CAP. IV.
Progressi della poesia comica nel medesimo secolo XVI quando fiorirono gli scrittori producendo le Commedie dette Erudite.
All’edizione delle sue tragedie premise il chiarissimo abate Saverio
Bettinelli un Discorso intorno al Teatro Italiano, dal
quale traggonsi moltissime osservazioni importanti. Vi si dice però che la
prima epoca gloriosa della poesia regolare
drammatica è
al 1520
, che
secondo me dee risalire qualche altro lustro. Il lodato autore ha la mira
alla Sofonisba del Trissino, alla Rosmunda dell’ Rucellai, e ad alcune commedie dell’Ariosto, a
quelle del Macchiavelli, alla Calandra del Bibbiena. Ma
queste tragedie e commedie hanno certamente la data più indietro del 1520, e
per conseguenza la prima epoca in Italia gloriosa della drammatica vuol
collocarsi al principio del secolo. Secondo Lilio Gregorio Giraldia intorno a’ primi anni del secolo il Trissino
avea per le mani la sua tragedia, benchè prima del 1514 non erasi tuttavia
recitata. Si rappresentò poi la Rosmunda nel 1516 o 1517,
secondo il Zeno, e fu la seconda tragedia rappresentata. Nè anche il sign.
di Voltaire volle negarci questi pochi anni, e
confessò che
la ville de Vicence en 1514 fit des depenses immenses pour la reprèsentation de
la
première tragedie qui on eût vue en
Europe depuis la decadence de l’Empire
. Quanto alle
commedie poi dalla narrazione a cui ci accingiamo di quelle dell’Ariosto,
del Bibbiena e del Machiavelli, si vedrà che si scrissero assai prima del
1520, cioè intorno al 1498 o poco più; e per conseguenza che l’epoca della
poesia regolare drammatica dovrà fissarsi sull’aprir del secolo XVI.
Una felice combinazione per la drammatica trasse i più chiari epici Italiani a coltivarla. Per mezzo degli autori dell’Italia liberata e del Goffredo fiorì tra noi la buona tragedia; e pel cantore dell’Orlando furioso risorse la Commedia Nuova degli antichi. Questo poeta prodigioso nato nel 1474 a corre le prime palme in tutti i generi che maneggiò (che che abbia voluto gratuitamente asserire in iscapito delle di lui satire e commedie l’esgesuita sig. Andres, per divertire la corte del duca di Ferrara compose cinque commedie, la Cassaria, i Suppositi, la Lena, il Negromante e la Scolastica. Alfonso d’Este per farle rappresentare se costruire un teatro stabile secondo il disegno dell’istesso poeta, il quale parimente ebbe la cura dell’ottima esecuzione ammaestrando alcuni gentiluomini; anzi più di una volta egli vi sostenne ancora la parte del prologo, come ci dice Gabriele suo fratello in quello della Scolastica:
Quando apparve in sonnioIl fratello al fratello in forma e in abitoChe s’era dimostrato sul proscenioNostro più volte a recitar principiiE qualche volta a sostenere il caricoDella commedia, e farle serbar l’ordine
Il prologo della Lena rappresentata in Ferrara al tempo di Leone X, ed anche l’anno dopo del sacco di Roma, si recitò dal principe don Francesco figliuolo del duca.
Ariosto da prima, cioè ne’ suoi verdi anni cominciò a scrivere le sue favole in prosa circa il 1498a; e così furono scritte i Suppositi e la Cassaria. Ma innoltrato nell’età le riscrisse in verso, del quale però soltanto si servì nelle altre tre. Scelse lo sdrucciolo, in cui alcuni pretesero raffigurare l’immagine dell’antico giambico: ma solo la grazia dell’elocuzione e la maestria innarrivabile di un Ariosto potè renderlo soffribile e compensarne l’irreparabil caduta e la manifesta monotonia. Non istancherò i leggitori analizzando minutamente queste commedie; ma ne anderò solo notando alcune bellezze per istruzione della gioventù, e per rimproverarle agli ultimi detrattori transalpini, i quali o non sanno, o non vogliono vederle, da se stessi.
I Suppositi. Nell’edizione che se ne fece in Venezia nel
1525 si vede questa favola preceduta da un prologo
in prosa, nel quale l’autore confessa di avere in essa seguitato Terenzio
nell’Eunuco e Plauto ne’ Cattivi E
veramente parte dell’argomento egli trasse da que’ comici antichi; mentre
l’innamorato Erostrato padrone si fa credere un suo servo chiamato Dulippo,
e questi passa per Erostrato, prendendone il nome e la condizione. Ma la
modestia dell’autore gli fè dissimulare il merito principale della sua
favola, che consiste nell’averla avviluppata e sciolta con mirabile
naturalezza senza bisogno di scorta, e renduta notabilmente interessante
colla venuta di Filogono padre di Erostrato; di che non fu debitore in verun
conto agli antichi. Di fatti la gloria principale dell’Ariosto e di molti
altri comici Italiani, de’ quali dovrem ragionare, è questa appunto di aver
migliorati gli argomenti degli antichi, e di averne poi tratti tanti e tanti
altri dalla propria fantasia; la qual cosa gli rende superiori a’ Latini per
invenzione, ed in conseguenza per vivacità. E se il nostro dottissimo Gian Vincenzo
Gravina riguardata avesse da questo punto la commedia
Italiana del Cinquecento, certamente non avrebbe senza riserba veruna
avanzato nella lettera scritta a Scipione Maffei che i nostri Comici son di
gran lunga inferiori a’ Latini. È vero poi che l’Ariosto si valse di alcuni
caratteri antichi, ma seppe adattarli alla propria età e nazione con un
colorito fresco ed originale, e moltissimi nuovi ne introdusse, come
avvocati, cattedratici, teologi. Per la qual cosa possiamo fare osservare
che il gesuita Rapin diede al Moliere
una lode immaginaria, allorchè affermò che fu questo celebre autore comico
francese il primo a far ridere con ritratti di nobili, uscendo da servi,
parassiti, raggiratori e trasoni. Io trovo che i Cinesi, gl’Indiani, i
Greci, i Latini, gl’Italiani, gli Spagnuoli, e i Francesi stessi, prima del
Moliere dipinsero i nobili ridicoli. Un sogno simile,
se ben m’appongo, fece Castilhon nelle sue Considerazioni, asserendo che
in Ispagna e in
Italia i poeti comici
,
toltone il solo Goldoni, non hanno ancor
pensato
a dare alle donne caratteri nobili
. Noi che
abbiamo studiata un poco più l’Italia e la Spagna, possiamo assicurargli che
in tali paesi si sono infinite volte dipinte le donne con caratteri nobili,
cioè distinte per grado e per virtù. Se Castilhon avesse
avuta più pratica della storia letteraria, avrebbe evitato questo ed altri
simili propositi, i quali per se stessi leggeri diventano poi spropositi
notabili in chi presume filosofare sulle nazioni, perchè da’ falsi dati non
si deducono se non false conseguenze, le quali non mai daranno risultati
veri e principii sicuri. Ciò serva di norma ancora ad altri pretesi filosofi
de’ tempi nostri disprezzatori dell’erudizione di cui scarseggiano tanto e
di cui tanto abbisognano per ragionar diritto.
Lo stile dell’Ariosto poi si presta mirabilmente, alla maniera di Menandro, a tutti gli affetti, ed a tutti i caratteri. Motteggia con grazia senza cadere in buffonerie da piazza; ragiona con naturalezza non conosciuta dalla pedanteria; famigliare e piacevole non lascia di adornarsi di quelle sobrie bellezze poetiche, che a tal genere non isconvengono: satireggia con sale e vivacità senza addentar gl’individui. E a tal proposito si vuol riflettere, che la commedia Italiana di tal tempo non pervenne all’insolenza della Grecia antica, a cagione de’ governi delle Italiche contrade assai differenti dall’Ateniese. Ma non fu già timida e circospetta quanto la Latina. Imperocchè i nostri autori comici erano per lo più persone nobili e ragguardevoli nella civile società, o almeno non furono schiavi come la maggior parte de’ Latini. Quindi è, che nelle commedie del l’Ariosto, e de’ contemporanei si trovano proverbiati coraggiosamente signori, ministri, governadori, giudici, avvocati, frati ecc. Eccone un saggio de’ Suppositi. Lizio servo nell’atto V attribuisce a coloro che presiedono al governo, gli sconcerti privati. Un Ferrarese discolpa i Rettori:
Che san di questo li Rettori?Credi tuChe intendano ogni cosa?
E Lizio risponde:
…… Anzi che intendanoPoco e mal volentier credo, e non voglianoGuardar, se non dove guadagno veggano,E l’orecchio più aperto aver dovrebbonoChe le taverne gli uscii le domeniche.
E quì si avverta che si parla appunto de’ Rettori di Ferrara, dove si rappresentava la commedia in presenza del principe e forse di que’ medesimi Rettori. Non meno penetrante è il colpo che questo Lizio satirico dà a’ giudici, che oggi forse non si permetterebbe sulle scene. Pongonsi in fine con somma grazia e piacevolezza comica alla berlina gli avvocati. Non parlo poi della regolarità della condotta di questa favola come delle altre, non dell’Ariosto solamente, ma di quanti altri lo seguirono; perchè pregio fu degl’Italiani il non aver cominciato dal comporre favole mostruose, come le Cinesi, le Inglesi e le Spagnuole, ma regolari scrupolosamente contenute ne’ limiti prescritti da Aristotile e da Orazio. Dovrei bensì additare l’arte del poeta nella rivoluzione apportata all’azione dalle notizie rilevate opportunamente, e l’interesse che va graduatamente crescendo col disordine che mena allo scioglimento; ma tali cose meglio si sentono nella lettura continuata che nel racconto.
La Cassaria. Benchè in questa favola ricca di sali, di
grazie e di passi piacevoli, si veggano introdotti servi, ruffiani ed altri
personaggi usati nelle antiche commedie, l’argomento però tutto appartiene
al nostro poeta. Una cassa lasciata in deposito nella casa di Crisobolo, la
quale dal di lui figliuolo Erofilo innamorato della giovinetta Eulalia vien
data in potere di Lucramo padrone di questa bella schiava, forma un groppo
ingegnoso, ed adduce
senza stento uno
scioglimento felice. Quando l’autore la scrisse in prosa, vi pose un prologo
in terzarima, ove dimostra sommo rispetto per gli antichi; ed allora che la
ridusse in versi sdruccioli, nel prologo abbellito di vaghe e graziose
dipinture si valse del metro medesimo di tutta la favola. In alcune
circostanze le immagini ritratte dal vivo par che si scostino dalle
caricature de’ nostri giorni; ma chi non sa che di tutta la poesia, la
comica è la più soggetta ad alterazioni per le maniere e pe’ costumi? Il
Ferrarese valoroso dipintore della natura, il quale imitò i costumi de’ suoi
paesani tre secoli indietro, avea quella freschezza di colorito e quella
rassomiglianza agli originali che poteva attendersi dal suo pennello, ma che
noi venuti sì tardi più non sappiamo rinvenirvi. Con simili prevenzioni
debbono leggersi i ritratti della vanità ed incostanza delle donne nel
l’adornarsi, ove ravvisasi un’elegante parafrasi del verso Terenziano,
Dum moliuntur, dum
comuntur, annus est
; poi la dipintura degli
effemminati govinastri che si bellettano come le femmine, la quale per altro
troverebbe i suoi ridicoli originali ancor fra noi.
…… Anch’essi perdonoNon meno in adornarsi, e fino a mettereIl bianco e il rosso. Fan come le femmineTutte le cose; han lor specchi, lor pettini,Lor pelatoi, lor stuccetti de’ variiFerracciuoli forniti: hanno lor bussoli,Loro ampolle e vasetti ecc.
Non è totalmente passata di moda la pittura di certi titoli ridicoli, de’ quali lepidamente si burla, essendosene conservata la razza sino a questi dì, ed avendola dopo di lui trovata Moliere in Francia, e schernita Wycherley in Inghilterra. Il nostro insigne poeta così ne parla:
…… Che fuor che titoliE vanti e fumi, ostentazioni e favole,Ci so veder poco altro di magnifico.Tutto ciò ch’hanno in adornarsi spendono,Polirsi, profumarsi come femmine,E pascer mule e paggi, che lor trottinoTutto dì dietro, mentre essi avvolgendosiDi quà e di là, le vie e le piazze scorrono,Più che ognuna civetta dimenandosi,E facendo più gesti ch’una scimia.
Ma giova osservare in qual maniera si esprima in questa favola un innamorato. Eulalia lo rimprovera perchè le sembra che non si curi di liberarla; egli punto da ciò manifesta i suoi sensi con tale opportuna esagerazione:
Ch’io non la faccia chiara del grandissimoBen ch’io le voglio? e ch’io non la certifichi,Ch’io non amo altra persona, nè voglioneMio padre… che mio padre? me medesimoNon ne vo trarre ancor, quanto la minimaParte di lei?
Notisi il calore che spirano le di lui parole, quando sa che gli è stata menata via Eulalia.
Vol.
Ove ir vuoi tu? che pensi tu far?Eros.
VogliolaO riavere, o morire.Vol.
Non correreIn tanta fretta, Erofilo; ricordatiChe noi siamo in pericolo di perdereLa cassa; attendi a quella, e poi.Er.
Che attendere,Che cassa? Più m’importa la mia Eulalia,Che quanta roba è al mondo. Ove ti pensi tu,Ch’abbian presa la via?Trap.
Di qua mi parveroAndar.Volp.
Non ir, padron, che non ti faccianoQualche male.Eros.
E che peggio mi potrianoFar, se già m’han levato il cuor e l’anima?
In questa guisa nelle commedie Italiane del cinquecento parlano gl’innamorati con tutto il calore de’ Panfili o de’ Cherei Terenziani, e ben lontani dalle sottigliezze metafisiche degli Spagnuoli, e dalle tirate, e da’ tratti spiritosi de’ Francesi. La natura in quell’animato linguaggio si riconosce, e se ne compiace.
La Lena. Piacevole è l’intrigo di questa commedia, che su di un semplice fondamento aggirandosi produce varii ridicoli colpi di teatro, i quali con tutta naturalezza apportano lo scioglimento. Flavio amante di una giovinetta contratta per lei con la Lena ruffiana inesorabile; e per tenerla contenta fa del denaro impegnando la roba e la beretta. Il servo Corbolo sì per discolparlo del pegno fatto, come per trarre altro danaro da Ilario di lui padre, gli narra una immaginaria sorpresa notturna, la quale nell’atto III forma una scena incomparabilmente più graziosa per lo stile, e più naturale di quella della galera del Moliere; perchè questo comico Francese la trasse da altri comici, ed Ariosto la copiò dalla natura, e ne diede l’esempio a tutti gli altri. La giunteria di Corbolo è sconcertata dalla venuta del Cremonino colla veste di Flavio nelle mani. Corbolo con molte astuzie cerca di puntellare la sua menzogna cadente ; ma il vecchio insospettito mena seco il Cremonino, per esaminarlo in casa senza che Corbolo possa interromperlo. Flavio intanto che è in casa della Lena, è deluso ed obbligato a nascondersi in una botte quivi lasciata in deposito. Sventuratamente il padrone di tale botte viene a riprenderla, per dubbio che pe’ debiti del marito della Lena non abbia a pericolare. Ed appunto nel cacciarla fuori (standovi dentro Flavio) sopraggiugne un creditore con gli sbirri, e la vuol torre in pegno. Fazio che è il padre di Licinia amata da Flavio, arriva in tal punto, ode il contrasto, si frappone, e per metter pace, offre di tener egli la botte in deposito, la fa condurre in sua casa, e ne segue il matrimonio di Flavio e Licinia. Non è questa una commedia nobile; ma nel genere inferiore ha tutte le grazie del viluppo, e della piacevolezza de’ colpi teatrali senza discendere sino alla farsa. È da notarvisi ancora che vi si tratta di un intrigo amoroso, e di un giovine trovato in casa di una fanciulla onorata, ma non per questo produce risentimento veruno di funeste conseguenze. Or dove è mai quella gelosia, e quella vendetta Italiana tanto esagerata nella Poetica Francese del moderno filosofante Marmontel come principio universale di tutti gl’intrighi delle nostre commedie? Ma di ciò nella favola seguente.
Il Negromante. Questa commedia (che ci sugerirà alcune curiose osservazioni critiche) e per la vaghezza dello stile, e per l’artificio del groppo, e pel calore ed il movimento dell’azione, e per la vivace dipintura de’ caratteri, e per la grazia de’ motteggi, merita che si legga con attenzione che sarà ben compensata dal diletto.
Massimo vecchio astringe il giovine Cintio destinato suo erede a sposare una donna ch’egli non può amare trovandosi preoccupato dell’amore di Lavinia figliuola di Fazio. Cintio obedisce, ma in tutto un mese non si accoppia colla moglie, fingendosi impotente, e sperando di far disciogliere le nozze. Massimo per guarirlo, dopo varie pratiche, e molti rimedii tentati invano, ricorre ad un furbo tenuto per astrolago, e negromante. Costui cercando di arricchire a spese di Massimo, ed anche di Camillo Pocosale innamorato di picciola levatura, senza volerlo fa sì, che si manifesti l’amore di Cintio e Lavinia, rimanendo egli scornato e scoperto per impostore.
Delle molte bellezze di questa favola additiamone alcuna che ne sembri più piacevole, e più degna di esser notata. Cintio teme che il Negromante colla sua scienza possa scoprire il proprio secreto, e con Fazio, e col servo Temolo parla della fama delle di lui opere prodigiose. Cose mirabili (dice)
… Di lui mi narra il suo garzone.Tem.
Fateci,Se Dio vi ajuti, udir questi miracoli.Cint.
Mi dice, che a sua posta fa risplendereLa notte, e il di oscurarsi.Tem.
Anch’io so simile.Mente cotesto far,Cint.
Come?Tem.
Se accendereDi notte anderò un lume, e di dì a chiudereLe finestre…Or, sa far altro?Cint.
Fa la terra muovereSempre che il vuole.Tem.
Anch’io tal volta muovola,S’io metto al fuoco, o ne levo la pentola,O quando cerco al bujo, se più gocciolaDi vino è nel boccale, allor dimenola.Cint.
Te ne fai beffe, e ti par di udir favole?Or che dirai di questo, che invisibileVa a suo piacere?Tem.
Invisibile? aveteloVoi mai, padron, veduto andarvi?Cint.
Oh bestiaCome si può veder, se va invisibile?Tem.
Che altro sa far?Cint.
De le donne e degli uominiSa trasformar sempre che vuole in variiAnimali e volatili e quadrupedi.Tem.
Si vede far tutto il dì, nè miracoloÈ cotesto.Faz.
U’ si vede far?Tem.
Nel popoloNostro…Faz.
NarraciPur come?Tem.
Non vedete voi che subitoCh’un divien potestate, commissario,Notajo, pagator degli stipendii,Che li costumi umani lascia, e prendeliO di lupo, o di volpe, o di alcun nibbio?Faz.
Cotesto è vero.Tem.
E tosto che un d’ignobileGrado vien consigliere e segretario,E che di comandare agli altri ha uffizio,Non è vero anche che diventa un asino?Faz.
Verissimo.Tem.
Di molti che si mutanoIn becco io vò tacere.
Queste trasformazioni satiriche di uomini in animali sono accennate con somma in animali sono accennate con somma lepidezza, nè hanno minor grazia comica di quella che osservammo in Aristofane nelle Nuvole che prendono varie forme; se non che l’Italiano satireggia con più artificio i ceti interi, e non le persone particolari, come fa l’Ateniese.
Reca singolar diletto al filosofo che non arzigogola, cioè che ragiona con
sicurezza di dati, il rintracciar nelle commedie alcun materiale da supplire
alla storia stessa delle nazioni intorno alle alterazioni de’ costumi e
delle maniere ed all’epoche de’ loro abusi. Per questo aspetto mirava
Platone le Nubi, quando inviò tal favola al re Dionisio
per dargli a conoscere gli Ateniesi. Di questa utilità e diletto privansi
per certo spirito di superficialità molti Italiani che non curansi di
esaminare le ricchezze teatrali che posseggono, contenti di averne false e
superficiali notizie nelle opere oltramontane. E che può sapere, per
esempio, dell’indole dell’Italica commedia quell’Italiano meschino che
prende per iscorta la Poetica Francese del Marmontel, dove trovansi stabiliti principii contraddetti dal
fatto? Ecco ciò che con filosofica baldanza disse quel Francese
erudito degl’Italiani:
Un popolo che
per gran tempo ha posto il proprio onore nella fedeltà delle
donne
(io son pronto a mostrare ad un
bisogno a codesto Enciclopedista che tutta l’Europa, e singolarmente
i Francesi, hanno in certo tempo posto il proprio onore nella
fedeltà delle donne)
e nella vendetta crudele de’ tradimenti amorosi
(e pure dovea sapere l’autore del Belisario che non sono stati gl’Italiani che hanno più di
una fiata portato sulla scena a’ giorni nostri i Fajeli che per gelosia strappano il
cuore agli amanti delle Gabrieli di Vergy)
per necessità dovè inventare nelle commedie intrighi
pericolosi per gli amanti e capaci di esercitare la furberia de’
servi.
Pongasi da parte che tal maestro di poetica cìò
scrivendo non si ricordò de Greci e de’ Latini, i quali sono pieni, e sel
sanno anche i ragazzi, di questi intrighi e di questa furberia servile.
Osserviamo solo che questo principio è fabbricato sulla rena.
Le commedie da noi chiamate antiche, avute dal signor Marmontel in pensiero e non mai sotto gli occhi, sono, per quello che si stà narrando, frutti per la maggior parte del secolo XVI. Ora per verificare il principio fondato dal nomato autore che diede al teatro Cleopatra, bisognerebbe dimostrare che gl’Italiani in tal tempo fossero stati, come egli immagina, ad esclusione di ogni altro popolo, tutti gelosi e vendicativi. Ma io gli anfana a secco, e che non si è curato di bene osservare. Ariosto è il primo ad ismentirlo con tutte le sue cinque commedie; perchè in veruna di esse non si vede pesta di tali intrighi di gelosia e di vendetta funesta da lui urbanamente chiamata Italiana, per essersi dimenticato delle storie delle altre nazioni e della propria. Io gli presento un ritratto del costume italiano di quel tempo della maniera di conversare insieme l’uno e l’altro sesso somministratomi dalla favola del Negromante. Ecco quel che dice Cintio a Massimo lodatore della ritiratezza delle donne de’ tempi passati:
… Ma in quali case essere Sentite donne voi ch’abbiano grazia,Che tutto il dì non vi vadano i giovani,Essendo o non essendovi i loro uomini,A corteggiar?Mass.
Nè l’usanza è lodevole.Cotesto al tempo mio non era solito.Cint.
Doveano al vostro tempo avere i giovani,Più che non hanno a questa età, malizia.Mass.
Non già, ma bene i vecchi più accorti erano.Mi meraviglio che al presente gli uominiNon sieno affatto grossi come tortore.Cint.
Perchè?Mass.
Perchè hanno tutti sì buon stomaco.
È questa l’esagerata gelosia Italiana che corre di bocca in bocca tra’ Francesi? E con tal conoscenza de’ costumi italiani ha stabilito il suo filosofico principio della nostra commedia il signor Marmontel? Il filosofar sulle arti reca utile alla gioventù e lode al ragionatore; ma col fantasticar fu di esse con osservazioni mal digerite, si distrugge e non si edifica.
Continuando la ricerca di alcune bellezze e dell’artificio della favola del Negromante, osserviamo che il carattere di Mastro Giachelino furbo vagabondo viene sin dal principio dell’atto II enunciato da Nibio. Egli dice che avendo appena appreso a leggere e scriver male, ha l’arte di spacciarsi per filosofo, alchimista, medico, astrolago e mago, sapendo di tali cose quello stesso
Che sa l’asino e ’l bue di sonar gli organi.
Aggiugne che egli ed il maestro vanno come zingari
Di paese in paese, e le vestigieSue tuttavia dovunque passa, restanoCome de la lumaca, e per più simileComparazion, di grandine o di fulmine.
Ma si disviluppa affatto il di lui carattere quando egli stesso parla con Nibio, e svolge la sua economia furbesca nello scorticare differentemente i creduli suoi merlotti, con tal arte e grazia, che è da dolersi che la gioventù, la quale trascura la lettura di tali commedie, rimanga priva di tanti vezzi comici.
Or questo furbo così trincato si ha prefisso, giusta le sue regole economiche, di tosar prima a poco a poco Massimo e Camillo, e poi di scorticarli fin sul vivo e fuggirsi. Al primo egli promette di portare in casa una cassa con un cadavere per fare uno scongiuro; e per preparare la stanza alla finta evocazione, domanda molte ricche tele, argenti ed altre cose di prezzo. All’altro promette il possesso dell’ innamorata, purchè si faccia trasportare nella di lei casa in una cassa. Condiscende il Pocasale, e si fa chiudere. Questo maneggio in parte trapelato mette in agitazione Temolo e Fazio già insospettiti del Negromante che prima aveano cercato di guadagnare. Essi temono qualche male da questa cassa; e vedendola portare verso la casa di Massimo, si turbano.
Faz.
Ah che la cassa recanoChe hai detto!Tem.
Ov’è?Faz.
Vieni ove sono e vedila.Tem.
Chi la porta?Faz.
Un facchin.Tem.
Solo?Faz.
AccompagnalaPur quel suo servidore.Tem.
Ecci l’astrolago?Faz.
L’astrolago non ci èTem.
Non ci è?Faz.
No, dicoti.Tem.
Lascia far dunque a me.Faz.
Che vuoi far?Tem.
Eccola.Faz.
Che di tu? Ma con chi parlo io? Ove diavoloCorre costui? perchè da me sì subitoS’è dileguato? Io credo che farnetichi.
Ma no; Temolo non gli risponde, perchè non ha tempo d’istruirlo di ciò che ha pensato, e si ritira per lasciar venir fuori Nibio con la cassa, indi per allontanarlo di là inventa una fola verisimile, e l’accredita con patetica vivezza. Egli vien fuori esclamando:
O terra scelerata!Faz.
Di che diavoloGrida costui?Tem.
Non ci si può più vivere.Tutta è piena di traditor.Faz.
che gridi tu?Tem.
E d’assassini.Faz.
Chi t’ha offeso!Tem.
O poveroGentiluomo!Faz.
Mi par che tu sia…Tem.
O FazioGran pietà!Faz.
Che pietade?Tem.
O caso orribile!Non m’ho potuto ritener di piangereDi compassione.Faz.
Di che?Tem.
Aimè d’un poveroForastier, ch’ho veduto or ora uccidere.D’una crudel coltellata.
Con tal preludio e co’ meriti a Nibio non ignoti del suo padrone, non è molto ch’egli creda che Mastro Giachelino, secondo il racconto di Temolo, sia stato ucciso. Egli vuole accorrere a vederlo; Temolo gl’insegna la via, e poi soggiugne,
Ma che voglio insegnar? Non è possibileErrar. Va dietro agli altri; grandi e piccioliV’accorron tutti.Nif.
O Dio!Tem.
Non posso credereChe il trovi vivo.
Nibio parte precipitosamente. Temolo per cogliere il frutto della sua astuzia, e distruggere i disegni dell’astrolago, in vece di far entrare la cassa nella casa di Massimo, la fa condurre in quella di Fazio. Torna poi Nibio arrabbiato per essere stato beffato, e cerca della cassa. Graziosissima è la seconda burla che riceve. Fazio gli dice che il facchino l’ha portata in dogana, cosa verisimile che spaventa Nibio d’altra sorte, e lo sbalza verso la dogana; colpi maestrevoli tanto più artifiziosi e piacevoli quanto più naturali. Un vivo disordine e movimento reca all’azione questa cassa condotta in casa di Fazio. Camillo che v’è rinchiuso intende il secreto dell’unione degli animi di Cintio e Lavinia, e fugge in farsetto per riferirlo a Massimo. Cintio sommamente afflitto pel caso va in cerca di Camillo per pregarlo di tacere. Fazio gli dice che faccia conto che Massimo abbia già saputo il fatto, essendo iti a lui Camillo ed Abondio. Sono iti? dice Cintio,
Faz.
Sì sono.Cint.
Io son spacciato, io son morto, apriti,Apriti, perdio, terra, e seppelliscimi.Ogni parola dà nuovo moto, e nuovo calore alla favola. Cintio disperato pensa a fuggire (egli dice)
Tanto lontano che giammai più MassimoNon mi rivegga: aspettar la sua colleraNon voglio: addio: vi raccomando, Fazio,La mia Lavinia.
Fermiamoci qualche istante in questo punto dell’azione. Se non è questa la
forza (vis) comica
da Cesare desiderata in Terenzio, e qual sarà mai? Dessa è appunto, la
quale, a quel che io ne penso, non è altra cosa, se non che
un movimento proprio della comica poesia, il quale
crescendo per gradi senza intermissione infonda e conservi
l’attività ne’ caratteri, e la vivacità nella
favola
a.
Diede Cesare a tal movimento il nome di forza per
contrapporla alla languidezza mortal veleno della scena: vi aggiunse comica, per dinotare, che tale esser
debba e nelle situazioni e ne’ colpi di teatro e negli
affetti, quale alla commedia si convenga; e con ciò la distinse da quella
forza più energica richiesta nelle passioni e ne’ caratteri della
tragedia.
Chi ripose tal forza comica nella copia de’
sali e de’ motteggi, non parmi che si apponesse. Una languidissima
favola non mai avrà la forza accennata da Cesare, per quanto sia cospersa di
sali e motti graziosi. I pulcinelli, gli arlecchini, i graziosi del teatro
spagnuolo, con tutte le loro possibili lepidezze, non credo che
ispirerebbero forza e calore a una favola fredda e dilombata. Della stessa
maniera una tragedia languida, lenta, snervata, sarrà sempre priva di forza tragica, tuttochè abbondasse di gravi sentenze
politiche e morali. Direi, che meno di altri critici e precettori di poetica
si fosse allontanato dalla mente di Cesare il prelodato signor Marmontel, il quale pose la
forza comica ne’
gran tratti che sviluppano i caratteri, e
vanno a cercare il vizio sino al fondo dell’anima
; se
l’arte di cogliere questi grandi tratti fosse mancata a Terenzio. Ma è
troppo noto, che il pregio maggiore di questo Cartaginese fu appunto il
sapere disviluppare i caratteri, e cercarne le tinte sino al fondo
dell’anima. Cesare dunque ad altro ebbe la mira nel richiedere in lui la
forza comica; e certamente vi desìderava quel piacevole e comico calore e
movimento che anima la favola, e tiene svegliato lo spettatore. Si appose
dunque Madama Dacier quando nelle note sulla vita di
Terenzio disse.
J’ai cru que par ce vis comica Cesar ne
vouloit pas tant parler des passions
(che
era l’avviso del di lei padre)
que de la vivacitè de l’action et du noeud des
intrigues.
Or questa forza comica, questa vivacità piacevole dell’azione noi ravvisiamo appunto nel Negromante. Nulla v’ha di freddo, nulla di superfluo. La piacevolezza aumenta a misura che l’azione s’inviluppa, e va crescendo sino all’ultimo grado comico lo scioglimento. Nè dee recare stupore, che per questa parte rimanga il comico. Latino superato dall’Italiano. Terenzio, poco o molto che il facesse, piegava il proprio ingegno a seguire le greche guide; e l’attenzione che dava a spiegare le idee altrui, gli toglieva quel portamento originale, libero, franco, vivace, che l’Ariosto inventore manifesta ad ogni trattoa.
Questa favola fu rappresentata in Roma a’ tempi di Leone X, che la richiese all’autore, il quale nel rimettergliela l’accompagnò con una lettera de’ 16 gennajo del 1520. Or questa data, e le parole del secondo prologo di tal commedia, ci danno l’epoca delle prime commedie dell’Ariosto. Ivi si dice:
… Questa nuova commedia.Dic’ella aver avuta dal medesimoAutor, da chi Ferrara ebbe di prossimoLa Lena, e già son quindici anni, o sedici,Ch’ella ebbe la Cassaria e li Suppositi:Oddio! con quanta fretta gli anni volano!
Essa, parimente si tradusse in prosa francese, e s’impresse in Parigi nel medesimo secolo, cioè assai prima che vi si conoscesse il teatro spagnuoloa.
La Scolastica. Quest’ultima commedia tessuta intieramente da Lodovico fu da lui verseggiata soltanto sino alla quarta scena dell’atto quarto, e terminata poi da Gabriele fratello del poeta. Non era stata se non abbozzata dal primo autore (secondo il Pigna ne’ Romanzi) e pure si ravvisa in essa la diversità della seconda mano. Anche Virginio figliuolo dell’autore fu indotto a lavorarvi, e da prima tutta la ridusse in prosa, indi tornò a scriverla in versi; ma il di lui lavoro si è perdutoa.
Eccone il soggetto. Eurialo scolaro in assenza di Bartolo suo padre riceve in casa la sua innamorata Ippolita facendola passare per figlia di messer Lazzaro cattedratico che si aspettava, e che per notizie sopravvenute si sapeva di non dover più venire. La rivoluzione nasce graziosamente dal ritorno improvviso del padre di Eurialo, da un famigliare della padrona d’Ippolita, e dall’arrivo di messer Lazzaro. Il servo Accursio e Bonifazio amico di Eurialo vanno alla meglio rimediando agli sconcerti. Venendo messer Lazzaro, il quale non conosce personalmente l’amico Bartolo, Bonifazio ne prende il nome, e come tale lo riceve colla famiglia nella propria casa. Regge così la macchina finchè Bartolo, che si trova in istrada, non vede uscir Bonifazio insieme con Lazzaro, e non sente che questi dà all’altro il nome di Bartolo. Si trova introdotto in questa favola un frate teologo con cui Bartolo si consiglia. Costui trent’anni prima avea ricevuto in deposito molti beni da un suo amico che morì, perchè gli rendesse alla di lui moglie e figlia. Bartolo si fe sedurre da quell’avere, nè curò di cercare di queste infelici, ed al fine dopo tanti anni scorsi pensa a fare un pellegrinaggio per andarne in traccia, e per espiar la colpa. Il buon teologo (i falsi teologhi non pregiudicano ai veri e virtuosi che nel consigliare hanno soltanto la mira al giusto) l’esorta a risparmiarsi l’incomodo del viaggiare essendo vecchio, ed a consegnarne a lui le spese; e quanto al ritener le altrui ricchezze depositate, conchiude che si potrà commutare in qualche opera pia, non essendovi obbligo sì grande,
Che non si possa scior con l’elemosine.
Trovasi in questa Commedia più d’una imitazione di Terenzio. Simile alla risposta data dal servo Davo a Miside nell’Andria è ciò che quì dice Accursio:
Ma non sapete voi che Messer ClaudioMeglio dirà che non ci son, credendosiDi dir la verità, che conoscendosiBugiardo? e meglio le parole vengonoChe si partan dal cuor che quella ch’escanoSol dalla bocca all’intenzion contraria?
L’
olim istuc olim cum ita animum induxti
tuum
, è ancora imitato nell’atto IV. Un’altra imitazione
Terenziana si scorge nell’allegrezza di messer Claudio. Ma degna di notarsi
è singolarmente con quanta verità parlino in essa gl’innamorati. Nell’atto
II una vecchia che conduce Ippolita ad Eurialo, l’esorta ad esser prudente,
ed a ben fingere il personaggio di figlia di messer Lazzaro. La giovine
promette; ma appena dice Accursio
Ecco la casa là del nostro Eurialo, che trasportata dice,O cuor mio caro, o vita mia, difficileSarà potermi tener di non correreAd abbracciarlo;
e s’incammina con tutta fretta. Sono queste le pennellate maestrevoliche di un sol tratto spiegano l’intensità dell’affetto. Ella non cessa di rampognar la tardanza della vecchia coll’impazienza propria della gioventù e dell’amore.
Altro non aggiungeremo intorno alle commedie dell’Ariosto, se non che egli è sì ingegnosamente regolare e semplice nell’economia delle favole, sì vivace grazioso e piacevole, sì alle occorrenze patetico e delicato ne’ caratteri e negli affetti, sì elegante e naturale nello stile, e con tanta aggiustatezza e verità dialogizza senza aggiungnere una parola che non venga al proposito; che stimo che mai non termineranno con lode la comica carriera que’ giovani che allo studio dell’uomo e della società, per la quale vogliono dipingere, e alla ragionata lettura de’ frammenti di Menandro e delle favole di Terenzio e di Plauto, non accoppino principalmente quella dell’Ariosto.
Si novera tralle prime commedie di questo secolo la Calandra del
cardinal Berardino Dovizio
da Bibbiena terra del Casentino, nato nel 1470 e morto non senza sospetto di
veleno l’anno 1520. Un pieno applauso riportò questa favola nelle replicate
rappresentazioni che se ne fecero in Italia, ed anche in Francia. Apostolo
Zeno narrò col seguente ordine le recite della Calandra in
Italia: la prima in Roma a’ tempi di Leone X; la seconda in Mantova l’anno
1521; la terza di nuovo in Roma quando vi venne Isabella d’Este Gonzaga
marchesa di Mantova; e l’ultima volta in Urbinoa. Probabilmente però la
prima di tutte le recite fu quella di Urbino, come ben riflette l’insigne
Storico della nostra Letteraturab; giacchè il Castiglione dice di questa recita che non
essendo ancor giunto il prologo del Bibbiena, aveane egli composto uno, la
qual cosa può indicare che la di lui commedia
fosse scritta di recente, anzi non del tutto compiuta. Le parole con le
quali si conchiuse l’argomento che vi e apposto dopo il prologo, indicano
che la rappresentazione non si faceva in Roma, ma in un’altra città. Nel
parlarsi de’ gemelli si dice che essi sono in Roma, e che
gli spettatori vedranno comparirli nella propria loro città.
Nè crediate però
(si
soggiungue)
che per negromanzia sì presto da Roma vengano quì….
perciocchè la terra che vedete quì
(cioè
nella scena)
è Roma, la quale già esser soleva sì ampia…. e ora è sì
picciola diventata, che, come vedete, agiatamente cape nella città
vostra.
L’altra recita si fece in Roma alla presenza di
Leone X, per quel che accenna il Giovio nella di lui Vita,
e le magnifiche scene furono opera di Baltassarre Peruzzi Sanesea;
ed allora fu che v’intervenne
anche la nominata marchesa di Mantova, costando da una delle lettere del
Castiglione conservate in Mantova che ella fu in Roma nel 1514, cioè su i
principii del pontificato di Leone Xa. La terza volta seguì
in Mantova avanti alla medesima marchesa nel 1521, siccome afferma il
signore Zeno coll’autorità di Mario Equicola. Fu poi rappresentata in Lione
nel 1548 in presenza del re Errico II e della regina Caterina Medici dalla
nazione Fiorentina, e quei sovrani distribuirono agli attori un regalo di
ottocento doppie, e ciò anche accadde più dì un secolo prima che i Francesi
conoscessero Castro, Lope e Calderon.
Si premette all’azione un prologo ed un argomento. Si espone nel primo la
qualità della favola, ed in fine si dà
una
graziosa discolpa dell’accusa che si potria fare all’autore di essere ladro di Plauto.
A Plauto
(si dice)
staria molto bene lo essere rubato, per tenere il moccicone
le cose sue senza una chiave, senza una custodia al
mondo.
Tuttavolta con giuramento si aggiugne di non
averglisi furato cosa veruna;
e che ciò sia vero, si
cerchi quanto ha Plauto e troverassi che niente li manca di quello
che aver suole
. Coll’argomento poi narrato da un altro
attore viene l’uditorio istruito che la favola si aggira sulle avventure di
due gemelli nati in Modone, l’uno maschio chiamato Lidio, l’altra femmina
per nome Santilla, di forma e di presenza similissimi, i quali dalla presa
fatta da’ Turchi della loro patria rimangono divisi sin dalla fanciullezza,
e per varii casi, senza che l’uno sappia dell’altro, giungono in Italia,
apprendono la lingua del paese, e Santilla vi dimora in abito virile col
nome del fratello. Dopo alcuni scambiamenti avvenuti per l’amorosa
follia di Fulvia moglie del dissennato Calandro
(onde la favola prende il nome) i fratelli lietamente si riconoscono.
Calandro che ha veduto Lidio vestito da femmina quando visitava la moglie,
se n’è anch’egli mattamente innammorato.
Lo stile puro ed elegante della Calandra non può essere nè più grazioso nè più proprio per gli personaggi che vi s’imitano. I caratteri vi sono dipinti con brio e verità, e nelle passioni mediocri che vi si maneggiano si manifesta in bel modo la ridicolezza che ne risulta. Soprattutto è dipinta al vivo la scempiaggine di Calandro che rassomiglia al Tofano del Boccaccio. Piacevoli sono i propositi che tiene coll’astuto Fessenio che se ne burla e l’aggira. Egli l’ha persuaso ad andar chiuso in un forziero a vedere la sua fanciulla; egli in altra scena passa più oltre, e gli dà a credere che possa morire e resuscitare a sua posta, ed in tal guisa gliene insegna il modo:
Fes.
Tu sai Calandro, che altra differenza non è dal vivo al morto, se non in quanto che il morto non si muove mai e il vivo sì; e però quando tu faccia come io ti dirò, sempre resusciterai.
Cal.
Di su.
Fes.
Col viso tutto alzato al cielo si sputa in su, poi con tutta la persona si dà una scossa, poi si apre gli occhi, si parla, e si muove i membri: allor la morte si va con Dio, e l’uomo ritorna vivo. E stà sicuro, Calandro mio, che chi fa questo, non è mai morto.
Calandro contentissimo pruova a morire e rivivere col bel segreto. Fessenio gli dice che guardi a farlo bene.
Cal.
Tu ’l vedrai. Or guarda: eccomi.
Fes.
Torci la bocca; più ancora, torci bene, per l’altro verso; più basso… Oh oh, or muori a posta tua. Oh bene. Che cosa è a far co’ savii! Chiavria mai imparato a morir sì bene come ha fatto questo valentuomo, il quale muore di fuora eccellentemente? Se così bene di drento muore, non sentirà cosa che io gli faccia, e conoscerollo a questo. Zas: bene. Zas: benissimo. Zas: ottimo. Calandro, o Calandro, Calandro?
Cal.
Io son morto, io son morto.
Fes.
Diventa vivo, diventa vivo: su, su, che alla fe tu muori galantemente. Spunta in su.
Ed ecco che i lavacceci italiani hanno la fisonomia de’ Pourceaugnac francesi, nè è a noi mancato un pennello nazionale che abbia saputo ritrarli un secolo e mezzo prima del Moliere.
Ma sebbene tutto sia comico e piacevole in questa favola, e tutto lontano
dalla decantata gelosia e vendetta Italiana, non a torto
però il dotto Lilio Gregorio Giraldi nel confessare che abbondi di sali e
facezie, affermò che
mancava d’arte
.
L’intrigo
non è fra quelli che ben concatenati
prestano all’azione forza ed interesse. In molte parti si desidera quel
verisimile che accredita le favole sceniche e chiama l’attenzione dello
spettatore. Non si vede, per darne un esempio, nell’atto I la ragione per
cui Fulvia che altre volte ha veduto in casa Lidio vestito da femmina,
pretenda poi che Ruffo per via d’incanti, lo trasformi in femmina per
l’istesso intento; e perchè non usa del modo più agevole già praticato?
Allora che nell’atto V i fratelli di Calandro ci hanno colto Lidio e Fulvia
insieme, non si vede chiaro come nel tempo che si aspettano i fratelli di
lei, sieno gli amanti così mal custoditi, che possa a Lidio sostituirsi
Santilla per far rimaner Calandro scornato, e riuscire la riconoscenza de’
gemelli;
Quodcumque ostendis mihi sie, incredulus odi.
Meglio condusse il Boccaccio la novella di Tofano, in cui si vede un’
avventura simile e che suggerì al Moliere
la farsa di George Dandin. Il
pudore poi richiesto ne’ moderni colti teatri vuol che si schivino gli
amorazzi di Fulvia; come altresì le scene equivoche della natura di quella
di Samia chiusa con Luscioa; poichè quivi il Dovizio
imita anzi l’oscenità di qualche passo della Lisistrata di
Aristofane, che la piacevolezza di Plauto. In oltre Fessenio che incomincia
l’atto III dicendo
Ecco, spettatori, le
spoglie
, segue i nominati comici antichi, ma si allontana
anche per questa ragione da Terenzio universalmente approvato, il quale non
si rivolge mai agli spettatori. Tutte queste cose delle quali niuna se ne
scorge nelle commedie dell’Ariosto, rendono a’ miei sguardi il gran poeta
Ferrarese di gran lunga superiore al cardinal di Bibbiena nella poesia
comica.
Quasi al medesimo tempo scrisse le sue commedie il celebre Segretario Fiorentino Niccolò Machiavelli nato in Firenze nel 1469, e morto nel 1547. Egli compose la Mandragola, la Clizia, e l’Andria.
La Mandragola. La freschezza e la vivacità del colorito di
questa favola, se l’oscenità dell’argomento non la tenesse lontana da’
moderni teatri, potrebbe rendere accorti i forestieri di quanto abbiano
gl’Italiani preceduto la nazione Francese nella bella commedia di carattere.
L’autore vi morse alcuni viventi cittadini, le orme calcando di Aristofane.
Volle ancora esporvi alla berlina l’abuso fatto da un tal Timoteo del
credito dovuto a certo stato, che per tanti secoli si è rispettato, e
quantunque se ne potesse con copiosi esempi giustificar la pittura, pure ad
onor del tutto consiglia la prudenza a risparmiar la parte mal sana, e a non
motteggiarla in iscena, affinchè dagli inesperti o maligni non se ne
traggano scandalose conseguenze generali. Essa non pertanto allora si fece,
e si rappresentò in Firenze
contal plauso
generale, che giusta il racconto di Paolo Giovioa, «i medesimi cittadini
proverbiati, e punti altissimamente nella favola di Nicia soffrirono con pazienza l’ingiuria, e la marca che gli
segnava, in grazia della mirabile urbana piacevolezza; e Leone X che da
cardinale l’avea veduta nella patria, volle goderla anche in Roma
essendo papa, e v’invitò gli attori stessi, e vi fe trasportar anche
l’intero apparato comico, col quale erasi in Firenze
rappresentata»
. Il Giovio chiama Nicia questa
favola, perchè n’è il personaggio principale il balordo messer Nicia
Calfucci, il quale cade nella sciocchezza di dare alla bella sua moglie una
pozione di mandragola colle circostanze che l’accompagnano, per averne un
figliuolo maschio. Un prologo in versi serve a dar conto della qualità della
scena, dell’azione, e
degl’interlocutori. Vi si
dice fralle altre cose:
La favola Mandragola si chiama:La cagion voi vedreteNel recitarla, com’io m’indovino.Non è il compositor di molta fama;Pur se voi non ridete,Egli è contento di pagarvi il vino.
Nè vano è questo vanto della picevolezza che promette; che ridicola essa
riesce moltissimo per tutte le sue parti. Per conoscere messer Nicia che
avrà la ventura di aver de’ figliuoli, vedasi uno squarcio della seconda
scena dell’atto I. Ligurio parassito gli dice, che egli forse avrà briga di
andar colla moglie a’ bagni, perchè non è uso
a perdere
la cupola di veduta
.
Nic.
Tu erri. Quando io era più giovine, io sono stato molto randagio, e non si fece mai la fiera a Prato, che io non vi andassi, e non ci è castel veruno all’intorno, dove io non sia stato; e ti vo’ lire più là; io sono stato a Pisa e a Livorno, o và!
Lig.
Voi dovete aver veduta la carrucola di Pisa.
Nic.
Tu vuoi dire la verrucola.
Lig.
A sì, la verrucola: A Livorno vedeste voi il mare?
Nic.
Ben sai ch’io il vidi.
Lig.
Quanto è egli maggior che Arno?
Nic.
Che Arno? Egli è per quattro volte, per più di sei, per più di sette, mi farai dire; e non si vede se non acqua, acqua, acqua!
Nell’undecima scena dell’atto III si trovano a maraviglia espresse le apprenti ragioni usate dagl’impostori seduttori per indurre la credula innocenza a cadere in fallo. Tutti i discorsi dello scempio Dottore
Che’ imparò in sul Buezio leggi assai,
hanno somma grazia, e ne rilevano la goffaggine senza bisogno di sforzo veruno istrionico per far ridere, come non rare volte può notarsi ne’ migliori comici stranieri. Soprattutto è da vedersi il di lui carattere in ciò che dice di sua moglie nella scena ottava dell’atto IV, quanti lezii ha fatto questa mia pazza ecc. Ligurio anche graziosamente motteggia sull’avventura di Nicia, stando egli in aguato e Nicia stesso e Siro e Frate;Frate Timoteo travestiti per cogliere alcuno giovinaccio spensierato per lo bisogno che ne hanno:
Lig.
Non perdiamo più tempo quì. Io voglio essere il capitano, ed ordinare l’esercito per la giornata. Al destro corno fia preposto Callimaco, al sinistro io, tralle due corne starà qui il dottore; Siro fia retrogrado per dare sussidio a quella banda che inclinasse; il nome fia San Cocù.
Nic.
Chi è san Cocù?
Lig.
E il più onorato santo che sia in Francia.
L’atto IV si conchiude colle parole di Fra Timoteo indirizzate alli spettatori, le quali a parer mio distruggono l’illusione teatrale sino a questo punto mirabilmente sostenuta. Aristofane e Plauto seducevano gli eruditi comici del secolo XVI.
Se si attenda alla felicissima dipintura de’ caratteri introdotti che non può
migliorarsi, e all’ardita satira de’ licenziosi costumi allora dominanti, e
a i sali e alle grazie dello stile; noi converremo di buon grado col celebre
conte Algarotti che in essa ritrova
la eleganza del dire
di Terenzio, e la forza comica di Plauto. Ci scommetterei
(egli aggiugne)
che avrebbe mosso a riso l’istesso Orazio, a cui non
garbeggiavano gran fatto i sali Plautini
. Essa fu
tradotta in francese dal celebre Giambatista Rousseau,
encomiata per l’intreccio e per lo vero comico dal signor di Voltaire, e ammirata da m. Du Bos e da non pochi altri bravi
letterati oltramontani.
Ma intanto che valentuomini di prima nota Italiani e Oltramontani ammirano
nel Machiavelli, oltre all eleganza del dire, vivacità di pennello e forza
comica, il sign. Giovanni Andres dice delle di lui
commedie che
peccano alle
volte in lentezza e in languore
. A chi daranno fede i
giovani? A codesto esgesuita che le chiama languide, o a que’ grandi uomini
che vi riconoscono, segnatamente nella Mandragola, forza
comica e vivacità? A lui no certamente, perchè non ne adduce una ragione
vera che convinca. Languide esse sono per lui,
per
volersi l’autore adattare al gusto allora regnante e trasportare al
moderno idioma i complimenti, le frasi, e l’espressioni de’ comici
latini
. Questa osservazione può adattarsi alla Mandragola? Vedesi forse in essa sì grande studio di
rendere italiane le maniere latine? In niun luogo. Pure se ciò fosse, di
grazia potrebbe tale studio essere necessaria e vicina cagione di
languidezza? Altre immediate sorgenti che non si scorgono nella Mandragola, sogliono cagionar nelle favole sceniche lentezza e
languore. Ma sapere abbigliar di moderno le antiche favole, sarebbe in una
favola un pregio di più che renderebbe quegli antichi bei
tratti naturali sempre più interessanti colla freschezza
del colorito, e per conseguenza allontanerebbe sempre più la favola dalla
languidezza. Ciò che dice poi dell’oscenità di tali commedie potrebbe sì
bene esser questa giusto motivo di vietarne a’ fanciulli la lettura, ma non
già una pruova contro la loro prestanza. Oltrecchè starà bene il riprendere
le laidezze della Mandragola a chi si fa prolissamente il
panegirista dell’osceno libro della Celestina ruffiana
famosa? Si vede bene che il favellar di gusto e poesia drammatica antica e
moderna non è fatto per ogni sorta di antiquarii.
La Clizia. È questa una libera imitazione o una bella copia
della Casina di Plauto o di Difilo. Nel prologo che è in
prosa come tutta la commedia, lo confessa l’autore stesso. Egli dice che un
caso anticamente avvenuto in Grecia, è poi seguito anche in Firenze. E
volendo questo nostro autore l’uno delli due
rappresentarvi, ha eletto il Fiorentino…
Prendete intanto il caso seguito in Firenze, e non aspettate di
riconoscere o il casato o gli uomini, perchè l’autore per isfuggire
carico ha convertiti i nomi veri ne’ nomi finti
. Passa
indi a discolparsi, se ad alcuno paresse esservi cosa men che onesta, benchè
egli non creda che vi sia; ma quando pur vi fosse, dice,
sarà in modo che queste donne potranno senza arrossire
ascoltarla
.
Parmi che dalla prima scena possa rilevarsi che si sia tal commedia
rappresentata intorno al 1506. In narrando Cleandro a Palamede quando ed in
qual modo venne in casa la Clizia, dice:
Quando dodici
anni sono nel 1494 passò il re Carlo per Firenze, che andava con un
grande esercitò all’impresa del regno, alloggiò in casa nostra un
gentiluomo della compagnia di Monsignor di Fois
chiamato Beltramo di Guascogna.
Dalla terza scena poi
dell’atto II, in cui altercano Sofronia e Nicomaco, parmi che si vegga che
l’autore compose
prima la Mandragola. Nicomaco propone alla moglie di prendere per arbitro
de’ loro domestici dispiaceri sulle nozze di Clizia, qualche religioso.
A chi andremo?
Dice Sofronia.
Nic.
È non si può ire a altri che a F. Timoteo, che è nostro confessore di casa, ed è un santarello, ed ha già fatto qualche miracolo.
Sof.
Quale?
Nic.
Come quale? Non sai tu che per le sue orazioni Monna Lucrezia Calfucci che era sterile, ingravidò?
Questo motto non riuscirebbe grazioso e vivace, se per la passata commedia non fosse nota la novella di Nicia.
Tralle dipinture lodevoli di questa favola ci si presentano i bellissimi ritratti del buon padre di famiglia e del traviato coloriti egregiamente nella quarta scena dell’atto II delineati da Sofronia nella persona stessa di Nicomaco; veri, naturali, senza massime generali, senza sforzi di spirito, senza affettazioni, senza tirate istrioniche da Pantalone.
Calca l’autore, come si è detto, le tracce della Casina latina; ma senza
dubbio ne migliora l’economia, e ne accresce la verisimiglianza,
specialmente nello scioglimento colla venuta del padre di Clizia. Il
Machiavelli ha fatto con molta felicità della Casina quello che Plauto
stesso e Cecilio e Nevio e Terenzio ed Afranio fecero delle favole greche. E
sarebbe a desiderare che nella nostra chiamata illuminata età, in vece di
scriversi scempiate traduzioni delle favole Plautine, se ne facessero sulle
orme del Machiavelli fresche imitazioni libere che tirassero l’attenzione
appunto coll’adattarvisi acconciamente l’espressioni latine ai costumi
moderni. I Francesi stessi e la conobbero e la pregiarono e ne favellarono
con senno e buon gusto, ancor prima di conoscere i drammatici spagnuoli.
E latina bona
(disse
Balsac
a)
hetruscam fecit meo judicio non
malam. Clitia siquidem illius eadem est quae
Plauti Casina
. Alcune cose (egli
soggiugne) fedelissimo interprete ne rendette quasi da verbo a verbo, altre
ne corresse con arte, molte ne imitò con singolare felicità; qualcheduna
però ne trascrisse
aut impudenter aut
perversè
. E per esempio di ciò che ne dice in ultimo luogo,
adduce il passo della scena quinta dell’atto II della Casina,
Quid istuc est, quicum
litigas
. Olympio, che il Machiavelli
traduce ed imita nella sesta dell’atto III della sua Clitia:
Pir.
Prima che io facessi ciò che voi volete, io mi lascerei scorticare.
Nic.
La cosa va bene. Pirro stà nella fede. Che hai tu? Con chi combatti tu, Pirro?
Pir.
Combatto ora con chi voi combattete sempre.
Nic.
Che dice ella? che vuole ella?
Pir.
Pregami che io non tolga Clizia per donna.
Nic.
Che l’hai tu detto?
Pir.
Che io mi lascerei prima ammazzare che la rifiutassi.
Nic.
Ben dicesti.
Pir.
Se io ho ben detto, io dubito non avere mal fatto; perchè io mi sarò fatta nemica la vostra donna e il vostro figliuolo e tutti gli altri di casa.
Nic.
Che importa a te? Stà ben con Cristo, e fatti beffe de’ santi.
Pir.
Si, ma se voi morissi, i santi mi tratterebbero assai male.
Questa ultima espressione stà ben con Cristo parve a Balsac meno castigata; e veramente non può negarsi che avrebbe potuto esporsi con minore impudenza o irriverenza. Non pertanto la veste allora addossata in Italia alla Casina, ha la foggia, il colore, i fregi, tutto vivace e moderno, e sì ben rassettata, che par nativa di Firenze, e non della Grecia; per le quali cose tira l’attenzione di chi legge o ascolta, e l’interesse che risveglia la preserva dalla pretesa lentezza e languore.
Questa commedia in prosa è accompagnata da sei corte canzonette. La prima va innanzi al prologo, ed è cantata da una ninfa e da due pastori; le altre cinque ancor della prima più corte son poste per tramezzi nella fine di ciascun atto. Adunque coloro che pretendono, sol perchè l’asserirono la prima volta, trasformare le pastorali del XVI secolo in opere in musica, per sapere che vi furono poste in musica le canzonette de’ cori, dovrebbero contare ancora tralle opere musicali questa commedia in prosa del Machiavelli per la medesima ragione; la qual cosa sarebbe una rara scoperta del secolo XVIII. Guardici però il cielo che ancor questo sproposito alcun dì non abbia a venire in moda!
Oltre a questa libera imitazione della Casina si provò il Machiavelli a far pure una pretta traduzione dell’Andria di Terenzio, la quale parmi che per la prima volta siesi impressa nell’edizione di Parigi delle di lui opere, ch porta la data di Londra del 1768. Se questo celebre Segretario Fiorentino ignorò il latino linguaggio, come si è preteso, certamente ciò non apparisce nè dalle sue riflessioni politiche sulle storie di Tito Livio, nè dall’imitazione della Casina di Plauto, nè da questa traduzione dell’Andria di Terenzio.
Mi si permetta di fermarmi anche un poco su i censori delle commedie del
Machiavelli. Dalla
lentezza e languore
attribuita loro dal signor Andres, che è la frase che egli
adopra per intingolo perpetuo in parlar del teatro italiano, apparisce che
egli parlar volle (il dirò pure) di una provincia che non aveva visitata.
Più grazioso è poi il giudizio che ne diede il chiarissimo Bettinelli.
Ben è Curioso
(egli
dice)
il leggere le lodi date da molti a queste commedie, come se
fosser l’ottime del teatro italiano, essendo in vero lor primo
merito lo stil fiorentino colle più licenziose e triviali
profanazioni del costume onesto.
Curioso oracolo
veramente. Non hanno dunque
condo lui altro
merito le commedie del Machiavelli che lo stil fiorentino?
Ed intanto mille o duemila altre favole col medesimo pregio dello stil
fiorentino fanno sbadigliare, e giacciono seppellite sotto la polvere delle
biblioteche. Ma di grazia incresce al gran censore Ignaziano l’oscenità di
esse? E perchè parlando della rappresentazione che fecesi in Roma della Calandra del cardinal da Bibbiena (incomparabilmente o
almeno altrettanto licenziosa che la Mandragola) egli dice
graziosamente che
i papi, i cardinali e i prelati non si
facevano scrupolo di assistere a quelle licenziosità di gusto
antico, perchè consecrate quasi da’ Greci e da’ Latini
.
Il profano Machiavelli non poteva entrare a parte di questa medesima
indulgenza? E lasciando da banda l’oscenità comune ad entrambe, pensa egli
mai che il merito della Calandra sorpassasse quello della
Mandragola? S’ingannerebbe di molto. L’arte, la
condotta e la forza comica dell’azione, l’energia e la vivacità del colorito
ne’
caratteri tratti bellamente dal vero, una
dilettevole sospensione, una piacevolezza comica non fredda, non insipida,
non instentata, ma spiritosa, salsa, naturale, obbligano gl’imparziali a
distinguere le commedie del Machiavelli dalle intere comiche librerie, ed a
collocarle tralle ottime del teatro italiano di quel tempo felice. Per
rendere giustizia ai talenti dello stesso ab. Bettinelli io son persuaso che
egli ne conosce più di noi i pregi. Ma egli può noverarsi tra certi eruditi,
i quali non sapendo deferire se non a se stessi ed a’ loro amici e lodatori,
sogliono talvolta censurare più per singolarizzarsi allontanandosi dal
l’avviso comune, che per intera persuasione e per amor del vero e del bello
che gli determini ne’ loro giudizii.
Intorno a cinquanta altri letterati non volgari produssero in tal secolo regolar e piacevoli commedie, alcuni in prosa ed alcuni in versi, le quali forse passano il numero di centotrenta. Noi faremo menzione della maggior parte di esse senza trattenerci lungamente su di esse. Non perchè tutte non ci presentino qualche pregio da osservarsi, chè ingegnose esse sono e in grazioso e puro stile da’ Toscani e non Toscani composte; ma solo perchè non permette tante minute ricerche e continue pause il nostro racconto che abbraccia tante età e nazioni e tanti generi di drammi. Ci arresteremo dunque in alcune più notabili per qualche ragione che più interessi o istruisca.
Tra primi nostri letterati che ci arricchirono di buone commedie, contisi il nobilissimo poeta Ercole Bentivoglio per nascita Bolognese e per domicilio Ferrarese, essendo stato di anni sette e qualche mese nel 1513 condotto del padre alla corte del duca Ercole d’Este suo suocero. Questo illustre latterato morto in Venezia d’anni sessantadue nel 1572 a, che nella satira e nella commedia si avvicinò di molto al principe de’ nostri poeti Lodovico Ariosto suo amico, compose tre commedie il Geloso, i Fantasmi e i Romiti, ed una tragedia intitolata Arianna mentovata dal Ghilini, le quali probabilmente si rappresentarono nel teatro ducale di Ferrara. Il Geloso le i Fantasmi videro la luce delle stampe nel 1545; ma de’ Romiti e dell’Arianna è rimasto a noi il solo nome.
Il Geloso. Avrebbe mai il precettore di Poetica Francese, nel parlar della gelosia e
vendetta delle commedie italiane, avuto in pensiere questa favola?
Quì in fatti si presenta un vecchio medico geloso ingiustamente della
moglie. Quegl’
intrighi pericolosi per gli amanti atti ad
esercitar la furberia de’ servi
, i quali non abbiamo
sinora trovati nelle commedie dell’Ariosto, del Bibbiena e del Machiavelli,
regneranno per avventura come nel proprio elemento in questa favola del
Bentivoglio che di proposito dipinge un geloso? Vediamolo.
Ermino incerto della fedeltà della moglie, per assicurarsene finge un’ assenza di un giorno o due, e soccorso da uno che egli crede mercatante, si traveste, appiccasi al mento una finta barba nera per coprir la sua ch’è bigia, e va a mettersi in aguato nell’uscio di dietro della propria casa. Il creduto mercatante ch’è un furbo, per ajutar Fausto giovine innamorato di Livia nipote del medico, lo consiglia a travestirsi colle vesti che gli ha lasciate Ermino, perchè senza difficoltà venga nella di lui casa ammesso. Fausto travestito sul punto di picchiare è trattenuto prima da una donna che toltolo pel medico vuole che vada a visitar suo marito infermo, indi da due palafrenieri di un cardinale che lo chiamano da parte del padrone, e finalmente da un servo di casa pieno di vino, per cui è costretto a ritirarsi. Rimpatria intanto nello stesso giorno Folco fratello d’Ermino che di soldato divenuto mercatante, di povero schiavo ricco e libero, viene a rivedere la sua famiglia. Picchia; ma il servo ubbriaco, dopo aver detto che Ermino è morto di peste, e che Livia è fuggita via, serra l’uscio, ed il lascia fuori pieno di sospetti. Egli però si sovviene di aver per ventura conservata una chiave dell’uscio di dietro. Il medico che stà in osservazione, vede entrare questo mercatante in casa senza raffigurarlo, si dispera, vuol ire a cogliere sul fatto la moglie, batte la porta, ma non essendo ravvisato dalla fante per essere nella guisa accennata travestito, è ingiuriato ed escluso. Ripigliate le sue vesti, e toltasi la finta barba, va in casa, trova il fratello, si disinganna, chiede perdono alla moglie del torto che le faceva col sospettar di lei, e si conchiude il matrimonio di Livia con Fausto.
Sono questi gl’intrighi pericolosi e le stragi che somministrano la gelosia e la vendetta italiana? sono essi più pericolosi, non dico de’ Fajeli di ultima data, ma del Principe geloso, di Sganarello e di Giorgio Dandino che da circa un secolo e mezzo si rappresentano in Francia, dove giusta il pensare del Marmontel, non vi dee essere nè gelosia nè vendetta? Nè il Geloso del Bentivoglio avrebbe dovuto essere da lui ignorato, per poco che avesse l’uso di fornirsi di dati certi prima di fondar principii filosofici: mentre le poesie e le commedie di questo nostro illustre scrittore s’impressero in Parigi dal Furnier l’anno 1719, e si dedicarono da Giuseppe di Capua a monsignor Cornelio Bentivoglio d’Aragona Nunzio di Clemente XI al re Cristianissimo.
L’argomento di questa favola è nuovo. L’autore stesso dice nel prologo che si è sforzato di comporre una commedia
Nuova d’invenzione e d’argomento,Non tolta da Latin nè Greco autore,Non mai più udita nè veduta in scena,Il suo nome è il Geloso. Questa è Roma ecc.
E sia questa una delle tante evidenti prove per ismentire quegl’imperiosi critici filosofi di buongusto, i quali tacciano senza conoscerle tutte le nostre antiche commedie, come se fossero state sempre fredde e languide copie e traduzioni de’ Greci e de’ Latini.
Tralle grazie comiche di questa favola son da contarsi gl’impedimenti che sopravvengono a Fausto nell’atto III, ne’ quali si rinviene la piacevolezza degl’Importuni (les Facheux) del Moliere, ma col maestrevole vantaggio che essi sono utili a fare avanzare con moto l’azione. Il discorso d’Ermino ingannato dalle apparenze nella quinta scena dell’atto IV è proprio naturale vivace ed elegante. Piacevole è nella scena seguente il di lui contrasto colla Nuta non essendo da lei raffigurato. Buona ed imitata da un frammento di Plauto è pure la disperazione di Fausto che nella scena quarta dell’atto V vuole andar via per vincere la propria passione; e bella è poi la quinta in cui riceve la notizia del suo conchiuso matrimonio con Livia. Macro congedando gli spettatori mostra lo scopo morale dalla favola:
Voi che avete moglier giovane e bella,Da lui pigliate esempio, e non ne siateGelosi più, che certo fate peggio;Perchè il più delle volte è temerariaLa gelosia che vi presenta coseChe’ n effetto non sono; e non è dogliaNè miseria di lei peggiore al mondo.
I Fantasmi. Una libera elegante imitazione della Mostellaria di Plauto si ammira in quest’altra favola del Bentivoglio. Egli che pur sapeva si bene inventare e disporre senza altra scorta che la natura, volle non per tanto dare un bell’esempio del modo di trasportare nelle moderne liugue le antiche favole con grazia e con franchezza e vivacità di colorito nelle maniere. Nel prologo mostra gran rispetto per la dotta antichità. Noi, dice, nulla faremo di perfetto, se dietro ai di lei vestigii non andremo:
Che come uno scultore, un dipintoreNon potrà mai dipignere o scolpireFigura ond’abbia onor, se pria non vedeE le sculture e le pitture anticheDi cui tolga il model; così ancor noiNon sappiam fare alcuna cosa bella,Se questa antichità per nostro specchioNon ci mettiamo innanzi.
Lo stile è al solito felice ed elegante da per tutto, di che molti passi assai belli si potrebbero addurre in prova; ma ci contenteremo di un solo dell’atto III, cioè di una parte del racconto che fa il servo al vecchio Basilio intorno a’ fantasimi che gli dà a credere che appajono nella loro casa. Accorro, egli dice, ai gridi di Fulvio, e gli domando,
Che avete? che vi duol, padron mio caro?Su su (disse ei tremando come fogliaE pallido nel viso come un morto)Datemi le mie calce e il mio giubbone,Ch’io non voglio dormire in questa casa,Nè mai più porvi alla mia vita il piede.Voi dovete sognar: che vi è incontrato?
Nol posso dire, egli mi risponde, prima de’ nove giorni, e vestitosi si va di buon passo a dormir con Flaminio suo amico; io resto con più sonno che paura, ridendo e compassionandolo.
Così mentre di lui meco sol penso,E che mi chino a spegner la lucernaCol destro braccio, ch’era sulla panca,E col suo lume mi toglieva il sonno,Sento un subito strepito, il maggioreChe mai sentissi alla mia vita, e veggoL’uscio che s’apre da sua posta, ch’ioPur dianzi chiuso avea col chiavistello.Basil.
Miracolo! oh dio! ch’è quello ch’odo?Ne.
Poi veggo un uom, che dal sepolcro uscitoAllora allor verso il mio letto viene.Pelle nè carne avea, ma le ossa sole,Ch’eran cinte da vermi e da serpenti;E la squallida barba, e li capelliTutti di sangue avea macchiati e tinti.Io vi lascio pensar s’ebbi paura.Basil.
Io di paura sarei morto allora.Ne.
Necro (diss’ei con spavente vol voce)Or odi quel che ancora a Fulvio ho detto:Non mettete mai più quà dentro il piede,Ch’io non vi lascerò riposar maiGiorno ne notte, ch’io son quì sepolto,E starvi mi conviene eternamente.
In questa guisa arricchirono gl’Italiani la propria lingua delle antiche invenzioni, e rendettero le belle espressioni antiche interessanti per li moderni, sapendo dar loro (con pace anche quì del signor Giovanni Andres) un’ aria fresca, delicata, moderna, e tutta lontana dalla lentezza, e dal languore. L’eleganza, e la facilità di esprimersi, e di verseggiare del Bentivoglio riscosse da’ più dotti contemporanei le meritate lodi. Il Lollio, il Pigna, il Giraldi, il Doni, il Varchi, il Domenichi (che vagliono bene una gran parte de’ censori transalpini) applaudivono a tutte le di lui poesie, e soprattutto alle commedie. Il più vicino all’Ariosto per la commedia di quel tempo egli è senza dubbio questo nobile scrittore, il quale nell’elezione poi del metro ha vinto l’istesso immortal cantore del Furioso. Egli gareggiò pure con felicità grande colla Clizia del Machiavelli, per aver sì acconciamente avvicinata l’antica Mostellaria ai nostri costumi, e lo superò ancora colla sempre dilettevole difficoltà del verso, onde accrebbe leggiadria e vaghezza ai suoi Fantasimi.
Cinque commedie compose allora Pietro Aretino che si discostano dalle commedie degli antichi, e dipingono costumi moderni con motti osceni, e con amarezza satirica, il Marescalco, l’Ippocrito, il Filosofo, la Cortigiana, e la Talanta. Il Marescalco pubblicato nel 1530 è una lunga commedia di cinque atti priva d’azione, di vivacità e d’interesse, benchè sottoposta alle leggi teatrali del verisimile; e consiste nell’estrema avversione che ha un Marescalco al matrimonio posta alla tortura dal di lui padrone con fingere di avergli destinato moglie con ricca dote, la qual poi trovasi essere un paggio vestito da femmina. Questa commedia, e l’Ippocrito impresso nel 1542, ed il Filosofo uscito nel 1549, furono da Jacopo Doroneti pubblicate nel seguente secolo sotto nome del celebre poeta Tansillo con i titoli del Cavallerizzo, del Finto, e del Sofista; ma è ben noto che fu impostura tipografica scoperta poi dal Crescimbeni. La Cortigiana altra lunghissima commedia di cinque atti tessuta di molte scene oziose mordacissime, ed aliene dal fatto, contiene due azioni staccate di poco momento, e di niuno interesse, i cui passi rispettivi senza dipendenza tra loro si succedono alternativamente. Sono in essa posti alla berlina due personaggi ridicoli, cioè un Sanese scempiato che viene in Roma per farsi cardinale, imparando prima ad esser Cortigiano, da che nasce il titolo della commedia, ed un signor Parabolano Napoletano sciocco vano ed innamorato aggirato da una ruffiana, e da un furbo suo servidore. Francesco Buonafede altro impostore letterario che avea data alla luce la Talanta altra commedia del l’Aretino nel 1604 col titolo di Ninetta, pubblicò anche la Cortigiana nel 1628 col titolo dello Sciocco, attribuendole ambedue al faceto poeta Cesare Ceporali; e quest’altra impostura fu manifestata da Apostolo Zeno nelle Annotazioni all’Eloquenza Italiana del Fontanini. Queste commedie non possono notarsi di veruna superstiziosa cura di rendere italiane le maniere latine, e non per tanto mancano di ogni vivacità; la qual cosa pruova (contro l’asserzione dell’Andres) che la lentezza ed il languore provengono da tutt’altra sorgente, che dallo studio di adattare le antiche frasi alle moderne lingue a.
L’arcivescovo di Patras Alessandro Piccolomini nato nel 1508, da collocarsi
tra gli uomini illustri del
Cinquecento, oltre a
tante opere riferite dal Ghilini, e meglio dal Tiraboschi, compose tre
commedie in prosa. La prima intitolata l’Amor costante si
recitò nel 1536 in presenza dell’imperador Carlo V quando entrò in Siena, e
s’impresse nel 1559. La seconda è l’Alessandro che si
stampò nel 1553. L’Ortenzio che fu la terza si rappresentò
nel 1560 entrando in Siena il duca Cosimo I, e si pubblicò per le stampe
l’anno 1571. Trovansi parimente impresse tralle sei degli Accademici
Intronati di Siena uscite nel 1611. Giovanni Imperiali nel Museo Istorico parla delle due prime con molta lode, e cita,
Trajano Boccalini, da cui il Piccolomini stimavasi pel principe de poeti
comici Italiani. Egli però seguì Plauto ed Aristofane nel far dagli attori
volgere il parlare agli spettatori. Panzana nell’Amor
costante dice:
Scoppio di voglia di ridere, e
per rispetto de’ forestieri tengo la bocca che non
rida.
Un Napoletano nella stessa commedia introdotto,
e dove
songo li
forestiere?
E Panzana additando l’uditorio dice:
Eccone qua tanti. De chiste
(l’altro ripiglia)
non importa, ride pure; isse songo a Sieno, e nuje simmo a
Pisa.
Lo stesso Panzana favella indi al medesimo
uditorio, e descrive il carattere del napoletano Ligdonio.
Ariosto, Bentivoglio, Aretino, Dovizio, Machiavelli si valsero per tutti i
personaggi delle proprie favole del solo linguaggio toscano; in quelle
degl’Intronati comincia a vedersi alcun personaggio buffonesco subalterno
che parla in qualche dialetto particolare, come Ligdonio del Piccolomini, o
in una lingua straniera, come Giglio Spagnuolo di bassa condizione sedicente
Hidalgo motteggiato di spilorceria nella commedia
degl’Ingannati de’ medesimi Accademici lanciati su gli
Spagnuoli di quel tempo. Dice Fabrizio nell’atto I,
dove
alloggiano gli Spagnuoli?
E l’altro risponde,
io non m’impaccio con loro; cotesti vanno al
Rampino.
Lo stesso Fabrizio nel III dubitando d’una
fante, dice:
Crede farmi
stare a qualche scudo; ma è male informata, che io sono allievo di
Spagnuoli.
Degni però di scusa sono gl’Italiani di
allora, come troppo vicini al funesto sacco di Roma, che sì gran parte ne
ridusse in miseria; e la commedia nomata degl’Ingannati si
recitò due giorni dopo del Sacrificio che fu come un’
introduzione agli spettacoli del carnovale del 1541. Domandando Gherardo
dell’età della figliuola di Virginio, questi risponde:
Quando fu il sacco di Roma, che ella ed io fummo prigioni di que’
cani, finiva tredici anni.
Di quel sacco parlò pure nel
Geloso il Bentivoglio, e l’Aretino nella Cortigiana. La commedia degl’Ingannati è
regolare e scritta puramente, in istile proprio, e con pratica e felicità vi
si dipingono i costumi e le passioni; ma quegli Accademici si dipartono
dalla semplicità de’ prelodati autori, e vanno in traccia del ravviluppato
assai complicato negli accidenti. Abbondano gl’Ingannati
di sali e lepidezze, ma talvolta sono
soverchio
liberi, come pajono gli equivoci del lunghissimo prologo. Io non approverò
mai le scene simili alla quinta del V atto di Cittina:
Io non so che trispigio sia dentro a questa camera terrena; io
sento la lettiera fare un rimenio, un tentennare che pare che
qualche spirito la dimeni, ecc.
Si lascino queste
imitazioni impudenti alla sfacciataggine de’ repubblicani Ateniesi di venti
secoli indietro che se ne compiacevano.
Regolari e piene di sali e motteggi sono le cinque commedie di Lodovico Dolce. Due ne scrisse in versi, il Capitano uscita alla luce nel 1545, e il Marito nel 1560; le altre tre sono in buona prosa, il Ragazzo che s’impresse nel 1541, il Ruffiano tratta dal Rudente di Plauto, e la Fabrizia che si pubblicarono nel 1549.
Nel 1548 comparvero in diverse città quattro altre buone commedie, i Simillimi, l’Aridosio, la Sporta e la Filenia. La prima fu comica
imitazione in versi del celebre vicentino Trissino
Trissino de’ Menecmi di Plauto, ove però come afferma
egli stesso,
volle servare il modo di
Aristofane
, e v’introdusse il coro. L’Aridosio appartiene a Lorenzino de’ Medici e la Sporta a Giambatista Gelli, ambi fiorentini. Scrisse anche il
Gelli l’Errore altra commedia che non s’impresse se non
nel 1603. Tralle migliori commedie di quel tempo si noverano le nominate del
Gelli che Moliere non isdegnò d’imitar nell’Avaro ed in altre sue commedie. La protestazione che egli fa nel
prologo della Sporta, mostra l’intelligenza ed il gusto
che possedeva in tal genere:
In Essa
(egli dice)
non si vedranno riconoscimenti di giovani o fanciulle, che
oggidì non occorre, ma accidenti di una vita civile e privata sotto
una immaginazione di verità, e di cose che tutto il giorno
accaggiono al viver nostro.
Con tutto ciò questo
conoscimento e questa squisitezza di gusto non l’hanno salvato dalla
negligenza de’ posteri; e le di lui belle commedie non si leggono come
se scritte fossero nel linguaggio Tibetano.
Questo piacevolissimo scrittore che morì d’anni sessantacinque nel 1563, fu
calzolajo, ma si distinse in Firenze per molte lezioni recitate
nell’Accademia Fiorentina, e per alcune traduzioni. La Filenia (l’ultima delle quattro indicate) fu una piacevole
commedia di Antonio Mariconda cavaliere napolitano che sebbene s’impresse
nel 1548 era stata rappresentata sin dal 1546 da alcuni gentiluomini
napoletani mentovati nel libro I della storia di notar Castaldo,
nella sala del palazzo del principe di Salerno
(in Napoli)
dove stava sempre per tale effetto apparecchiato il
proscenio
.
Intorno alla mettà del secolo scrissero commedie con maggior felicità il Contile, il Firenzuola, il Lasca ed il Cecchi. Luca Contile letterato di grido compose in buona prosa la Pescara, la Cesarea Gonzaga, la Trinuzia che si pubblicarono con applauso nel 1550. Agnolo Firenzuola cittadino fiorentino abate Vallombrosano e letterato che si distinse in più di un genere, e visse sotto Clemente VII e Paolo III, e morì in Roma poco prima del 1548, scrisse in prosa due belle commedie, i Lucidi impressa da’ Giunti di Firenze nel 1549, e la Trinuzia uscita alla luce nel 1551. Antonio Francesco Grazzini detto il Lasca, uno de’ cinque fondatori dell’Accademia della Crusca e assai benemerito della nostra lingua, compose più commedie in prosa elegante e graziosa tralle quali spiccano la Gelosia (che non rassomiglia punto all’atroce vendicativo furor geloso de’Fajeli) pubblicata in Firenze nel 1551, e la Spiritata nel 1560, le quali insieme colla Sibilla si ristamparono in Venezia nel 1585. Giovanmaria Cecchi cui si confessano i Fiorentini assai tenuti, oltre ad alcune pastorali, pubblicò nel 1550 e nel 1562 varie commedie in prosa ed in versi, intitolate i Dissimili, l’Assiuolo, la Moglie, gl’Incantesimi, la Dote, la Stiava, il Donzello, il Corredo, lo Spirito, e il Servigiale; e per quel che ne dice il Quadrio, molte altre ne rimasero inedite.
Dalla mettà del secolo sino all’ottanta in circa uscirono al pubblico altre commedie lodate. Il Vignali contemporaneo dell’Aretino, del Franco e del francese Rabelais e di un genio conforme, compose la Floria commedia in prosa, secondo Apostolo Zeno, licenziosa anzi che no, che si pubblicò nel 1560. Il Capitano bizzarro commedia in terza rima di Secondo Tarentino si recitò in Taranto, e s’impresse in Venezia nel 1551. Giordano Bruno di Nola compose la commedia del Candelajo che si pubblicò in Parigi nel 1582, e vi si reimpresse nel 1589, e poi nel secolo seguente quivi ancora si tradusse e si pubblicò col titolo di Boniface et le Pedant. L’Eustachia commedia in prosa del Guidani leccese s’impresse in Venezia per Aldo nel 1570. Il Trappa pure in prosa di Massimo Cameli aquilano si pubblicò nell’Aquila nel 1566. La Virginia che il secondo Bernardo Accolti fece sulla sua serva, dal Fontanini è collocata tralle commedie in prosa, ma si scrisse in versi e per la maggior parte in ottava rima, la qual cosa osservò prima il Zeno. La Flora di Luigi Alamanni s’impresse in Firenze nel 1556 per cura di Andrea Lori che la fece recitare nella Compagnia di san Bernardino da Cestello con alcuni suoi intermedii a. Questo elegante scrittore della Coltivazione, dell’Antigone e di belle satire (ma non già della Libertà tragedia attribuitagli dal Ghilini che però si compose da un apostata della Cattolica Fede) volle usare in tal commedia un nuovo metro cioè uno sdrucciolo di sedici sillabeb, fatica e invenzione inutile intrapresa da altri Italiani ancora per imitare superstiziosamente il giambico greco e latinoa Ma tutti i vantaggi che essi speravano ottenere co’ nuovi metri poco e nulla grati all’orecchio italiano, presenta a chi sa maneggiarlo il solo endecasillabo sciolto. La commedia della Flora è bene scritta, in istile puro e piacevole, e copiosa di grazie comiche, e per questa parte degna di sì leggiadro scrittore. Tuttavolta (sebbene non vi si vegga punto uno studio affettato di trasportare in essa l’espressioni latine, sorgente all’avviso di taluno di lentezza nelle commedie italiane) sembraci ben lenta e languida nell’avvilupparsi e nello sciogliersi, e da non soffrire, per vivacità e sceneggiatura ed economia, il paragone di quelle dell’Ariosto, del Machiavelli e del Bentivoglio.
Lodate da molti, e singolarmente da Adriano Politi, son le commedie di
Bernardino Pino da Cagli. Nel prologo degl’Ingiusti Sdegni
sua commedia impressa nel 1553 havvi una descrizione lodevole della
commedia, nella quale si sostiene che tutti i vantaggi della pittura della
musica e della storia trovansi raccolti nella commedia. Nel leggerla non mi
trovai molto contento del linguaggio dell’innamorato Licinio, il quale così
dice alla sua Delia, che gli parla da dentro senza aprirgli la porta:
Licinio è quì che come smarrito augello cerca
diridursi nel vostro nido, come aquila che stà per fissar l’occhio
in voi suo bel sole: deh uscite fuori, acciocchè i
raggi del vostro aspetto illustrino questo luogo,
come io illustrato da voi veggio ogni cosa nelle più oscure tenebre
della notte.
Simili studiate espressioni son ben
lontane dal linguaggio infocato di Fedria, di Panfilo, di Cherea di
Terenzio, e di Erostrato dell’Ariosto. L’affettazione, il raffinamento, la
falsità de’ concetti cominciavano a fare smarrire a’ poeti il sentimento
della verità e della natura. In ricompensa però ben mi colpì nella stessa
commedia la saviezza della fanciulla, che sebbene innamorata dissuade
Licinio dal rompere le porte, non essendo in casa la di lei madre, come
proponeva, per parlarle con libertà. Egli poi tutto ardore vuol tirarle un
anello in segno di volerla sposare, ed ella l’impedisce dicendo: Non gittate, non gittate, che io l’accetto, e come mio ve lo
ridono, acciocchè se a Dio piacerà mai che io possa come vorrei, esser
vostra, ne leghi eternamente ambedue; e tenete per certo che ogni mio
desiderio, ogni mio
pensiero, ogni mia
speranza è che voi o per serva, o per altro che mi vogliate, abbiate ad
essere scudo dell’onor mio: questo mi basti: ricordatevi di me. Non
si possono mai abbastanza lodare questi tratti di saviezze che spandono per
l’uditorio un piacere indicibile, specialmente quando sono espressi, come in
questa scena, senza affettazione e senza farne un sermone da pulpito anzi
che da teatro. Là dove le oscenità, gli equivoci impudenti eccitano il riso
negli sfacciati col cui genio simpatizzano, ed il pudore se ne offende. Le
altre commedie del Pino sono lo Sbratta impressa un anno
prima degl’Ingiusti Sdegni: e due altre uscite alla luce
più tardi, l’Evagria nel 1584, e i Falsi
Sospetti nel 1588.
Francesco d’Ambra gentiluomo fiorentino morto in Roma nel 1558ascrisse più commedie pregiate dagl’ intelligenti, e per la lingua citate nel Vocabolario della Crusca. Le più stimate sono: i Bernardi in versi sciolti che si produsse in Firenze nel 1563 e 1564, la Cofanaria parimente in versi sciolti recitata con gl’intermedii di Gio: Batista Cini nelle nozze di don Francesco de’ Medici e della regina Giovanna d’Austria stampata in Firenze nel 1561, ed il Furto scritta in prosa impressa nel 1560 e poi più volte ristampata, la quale vivente l’autore si era rappresentata dagl’Accademici Fiorentini nel 1544, e quindi raccolse gl’applausi più distinti in varii altri teatri italiani.
Nel medesimo periodo comparvero le commedie di Girolamo Parabosco, Una ne compose in versi che è il Pellegrino impressa nel 1570, e sette in prosa, cioè l’Ermafrodito, il Ladro, il Marinajo, la Notte, i Contenti, il Viluppo e la Fantesca, pubblicate dal 1549 al 1597, Nè in regolarità nè in grazia comica cedono gran fatto a quelle de’ contemporanei.
Il Capitano Niccolò Secchi compose quattro commedie in prosa noverate tralle migliori italiane. G l’Inganni (tradotta poi nel seguente secolo dal principe de’ comici francesi, ed imitata nel XVIII dal napoletano Niccolò Amenta) si recitò con sommo applauso in Milano alla presenza di Filippo II allora principe delle Asturie nel 1547, e s’impresse nel 1562. L’Interesse, la Cameriera ed il Beffa si pubblicarono dal 1581 al 1584 l’una dopo l’altra.
La Spina ed il Granchio del cavaliere Lionardo Salviati, la Suocera di Benedetto Varchi, la Balia, la Cecca e la Costanza di Girolamo Razzi, il Pellegrino ed il Ladro del Comparini, il Furbo di Cristofaro Castelletti, la Cingana e la Capraria di Gian Carlo Rodigino, l’Amore Scolastico del Martini, il Medico del Castellini, il Commodo di Antonio Landi, la Vedova di Giambatista Cini, la Teodora del Malaguzzi, il Capriccio del cosentino Francesco Antonio Rossi, i Furori di Niccolò degli Angeli; tutte queste commedie scritte parte in prosa e parte in versi nel periodo di cui parliamo, si faranno leggere senza noja da chi vuol conoscere il teatro italiano, per la regolarità, per le lapidezze, per la purezza ed eleganza dello stile, benchè per la licenziosità di que’ tempi i motteggi e i sali in alcune non sieno sempre i più decenti, ed in altra la favola sia soverchio complicata.
Al declinar del secolo non declinò il gusto della buona commedia. S’impresse
in Venezia nel 1581 la commedia intitolata gli Straccioni
del commendatore Annibal Caro marchigiano, la quale però molti anni prima
era stata composta e rappresentata con gran plauso in Roma. Niuno meglio di
lui seppe seguir gli antichi dando all’imitazione la più gaja e fresca
tintura de’ costumi della sua età. Scusandosi nel prologo di avere ideato
senza esempio un argomento, non solo doppio, come facevano gli antichi, ma
interzato,
dice però di avere in ogni altra cosa
seguitato il loro uso.
E se vi parrà
(soggiugne)
che in qualche parte l’abbia alterati, considerate, che
sono alterati ancora i tempi e i costumi, i quali sono quelli che
fanno variar le operazioni e le leggi dell’operare. Chi vestisse ora
d toga e di pretesta, per begli abiti che fossero, ci offenderebbe
non men che se portasse la berretta a toglieri o le calze a
campanelle.
Il Caro congiunse egregiamente l’artificio del viluppo ella
piacevolezza comica (lasciando a parte la sua maravigliosa eleganza e
purezza e grazia del dire) e pose nel tempo stesso nella passione di Gisippo
e Giulietta un interesse che avvicina questa bella commedia al genre
dell’Ecira Terenziana, e la salverà, sempre dal cadere
in dimenticanza E una verità costante che le dipinture delle maniere locali,
benchè eccenlleti, variano, per così dire, in ogni pajo di lustri; ma quelle
delle passioni generali conservano la loro franchezza in ogni
tempo.
Anima mia
(dice nell’atto II Gisippo che crede morta la sua
bella Giulietta)
tu sei pure in luogo da poter chiaramente veder la costanza
dell’animo mio, la grandezza del mio dolore, e il desiderio di venir
dove tu se. Tu senti che il tuo nome m’è sempre in bocca. Tu vedi
che la tua immagine mi stà continuamente nel cuor. Tu sai che
d’altri che tuo non poso essere, quando bene ad altri sia
dato.
Dovrebbero i giovani studiosi specchiarsi in simili
naturalissimi esempi d’apprendere in questi sentimenti pini di calore e di
verità il linguaggio della natura; quel linguaggio che sarà sempre ignoto a
certuni che si hanno formato un picciolo frasario preteso filosofico che
vogliono applicare in ogni incontro ed in ogni situazione. Gisippo poi
intende nell’atto V che Giulietta è viva. Satiro servo gliene reca la
novella.
É risuscitata la Giulietta, la
Giulietta
, egli dice
Gis.
Che Giulietta, bestia?
Sat.
Oh padrone, che ho io veduto!
Gis.
Che hai spiritato?
Sat.
Io ho veduta, io ho veduta la Giulietta, e l’ho veduta con questi occhi.
Gis.
Qualcuna che le somiglia forse?
Sat.
Lei stessa.
Gis.
La Giulietta?
Sat.
La Giulietta.
Gis.
La mia?
Sat.
La vostra.
Gis.
Viva?
Sat.
Viva?
Gis.
Dove?
Sat.
In casa di madama Argentina.
Gis.
Stai tu in cervello?
Sat.
Io non ho bevuto, io non vaneggio, io non dormo, io l’ho veduta, io le ho parlato, ella ha parlato a me, e mi ha data questa lettera e quest’anello che vi porto.
Dem.
Questo è il giornò delle maraviglie.
Gis.
Oh dio, questo è l’anello con che la sposai, e questa è sua lettera.
Dem.
Non m’avete voi detto ch’ella è morta?
Gis.
Oimè! s’ella è morta! ah!
Dem.
E quest’anello?
Gis.
È suo.
Dem.
E questa lettera?
Gis.
È di sua mano.
Dem.
Oh come può star questo? lasciatemela leggere.
Merita di osservarsi la naturalezza di questo dialogo, in cui non si dice o si risponde cosa che non sembri l’unica espressione richiesta nel caso. Ma la bella lettera poi spira tutto il patetico della tenerezza sfortunata di un cuor sensibile che offeso si querela senza lasciar di amare. A’ leggitori non assiderati dalla lettura di tragedie cittadine e commedie piagnevoli oltramontane; a quelli che non hanno il sentimento irruginito dalla pedantesca passione di far acquisto di libri stampati nel XV secolo, fossero poi anche scempi e fanciulleschi; a quelli che sanno burlarsi di coloro che non vorrebbero che altri rilevasse mai le bellezze de’ componimenti quasi obbliati, per poterli saccheggiare a loro posta; a quelli in fine che non pongono la perfezione delle moderne produzioni nell’accumolare notizie anche insulse, purchè ricavate da scritti inediti, ma si bene nella copia delle vere bellezze delle opere ingegnose atte a fecondar le fervide fantasie de’ giovani onde dipende la speranza delle arti; a’ siffatti leggitori, dico, non increscerà di ammirar meco questa bellissima lettera degna del pennello maestrevole del Caro. Gisippo in essa è chiamato Tindaro che è il suo nome primiero;
Dem. leggendo.
Tindaro, padron mio (così convien ch’io vi chiami, poichè mi trovo serva de’ servidori della vostra moglie) gli affanni che io ho sofferti sinora grandissimi e infiniti, sono stati passati da me tutti con pazienza, sperando di ritrovarvi, e consolarmi di avervi per mio consorte. Ma ora che finalmente vi ho ritrovato, poichè a me tolto vi siete, sconsolata e disperata persempre desidero di morire.
Gis.
Oimè! che parole son queste?….seguitate.
Dem. leg.
Ahi Tindaro, voi vi maritate; or non siete voi mio marito? Se non mi siete ancor di letto, e non volete essermi per amore, mi siete pur di fede, e mi dovete essere per obbligo. Non sono io quella, che per esser vostra moglie non mi sono curato di abbandonar la mia madre nè di andar dispersa dalla mia patria, nè divenir favola del mondo? Ricordatevi che per voi sono state tante tempeste, per voi sono venuta in preda de’ corsari, per voi si può dire, che io sia morta, per voi son venduta, per voi carcerata, per voi battuta, e per non venir donna di altro uomo, come voi siete fatto uomo di altra donna, in tante e si dure fortune sono stata sempre d’animo costante, e di corpo sono ancor vergine; e voi non forzato, non venduto, non battuto, a vostro diletto vi rimaritate.
Gis.
È Giulietta scrive queste cose?
Dem. leg.
Il dolore che io ne sento, è tale che ne dovrò tosto morire, ma solo desidero di non morir serva nè vituperata; per l’una di queste cose io disegno di condurmi, col testimonio della mia virginità, a mostrare a’ miei, che io per legittimo amore, e non per incontinenza, ho consentito a venir con voi: per l’altro vi prego (se più di momento alcuno sono i miei prieghi presso di voi) che procuriate per me: poichè non posso morir donna vostra, che io non mi muoja almeno schiava d’altri. O ricuperate con la giustizia, o impetrate dalla vostra sposa la mia libertà: che, per esser ella così gentile, come intendo, ve la dovrà facilmente concedere: e, bisognando, promettete il prezzo che sono stata comperata, che io prometto a voi di restituirlo.
Gis.
Oh che dolore è questo!
Dem. leg.
E quando questo non vogliate fare, mi basterà solamente di morire: il che desidero così per finire la mia miseria, come per non impedire la vostra ventura. E per segno che io non voglio pregiudicare alla libertà vostra, vi rimando l’anello del nostro maritaggio. Nè per questo si scemerà punto dell’amor che io vi porto. State sano, e godete delle nuove nozze. Di casa della vostra moglie.
Giulietta sfortunata.
Chi non senta a questa lettera correr su gli occhi suoi copiosamente le dolci lagrime della più delicata tenerezza, dica di sicuro di avere il cuore formato di assai diversa tempera da quella che costituisce un’ anima nobile. Ogni parola è una bellezza per chi l’analizza, nè l’analizza chi non ha il cuore fatto per ciò che i Francesi chiamano sentimento.
Non si vede nelle commedie di Luigi Groto, nè la verità e naturalezza dello stile, nè la patetica delicatezza degli Straccioni del Caro: ma son pur bene ravviluppate e ingegnose, e solo quanto al costume si vorrebbero più castigate. Esse sono tre, il Tesoro impressa nel 1583, l’Alteria nel 1587, e l’Emilia nel 1596, tutte scritte in versi, e con lo spirito di arguzia che domina ne’ componimenti di questo famoso Cieco d’Adria.
Di Cornelio Lanci si hanno impresse sette commedie in prosa dal 1583 al 1591: la Mestola, la Rochetta, la Scrocca, il Vespa, l’Olivetta, la Pimpinella, e la Niccolosa, regolari per la condotta, naturali nello stile, vivaci ne’ caratteri, ma alquanto libere ne’ motteggi.
Il fiorentino Raffaello Borghini volle oltrepassare i confini comici. Nella sua Donna Costante ci diede un esempio (raro in tal secolo) di un intrigo pericoloso e più proprio per le passioni tragiche. Una fanciulla minacciata dal padre di altre nozze, per serbarsi al suo amante prende un sonnifero, e coll’ajuto di un medico si fa seppellire per morta; indi tratta dalla sepoltura si veste da uomo, e nel l’accingersi a partir per Lione dove sapeva che dimorava l’amante bandito, lo trova in Bologna addolorato per la notizia della di lei morte. In mezzo all’allegrezza di vederla viva questo suo amante chiamato Aristide è conosciuto ed arrestato. Alla novella che ne ha Elfenice ripiglia le vesti di donna coll’intento di manifestare al Governadore come Aristide è suo sposo, e quando non ne impetrasse la libertà, di ammazzarsi. In tale stato correndo per le strade quasi fuor di se per lo dolore, scarmigliata, con un pugnale alla mano (con poca verisimiglianza però) imbatte nella giustizia che mena a morte Milziade suo fratello convinto per di lui confessione di latroneccio. Sbigottiscono gli sbirri a vista di colei che il giorno avanti era stata sepolta, e presi da strano terrore fuggono senza badare al delinguente, il quale si maraviglia della sorella viva che corre come forsennata, e giugne presso la casa di scodelinda sua amante. Egli era stato sorpreso dal bargello con una scala di seta sotto la di lei casa, e per salvarne la fama si era accusato di aver voluto andare a rubare in quella casa, tuttochè gentiluomo e ricco egli fosse. Disperata Teodelinda avea risoluto, allorchè egli passerebbe per andare al patibolo, di gettarsi al suo collo, confessar pubblicamente il suo amore, e giustificarlo dell’infamia pel preteso tentato latrocinio. Ora vedendolo così solo lo scioglie e lo mena in casa. La vendicativa Timandra madre di Teodelinda dalla toppa dell’uscio gli vede abbracciati, e schizzando veleno va a chiamar Clotario suo marito perchè venga a prenderne crudel vendetta. Ma essi vengono liberati per opera della balia di Teodelinda e di Elfenice, e del medico Erosistrato, nella cui casa si rifuggono. Il Governadore intende i casi di Aristide e di Milziade, vede che un doppio parentado potrebbe riconciliare le due famiglie nemiche, e col l’autorità, colle ragioni e colle minacce dispone i due vecchi alla pace ed al maritaggio di Elfenice con Aristide e di Teodelinda con Milziade.
Una commedia siffatta piena di evenimenti straordinarii e di pericoli grandi eccede i limiti della poesia comica naturale, e per questo capo è assai difettosa. Essa par tessuta alla foggia delle commedie spagnuole miste di tragico e di comico. Ma nelle contrade ispane si sarebbe incominciata a sceneggiare dall’innamoramento di Elfenice e dall’omicidio commesso da Aristide, proseguendosi per li sette anni che egli dimorò in Lione, mostrandosi la morte apparente di Elfenice, gli amori di Teodelinda e Milziade, con l’accaduto della scala, e scendendosi allo scioglimento colla condanna di Milziade impedita da Elfenice. Ma il Borghini incomincia con senno la sua Donna costante dalla venuta di Aristide in Bologna nel giorno che è stata sepolta fintamente Elfenice, e che è menato a morir Milziade. Potrebbe dunque questa favola servir d’esempio agli Spagnuoli vaghi di situazioni risentite, qualora volessero continuare ad arricchire il proprio teatro di favole piene di grandi accidenti, ma senza cadere nelle stravaganze.
Io trovo nella favola descritta ben maneggiate le passioni ed espresse con sobrietà di stile; ma non son pago dei discorsi accademici e pedanteschi che vi si tengono, delle storie, degli esempi, de’ versi, onde la riempiono il servo Lucilio, il medico Erosistrato ed il parassito Edace. Ed a che servono quelle inezie all’usanza spagnuola? L’autore l’accompagnò con sei intermedii. Il primo serve d’introduzione che va innanzi al prologo, in cui la scena rappresenta il Parnasso colle Muse, e vi si cantano quattordici versi. Nel secondo in fine dell’atto I si vede un antro, che è la reggia del Sonno, in cui Iride ed il Sonno cantano due strofe. Nel terzo in fine dell’atto II si vede in un prato Cerere nel suo carro, e canta due ottave. Il quarto tramezzo rappresenta Roma in un carro trionfale innanzi al quale vengono legate le provincie soggiogate, e Roma canta una strofe, cui le provincie rispondono. Nel quinto intermedio Roma stessa comparisce scapigliata iucatenata innanzi ad un carro trionfale occupato da Alarico, Genserico, Ricimero, Totila, Narsete, e dal duca Borbone generale di Carlo V, i quali cantano una canzonetta che dice,
Quella che il Mondo vinse abbiamo vinta,
alla quale succede il lamento di Roma, in due ottave che conchiudono
Già vinsi il Mondo, or servo a gente vile,Come fortuna va cangiando stile.
Nell’ultimo intermedio viene di sotterra Plutone con Proserpina, dal mare Nettuno con Teti, dal cielo Giunone con Giove, Venere con Vulcano e Cupido, i quali tutti cantando intrecciano un balc. Eccoti dunque una commedia in prosa con accompagnamenti tali che le danno diritto a chiamarsi opera in musica, secondo la pretensione del Menestrier seguito dal Planelli. Questa Commedia dall’autore dedicata a Carlo Pitti nel 1578, s’impresse nel 1582, e nell’anno seguente si pubblicò l’Amante Furioso altra commedia del Borghini.
Altre commedie regolari e piacevoli in versi ed in prosa si pubblicarono dopo della riferita. Il Vellettajo del Masucci in versi si diede alla luce nel 1585: l’Amico fido del Bardi rappresentata in Firenze nelle nozze di don Cesare d’Este e donna Virginia de’ Medici uscì al pubblico nel medesimo anno: la Prigione di Borso Argenti in prosa impressa nel 1587: la Vedova di Niccolò Bonaparte anche in prosa nel 1592: il Fortunio del Giusti parimente in prosa nel 1593.
Il perugino Sforza degli Oddi professor di leggi di gran nome nella patria, in Padova ed in Parma (dove morì l’anno 1610 secondo Apostolo Zeno, o nel 1611 come ci assicura il Bolsi presso il Tiraboschi) compose in bella assai e natural prosa tre commedie da mettersi accanto agli Straccioni del Caro quanto al loro genere e carattere. La prima intitolata Crofilomachia ovvero Duello d’Amore e d’Amicizia, si pubblicò nel 1586, ma era stata composta nella giovanezza dell’autore, e come nota lo Zeno sul Fontanini, fu recitata in Perugia con singolar piacere, e si ristampò più volte. La Prigione d’Amore si produsse nel 1592, ed in essa, come nella precedente, vi è una delicatezza di amore e di amicizia posta al cimento, e vi si scorge bellamente trasportata alla mediocrità comica l’avventura di Damone e Pizia, l’uno de’ quali rimase per ostaggio dell’amico sotto lo stesso pericolo di vita, e l’altro ritornò puntualmente al suo supplicio. Oddi vi aggiunse la venuta di una innamorata che al vedere l’amante esposto, per essere ostaggio del di lei fratello che esattamente la rassomiglia, ed al sapere già vicina l’ultima ora dello spazio concesso al ritorno del reo, sotto il nome del fratello si presenta alla prigione e libera l’amante. La pena ch’ella ne riceve, è un sonnifero creduto veleno, che apporta poco stante un lieto scioglimento. L’altra commedia dell’Oddi non meno bella per la vaghezza de’ caratteri e dell’intreccio, intitolata i Morti vivi, s’impresse nel 1597. Anche queste commedie dell’Oddi son da riporsi nella dilicata classe delle commedie tenere simili all’Ecira, le quali nel nostro secolo vedremo oltramonte degenerare in rappresentazioni piagnevoli.
Si rappresentò in Caprarola dagli Accademici di quella città il primo di settembre nel 1598 alla presenza del cardinal Odoardo Farnese gl’Intrichi d’Amore commedia che porta il nome di Torquato Tasso: e che s’impresse in Viterbo presso Girolamo Discepolo nel 1604. E una favola assai avviluppata, piena per altro di colori comici e di caratteri piacevoli ben rilevati. Il Baruffaldi, e Monsignor Bottari dubitano che sia componimento dell’autore della Gerusalemme; il marchese Manso lo niega assolutamente; e l’abate Pierantonio Serassi nell’accurata Vita di Torquato impressa in Roma l’anno 1785, giudica che sia opera di Giovanni Antonio Liberati che fece il prologo e gl’intermedii a questa commedia, per la sola ragione che quest’Accademico di Caprarola si dilettava di scrivere nel genere drammatico. Tuttavia non abbiamo sinora sufficienti indizii da non istimarla opera del Tasso giovine. Il Manso per negarlo non ci disse di averlo saputo dal medesimo Torquato; e se lo negò per proprio avviso, è una opinione, e non una prova la di lui asserzione. Dall’altra parte il lodato abatte Serassi quante volte discopre errori del Manso sulle cose che riguardano Torquato! Che sia poi piuttosto da riferirsi tal favola al Tasso napoletano nato in Sorrento che al Liberati di Caprarola, cel persuade in certo modo il carattere ben dipinto ed il dialetto di Giallaise; imperciocchè più facilmente poteva scrivere un carattere in lingua napoletana il Tasso nato in queste contrade e quasi in Napoli stessa da una madre napoletana, e quì allevato sino al decimo anno della sua età, e che vi tornò poscia già grande, e vi dimorò diversi mesi, e potè rilevarne alcune caricature e piacevolezze: che quel Liberati, il quale nè nacque in questo regno, nè si sa che lo visitò; ed altro di lui non si afferma se non che fece in quella favola gl’intermedii, e che si dilettava del genere drammatico.
Forse l’ultimo scrittore comico del cinquecento fu il vecchio Loredano che dal 1587 al 1608 pubblicò sette commedie in prosa, cioè i Vani amori, la Malandrina, la Turca, l’Incendio, la Berenice, la Madrigna e Bigonzio.
Di una commedia composta dal Guarcello fa menzione Muzio Manfredi nelle citate Lettere scritte da Lorena; di un’ altra intitolata gl’Inganni di Curzio Gonzaga celebre nell’armi e nelle lettere, parla il Quadrio. Della Porzia e del Falco commedie inedite di Giuseppe Feggiadro de’ Gallani si favella nel Compendio Istorico di Parma scritto dal l’Edovari e non pubblicato. Della Pellegrina di Baltassarre di Palma parmigiano, che si rappresentò avanti al cardinal Grimani, e dell’altra del medesimo i Matrimonii recitata avanti al Duca Pier Luigi Farnese, si fa motto nel citato ms. dell’Edovari. Di un’altra commedia latina detta Lucia del cremonese Giuliano Fondoli pure inedita fa parola il Tiraboschi nella parte III del VII volume. Di queste, e delle due commedie di Bernardino Rota lo Scilinguato e gli Strabalzi mentovate con gran lode dal Ghilini, e de’Marcelli di Angelo di Costanzo nominati dal Minturno, e di qualche altra eziandio rimasta sepolta, basti averne accennati i titoli, giacchè per essersene perduto ogni vestigio, o per aver riposato nell’oscurità di qualche privato archivio, non hanno contribuito all’avanzamento della poesia comica.
Queste sono le commedie italiane da’ nostri chiamate antiche ed erudite. Or quali di queste ha lette
il prelodato maestro di Poetica Francese? In qual di esse ha trovato quella
sognata
mescolanza di dialetti
, quei
gesti di
scimia
, quella tremenda pericolosa
gelosia e vendetta
italiana
? E se ne ha lette alcune, come mai osò dire esser esse
così sfornite d’arte, di spirito e di gusto che neppure di una
sola possa sostenersi la lettura
a? Che se
egli
seppe soltanto per tradizione che esistevano
commedie antiche in Italia, o stimò che altra cosa non
fossero che le farse dell’Arlecchino per avventura vedute sul teatro detto
Italiano di Parigi, egli stesso può avvedersi del torto che fa alla propria
erudizione e filosofia, giudicando così a traverso della commedia italiana
di cui non aveva nè contezza nè idea veruna. Veramente una nazione, che fece
risorgere in Europa tutte le belle arti e le scienze, il gusto, la politezza
e la libertà stessa (come è provato) meritava un poco più di diligenza in
quell’erudito maestro di Poetica Francese. E che direbbe egli se si
volesse dare idea del teatro di Atene sulle
rappresentazioni de’ Neurospasti? Che, se per dare a conoscere il teatro de’
Francesi, dimenticato Moliere e Racine,
se ne fondasse un giudizio diffinitivo su Jodelle ed Hardy, o su i
cartelloni delle Fiere Parigine?