angioino in più di un punto dell’azione. Corradino giovinetto figlio di eroi di re d’imperatori, legittimo signore di Napoli, ucciso su di un palco come un reo volgare per ordine dell’usurpatore del suo regno, è un personaggio tragico che nella storia stessa commuove ed invita a piangere; or che non farebbe in mano di un ottimo tragico? Perdonisi al Caraccio l’averlo involto in un amore intempestivo in tale argomento; perchè in fine egli seppe con arte conservare gran parte del patetico del fatto lagrimevole, ed avea stil puro e nota sublime. Ma non si conceda che a’ pessimi verseggiatori, ad ingegni volgari, a’ nemici delle Muse e delle Grazie l’avvilir con un amor comico il più tragico avvenimento della storia del Regno di Napoli.