CAPO VII.
Pastorali.
Le favole pastorali che dopo il Cefalo del Correggio e l’Orfeo del Poliziano si scrissero nel Cinquecento, non meritavano di esser segno a tante censure pedantesche per l’unica ragione di non trovarsene esempio fra gli antichi. Imitinsi questi venerabili maestri nella grande arte che ebbero di ritrarre quasi sempre al vivo la natura; sieguansi con critica e sagacità ne’ generi da essi maneggiati, ma non si escluda tutto ciò che dopo di essi può l’umano ingegno inventare con la scorta degli eterni principii della poetica ragione superiori sempre alla pedanteria scrupolosa. Aminta e Mirtillo c’interessano e commuovono per quanto comporta la loro condizione; or perchè riprovarli se non rassomigliano ad Edipo e ad Ippolito?
Il nolano Luigi Tansillo celebre poeta fu il primo nel secolo XVI a produrre una specie di pastorale, I Due Pellegrini a, componimento scenico che nella famosa cena data da don Garcia de Toledo a donna Antonia di Cardona in Messina si rappresentò nel 1529 b, fu ben diffinito dall’abate Maurolico quasi pastoralis ecloga, avendo in effetto non poco dell’ecloga, se non che se ne allontana per contenere un’ azione compita che ha un nodo ed uno scioglimento di lieto fine.
Anche la Cecaria e Luminaria di Autonio Epicuro può aversi in conto di una specie di pastorale, benchè di pastori non trattasse, e dall’autore fosse nominata tragicommedia. La Cecaria sarebbe anteriore ai Due Pellegrini del Tansillo, essendosi impressa nel 1526; ma l’azione si scioglie colla Luminaria che n’è una continuazione o seconda parte che unita alla Cecaria s’impresse nel 1535 in Venezia, dove sino al 1594 se ne ripeterono altre quattro edizioni.
La pastorale che in un certo modo si scosta meno dal Ciclope di Euripide, è l’Egle del Giraldi Cintio
che egli intitolò Satira. S’impresse in Ferrara nel 1545,
e si era rappresentata nel medesimo anno la prima volta in casa dell’autore
a’ 24 di febbrajo, e la seconda a’ 4 di marzo alla presenza del
duca Ercole II e del cardinale Ippolito di lui fratello.
La rappresentò
(si dice
nella lettera premessavi)
messer Sebastiano Clarignano da Montefalco. Fece la musica
messer Antonio del Cornetto. Fu l’architetto e il pittore della
scena messer Girolamo Carpi da Ferrara. Fece la spesa l’Università
degli scolari di legge.
Domandiamo ora che musica fu quella che si fece a questa pastorale ed alle
altre che la seguirono? perchè quasi di tutte si trova scritto di avervi
fatta la musica qualche maestro. Il teatro in quel tempo non vide ai
componimenti scenici altra musica congiunta eccetto quella che animava i
cori. Delle tragedie si dice espressamente che aveano i cori cantati. Nelle
opere di Antonio Conti si afferma che
furono cantati a
Roma e a Vicenza i cori della Sofonisba
e che tuttavia
resta la
musica de’ cori della Canace
. Quando
nel teatro Olimpico di Vicenza si rappresentò l’Edipo del
Giustiniani,
il coro (dice in una lettera Filippo
Pigafetta) era formato di
quindici persone sette per parte ed il capo loro nel mezzo, il qual
coro in piacevol parlare ed armonia adempì l’uffizio
suo
. Delle commedie non che in versi, in prosa, si è
osservato nel tomo precedente che la musica ne rallegrava gl’intervalli
degli atti. E se mai se ne volesse un esempio forestiere, el
Musico por amor commedia spagnuola è tutta recitata, fuorchè ciò
che cantasi da colui che si finge musico. Oltrechè in molte migliaja di
commedie recitate della medesima nazione, a riserba di qualche dozzina di
esse, si trovano frequentemente alcune strofe o canzonette cantate in coro
dalle damigelle di qualche principessa, nell’impressione delle quali se si
avesse voluto conservare il nome del maestro, avrebbe potuto notarsi con
ogni proprietà, vi fece la musica (p. e.) il maestro Ita,
il maestro Corelli ec., benchè esse si sieno
rappresentate e si rappresentino attualmente col solo canto naturale della
favella. Ora nelle pastorali che
s’inventarono in
quel tempo non si vollero gl’Italiani privare di quell’armonico
accompagnamento già introdotto. E come agli autori di esse sarebbe venuto in
mente di farvi una musica continuata per tutto il dramma (come indi avvenne
nell’opera) senza averne avuto esempio? E se
l’avessero tratto dagli antichi, non ci avrebbero essi informato di sì
notabile novità, quando di altre particolarità più leggiere ci diedero
contezza? E tutti poi avrebbero religiosamente taciuto questo gran segreto
di stato? Adunque la musica apposta alle pastorali fu solo in qualche
squarcio, e singolarmente ne’ cori, e negl’intervalli degli atti ancor senza
cori vi si fece qualche tramezzo o trattenimento. Il Cornetto, il Viola, il
Cavaliere altro non dovettero porre in musica nelle pastorali se non i cori
e qualche altro passo a bella posta inserito nell’azione perchè si cantasse.
E se per queste cose nel pubblicarsi le pastorali per onorare i maestri vi
si pose fece la musica, ciò benissimo conviene al nominato
lavoro, senza che le abbiano interamente coperte
di note, il che non si rileva da monumento veruno; e così
le pastorali assai impropriamente si chiameranno, come si chiamarono nel bel
trattato dell’Opera in musica del cavaliere Antonio
Planelli, opere teatrali.
Dall’altra parte convengono gli eruditi più accurati in riconoscere nel fiorentino Giacomo Peri l’inventore dello stile musicale de’ recitativi ne’ drammi del Rinuccini verso la fine del secolo, celebrandone l’industria come novità maravigliosa. Ora se il Cornetto, il Cavaliere, il Viola l’aveano preceduto in mettere in musica tutto il componimento, non si sarebbe data al Peri una falsa e ridicola lode? Le pastorali dunque altra musica non ebbero che quella delle tragedie, cioè de’ cori; e noi andando innanzi speriamo di portare quest’osservazione all’evidenza. Intanto osserviamo sull’Egle stessa del Giraldi che messer Sebastiano da Montefalco che ne fu il principale attore, era l’istesso che recitò nella tragedia dell’ Orbecche, ed il Giraldi ne favella con lode speciale, enunciandolo come attore eccellente, e non già come musico. E perchè ne avrebbe taciuto quest’altro pregio?
Il Sacrificio di Agostino Beccari ferrarese si rappresentò nel 1554 in Ferrara due volte alla presenza del duca Ercole II, avendovi fatta la musica Alfonso della Viola, e s’impresse l’anno seguente. Tre anni prima della morte dell’autore seguita nel 1590 fu rappresentata due altre volte nelle nozze di Girolamo Sanseverino San Vitale con Benedetta Pio, e di Marco Pio fratello di Benedetta con Clelia Farnese.
Alberto Lollio ferrarese poeta e oratore grande scrisse l’Aretusa altra pastorale cantata ne’ cori, nel palazzo di
Schivanoja l’anno 1563 alla presenza del duca Alfonso II e del cardinal
Luigi di lui fratello, e s’impresse nel 1564.
La
rappresentò messer Ludovico Betti: fece la musica Alfonso Viola: fu
l’architetto e dipintor della scena messer Rinaldo Costabili: fece
la spesa l’
Università degli scolari di
legge.
Il medesimo Viola pose la musica corrispondente
allo Sfortunato pastorale di Agostino Argenti
rappresentata in Ferrara innanzi allo stesso Alfonso II nel 1567, e stampata
l’anno seguente.
Eccoci all’epoca dell’invano combattuto Aminta favola boschereccia dell’immortale Torquato Tasso. La prima edizione fu quella di Aldo il giovane nel 1581 colla dedicatoria dell’autore al principe di Molfetta e signor di Guastalla Ferrante Gonzaga in data de’ 20 di dicembre 1580. Monsignor Fontanini nel suo Aminta difeso crede che la prima edizione fosse quella del 1583 di Aldo, che fu la quarta a. Tralle più nitide edizioni dell’Aminta è da noverarsi quella del 1655 uscita in Parigi dalla stamperia di Agostino Corbè colle annotazioni di Egidio Menagio a. La difesa dell’Aminta fatta dal Fontanini che s’impresse nel 1700, fu composta per rispondere al discorso censorio fatto contro la pastorale del Tasso dal duca di Telese Bartolommeo Ceva Grimaldi per comando dell’Accademia degli Uniti di Napoli. Tal censura fu ancora ribattuta da Baltassarre Paglia con un discorso in cui si additano i pregi dell’Aminta letto nella medesima accademia e stampato nella raccolta di Antonio Bulifon in Napoli. Un’ altra difesa dell’Aminta contro il duca di Telese fece il dottor Niccolò Giorgi napoletano letterato di grido. Secondo il Mongitore un’ edizione dell’Aminta fu pubblicata in Sicilia colle note musicali del gesuita Erasmo Marotta da Randazza, che morì nel 1641 in Palermo.
La futilità delle critiche si manifestò non meno colle difese che coll’applauso generale che riscosse sì vago componimento, e colla moltitudine delle traduzioni che se ne fecero oltramonti. In Francia si tradusse in versi francesi la prima volta nel 1584 da Pietro de Branch, e si pubblicò in Bourdeaux; in prosa si tradusse in Parigi nel 1666, e poi nell’Aja nel 1679 e si ristampò nel 1681. Queste ed altre versioni francesi riuscirono poco felici, sia per debolezza delle penne che l’intrapresero, sia perchè la prosa francese che da i più si adoperò, è incapace di rendere competentemente la bella poesia italiana. Una traduzione eccellente se ne fece in bei versi castigliani da Giovanni Jauregui uscita in Roma nel 1607, ed in Siviglia nel 1618 a. In inglese fu tradotto l’Aminta, e stampato in Londra nel 1628. In latino si traslatò ancora da Andrea Hiltebrando medico di Pomerania, e s’impresse in Francfort nel 1615, e di nuovo nel 1623. Michele Schneiden ne fece una versione tedesca stampata nel 1642 in Amburgo. In lingua illirica fu anche trasportato da Domenico Slaturichia celebre in Dalmazia per questa, e per la traduzione dell’Elettra, e di Piramo e Tisbe, ed altri drammi in lingua schiava.
La prima rappresentazione dell’Aminta secondo il marchese Manso, si fece in Ferrara nel 1573 con lode e meraviglia universale con quattro intermedii composti dall’aurore. Di questi medesimi tramezzi crede il Fontanini che si servissero quelli che rappresentarono l’Aminta in Firenze per ordine del gran duca coll’accompagnamento delle macchine e prospective di Bernardo Buontalenti; la qual cosa riuscì con tal magnificenza ed applauso, che spinse il medesimo Torquato a recarsi di secreto in Firenze per conoscere il Buontalenti; ed avendolo appena salutato e haciato in fronte, se ne partì subito involandosi agli onori che gli preparava quel principe a.
Nè a’ dotti nè alle persone che leggono per divertimento può esser ignoto
l’argomento semplice di questa elegantissima favola che con una condotta
regolare rappresenta una ninfa schiva e nemica di amore vinta e divenuta
amante per mezzo della pietà. Vana cura sarebbe ancora metterne in vista più
questa che quella bellezza, men bello di ciò
che si sceglie non sembrando quello che si tralascia. Mirabili sono fin anco
i trascorsi del poeta, voglio dire alcuni pensieri più studiati, i quali per
altro non sono in sì gran numero come suppongono alcuni critici accigliati.
Eccone un esempio. L’enumerazione di parti fatta nella prima scena
dall’astuta Dafne per piegar Silvia ad amare:
Stimi
dunque nemico il monton de l’agnella
ecc., non
trascende le idee pastorali, e contiene immagini campestri ben conte e
sottoposte agli sguardi di Dafne e di Silvia. L’eloquenza della scaltrita
ninfa presenta alla ritrosa fanciulla la concordia di tanti oggetti
silvestri come effetto della potenza dí amore. Ma quel sospirar
delle piante, che potrebbe parer soverchio, con qual graziosa
ironia non vien distrutto dalla disdegnosa Silvia!
Orsù quando i sospiriUdirò delle piante,Io son contenta allor d’essere amante.
Spira un dilicato patetico da i discorsi di Aminta nella seconda scena. La dipintura della corte fatta da Mopso e raccontata da Tirsi ha mille vaghezze. L’impareggiabil coro, O bella età dell’oro, per eleganza e per armonia maraviglioso meriterebbe che si trascrivesse interamente; ma chi l’ignora? Le bellezze dello stile nelle particolarità narrate, che i Francesi chiamano beautez de detail, sono tante nella seconda scena dell’atto II, che pur dovrebbe questa tutta ripetersì. È bellissimo il racconto di Aminta poichè ha liberata Silvia dalle mani del Satiro. Il riverente rispetto di lui nel disciorla, ne scopre la grandezza dell’amore. La sua disperazione per la fuga dell’ingrata ninfa, il dolore che gli cagiona la novella di Nerina e la vista del velo dell’amata, la dipartita col disegno di finir di vivere, tutto ciò, dico, rende sommamente interessante l’atto III. Cresco sempre più l’interesse nell’atto IV. Nella bellissima prima scena quando nasce l’amor dì Silvia dal racconto del pericolo di Aminta, ella non mostra gl’interni movimenti se non col pianto che le soprabbonda, e il poeta fa che Dafne gli vada disviluppando:
Tu sei pietosa, tu! tu senti al coreSpirto alcun di pietade? Oh che vegg’io?Tu piangi, tu, superba? meraviglia!Che pianto è questo tuo? pianto d’ amore?Sil.
Pianto d’amor non già, ma di pietade.Daf.
La pietà messaggera è dell’amore,Come il lampo del tuono…Questo è pianto d’amor che troppo abbonda.Tu taci? Ami tu, Silvia? Ami, ma invano.Oh potenza d’amor! giusto castigoMandi sopra costei. Misero Aminta ecc.
Il silenzio di Silvia giustifica le illazioni di Dafne, ed il racconto della morte dell’amante inspira nella ninfa impietosita il desiderio di accompagnarlo. Le querele di lei sono con tal vaghezza e verità espresse che non possono mancare di commuovere l’anime sensibili. Eccellente è l’unica scena che forma l’atto V, ove sì leggiadramente si narra la caduta non mortale di Aminta, l’arrivo di Silvia, ed il trasporto di lei al vederlo in quello stato. Ella piagne, ella si percuote il bel petto, ella si lascia cadere sul giacente corpo, e giunge viso a viso e bocca a bocca, ella l’inaffia del suo pianto. Un oimè che esce dalla becca di Aminta assicura Silvia della vita di lui: uno sguardo volto a lei che gli bagna il volto di lagrime, fa certo Aminta dell’amore e della vita di Silvia.
Or chi potrebbe dir, come in quel puntoRimanessero entrambi? fatto certoCiascun dell’altrui vita, e fatto certoAminta de l’amor de la sua ninfa,E vistosi con lei congiunto e stretto;Chi è servo d’amor, per se lo stimi.Ma non si può stimar, non che ridire.
Per quanto si abbia di amore e di rispetto per gli antichi, convien confessare che essi, tuttochè vadano fastosi per un Sofocle ed un Euripide, se fossero stati contemporanei del Tasso, ci avrebbero invidiato l’Aminta a. Si è veduto come ben per tempo e più volte s’impresse e sì tradusse in Francia, prima che quivi si conoscessero Lope de Vega, Castro e Calderon; il che sempre più manifesta il torto del Linguet nel pretendere che le prime bellezze teatrali avessero i Francesi imparate dagli Spagnuoli.
Antonio Ongaro nel 1582 produsse una favola nel genere dell’Aminta, ma imitando i costumi pescatorii. Non fu egli il primo a dipignerli; perchè Bernardo Tasso, Andrea Calmo, e Bernardino Baldi, e Matteo Conte di San-Martino e di Vische, e Giulio Cesare Capaccio, e prima di tutti questi Jacopo Sannazzaro in latino e Bernardino Rota in toscano, introdussero leggiadramente nelle loro ecloghe i pescatori. L’Ongaro volle trasportarli sulla scena, e prendendo l’Aminta per esemplare ne seguì con tale esattezza le orme, che il suo Alceo, come ognun sa, ne acquistò il nome di Aminta bagnato. Trovo non pertanto che monsignor Paolo Regio sin dal 1569 pubblicò in Napoli una sua favola pescatoria intitolata Siracusa da me però non veduta. Il Regio dunque fu il primo a portare in iscena gli amori de’ pescatori.
Il più volte nominato Cieco d’Adria ebbe il vantaggio, disse Apostolo Zeno, di comporre una pastorale prima del Guarini e dopo del Tasso, intitolata il Pentimento amoroso. Ma questa si pubblicò in Venezia nel 1583, ed io trovo, che nella stessa città se ne impresse nel 1581 un’altra di Alvise Pasqualigo detta gl’Intricati, la quale, come appare nella dedicatoria fattane al principe dell’Accademia Olimpica, ed anche dal prologo, era stata rappresentata qualche anno prima a Zara. È però un cattivo componimento formato sopra incantesimi che producono nojose ed inverisimili situazioni, e vi s’introducono per buffoni Calabaza spagnuolo e Graziano bolognese che parlano ne’ proprii idiomi. Altro dunque non ha di notabile che di aver preceduto il Pentimento amoroso. Il Groto scrisse indi un’ altra pastorale intitolata Calisto pubblicata per le stampe nel 1586.
Contemporanea al Pentimento fu la Danza di Venere di Angelo Ingegneri. Era stata già rappresentata in Parma in presenza di Ranuccio Farnese giovanetto nel 1583, quando fu dedicata alla nobile Camilla Lupi che vi sostenne la parte di Amarilli; e si stampò poi nel seguente anno in Venezia. L’intreccio è più complicato dell’Aminta, e si sviluppa con un’agnizione. Venere stessa vi fa il prologo, e ne accenna l’argomento:
Miracol novo a fare or m’apparecchioIn questo istesso loco. Il senno, il sennoCh’altri sovente amando perde, amandoFar che uomo acquisti.
Ed in fatti Coridone di folle diviene assennato al contemplare le bellezze di Amarilli, a somiglianza del Cimone del Boccaccio.
In occasione delle nozze di Carlo Emmanuele duca di Savoja con Caterina d’Austria fu nel 1535 rappresentata in Torino la prima volta la celebre tragicommedia pastorale del cavalier Giambatista Guarini intitolata il Pastor fido; ma s’impresse nel 1590. Una delle più vive battaglie letterarie si accese per questa favola, che vive e viverà a dispetto de’ critici per l’eleganza per l’affetto per le situationi teatrali e per l’interesse che ne anima tutte le parti. Pochi son quelli che si sovvengono delle censure famose per altro di Giasone di Nores, di Fausto Summo, dì Giovanni Pietro Malacreta, di Angelo Ingenieri e di Nicola Villani, come altresì delle risposte che ad esse fecero, oltre dell’istesso Guarini, Giovanni Savio e Paolo Beni e Ludovico Zuccoli. Ma il Pastor fido, malgrado de i difetti che vi si notano, sarà sempre un componimento glorioso per l’autore e per l’Italia. Anche il Fontanini a maltratta il Guarini e la pastorale; ma il Barotti nella Difesa de’ suoi Ferraresi lo confuta vigorosamente. Apostolo Zeno si dichiarò pure a favore del Pastor fido. Il parlare troppo elegante de’ pastori in questa favola ebbe anche fuori dell’Italie un censore nel Rapin, che misurava que’ pastori colla squadra de’ caprai delle moderne campagne; senza avvertire che nell’ipotesi della pastorale del Guarini i pastori Arcadi fingonsi discendenti di Silvani e di Fiumi deificati, e formano una famiglia o repubblica pastorale, di cui i sacerdoti, a somiglianza degli antichi patriarchi, erano i legislatori e maestri. Ora a tali pastori disconverrebbe tanto il pensare e favellare alla foggia de’ nostri odierni pecorai, quanto a quella de’ cortigiani di Versailles, come fanno veramente i pastori del celebre Fontenelle. Ma possono sentire le umane passioni, e ragionarne colla penetrazione naturale, non come filosofi, ma come uomini che le stanno soffrendo, ed esprimono al vivo ciò che sentono. Quel che noi però non troviamo degno di approvazione, si è ciò che si esprime con concetti soverchio leccati e raffinati; non già perchè col Rapin c’incresca l’eleganza, ma perchè la vera passione nel genere drammatico si spiega con maggior semplicità. Avvenne in somma al Pastor fido quel che nel secolo seguente seguì in Francia pel Cid di Pierre Corneille, l’opera sopravvisse ad ogni censura a.
Un carattere diverso dall’Aminta è da notarsi nel Pastor fido. L’azione della prima pastorale è semplice e senza veruna agnizione, dell’altra è ravviluppata con un riconoscimento interessante: eccita l’Aminta la compassione, il Pastor fido giugne a quel grado di terrore che ci agita nel Cresfonte al pericolo del giovane vicino ed essere uccìso per mano della madre: l’Aminta senza storia precedente e senza colpi di scena c’interessa a meraviglia col solo affetto, il Pastor fido riesce artificioso per la tessitura e per un disegno più vasto e più teatrale. Anche di questa favola si fecero in Francia varie traduzioni in prosa molto infelici, e in Ispagna una sola buona in versi dal Figueroa a.
Benchè con passi assai disuguali e ben da lungi, seguirono le tracce luminose del Tasso e del Guarini varii altri poeti sino alla fine del secolo. Cristofaro Castelletti romano essendo ancor giovine a scrisse l’Amarilli impressa nel 1587 e ristampata in Viterbo nel 1620. Un pastorello di Candia ama una ninfa e credendola morta di veleno abbandona le patrie contrade, erra per dieci anni, e capita in fine nelle campagne della Toscana, do ve s’innamora d’Amarilli perchè rassomiglia all’estinta Licori. Quest’Amarilli ritrosa non vuole ascoltarlo, a cagione di avere nella sua patria amato un pastorello chiamato Tirsi, a cui, benchè con pochissima speranza tutto serba il suo amore. Ma questo Tirsi è appunto il medesimo pastorello che col nome di Credulo ella disdegna, e Amarilli è quella stessa Licori pianta da Tirsi per morta. Questa ipotesi di non ravvisarsi, sebbene dopo dieci anni, due persone che tanto si amano, sembra veramente dura en mancante di verisimiglianza; contuttocciò l’azione è condotta con destrezza e competentemente accreditata. A riserba poi di alcuni tratti troppo lirici, e di qualche intemperanza Ovidiana nell’accumulare immagini, lo stile è puro, la versificazione corrente, ben sostenuti e ben coloriti i caratteri, e la favola è semplice, e serva le regole. Benchè framischiato di qualche ornamento lirico, spicca per la tenerezza e pel patetico il lamento di Credulo che vuol morire per la durezza della sua ninfa. Tenera nell’atto V è la riconoscenza di Licori e Tirsi. Non è questa una pastorale da gareggiar coll’Aminta o col Pastor fido, ma supera moltissime altre che la seguirono, per l’affetto, e per l’interesse che l’avviva. Non ebbe cori, ma solo cinque madrigaletti di ugual metro e numero di versi da cantarsi in ogni fine di atto. Dovè parimente cantarsi la canzone di Selvaggio nell’atto I.
Che mi rileva errar per gli ermi boschi
che contiene cinque stanze colla rigorosa legge del metro regolare. Ma chi riconoscerà un’ opera musicale in un componimento senza cori, in cui oltre ad una canzonetta, si cantarono cinque madrigaletti per trattenimento negl’intervalli degli atti? Nel medesimo anno 1587 comparvero due altre pastorali il Satiro dell’Avanzi, e la Diana pietosa del Borghini. Uscì parimente in quell’anno dalle stampe del veneziano Domenico Imberti l’Andromeda tragicommedia boschereccia di Diomisso Guazzoni cremonese, dove interviene un Erbenio mago, oltre a Cupido trasformato in ninfa, i quali empiono la favola di prodigii.
Esercitossi parimente in questo genere la famosa Isabella Andreini padovana
una delle migliori attrici italiane, che applicatasi alla poesia ne diede
alla luce un saggio nel 1588 con una pastorale intitolata Mirtilla, la quale fu così ricercata che dal mese di marzo a
quello di aprile se ne fecero in Verona due edizioni (se crediamo alle due
diverse dedicatorie che vi si
leggono) essendo
stata la prima dalla stessa autrice dedicata alla marchesana del Vasto
Lavinia della Rovere, e la seconda dall’impressore alla signora Lodovica
Pellegrina la Cavaliera. L’azione rappresenta la vendetta presa da Amore di
due anime superbe che lo bestemmiavano, Tirsi pastore ed Ardelia ninfa,
facendo che
l’uno arda e non trovi
loco
Per amor di Mirtilla, e l’altra avvampiPer sua pena maggior di se medesma;
ed in fatti nell’atto IV si vede Ardelia divenuta un novello Narciso che si vagheggia in un fonte. Non è da cercarsi in questa ed in moltissime altre favole di questì ultimi anni del secolo nè intreccio semplice o almeno moderatamente ravviluppato, nè quel linguaggio che richiede il genere drammatico. Sembra che allora i poeti facessero a gara in trasportare nelle pastorali tutti i raffinamenti della lirica poesia. La favola dell’Andreini non ha cori a. Nel medesimo anno 1588 pubblicaronsi altre due pastorali, l’Amaranta del Simonetti, e la Flori di Maddalena Campiglia lodata da Muzio Manfredi.
I Sospetti favola boschereccia di Pietro Lupi pisano si pubblicò in Firenze nel 1589. Un dialogo tra l’Amore e la Gelosia ne forma il prologo, e dichiara le mire di ambedue. Si figura l’azione avvenuta tra’ Pisani quando tuttavia dimoravano nello stato pastorale, e l’amore presagisce le future grandezze di Pisa. Lo stile è nobile ma lirico come quello di tutte le altre; e l’azione, benchè non mi sembri abbastanza interessante, è pure regolare. Anche questa pastorale è priva di cori.
Le Pompe funebri del celebre Cesare Cremonino, e le pastorali di Laura Guidiccioni dama lucchese ornata di molto merito letterario, cioè la Disperazione di Sileno, il Satiro, il Giuoco della Cieca, e la Rappresentazione di anima e di corpo recitata in Roma colla musica di Emilio del Cavaliere, furono pastorali degli ultimi anni del secolo dettate, sì, con istile lirico, ma non tale da recarci rossore. Non così la Gratiana di un certo Accademico Infiammato uscita alla luce in Venezia nel 1590 ripiena di sciapite buffonerie e di personaggi scempi come un caprajo tedesco e due buffoni Magnifico veneziano e Graziano bolognese.
Assai più degne di mentovarsi sono la Cintia di Carlo Noci capuano, e l’Amoroso Sdegno di Francesco Bracciolini pistojese, che ornarono l’ultimo lustro del secolo. La Cintia che s’impresse in Napoli nel 1594 dal Carlino e dal Pace, e si ristampò dal Maccarano nel 1631, che è l’edizione conosciuta dal Fontanini, consiste in una ninfa creduta morta che dopo varii evenimenti vestita da uomo si presenta a Silvano suo amante che trova innamorato di un’ altra, e s’introduce nella di lui amicizia col nome di Tirsi. Tenta l’animo di lui ricordandogli acconciamente la prima sua diletta, e comprende che ne ama la memoria, ma che ha tutto rivolto l’amore a Laurinia. Ode poi Silvano che questo suo amico favorisce in di lui pregiudizio Dameta presso Laurinia, e credendolo traditore ne ordina la morte ad un servo, il quale finge di averlo ucciso. Silvano intende che il finto Tirsi era la sua Cintia morta per la sua crudeltà; ne conosce l’innocenza e l’amore, e cade in disperazione. La veracità del di lui dolore fa che gli si faccia sapere che è viva, e ne seguono le loro nozze. La favola è divisa in cinque atti senza suddivisione di scene e senza cori. Il primo rigoroso comando che riceve il finto Tirsi da Silvano è di partire da quelle selve, e le querele nel dovere lasciar quel luogo e la compagnia di Clizia sua amica, sono tenere e delicate. Nell’atto IV è benissimo espresso il dolore di Silvano, che dopo di aver saputo che Ormonte suo servo ha ucciso Tirsi, intende da Elcino che Tirsi è la sua Cintia.
La pastorale poi del Bracciolini, per sentimento dell’erudito Pier Jacopo Martelli, può andar subito appresso alle tre più famose l’Aminta e il Pastor fido e la Fille di Sciro del secolo seguente. L’autore, secondo il Mazzucchelli, la compose in età di venti anni, e fu stampata in Venezia nel 1597, e poi anche nel 1598. In Milano nel 1597 se ne fece una edizione corretta dall’autore, il quale giunto all’ultima vecchiezza morì nella sua patria pieno di onorata fama per le molte sue opere ingegnose che produsse.
Alcuni anni prima e propriamente nel 1590 il celebre
Muzio Manfredi compose in Lombardia a una nuova
Semiramide ma boschereccia, in cui si tratta delle di
lei nozze con Mennone seguite in villa. Scrivendo di essa a Firenze a
Giovanni de’ Bardi de’ signori di Vernia, afferma lo stesso autore
d’
averla cara quanto la tragedia
, e
che con
tre lettere in otto giorni
gliela
dimandò il duca di Mantova per farla rappresentare. Nel mandargliela, da tre
di lui lettere dirette a tre Ebrei si ricava quanto impegno egli avesse che
si rappresentasse colla maggior proprietà. Al l’ebreo Leone di Somma che
dovea inventar gli ahiti, raccomanda che sieno convenienti a’ personaggi
Assiri; diligenza che si vede trascurata nel grottesco vestito eroico degli
attori tragici francesi, ed in quello pure stravagante de’ cantori dell’
opera in musica. A messer Isacchino prescrisse la
qualità di ballo richiesta nelle quattro canzonette che s’interpongono negli
atti; insegnando con ciò la convenienza che dovrebbero avere la danza e
l’azione. Finalmente al maestro di musica Giaches Duvero incarica
l’attenzione necessaria al genere di musica, che esigono le mentovate
canzonette. E quì domando a que’ dotti scrittori che vorrebbero trarre
l’origine dell’opera musicale da secoli più remoti, e riconoscerla in tutte
le pastorali, domando, dico, se loro sembri verisimile che il famoso
Manfredi sì scrupoloso negli abiti e nel ballo, avrebbe inculcata al
compositore di musica tutta la diligenza nelle sole canzonette, punto non
facendo motto della musica di tutto il rimanente, se tutta la pastorale
avesse dovuto cantarsi? Domando ancora, se a buona ragione la sola musica
delle canzonette potesse bastare a far chiamare opere in musica le
pastorali?
L’istesso chiaro autore delle due
Semiramidi compose un altro scenico componimento pastorale
intitolato il Contrasto amoroso fatto in Lorena l’anno
1591 a, in cui, per quel che scrive l’autore a donna
Vittoria Gonzaga principessa di Molfetta b,
con
novissima invenzione è un solo pastorello e dodici ninfe, delle
quali quattro contrastano amorosamente ciascuna per averlo per
marito, ed è vinto da una che si chiama Nicea
. Sotto
nome di Flori egli pretese introdurre la signora Campiglia, come egli stesso
a lei scrive, e sotto quello di Celia la signora Barbara Torelli, facendole
fare insieme una scena in lode delle donne virtuose, ed in biasimo di chi
non le ossequia. Sembra che questa pastorale sia rimasta inedita.
Inedita parimente rimase quella che
scrisse la
mentovata Barbara Torelli Benedetti cugina del conte Pomponio, intitolata
Partenia
a. L’autrice da prima non vi pose i
cori e
fu ben fatto
, le dice il Manfredi
scrivendole a Parma il dì ii di Gennajo,
conciosiache contenendo la pastorale azion privata, non è
capace del coro, siccome non è anche la commedia per la medesima
ragione, e non vi si fa. Se dunque V. S. vuole aggiugnergliele ora,
non so da che spirito mossa, oltre alla gran fatica ch’ella
imprenderà a compire quattro canzonette colle circostanze richieste
alle così fatte, le accrescerà bene il coro, ma le scemerà il
decoro: e dico scemerà, e non leverà, per non dannare affatto l’uso
di tutti quei poeti che alle loro il fanno
; e fra tali
poeti si vuol
ripore l’istesso Manfredi che il fece
alla sua boschereccia.
Di un’ altra pastorale inedita fa anche menzione il Manfredi composta dal
conte Alfonso Fontanelli,
la quale
, dice nella lettera 364,
intendo essere un miracolo di quest’arte
. E di
tal letterato avea il Manfredi gran concetto, e lo desiderava vicino per
udirne il parere sul suo Contrasto amoroso, come l’udì
sulla tragedia.
Fa altresì menzione il Manfredi di Enone boschereccia composta da Ferrante Gonzaga principe di Molfetta morto nel 1630, la quale era vicina a terminarsi nella fine del 1593. Francesco Patrizii la rammenta ancora con grandi elogii.
Finalmente il Visdomini fondatore dell’Accademia degl’Innominati di Parma, oltre alle tragedie già mentovate, compose l’Erminia pastorale dedicata al conte Pomponio Torelli, la quale fra tutte le nominate favole inedite sola trovasi conservata manoscritta nella ducal Biblioteca di Parma. Non sembrami veramente la cosa migliore di quel secolo ricco di tanti buoni drammi. L’azione passa tra pastori che aspirano alle nozze di Erminia, non conoscendola per quella che era stata regina di Antiochia. L’interesse non vi si trova per verun personaggio. Un ratto di Erminia tentato da alcuni pastori ed impedito da Egone, forma l’azione dell’atto IV; ma ella appena liberata, vedendo venire un guerriere, a lui ricorre, lasciando Egone addololorato. Nell’atto V comparisce il principe Tancredi ferito, che ringrazia Dio della vittoria riportata del Circasso Argante. Il guerriere con cui è ita Erminia, era Vafrino, e l’uno e l’altra riconoscono il ferito; ed Erminia dopo averlo pianto come morto, si avvede che è vivo, e ne imprende la guarigione. Nè lo stile nè la condotta fa desiderarne l’impressione.