CAPO II.
Tragedie Italiane del XVI secolo.
La prima tragedia scritta nel nostro regolare idioma fu la Sofonisba di Galeotto del Carretto de’ marchesi di Savona nato in
Casal Monferrato nel secolo XV. L’autore nel 1502 la presentò ad Isabella da
Este Gonzaga marchesa di Mantova; ed alcuni anni dopo si pubblicò in Venezia
insieme con una commedia del medesimo Carretto intitolata Palazzo e Tempio d’Amore. La tragedia è verseggiata in ottava rima
ed ha qualche debolezza e varii difetti; ma non è indegna di esser chiamata
tragedia; nè sò donde si ricavasse il compilatore del Parnasso
Spagnuolo la rara scoperta che questa Sofonisba
fosse stata
una spezie di dialogo
allegorico
a. Chiama egli
dialogo allegorico un’ azione eroica tragica tra’
personaggi istorici, palpabili, reali, Sofonisba, Siface, Masinissa? Egli ha
dunque parlato di tal componimento per volgar tradizione ovvero secondo che
gliel dipinse la propria poetica immaginazione. Scrisse il Carretto tre
altre commedie, delle quali una s’intitolò i Sei Contenti;
ma esse non videro la luce, per esserne forse gli eredi stati distolti da
tanti altri drammi di maggior pregio che di poi apparvero. Per la stessa
ragione meritano poco di rammemorarsì alcuni componimenti del principio del
secolo descritti dal Quadrio nel tomo I. E che giova trattenersi sul Filolauro di Bernardo Filostrato, che l’istesso Quadrio
chiama atto tragico, benchè nella Drammaturgia del
l’Allacci si dica
solacciosa commedia
? Essa
fu impressa nel 1520 in Bologna senza nome di autore, e contiene un atto
solo senza distinzione di scene con vario metro, ed in linguaggio per lo più
lombardo. Tali cose traggonsi dalle
tenebre de’
secoli rozzi quando vogliono scoprirsi i principii delle arti; ma quando
queste già vanno altere di grandi artisti, lasciansi nella propria oscurità
gli operarii volgari. E chi si perde ad osservare una casuccia mal costrutta
di loto e di paglia dove sorgono marmorei edificii realia? Volgiamoci dunque alle ricchezze che ci appresta un
secolo così fecondo.
La Sofonisba di Giovan Giorgio Trissino patrizío Vicentino nato nel 1478 e morto in Roma nel 1550, assai più famosa della precedente corse indi a non molto fra’ letterati e riscosse gli applausi universali. L’autore così versato nelle greche lettere nella dedicataria a Carlo V della sua Italia liberata, poema ricco di varie bellezze Omeriche, afferma di aver nel comporre la sua tragedia tolto Sofocle per esemplare. Fu dedicata a Leone X e rappresentata magnificamente nel 1514 in Vicenza ed anche in Roma, ma s’impresse la prima volta nel 1524. Non ha divisione di scene e di atti; ha il Coro alla greca, ed è per la maggior parte composta in versi sciolti ed ha qualche squarcio con rime rare e libere, anzi vi si osserva talvolta un troppo rigoroso accordamento di consonanze alla maniera delle italiche canzoni liriche. La narrazione di Sofonisba ad Erminia incominciata dalla remota fondazione di Cartagine, lo studio di calcare con soverchia superstizione le vestigia de’ Greci, alcune ciarle, certe comparazioni liriche, lo stile che non si eleva a quel punto di sublime che fa grandeggiar la tragedia, sono difetti con abbondante usura compensati dalla novità dell’argomento che l’autore non dovè nè alla Grecia nè al Lazioa, dalla regolarità ed economia dell’azione, dal bellissimo carattere di Sofonisba che interessa dovunque appare (superiore in ciò di gran lunga a quella di Pietro Cornelio venuta tanto più tardi) e da un patetico animato da’ bei colori della natura che sempre trionfa nella vivace semplicità, quella semplicità che attinse il Trissisino da’ greci fonti. Un cuore non indurito da’ pregiudizii verserà pietose lagrime al racconto del veleno preso dalla regina, ai di lui discorsi, alla compassionevole contesa con Erminia, ed al quadro delle donne affollate intorno a Sofonisba che trapassa, di Erminia che la sostiene e del figliuolo che bacia la madre, la quale inutilmente si sforza per vederlo l’ultima volta sul punto di spirare. Veggasi nel seguente frammento il colorito di questa scena lagrimevole:
Sof.
A che piangete? Non sapete ancoraChe ciò che nasce a morte si destina?Cor.
Ahimè! che questa è pur troppo per tempo;Che ancor non siete nel vigesimo anno!Sof.
Il bene esser non può troppo per tempo.Erm.
Che duro bene è quel che ci distrugge!Sof.
Accostatevi a me, voglio appoggiarmi,Ch’io mi sento mancare, e già la notteTenebrosa ne vien negli occhi miei.Erm.
Appoggiatevi pur sopra il mio petto.Sof.
O fi glio mio, tu non avrai più madre;Ella già se ne va, statti con Dio.Erm.
Oimè! che cosa dolorosa ascolto!Non ci lasciate ancor, non ci lasciate.Sof.
I’ non posso far altro, e sono in via.Erm.
Alzate il viso a questo che vi bacia.Cor.
Riguardatelo un poco.Sof.
Aime! non posso.Cor.
Dio vi raccolga in pace.Sof.
Io vado… addio.
Non in Italia soltanto si accolse e si rappresentò questa tragedia con ammirazione; in Francia ancora sin dal XVI secolo si tradusse e s’imitò molte volte; di tal maniera che la Sofonisba oggi serbasi nel teatro tragico come un tesoro comune di sicuro evento al pari delle Ifigenie, delle Fedre, delle Medeea. La tradusse in prosa con i cori in versi Mellin de Saint Gelais, ed in versi Claudio Mermet nel medesimo secolo in cui si compose. Monchretien, Montreux, Mairet e P. Corneille la tradussero e imitarono nel XVII: l’ha tradotta Millet, e l’ha imitata lo stesso Voltaìre nel XVIIIa.
Adunque la prima ìstruzione che ebbero i Francesi di
un dramma in cui venissero osservate le regole delle tre unità, debbono
riconoscerla dalla Sofonisba del Trissino. Si vedrà in
appresso quante altre produzioni sceniche italiane si tradussero e
s’imitarono in Francia. Per la qual cosa non si capisce perchè l’avvocato
Linguet
a abbia avanzato che i
Francesi,
quanto al teatro, non hanno dall’Italia ricevuto quasi verun
favore
, e che
la prima idea delle
bellezze che essi hanno profuso sul teatro e ne’ loro scritti,
l’abbiano presa da’ buoni
autori
Castigliani
. Accordiamo di buon grado quel che egli
aggiugne, cioè che il
Dante, l’Ariosto e il Tasso stesso
non hanno fatti allievi alcuni tra’ Francesi
(senza
andarne rintracciando il motivo che egli stesso con altri suoi compatriotti
troverebbe poco glorioso per la testa e per la lingua francese): e che Lope
de Vega, il Castro e il Calderòn siensi più facilmente prestati alla loro imitazione. Ma
quanto alla
prima idea delle bellezze
teatrali
, la storia contraddice all’asserzione del Linguet che brucia que’ grani d’incenso ad onore degli
Spagnuoli. Piacemi che egli a nome de’ Francesi si mostri grato a quella
ingegnosa nazione e che ripeta quel che altre volte ed assai prima di lui
osservarono i Francesi stessi, gli Spagnuoli e gl’Italiani; ma è giusto
forse che per confessare un debito voglia negarne un altro?
Giovanni Rucellai autore del vaghissimo poemetto delle Api, cugino germano del pontefice Leone X, nato in Firenze nel 1475 e morto verso il 1526, corse poco dopo del Trissino il tragico aringo colla Rosmunda che fece recitare nel suo giardino in Firenze alla presenza di quel pontefice nel 1516, e che si stampò poi in Siena nel 1525. In essa prese ad imitare l’Ecuba di Euripide; e par che avesse voluto renderne lo stile più magnifico della Sofonisba. Il signor Roscoe nella Vita di Lorenzo Medici osserva che il Rucellai preserva Rosmunda da i delitti di prostituzione e di assassinioa. Sulle tracce poi del l’Ifigenia in Tauri del medesimo tragico Greco compose il Rucellai un’ altra tragedia intitolata Oreste, dalla quale (se allora si fosse pubblicata) sarebbe rimasta oscurata la Rosmunda. Ma l’Oreste non si diede alla luce se non dopo due secoli per opera del marchese Maffei, che la fece imprimere nel 1723 sull’esemplare posseduto prima dal Magliabecchi e poi dal cavaliere Anton Francesco Marmia. I caratteri vi sono degnamente sostenuti e le passioni dipinte con verità. L’autore non perde veruna delle situazioni interessanti del grecò originale e tocca collo stile la nota sublime assai più del Trissino. Dall’altro canto mostra talvolta qualche affettazione nell’elevarsi, corre dietro alle forme troppo poetiche e alle parole troppo latine, come osservò anche il conte Pietro da Calepio, e non va esente dal cicaleccio, ciò che si vede sin dalla prima scena nella narrazione che fa Oreste delle proprie avventure incominciando dalla guerra di Troja. V’ è di più; egli le narra all’amico Pilade cui dovevano essere altrettanto note che a lui stesso; egli le narra ancora intempestivamente nel metter piede nella terra de’ barbari. Ma per tali nei si priveranno i leggitori del piacere che recano tanti bei passi pieni di eleganza e vaghezza sparsi nelle tragedie del Rucellai? Uno storico della letteratura universale lascerà seppellirgli nell’obblio, non vedendo nell’Oreste che languidezza ed imitazione del greco? Quanto a me esorto la gioventù ad osservare con qual felicità quest’illustre autore dipinga il prospetto del tempio e le teste, i busti ed il monte di ossa degli uccisi che vi biancheggia; la bellezza del racconto che fa Ifigenia della propria sventura quando fu in procinto di essere sacrificata in Aulide; quello del coro della pugna de’ due Greci co’ pastori; quello d’Oreste della morte di Agamennone. Molti squarci della generosa patetica contesa de’ due amici meriterebbero di esser trascritti; ma ci contenteremo delle seguenti parole di Pilade:
E pensi or ch’io ti lasci? e puoi pensarlo?Dove ti lascio! donde son partito!Chi lascio! a cui vo io? che porto? ahi lasso!Porto la morte del suo re; a cui?Al miser popol di Micene e d’Argo.Porto la morte del mio Oreste; a cui?A Strofio; e quella del fratello; a cui?A le sorelle triste e sventurate;Le quai trepide or forse e spaventoseDel tuo ritorno stanno inginocchioni,E raddoppian le mani e i voti al cielo.E queste fian le già sudate palme,Gli aspettati trionfi e la vittoriaDel simulacro che portiamo in Argo?Con che volto potrò veder mio padre?Con che occhi guardar mai potrò ElettraSorella a te, a me dolce consorte,Senza te, senza me, senza il cuor mio?
E ciò fu poco quando l’Europa tutta più non conosceva la drammatica? quando non si sapeva la maniera di farla risorgere? poco meno di due secoli prima di Cornelio e Racine?
Dietro la scorta de’ Greci corifei e coll’esempio del Trissino e del Rucellai seguirono pure le insegne di Melpomene molti altri celebri letterati. Ludovico Martelli illustre poeta Fiorentino morto in Salerno nell’acerba età di anni ventotto secondo il Crescimbeni nel 1533, e secondo il Rolli ed altri con più probabilità mancato in Napoli nel 1527, parlandosi di lui come già morto in una lettera di Claudio Tolomei scritta a’ 7 di aprile del 1531a, compose una tragedia impressa indi colle altre sue opere in Firenze nel 1548, ed oggi registrata nel tomo III del Teatro Italiano antico, stampata in Livorno sotto la data di Londra nel 1787, nella quale sí allontanò dagli argomenti greci, seguendo in ciò il Trissino, e non il Rucellai. Egli trasse dalla storia de’ re di Roma l’eccesso della spietata Tullia per esporlo sulle scene. La purezza ed eleganza dello stile non farà tollerare il carattere estremamente scellerato del protagonista. Tullia non solo calpesta le più sacre leggi della natura ed aspira al regno paterno per immoderata ambizione, ma peggiorandosi nella tragedia la storia stessa, ella spiega la più detestabile avversione contro de’ genitori rinfacciando loro de’ misfatti, ed eccita contro di se tutta l’indignazione di chi legge. Il coro continuo poi che vi si adopra alla greca, disdicevole manifestamente ad un’ azione Romana, obbliga il poeta ad incoerenze, come è quella che L. Tarquinio gelosissimo del proprio secreto si scopra alla moglie alla presenza di un coro di donne che sono seco. Pera. simili riflessioni a noi sembra questa tragedia del Martelli una delle nostre più difettose, benchè il Gravina l’abbia numerata tralle migliori del cinquencento.
Seguirono i greci esemplari piuttosto traducendo che imitando l’Alamanni, l’Anguillara ed il Giustiniano. Luigi Alamanni celebre autore dell’elegantissimo poema della Coltivazione recò in italiano, ritenendone il titolo, l’Antigone di Sofocle, che si stampò in Venezia nel 1532. Per testimonio degl’intelligenti non cede in eleganza alle tragedie del Trissino e del Rucellai e le vince per gravità di stile. Giraldi Cintio sa onorata menzione dell’Antigone italiana noverando l’autore tra’ benemeriti della toscana lingua Bembo, Trissino, Molza, Tolomeia.
E quel che ’nfino oltre le ripid’ AlpiDa Tebe in toscano abito tradusseLa pietosa soror di Polinice;I’ dico l’Alamannia.
Il Fontanini la colloca tralle migliori tragedie italiane. L’Edipo, la più pregiata tragedia di Sofocle, fu tradotto prima da
Andrea Anguillara indi da Orfatto Giustiniano. Dell’Edipo
dell’Anguillara impresso e rappresentato in Padova nel 1556 parla in una
lettera citata dal Tiraboschi Girolamo Negri, ma con disprezzo dando
all’Anguillara il nome di
poeta plebeo
.
Giason di Nores nella sua Poetica riprende ancora come
viziosi gli episodii di quest’Edipo dell’Anguillara. Non
per tanto sembra che i contemporanei avessero vendicata l’opera e l’autore,
essendosene con somma pompa ed applauso ripetuta la
rappresentazione nel 1565 in Vicenza in un teatro di legno costruito
espressamente nel palagio della Ragione dal celebre Palladio. Noi stimiamo
col conte da Calepio assai più difettoso l’Edipo del
l’Anguillara che de’ tre pur difettosi Edipi francesi di Corneille, di Voltaire e del p. Folard; e col Nores troviamo riprensibile l’episodio della
discordia de’ figliuoli di Edipo, per cui si rende la favola doppia e si
commette un anacronismo totalmente inutile. Fu assai migliore la traduzione
fedele che fece di tal tragedia il veneziano Giustiniano. Per la nobiltà e
l’eleganza dello stile essa gareggìa colle più celebri tragedie di quel
tempo. Si rappresentò nel 1585 con sontuosissimo apparato
nel famoso Teatro Olimpico di Vicenza opera del prelodato
Palladio; la quale per la morte di questo insigne architetto seguita nel
1586 si terminò dallo Scamozzi. La parte di Edipo che si accieca, si
sostenne egregiamente dal famoso Luigi Groto detto il Cieco
d’Adria tale divenuto
otto giorni dopo
nato, il quale a quest’oggetto recossi in Vicenza nel carnovale del 1585, e
morì poscia in Venezia nella fine dell’anno stesso. Questo maraviglioso
ingegno scrisse anch’egli due tragedie, la Dalìda e l’Adriana; ma esse colle altre di lui produzioni
drammatiche non sono le migliori di quel tempo, specialmente per lo stile
talvolta troppo ricercato e più proprio di certi anni del seguente secolo
che del cinquecentoa.
Sperone Speroni degli Alvarotti dottissimo padovano e l’oratore più eloquente della sua età, morto di anni ottantotto nel 1588, compose la Canace tragedia pubblicata la prima volta in Venezia nel 1546, che dovea rappresentarsi in Padova l’anno 1542 dagli Accademici infiammati, de’ quali era principe, ma ne fu interrotto il disegno per la morte seguita di Angelo Beolco detto il Ruzzante che dovea recitarvi. L’autore sostenne per essa una gran contesa con varii letterati; e sebbene egli si fosse gagliardemente difeso, volle riformarla e toglierne fralle altre cose le rime e i versi di cinque sillabe, ed all’ombra da prima introdotta nel prologo sostituire il personaggio di Venere. Vide questo gran letterato che il veleno de’ tragici componimenti de’ suoi contemporanei consisteva nella noja e languidezza dello stile, e pensò rimediarvi ornando ed infiorando la sua Canace con certe studiate espressioni che nuocono alla gravità tragica. E pure queste medesime servirono di modello agli autori dell’Aminta e del Pastor fido, e parvero più convenienti alla tenerezza di quelle celebri pastorali. Ma le forti perturbate passioni della Canace esigevano stile più grave, e la favella della natura più che dell’arte manifesta. Questo, e l’introduzione di molti personaggi subalterni dipinti scioperatamente, e non poche scene vuote ed oziose e slogate, ed i racconti di cose che meglio avrebbero animata la favola poste alla vista ed in azione, ed il non essersi l’autore approfittato de’ rimorsi che insorger doveano in Canace e Macareo ne’ loro mortali pericoli; questi, dico, mi sembrano i veri difetti sostanziali della Canace; e pur questi difetti appunto, per quanto mi ricorda, sfuggirono a’ censori contemporanei che in essa si perdettero in criticar le rime, i versi corti e cotali altre pedanterie. Ma la dipintura nell’atto V di Canace sul letto funesto col bambino allato e col pugnale alla mano dono di Eolo suo padre, e le di lei parole nel l’atto di trafiggersi sperando di sopravvivere nella memoria di Macareo, e l’espressioni indirizzate al figliuolino, banno una verità, un patetico, un interesse sì vivo che penetra ne’ cuori e potentemente commuove e perturba.
Giambatista Giraldi Cintio nato in Ferrara nel 1504 e morto nel 1573 trasse da’ suoi medesimi Ecatommiti più argomenti per la scena tragica, e ci lasciò nove tragedie, Orbecche Altile, Didone, Antivalomeni, Cleopatra, Arenopìa, Eufimia, Selene, Epitia. La prima che scrisse, a quel che egli dice, in meno di due mesi, e che si stima la migliore, si rappresentò alla presenza del duca Ercole II nel 1541 in casa dell’autore, avendone apparecchiata la magnifica scena Girolamo Maria Contugo suo amico, il quale l’avea stimolato a comporla. Si rappresentò ancora alla presenza de’ cardinali Ravenna e Salviati. Sembra però che alla prima rappresentazione, e non a questa seconda, si fosse trovato il prelodato Luigi Alamanni, facendo il Giraldi dire alla Tragedia,
I’ dico l’Alamanni, che mi vide,Per mio raro destìno, uscire in scena.
Sebastiano Clarignano di Montefalco, il quale, dice il Giraldi nella
dedicatoria,
si puote sicuramente dire il Roscio e
l’Esopo de’ nostri tempi
, ne fu uno de’ principali
attori. Giulio Ponzio Ponzoni vi rappresentò la parte di Oronte, e un certo
giovine chiamato Flaminio quella di Orbecche. Dovea questo medesimo Flaminio
rappresentare anche nell’Altile da recitarsi per ordine
del duca nell’aprile del 1543 alla venuta di Paolo III; ma nel giorno
destinato alla rappresentazione quest’infelice Flaminio rimase
disgraziatamente ucciso. L’Orbecche s’impresse in Venezia
nel 1543, nel 1551, e poi con tutte le altre nel 1583. Come nella Sofonisba la compassione è posta nel suo maggior lume, nel
l’Orbecche si eccita il terrore co’ più vivi
sanguinosi trasporti della crudeltà. Sulmone re di Persia gareggia colle
atrocità degli Atrei, ed
Orbecche
che svena il padre, và del parí coll’Elettre matricide. Un matrimonio
occulto, contratto da questa sua figliuola con un valoroso avventuriere di
oscuri natali, aguzza la spietatezza naturale di Sulmone, il quale sotto la
fede avuto in sua balia il genero e i due di lui figliuolini, di propria
mano gli trucida e ne presenta indi le mani e le teste alla figliuola, alla
cui vista tratta ella da un eccesso di dolore e di disperazione trafigge il
padre e se stessa. Ha servito di modello a questa tragedia il Tieste di Seneca. Nemesi colle Furie e l’Ombra di Selina madre di
Orbecche formano l’atto I, come nel Tieste l’Ombra di
Tantalo e Megera. L’atto IV nel quale Atreo ammazza i nipoti, e delle loro
membra prepara al fratello le vivande scellerate, ha prestato molti colori
alla terribile carnificina del IV atto dell’Orbecche.
Dalla descrizione del bosco secreto nella reggìa di Atreo,
Arcana in imo regia recessu patet
etc., è
imitata quella del luogo ove segue la strage di Oronte e de’ figliuoli.
Giace nel fondo di quest’alta torreIn parte sì solinga e sì rispostaChe non vi giunge mai raggio di sole,Un luogo destinato a’ sacrifici,Che soglion farsi da’ re nostri all’ombre,A Proserpina irata, al fier Plutone,Ove non pur la tenebrosa notte,Ma il più orribile orrore ha la sua sede./
Il Giraldi non pertanto si è guardato dall’affettazione di certi squarci della tragedia latina e da qualche ornamento ridondante. È divisa l’Orbecche in atti e scene e scritta in versi sciolti, se non che, come in quella del Trissino, havvi più d’un passo rimato con troppo studiato accordamento. Il Calepìo conta quasi tutte le tragedìe del Giraldi e specialmente l’Orbecche, fralle Italiane che conseguiscono l’ottimo fine della tragedia di purgar con piacevolezza lo sregolamento delle passioni per mezzo della compassione o del terrore. Ed in fatti a suo tempo si accolse l’Orbecche con molto applauso e destò in tutti cotal compassione che niuno degli ascoltatori, potè contenere il pianto. Oggi stimo che farebbe lo stesso effetto in una città colta che ha assaporato il piacer delle lagrime del teatro, purchè se ne troncassero acconciamente alcune ciance della nutrice, l’espressioni di Oronte appassionato nell’atto II che si trattiene per molti versi su i casi del nocchiero, la maggior parte della lunga scena 2 dell’atto III, quando Malecche esorta Sulmone alla pietà, e i lamenti del Coro delle donne dopo che Orbecche si è trafitta.
Pietro Aretino, la cui penna in un tempo non di tenebre ma di luce, si
rendette, non so perchè, fin anche a’ più gran principi formidabile, uomo,
ad onta della sua mercenaria maldicenza, di qualche talento, sì, ma di
volgare erudizione, di poca dottrina e di niuno onore, contribuì non poco
alle glorie della tragedia italiana. Pose prima
di ogni altro in iscena l’avventura degli Orazii (che nè anche è argomento
greco) ed ebbe la sorte di coloro che tentando un mare sconosciuto hanno il
vanto di scoprire e vincere senza arricchirsi e trionfare. Scrisse dunque
l’Orazia che dedicata al pontefice Paolo III sin dal
l’anno 1546, s’impresse in Venezia pel Giolito nel 1549. La Fama vi fa il
prologo diffondendosi nelle lodi del pontefice, de’ Farnesi e di altri
principi italiani, ed anche di Carlo V; ed è questo forse il primo esempio
de’ prologhi destinati da poi ad onorare i principi, ed il Calepio osserva a
ragione che
Pietro Cornelio s’inganna nel dire che sieno
invenzioni del suo secolo
. Un coro di virtù in ciascun
atto per tramezzo vi recita alcuni versi. Si espone nell’atto I la pugna
stabilita tra gli Orazii e Curiazii per decidere il fato di Alba e di Roma;
e Celia Orazia moglie di un Curiazio è oppressa dall’immagine di una pugna
che debbe in ogni
evento riuscire per lei funesta.
Nel II Tazio venuto dal campo racconta a Publio Orazio l’esito della pugna,
nella quale Roma ha trionfato, ed egli ha perduti due figli; dal qual
racconto è abbattuta la misera Orazia per la notizia della morte dello
sposo. Arriva nel III un servo che appende al tempio di Minerva le spoglie
degli estinti Curiazii. Celia in esse riconosce la veste del marito
traforata e sanguinosa, e trasportata dal dolore inveisce contro il fratello
uccisore, indi vedendolo venire circondato dal popolo e acclamato, gli si
presenta colla chioma scarmigliata e con tutti i segni del più vivo dolore.
Orazio indignato la trafigge. Nell’arto IV Tullo destina i Duumviri per
giudicare Orazio, i quali lo condannano alla morte, contraddicendo invano il
di lui afflitto padre che appella al Popolo. Nel V il Popolo libera il reo
dalla pena di morte, ma vuole che soggiaccia all’infamia del giogo. Sdegna
il magnanimo di sottoporvisi: Publio prega: il Popolo è
inesorabile: si ascolta una voce in aria
che comanda ad Orazio di ubbidire. La regolarità di questa tragedia è
manifesta; gli affetti sono ben maneggiati; i caratteri dipinti con
uguaglianza, verità e decenza; il fine tragico di commuovere colla
compassione e col timore egregiamente conseguito. Increscerà in essa in
primo luogo il titolo di Orazia che dimostra esser essa il
principal personaggio, e che morendo prima di terminar l’atto III, abbandona
ad un altro l’interesse che era tutto per lei. Orazio le succede; e
l’interesse in tutta l’azione trovasi diviso tra due personaggi. Non si
unirebbe in un solo se il titolo di essa fosse l’Orazio?
Parranno poi piuttosto foglie che ingombrano che fregi che abbelliscono
l’azione alcune cose episodiche sparse quà e là, di che può servire di
esempio la dipintura di un cavallo a cui si rassomiglia la gioventù, distesa
in dodici versi, che incomincia.
La gioventù furor della natura.
Si troverà poi soverchio ardita e viziosa qualche espressione, come questa del feciale nell’atto I,
Fattor degli astri larghi e degli avariChe nell’empiree logge affiggi il tronoDel volubil collegio de’ Pianeti;
e quest’altra del II:
Gli abbracciamenti e i baci sono i fruttiChe le viscere, il cor, gli spirti e l’almaColgono con le mani affettuoseNegli orti de la lor benivolenza;
e questa del medesimo atto
Orazio vincitor per la mia linguaCon la bocca del cor ti bacia in fronte,
e quest’altra del V,
e però vuoiPiuttosto al collo del tuo corpo un laccio,Che la corda a la gola del tuo nome.
Ma in generale lo stile è puro, sobrio, e più di una fiata grave e vigoroso, e sparso di utili massime or sulla legislazione or sul governo or sulla religione. Dice il sacerdote:
Il valore de l’asta e de la spadaE il timore de’ riti e de le peneNon tiene in alto le cittadi magneCome la riverenza e l’osservanzaDe la religione e degl’iddii.
Dice Publio:
Nè cupidigia d’uom, nè ardir di stellaPuò ciglio alzar dove pon mente Iddio.
Sorda e cieca è la legge
,
dicono i Duumviri nell’atto IV; e bene, dice Publio, si ponisca il mio
figliuolo,
Se la sorella ha de la vita spenta,
Io stesso, se ciò fosse, il punirei; e i Duumviri ripigliano,
E che ha fatto il furioso dunque?
E Publio,
Estinte quelle lagrime insolentiChe aveano invidia a la Romana gloria ;
risposta sublime in bocca di un padre. Quanto alla passione di Celia da per tutto ben colorita presenta spesso espressioni giuste, patetiche e naturali. Perdendosi l’impresa, ella dice, ognuno in Roma altro non perde che la libertà,
Ma io, io, se Roma vince, perdoIl marito dolcissimo e i cognati.E vincendo Alba, qual vincer potria,Oltre il dominio de la libertate,De i fratelli privata mi rimango.
Soprattutto è da vedersi la di lei dipintura dopo udita la morte dello sposo e alla vista delle spoglie di lui insanguinate, e quando si presenta al fratello perduta, semiviva, la chioma sparsa ed il volto bagnato di lagrime. Un cuore veramente Romano transparisce in quanto fa e dice Publio, ma quando è in procinto di perdere il valoroso Orazio, l’unico figliuolo che gli rimane, allora mostra tutto il padre, implorando la pietà del Popolo. Lo spirito d’ingenuità e di gratitudine che mosse prima il Cornelio, indi il Linguet a confessare il debito contratto con Guillèn de Castro pel Cid, non avrebbe dovuto stimolarli ugualmente a riconoscere nell’Orazia dell’Aretino gli Orazii del padre del Teatro Francese, componimento di gran lunga superiore al Cid? Non l’avea l’Italiano preceduto di un secolo intero nell’arricchire la scena tragica, e non infelicemente, di sì bell’argomento non mai prima tentato nè dagli antichi nè da’ moderni? Vedesi veramente negli Orazii più artifizio nella condotta, e più forza e delicatezza e vivacità ne’ caratteri e nelle passioni; ma ben si scorge ancora nell’Orazia più giudizio nel tener sempre l’occhio allo scopo principale della tragedia di commuovere sino al fine pel timore e per la compassione; e si comprende che se il Corneille l’avesse anche in ciò imitato, avrebbe fatto corrispondere agli ultimi atti della sua tragedia che riescono freddi ed inutili, a i primi pieni di calore, d’interesse e di passionea.
Lodovico Dolce morto d’anni sessanta in Venezia nel 1568 vi pubblicò più di una volta varie tragedie tratte da’ Greci e da’ Latini. Nel 1566 se ne fece una edizione che conteneva Tieste, Giocasta, Didone, Medea, Ifigenia, Ecuba. La sua Marianna si diede alla luce nel 1565, e fu rappresentata con indicibile applauso in quella città nel palazzo di Sebastiano Erizzo ad uno scelto uditorio di più di trecento gentiluomini; e quando volle ripetersi in Ferrara nel palazzo del duca, tale fu il concorso che non potè recitarsi. Questa frequenza delle rappresentazioni tragiche, questi applausi reiterati, quest’avidità di ascoltarle, indicano per avventura la mancanza di gusto per la tragedia che qualche trascrittor di giornali stranieri volle imputare agl’Italiani? Indicano ancora la languidezza e la noja perpetua a cagione delle greche imitazioni rimproverata ai componimenti tragici del cinquecento? Or chi non ignora la storia teatrale, potrà mai senza infastidirsene leggere gli arzigogoli de’ sedicenti filosofi e critici declamatori di oggidì i quali sostengono sempre opinioni singolari mal digerite contraddette dal fatto e dall’evidenza?
Assai di buono troveremmo esaminando la Progne di Girolamo Parabosco pubblicata nel 1548, la Cleopatra, la Scilla e la Romilda di Cesare de’ Cesari uscite alla luce nel 1550 e 1551, la Cleopatra del napoletano Alessandro Spinello stampata in Venezia nel 1550, la Medea del Galladei impressa nel 1558, l’Altea di Niccolò Carbone comparsa in Napoli nel 1559, la Fedra di Francesco Bozza uscita nel 1578 oscurata poscia di gran lunga da quella del secolo seguente del Racine, e l’Atamanta di Girolamo Zoppio data al pubblico nel 1579 di cui nell’epistola 50 del IV libro fa un bell’elogio il Mureto.
Potrebbe anche pascere alquanto la curiosità de’ leggitori la tragedia di Angelo Leonico intitolata il Soldato impressa in Venezia per Comin del Trino nel 1550 scritta in versi sciolti. L’azione passa tra personaggi particolari; privati ne sono gl’interessi; ed in quel tempo non parvero degni della tragedia reale. In fatti nel parlarne il Crescimbeni nel tomo I, dice di non meritare il nome di tragedia. Ne facciamo noi menzione perchè dee in essa ravvisarsi il primo esempio moderno di una tragedia cittadina, che i nostri scrittori nè seguirono nè pregiarono, e che più tardi Inglesi, Francesi e Tedeschi hanno tanto nel secolo XVIII coltivata, e che ha trovato un apologista infervorato nell’esgesuita sig. Giovanni Andres. Il Fontanini stimò inedita la tragedia del Leonico, ma ne fu ripreso da Apostolo Zeno. L’istesso Fontanini, e colui che aumentò le Drammaturgia dell’Allacci continuandola sino al 1765, caddero in un altro errore registrando il mentovato componimento il Soldato e la Daria come due diverse tragedie. Ma il lodato Zeno avverte che la Daria è un personaggio principale della tragedia del Soldato, e perciò che il Soldato e la Daria sono una sola tragedia, e non due.
Quattro tragedie pubblicò Antonio Cavallerino modanese nel 1582 e 1583, delle
quali parlano l’Allacci ed Apostolo Zeno nelle Annotazioni
all’Eloquenza Italiana. Sono: Telefonte, Rosimunda, Ino, il
Conte di Modena, la quale non contiene certamente
argomento greco, ma nazionale. Si crede che ne componesse sino a venti,
tralle quali una del caso di Meleagro,
la quale
(dice il Manfredi nelle sue Lettere)
mi diceste che sarebbe l’idea della tragedia
toscana
a. Sappiamo dal
cavaliere Girolamo Tiraboschi che il Cavallerino tradusse anche il Cristo paziente attribuito a san Gregorio Nazianzeno. Il
di lui Telefonte ha il pregio della scelta del più bel
soggetto tragico dell’antichità, cioè dell’avventure
del Cresfonte di Euripide che il tempo ci ha invidiato.
Il Cavallerino ha la gloria di averlo prima di ogni altro recato sulle scene
moderne.
L’immortale Torquato Tasso colla tragedia del Torrismondo
si elevò sopra la maggior parte de’ contemporanei, ed a pochissimi di quel
secolo lasciò la gloria di appressarglisi. Nel 1587 s’impresse in Bergamo, e
dall’autore si dedicò a don Vincenzo Gonzaga duca di Mantova e di
Monferrato. Ma alquanti anni prima comparve un abbozzo di questa tragedia
nella II parte delle Rime e Prose di Torquato Tasso raccolte per Aldo il
giovine nel 1582. Nell’edizione delle di lui opere fatta in Venezia da
Stefano Monti nel 1735 questo abbozzo vien chiamato
tragedia non finita
, e contiene un atto primo senza
coro di quattro scene, e due altre di un secondo atto, le quali tutte si
distribuirono poi nel primo e secondo atto della tragedia compiuta. I passi
più belli della non finita si sono ritenuti nella
perfezionata;
alcuni altri si veggono nell’ultima
migliorati; si osserva non pertanto che alcuna volta trovansi i concetti
espressi nell’imperfetta con maggior naturalezza. Eccone un esempio.
Torrismondo nella perfetta oppresso da rimorsi, nel narrare al consigliere i
suoi passati casi, e l’essersi imbarcato con Alvida per ritornare ad Arana,
e l’aver per una tempesta preso terra in un seno sicuro
tra’ curvi fianchi
di un monte, descrive minutamente
con mille poetiche immagini questa tempesta. Era però più proprio del genere
drammatico e dello stato di Torrismondo il sacrificar al vero quella copiosa
descrizione come prima avea fatto. Galealto nella non
finita l’avea con giudizio accennata:
Quando ecco la fortuna e il cielo avversoCon amor congiurati, un fiero turboMosser repente, il qual grandine e pioggiaPortando, e cieche tenebre sol misteD’incerta luce e di baleni orrendiVolser sossopra l’onde, e per l’immensoGrembo del mar le navi mie disperse,E quella ov’era la donzella et ioScevra di tutte l’altre a terra spinse ecc.
Torrismondo è un immagine di Edipo. Caduto in un errore per debolezza,
trovasi per disavventura involto in un delitto. Offende la fede data
all’amico Germondo nell’effettuare con Alvida le nozze che avea contratte
solo in apparenza; ma conosciutala poscia per sua sorella, si giudica
contaminato da una scelleraggine, cagiona la morte di Alvida col
narrarglielo, e si ammazza.
L’errore che dà motivo a
tanti disastri
(ottimamente affermò il
dotto Scipione Maffei nel II tomo del Teatro
Italiano)
non potendo essere più umano, nè più compassionevole, non
saprebbe incontrar meglio l’idea dell’arte.
Anche il
conte di Calepio ottimo giudice in simili
materie
ravvisa in Torrismondo un carattere compiutamente tragico,
e degno della perfetta tragedia che va felicemente al vero suo fine di
purgar con diletto le passioni per mezzo della compassione e del
terrore.
Non pertanto il gesuita Rapin benchè pieno di erudizione e di dottrina, o poco giusto o poco provveduto di certa sensibilità necessaria a giudicar dritto de’ componimenti teatrali, non fu mosso nè dalla tragica maestà dello stile nè dal patetico che regna nel Torrismondo. Egli che tralle altre pregiudicate sue opinioni pose in un fascio i tragici Italiani e gli Spagnuoli, asserì che il Tasso ed il Trissino aveano la testa stravolta da’ romanzi, e che perciò non poterono pervenire al carattere di Sofocle. Non parliamo ora del Trissino, nella cui tragedia si scerne subito il torto manifesto di quel gesuita, ed appuntino l’opposto di ciò che egli afferma, cioè in vece di una testa guasta da’ romanzi, un genio pieno di giudizio e di sobrietà, e un amore forse anche troppo eccessivo per la greca semplicità, e ben lontano da una intemperanza romanzesca. Più plausibile e meno incongrua all’apparenza parer potrebbe la di lui asserzione riguardo al Tasso, il quale ideò i suoi personaggi su i modelli della cavalleria de’ bassi tempi. Ma Rapin dovea dimostrare prima di ogni altra cosa, che ne’ tempi della cavalleria non potevano regnare nel cuore umano passioni grandi atte a destar terrore o compassione. Da’ più severi critici oltramontani nè prima nè dopo di Rapin non si è mai pensato a sostenere contro i nostri poeti romanzieri, che i costumi della cavalleria errante fossero improprii per le passioni grandi. Solo si è detto che hanno essi abusato del maraviglioso con tanti voli d’ippogrifi, con Atlanti e Melisse, con eroi fatati, con mille avventure stravaganti e incredibili ecc. Ora niuno di tali eccessi avrebbe potuto il Rapin riprendere nel Torrismondo, e si rivolse a riprovare i costumi stessi di que’ tempi come incompatibili col carattere tragico. Egli che tanto affettava d’insistere sull’osservanza delle regole di Aristotile, in quale aforismo di quel grande osservatore aveva appreso che il carattere tragico consista nella modificazione de’ costumi, e non già nella qualità delle passioni? Di più, che le grandi passioni umane appartengano più ad un tempo che ad un altro? E quando pure ciò fosse, per qual capriccio volle negarle a’ tempi del governo feodale, e della cavalleria notabili appunto pel vigoroso fermento delle perturbazioni più robuste? Io non so come non vedesse egli quel che tanti altri anche suoi compatriotti osservarono, cioè che l’epoca de i duelli, delle giostre, de’ beni della lancia, è appunto un ritratto appena da piccioli lineamenti alterato, de’ primi tempi eroici degli Ercoli, de’ Tesei, e degli Achilli puntigliosi. Che se in vece di un Edipo che per timore di un oracolo si esiglia volontariamente dalla patria, e fugge in vano le minacciate incestuose nozze, s’introduce un principe Goto che per servire all’amicizia si presta a sposare apparentemente una donzella, trascorre per fragilità ad amarla, e la riconosce in fine per sua sorella per un’ avventura conforme a quella del l’Edipo greco; di grazia da tali picciole differenze quale ostacolo qual pregiudizio ridonda alla sostanza dell’azione e degli affetti, e alla gravità tragica? La censura del Rapin appoggia rotondamente in falso.
L’altra cosa che non seppe veder questo critico francese, è che i costumi del
l’età in cui s’immagina che abbia dominato nella Gozia questo Torrismondo,
riescono pe’ moderni più verisimili di quelli degli antichi. E forse non se
ne trovano le immagini nelle favolose storie di Turpino, e nel romanzo della
Tavola Rotonda del re Artù, di cui parla il Camden in Britannia, e in altri simili, i quali (al dire
dell’erudito benchè infelice verseggiatore Chapelain)
sono storie che rappresentano i costumi Europei
di
que’ tempi
? Ma a che
mentovare i romanzi, quando la storia di quella bassa età ci è quasi sotto
gli occhi? Non erano generali in Alemagna i torneamenti, il primo de’ quali,
secondo Bastiano Munster
a, si tenne nel 938?
Allora che Rapin andava criticando l’Ariosto, il Trissino
ed il Tasso pe’ costumi della cavalleria, non si sovvenne del combattimento
di Guiglielmo duca di Normandia assediato nel 1079 nel castello di Gerberoi? Non erano e in Inghilterra e in Francia, come
altrove, generali i costumi della cavalleria nel secolo XIII ancora? Non si
ricordò Rapin della giostra data nella Borgogna nel 1272,
nella quale dal principe di Châllons fu disfidato
Eduardo I, che dalla Sicilia tornava in Inghilterra? Non pensò al cartello
di disfida mandato al re Filippo di Valois da Eduardo III
nel secolo XIV? Non al combattimento del medesimo
re col cavaliere Ribaumont nell’assedio di Calais? Non alle eroine militari che v’intervennero, celebrate
dallo storico e filosofo m. Hume, la contessa di Montfort, quella di Blois, e la regina
d’Inghilterra, che marciò in Iscozia alla testa di un esercito contra il re
Davide Brus? Non all’ordine della Giarrettiera istituito in questo tempo in occasione degli amori
del nominato Eduardo III per la contessa di Salisbury? Non
al combattimento de’ trenta Brettoni con trenta Inglesi, nel quale Beaumanoir gridava,
or si vedrà chi di
noi abbia più bella dama
? Questi medesimi torneamenti,
queste bizzarrie e disfide non continuarono e divennero frequentissime,
specialmente in Francia nel secolo XV? Non fu allora che con buon senno
disse un Inviato della Porta che assisteva ad una giostra,
per un vero combattimento è poco, e per uno scherzo è
troppo
? Potè almeno obbliar del tutto il Rapin il famoso combattimento de’ tredici Italiani con tredici
Francesi che
rimasero vinti ed uccisi con tanta
gloria del valore italiano? Potè dimenticare le speciose disfide di Carlo V
e di Francesco I? il duello del barone di Jarnac col
favorito di Errico II la Chateigneraie che vi fu ferito a
morte? In fine la disgrazia del medesimo Errico II ammazzato in una giostra
dal conte di Mongommeri condannato poscia a morte sotto
altro pretesto dalla vedova regina Caterina de’ Medici nel 1574? Ora tutti
questi combattimenti e queste disfide non seguirono nel secolo XVI, cioè in
quel tempo in cui fu composto il Torrismondo? Chè se la
tragedia di Torquato che con tanta energia dipigne le passioni generali e
comuni a tutti i tempi, quanto ai costumi ritrae al vivo quelli che
regnavano in Europa e che più si avvicinavano alle idee famigliari a quelli
che vivevano nel tempo stesso dell’autore; chi non vede quanto essa ne
divenga più pregevole sopra le dipinture totalmente greche, perchè più
credibile e per
conseguenza più atta a chiamare e
tener ferma l’attenzione? Se dunque havvi de’ nei nel Torrismondo, essi certamente non provengono da i costumi della
cavalleria additati dal Rapin come contrarii al carattere
tragico di Sofocle.
Nel nostro secolo, oltre ad altri scrittori gregariia, anche Egidio Saverio La Sante non meno
pregiudicato del suo confratello Rapin, benchè più
prudente, senza compromettersi con innoltrarsi a render ragione del proprio
giudizio contro del Torrismondo, si lusingò, in una sua
orazione recitata
nel gennajo del 1728 in
Parigia, di poterne oscurar
la gloria con un suo magistrale,
quid habet
Torrismundus? e che pregio ha mai codesto Torrismondo?
Che pregio, egli dice? Ecco quello che a me sembra che abbia di eccellente.
Un carattere tragico scelto con sommo giudizio ottimo per conseguire il fine
della tragedia: una dipintura fina delle passioni: un piano regolare: un
movimento nell’azione progressivamente accelerato: una versificazione
armoniosa: una nobile, elegante e maestosa gravità di stile: un patetico
vivace che empie, interessa, intenerisce, commuove ed eccita il bel piacere
delle lagrime. Sono forse moltissime le tragedie più moderne che possono
vantarsi di altrettanto? Ne presentiamo qualche squarcio che ne pardegno
degli sguardi di un leggitore
imparziale e
sensibile. Veggasi in prima l’eleganza, l’energia e la verità che campeggia
nella descrizione delle notturne inquietudini dell’innamorata Alvida nel
l’atto I:
… Oimè! giammai non chiudoQueste luci già stanche in breve sonno,Che a me forme di orrore e di spavento,Il sogno non presenti, ed or mi sembraChe dal fianco mi sia rapito a forzaIl caro sposo, e senza lui solingaGir per via lunga e tenebrosa errando,Or le mura stillar, sudare ì marmiMiro, o credo mirar di nero sangue,Or da le tombe antiche, ove sepolteL’alte regine fur di questo regno,Uscir gran simulacro e gran rimbomboQuasi di un gran gigante…E mi scacci dal letto e mi dimostri,Perchè io vi fugga da sanguigna sferza,Un’ orrida spelonca, e dietro il varcoPoscia mi chiuda.
Notisi con qual tragica gravità ella esprima la delicatezza e sensibilità che avviva tutti i di lei concetti:
Madre, io pur vel dirò, benchè vergognaAffreni la mia lingua e risospingaLe mie parole indietro: a lui soventePrendo la destra, e m’avvicino al fianco,Ei trema, e tinge di pallore il volto,Che sembra (onde mi turba e mi sgomenta)Pallidezza di morte e non di amore,O in altra parte il volge, o il china a terraTurbato e fosco; e se talor mi parla,Parla in voci tremanti, e co’ sospiriLe parole interrompe.
Poichè per lo scoprimento di essere Alvida sua sorella si avvisa il re Torrismondo di proporre le nozze di Germondo, odasi in qual guisa ella ne frema e si creda schernita:
Mentre il crudel così mi scaccia e parte,Prende gioco di me, marito vostro,Mi dice, è il buon Germondo, ed io fratello;Et adornando va menzogne e foleDi un ratto antico, e di un’ antica fraude;E mi figura e finge un bosco, un antroDi ninfe incantatrici, e il falso ingannoVera cagione è del rifiuto ingiusto;E fia di peggio. E Torrismondo è questi,Questi che mi discaccia, anzi mi ancide,Questi ch’ebbe di me le prime spoglie,Or l’ultime ne attende, e già sen gode.E questi è il mio diletto e la mia vita?Oggi di estinto re sprezzata figliaSon rifiutata! O patria, o terra, o cielo,Rifiutata vivrò? vivrò schernita?Vivrò con tanto scorno? Ancor indugio?Ancor pavento? e che? la morte, o il tardoMorire? et amo ancor? ancor sospiro?Lacrimo ancor? non è vergogna il pianto?Che fan questi sospir? timida mano,Timidissimo cor che pure agogni?Mancano l’arme a l’ira, o l’ira a l’alma?Se vendetta non vuoi, nè vuole amore,Basta un punto a la morte; or mori, et amaMorendo.
Alvida dopo ciò parte furiosa ed eseguisce il suo pensiero. Io invito l’anime tenere a vedere il quadro di Alvida moribonda e di Torrismondo addolorato. Ecco parte del racconto che se ne fa.
… Il re trovollaPallida, esangue, onde le disse, Alvida,Alvida, anima mia, che odo, ahi lasso!Che veggio? ahi qual pensiero, ahi qual inganno!Qual dolor, qual furor così ti spinseA ferir te medesma? oimè, son questePiaghe de la tua mano? Allor gravosaElla rispose con languida voce.Dunque viver dovea di altrui che vostra,E da voi rifiutata?…
Torrismondo giurando e lagrimando le conferma il cambio fatale, ed ella allora quasi pentita dell’attentato,
Parea d’abbandonar la chiara luceNel fior degli anni, e rispondea gemendo:In quel modo che lece io sarò vostraQuanto meco durar potrà quest’alma,E poi vostra morrommi.Spiacemi sol che il morir mio vi turbi,E vi apporti cagion d’amara vita.Egli pur lagrimando a lei soggiunse:Come fratello omai, non come amante,Prendo gli ultimi baci; al vostro sposoGli altri pregata di serbar vi piaccia,Che non sarà mortal sì duro colpo.Ma invan sperò, perchè l’estremo spirtoNe la bocca di lui spirava, e disse:O mio più che fratello, e più che amato;Esser questo non può, che morte adombraGià le mie luci.Da poi ch’ella fu morta, il re sospesoStette per breve spazio muto e mestoDa la pietate, e da l’orror confusoIl suo dolor premea nel cor profondo;Poi disse: Alvida, tu sei morta, io vivoSenza l’anima? e tacque.
Per non riconoscere il carattere tragico e lo spirito or di Sofocle or di
Euripide ne’ riferiti tratti naturali, patetici e veri a segno che con ogni
picciolo cambiamento si guasterebbero; per non commuoversi nel leggerli (or
che sarebbe rappresentandosi!); per resistere
in somma alle potenti perturbazioni che risvegliano, bisogna avere l’anima
preoccupata o poco sensibile di Rapin e di la
Sante, o l’ignoranza de’ Carlencas, o la
stupidità de’ nostri scioli che affettano nausea per tutto ciò che non è
francese o inglese. Io non sono cieco ammiratore di questa buona tragedia di
tal modo che non mi avvegga di varie cose che oggidì nuocerebbero alla
rappresentazione. Non si vedrebbero, per esempio, volentieri nelle scene
odierne i nunzii, le nutrici, l’indovino alla foggia antica. Siamo oramai
avvezzi a una maniera di sceneggiare diversa da quella del Torrismondo. C’increscerebbe ne’ fatti precedenti il bosco e
l’altro delle ninfe incantatrici che servono di base al cambio di Rosmonda e
di Alvida. Si vorrebbe purgata la favola di qualche scena di poca importanza
della nutrice, com’ è la seconda dell’atto I; della descrizione troppo lunga
e troppo circostanziata della tempesta in
bocca
dell’angustiato Torrismondo; delle lungherie della scena terza del medesimo
atto di Torrismondo col consigliere, in cui l’autore amplifica, esagera e
replica in varii modi e sotto varie forme le stesse cose; del racconto della
regina Madre de’ piaceri amorosi per indurre la figlia a maritarsi; della
minuta numerazione che fa Torrismondo de’ giuochi da prepararsi per la
venuta di Germondo; di quel cumolo di varii impossibili ammassato dallo
stesso Germondo nell’atto III,
Dal freddo carro muover
prima vedrem
. Si bramerebbe in oltre che in certi passi
lo stile non s’indebolisse. Tali cose veramente nuocer non possono alle
bellezze essenziali di questo componimento; perchè presso i veri
intelligenti la modificazione delle maniere esteriori ed alquanti nei di
poca conseguenza nulla pregiudicano alla sostanza ed al merito intrinseco
che vi si scorge; ma vero è però che spogliato di tali frondi spiccherebbe
meglio la vaghezza di un frutto raro di un
ingegno
in ogni incontro sublimea.
Questa tragedia non tardò molto ad essere conosciuta in Francia per la traduzione che ne fece Carlo Vion parigino signor di Delibrai, che si stampò in Parigi nel 1626, e si ristampò nel 1640 e nel 1646. Allora i Cornelii non aveano ancora lette le commedie spagnuole. È dunque (dicasi un’ altra volta con pace del Linguet) il Torrismondo una delle produzioni italiane che diedero a’ Francesi le prime idee delle bellezze teatrali.
Un’ altra buona tragedia italiana conobbe la Francia prima delle composizioni spagnuole, cioè il Tancredi di Federico Asinari nobile Astigiano conte di Camerano, nato nel 1527 e morto nel 1576; la quale, come osserva Apostolo Zeno, falsamente dall’editore fu attribuita a Torquato Tasso. Uscì la prima volta in Parigi nel 1587 col titolo di Gismonda. Di poi col proprio titolo di Tancredi si pubblicò in Bergamo nel 1588, benchè col nome di Ottavio Asinari fratello dell’autore; ma, per quanto afferma il conte Mazzucchelli, gli autori del catalogo de’ codici mss della real libreria di Torino ne fanno autore Federico, e così pensò ancora l’erudissimo Apostolo Zeno. Le particolari bellezze di questa tragedia vennero manifestate dal Parisotti in un Discorso inserito nel tomo XXV della raccolta degli Opuscoli del Calogerà.
Il Vicentino Giambatista Liviera di anni diciotto ebbe tanto di gusto che potè comprendere la bellezza dell’argomento del Cresfonte di Euripide, e ne compose la sua tragedia che col medesimo titolo s’impresse in Padova nel 1588; ma egli lasciò a una penna più felice e più esercitata il pregio di tesserne un’ altra con più tragico ed elegante stile.
Bongianni Grattarolo di Salò sul lago di Garda coltivò ancora a que’ dì la poesia tragica talvolta con felicità. In età assai giovenile compose in versi sdruccioli l’Altea che s’impresse nel 1556, e la Polissena, della quale non fa menzione il Fontanini. Scrisse poi l’Astianatte in miglior metro stampato in Venezia nel 1589, che nel secolo XVIII s’inserì dal Maffei nel Teatro Italiano. L’autore vi premise un argomento, in cui si distingue il contenuto di ciascun atto. La scena dell’azione dimostra Troja distrutta ed ardente col sepolcro di Ettore intero. Quante particolarità si sono narrate ne’ poemi di Omero intorno alle dissensioni degli Dei favorevoli a’ Trojani ed a’ Greci, ad oracoli, fatalità, predizioni, ad antichi delitti e spergiuri de’ principi Trojani, tutto trovasi ammassato nell’atto I fatto da’ Giunone ed Iride, che è insieme prologo e parte dell’azione. Risparmiar tante ciarle sarebbe stato pregio dell’opera. Nel rimanente si va dietro le orme di Seneca nel bellissimo atto III delle Troadi, ma col miglioramento che l’azione è una, restringendosi alla sola morte di Astianatte. Molti passi del Latino autore vi si veggono non infelicemente imitati; qualche altro non corrisponde al l’energia dell’originale. Allorchè si fa entrare Astianatte nel sepolcro, l’Andromaca del Grattarolo esprime i concetti di Seneca con maggior naturalezza, e forse con robustezza minore. Ma bisogna confessare che nel l’atto IV l’Italiano rimane ben al di sotto del Latino. Lascio tre versi d’Andromaca in occasione che il vecchio vuole imbrattare di sangue i cenci di cui si ha da coprire Astianatte:
Fia meglio trarre il sangue dal mio core,Che sendo il sangue suo conforme al mio,La fraude ne sarà meglio ajutata,
puerilità ed insipidezza priva di verità di gusto e di passione. Ma quello che più importa è che tutta la vaga scena di Seneca vi si vede malconcia. Andromaca nella tragedia latina dissimulando e piangendo con Ulisse dice che il figliuolo è morto. Nell’Italiana Ulisse dice alla prima che cerca Astianatte per menarlo ad esser sacrificato, ed Andromaca atterrita esclama subito,
Oimè! che religion crudele è questa?Che gran male hai tu detto in poche voci!
e poi
Ah Calcante crudel! forse CalcanteVi esorta questo, e vi minaccia questo?
Queste sono esclamazioni imprudenti che contro al disegno di Andromaca debbono far conchiudere all’astuto Ulisse che Astianatte è vivo. Per la stessa ragione non doveasi appresso far dire che egli si è perduto, e che non si sa dove sia; ma col tragico latino dirsi alla prima che è morto; perchè questa notizia bene accreditata dal dolor materno toglieva ad Ulisse ogni speranza; là dove l’essersi perduto stimola sempre più all’inchiesta. Di più il personaggio ozioso del vecchio colla sua presenza nuoce alla scena; perchè il sagace Itacese non lascerebbe di trarre anche da lui qualche notizia, e nol facendo, manca in certo modo al proprio carattere. Ma dopo queste aggiunzioni svantagiose fattevi dal moderno, la scena risorge, e si rende importante, ripigliando gli antichi colori del materno timore, onde Ulisse prende argomento per la vita di Astianatte.
Passando all’atto V non posso tralasciare di esaltare il giudizio di Torquato per ciò che soggiungo omesso nell’esame del Torrismondo. Egli superiore a Seneca, ed anche a più di un moderno, fa raccontare il suicidio di Alvida e Torrismondo a persone che non vi hanno il principale interesse. E come avrebbe la regina di loro madre potuto verisimilmente attendere il fine di una relazione circostanziata, piena come ella trovasi dell’orrore della sua perdita? I personaggi estremamente addolorati o debbonsi tener lontani dal racconto, o fargli operare secondo il proprio dolore; or questa passione non è capace di soffire un racconto minuto se non copo i primi impeti, e per così dire ne l’intermittenza. Seneca fa raccontar la morte di Polissena ed Astianatte al Ecuba ed Andromaca; ed il Grattarolo l’ha seguito anche in questo, benchè per altro il suo racconto a più di un riguardo sia pregevole. Anche da Seneca egli ha tratta la magnanimità di Astianatte nell’incontrar la more, e la dipinge in bei versi, ad eccezione di poche foglie, presentando degnamente lo spettacolo del campo greco e del precipizio del real fanciullo dalla torre.
Meritano di mentovarsi tra que’ tragici del secolo di cui parliamo, i quali si astennero dal trascrivere gli argomenti del greco coturno, Francesco Mondella, e Valerio Fuligni di Vicenza. Il Mondella scrisse l’Issipile che s’impresse in Verona nel 1582. Il fatto storico di essa seguì nel 1570. Dandolo difendendo Salamina nel regno di Cipro tradito dal bassà Mustafà venne in di lui potere, e fu bruciato vivo dopo di avere assistito all’eccidio de’ figliuoli. Il barbaro fa presentare alla vedova le mani tronche del padre e le teste de’ figliuoli con una coppa di veleno. Nel voler ella bere Mustafà la trattiene, la fa legare e la manda schiava a Costantinopoli. Il Fuligni dalla medesima invasione di Cipro trasse il suo Antonio Bragadino che nel 1585 la pubblicò dedicandola a Francesco M. II duca di Urbino. Quel valoroso difensore di quell’isola contro l’armata di Selim II fu parimente tradito dall’atroce Mustafà e straziato crudelmente.
Antonio Decio da Orta amico del Tasso compose l’Acripanda, il cui argomento nè anche si prese da’ Greci. Ussiano re di Egitto uccide Orsilia sua moglie per isposare Acripanda, e fa esporre il bambino che ne avea avuto. Questo fanciullo è allattato da una lupa, raccolto da un pastore e portato alla corte del re di Arabia, e per varie vicende egli stesso giunge ad impossessarsi di quel regno. L’ombra della madre di lui l’eccita a vendicarla; muove guerra al padre; l’obbliga ad una vergognosa pace, riceve in ostagi i di lui figliuoli avuti da Acripanda; gli fa in pezzi, e sono così portati all’infelice madre.
Appartengono a quest’ultimo periodo del secolo parimente l’Irene, l’Almeone, l’Ermete, e l’Arianna del Giusti, l’Arsinoe di Niccolò degli Angioli, l’Elisa del Closio, l’Ismenia, l’Antigone e la Teside di Gio: Paolo Trapoleni, la Ghismonda del Razzi, il Principe Tigridoro del Miari, la Tullia feroce di Pietro Cresci, ed alcun’ altra che si trova mentovata dal Quadrio. In esse vedesi talvolta troppo studio della semplicità greca, talvolta d’imitar Seneca nell’infilzar sentenze a guisa di aforismi, sovente di ornar con fregi proprii della poesia epica e lirica. Non pertanto anche dal solo titolo può rilevarsi non esser tratte da argomenti maneggiati da’ tragici greci, e chi le svolgerà vi loderà non poche scene appassionate che tirano l’attenzione. A me non è permesso della lunga via di fermarmi su ciascuna di esse.
Ravviva la storia delle tragedie degli ultimi anni del secolo la Semiramide di Muzio Manfredi da Cesena, il quale dal Ghilini si disse Ravennate perchè alcuni della di lui famiglia abitarono anche in Ravenna. Questa tragedia che s’impresse in Bergamo per Comin Ventura in quarto nel 1593 stando il Manfredi in Nansi, a giudizio di Francesco Patrizii può servire di esempio a chi vuole esercitarsi nel genere tragico. Anche il dotto editore del Teatro Italiano ne portò vantaggioso giudizio, al quale si sottoscriverà di buon grado chiunque la legga. Si distingue (egli dice) talmente col l’eloquenza, colla franchezza del dire e col giro e spezzatura del verso, che quel luogo che tiene l’Epido per l’orditura, la Sofonisba per l’affetto, e l’Oreste per la bellezza de’ passi, può questa giustamente pretendere per lo stile. Riconosce parimente il conte di Calepio nel Nino di questa favola un carattere sommamente idoneo al fin della tragedia.
Il soggetto di essa è fondato nella famosa regina degli Assiri Semiramide, la quale, secondo Diodoro e Giustino, trasportata ad amare il figliuolo viene da lui uccisa. Figura il Manfredi ch’ella voglia sposare questo suo figliuolo chiamato Nino, il quale da sette anni si trova occultamente maritato con Dirce e arricchito di due pargoletti chiamati Nino e Semiramide anch’essi. La notizia di questo secreto nodo mette la regina in tal furore, che medita la strage di Dirce e de’ figliuoli, e l’eseguisce in un sotterraneo. All’avviso fatale che ne riceve Nino si accoppia lo scoprimento che egli fa di esser Dirce sua sorella. L’orrore e la disperazione lo perturbano a segno che novello Oreste diventa matricida, indi trafigge se stesso nel medesimo luogo ove giacciono immersi nel proprio sangue Dirce e i figliuoli. Alla maniera greca e latina l’ombra di Nino indi quella di Mennone mariti l’un dopo l’altro di Semiramide facendo le prime due scene dell’atto I, preparano al terrore che spazia in seguito per la reggia di Babilonia. Non è un secco e digiuno racconto ma una scena animata e interessante la terza, nella quale questa virile regina narra alla confidente Imetra quanto ha disposto di Nino e di Dirce. Imposi (ella dice) a Simandio che dicesse
A Nino ch’egli omai fosse dispostoA meco unirsi in matrimonio, e ch’oggiVoglio che insiem celebriam le nozze,E che a questo non sia risposta o scusa.A Dirce dissi: al mio ritorno, o figlia,Fa ch’io ti trovi tutta lieta e culta,Ch’oggi sposa sarai di tal marito,Che a me grado ne avrai che tel destino.
Prevede Imetra le vicine funeste conseguenze del di lei empio disegno, ed a costo di qualunque rischio proprio tenta distoglierla dal proposto con una eloquenza vera e robusta nè aliena dal di lei stato, la quale fa ammirare l’arte del poeta senza che egli si discopra. Fralle altre cose cerca in tal guisa muoverla per l’ambizione e per la gloria:
Ma tu, Semiramis, che in tutto il mondoDi gloria avanzi ogni famoso eroe…..Tu che figlia di dea ti chiami e seiE dea sembri negli atti e nel sembiante,Se la tua gloria gira al par del SoleA che cerchi oscurarla? a che defraudiLa fama? a che le tronchi i più bei vanni?Qual Dio, qual legge è che consenta al figlioFarsi consorte de la madre, e nascaDi lor chi sia fratello e figlio al padre,Ed a la madre sia nipote e figlio?
Tutta traspare la feroce Semiramide nello sdegno che manifesta a tale ardito discorso. Non è ella una timida Fedra che ama insieme e paventa la vergogna di palesar l’amore: è una imperiosa conquistatrice cui tutto par lecito perchè può tutto, bastandole di velar la sfrenatezza con la politica. Avvezza agli eccessi nè più ravvisandone l’orrore, afferma con baldanza che la ragione di stato soltanto la determina a siffatte nozze, e ne palesa i politici impulsi. All’opposizione poi delle leggi risponde:
Quanto alle leggi, ogni dì nascon leggi;Ed io che posso, e mi conviene il farlo,Una faronne che da ora innanziLecito sia al figliuol sposar la madre.
Invano replica Imetra; la regina non cangia parere, e la spinge a Dirce. Riflette poi che Imetra debba aver qualche secreto nel cuore contro al disegno delle sue nozze e di quelle di Dirce, e soggiugne. Faccia
La sua fortuna, anzi la lor fortunaCh’io non discopra in ciò cosa diversa,Non pur contraria, al desiderio mio,Che a Dirce, a lei, a Nino istesso, a quantiColpa n’avranno, io mostrerò che importiIl macchinar contro il voler di donnaChe possa quanto vuol.
Preparata con tal maestria sì pressante angustia
alla fortuna di Nino e Dirce, per le nozze detestabili del figlio colla
madre, e per quelle di Anaferne con Dirce, riesce nell’atto II al sommo
interessante l’abboccamento di Dirce oppressa dal dolore con Nino che cerca
consolarla. E ciò avremmo desiderato che Pietro da Calepio avesse allegato
per uno degli ottimi esempi delle tragedie italiane, dopo di avere in alcune
di esse ripresa la poca congiunzione dell’atto II col I, e
il vedervisi
li trattati d’una scena non di rado
diversissimi da quelli dell’altra
a. Manfredi ha congiunte mirabilmente le premesse, i mezzi
e le conseguenze della sua favola ingegnosa. E notabile nella scena quarta
dell’atto II l’orrore che protesta Nino di avere per l’incesto, per cui si
mette sempre più in vista il tragico contrasto del carattere di Nino colla
passione di Semiramide, e si
prepara la di lui
disperazione per lo scioglimento. Nel medesimo atto si è disposto che
Simandio vada francamente a scoprire alla regina l’occulto matrimonio di
Nino e Dirce. Semiramide all’intenderlo si accende si una rabbia tremenda,
ed in conseguenza nel l’atto III minaccia di trarre a Dirce di propria mano
il cuore. Simandio, Imetra, il sacerdote Beleso con fobria insieme e maschia
eloquenza e con sommo calore parlano in pro degli sposi. Semiramide rimane
inflessibile. Al fine Beleso nulla sperando dalle armi della ragione,
ricorre a quelle del suo ministero, e la minaccia per parte degli dei,
benchè senza perder di vista il rispetto dovuto come vassallo alla sovrana.
La regina intanto si è fra se appigliata all’esecrabile partito di quietarlo
dissimulando, e mostrandosi commossa dalle sacre sue minacce invia Simandio
a Nino, e Imetra a Dirce perchè gliela conduca co’ figliuoli, affettando di
voler veder tutti, a tutti perdonare, e con festa degna di sì
gran re rinnovare le loro nozze. Ella accredita col
sembiante l’inganno, e riscuote applausi e ringraziamenti. Seneca nel Tieste e Giraldi nell’Orbecche usarono
del medesimo colore della dissimulazione; ma secondo me Semiramide
comparisce in ciò assai più grande e più tragica di Atreo e Sulmone. Chiude
nel più profondo dell’animo l’orrendo disegno; e tutti accoglie con somma
tranquillità ed allegrezza. Ma nell’equivoche espressioni che adopra, fa
trasparire da lontano la perversità dell’intento. In fatti questa Medea
dell’Assiria avuta appena Dirce e i nipoti in sua balia con ispietatezza
inaudita gli trucida. Atirzia ch’è stata presente alla strage atterrita
disciolta in lagrime viene nell’atto IV a narrarla. Il racconto fatto con
veri e vivaci colori è degno del pennello di Euripide, e forse di Dante e di
Omero, sì terribili ed evidenti sono le immagini degli uccisi, e sì
compassionevole la situazione di Dirce. Assiste veramente a questo racconto
l’infelice Nino, ma coll’
interromperlo tratto
tratto ne aumenta il patetico. Udito in fine l’ammazzamento di Dirce Nino
freme, non respira che vendetta, minaccia la madre, invano volendo Simandio
e Beleso farlo accorto della scelleraggine che medita. Egli va pur risoluto.
Ma nell’atto V torna fuori senza avere nulla eseguito nel vuoto de i due
atti. Il suo furore ha una specie di riposo. Or che ha egli fatto frattanto?
Ha forse combattuto trall’orrore della vendetta e l’enormità dell’offesa? Un
motto almeno di ciò avrei voluto ne’ di lui discorsi della prima scena,
nella quale torna ad accendersi di furore e ad accingersi alla vendetta.
Imetra nella seconda scena narra a Nino come Anaferne si è sommerso
nell’Eufrate, e la regina ha manifestato che Dirce era sua figlia. Ella ha
sperato che tolta Dirce di mezzo altro ostacolo rimaner non dovesse da
vincere in Nino che quello del peccato; ma saprà Nino (ella dice per bocca
d’Imetra) ch’egli
Sette anni è stato nell’error ch’ei chiamaPeccato incestuoso: era mia figliaDirce e sorella sua.
Quale orrore non cagiona sì tremenda notizia a Nino che ha sempre mostrato spavento particolare per l’incesto! Egli in prima va ripetendo le ragioni che accreditano la verità di tal notizia. A che (dic’egli) avrebbe ella
Chiamata Dirce da sua madre? e comePromessa sì l’avria liberamenteAd Anaferne, non l’essendo figlia?Ma quel che importa più, l’Armenia in dote?Non si dan regni alle altrui figlie in dote.Oltre di ciò facea ridendo un attoaChe la regina il fa sempre che ride.Nè il vidi mai che non scemasse moltoIl piacer ch’io prendea d’esser con leiRimembrando mia madre.
Certo Nino della disgrazia da lui maggiormente temuta diviene un Oreste agitato da trasporti furiosi. Cerca la regina di Assiria, non chiamandola madre, corre a lei, l’affronta, la trafigge, la mira, e piange; indi s’invia al luogo della strage della sposa e de’ figliuoli, e s’uccide. Nel racconto della morte di Nino il poeta imitando in parte l’attitudine di Tancredi al sepolcro di Clorinda principia colla pittura più espressiva del di lui dolore alla vista de’ figli e di Dirce:
Giunto al fiero spettacolo si stettePallido, freddo, muto, e privo quasiDi movimento; e poco poi dagli occhiLi cadde un fiume lagrimoso, e insiemeUn oimè languidissimo dal pettoFuori mandò, così dicendo…
Torquato Tasso nella Gerusalemme canto II, stanza 96 avea detto:
Pallido, freddo, muto, e quasi privoDi movimento al marmo gli occhi affisse.Alfin sgorgando un lagrimoso rivoIn un languido oimè proruppe, e disse.
Manfredi lo seguì; ma poi la stessa guida illustre lo sedusse; ed in vece di cercare nella natura, e nelle circostanze di Nino il linguaggio di un dolor disperato, seguendo Torquato anche in ciò che in esso si riprende, fa rivolger Nino a parlare al luogo, benchè poi la natura lo riconduce in istrada, e gli sugerisce molti concetti naturali e patetici. Un’ immagine anche bene espressa è la seguente:
Parve di morte empirsi, e restò chiusaSua vita io non so dove, e fu simileNel viso ai morti, e per buon spazio tacque
Feritosi al fine Simandio gli toglie dal petto il pugnale,
Dicendo, ah Nino! È questa la virtudeOnde sì risplendevi? A questo modoSi governano i regni?
Ed egli:
Non mancherà chi darà vita al regno…Io troppo vissi, ahi lasso!Regnino i cari al ciel, vivano i cariA la fortuna: lascia pur ch’io mora….Sai ch’anzi eleggevaIl parricidio che l’incesto, e vuoiCh’or viva incestuoso e parricida?Tu non m’ami se il vuoi: che se per questoMorta è mia madre, i miei figliuoli e Dirce,Come viver poss’io cagion del tutto?Disse e nel volto diventò di neve,E volendo seguir, di voce in voceSinghiozzò, chiuse i lumi, e spirò l’alma.
Bisogna confessare che questa Semiramide per uguaglianza,
nobiltà e grandezza di stile, e per versificazione vince quasi tutte le
tragedie del cinquecento. Il Manfredi è stato il meno avido di sollevarsi a
forza di ornamenti stranieri alla drammatica, cioè a dire epici e lirici. Si
lascia vedere di quando in quando qualche superfluità ed affettazione; ma
per quel tempo, in cui tutti correvano in traccia di mostrarsi poeti quando
meno abbisognava, può dirsi che Muzio ne sia stato esente. Invano la censurò
il suo contemporaneo Angelo Ingegnieri. La Semiramide
trionfo
dell’invidia e della pedanteria; e se in
vece di criticarla i pedanti, che sono alle lettere quel che è la rugine al
ferro, si fossero dedicati a rilevarne ciò che avea di migliore per
additarlo alla gioventù, forse avrebbero impedita nel seguente secolo
l’escursione e i progressi del mal gusto. Quasi a giorni nostri il celebre
marchese Maffei vi fece alcuni troncamenti del meno importante, e la fe
rappresentare in Verona, e piacque sommamente. E quando
essa non piacerà dove si ami la poesia tragica? E chi potrà dubitarne? Certo
niuno che l’abbia letto, che comprenda in che sia posto il vero merito di un
componimento tragico, e che non serbi in seno un interesse contrario alla
verità. E che mai (mi si permetta il dirlo) che mai spinse il signor Giovanni Andres ad affermare con mirabile franchezza de’
drammi Italiani del cinquecento, che
la freddezza e la
lentezza dell’azione or ne rendono stucchevole la lettura, e che
affatto intollerabile ne renderebbero la
rappresentazione?
Nè l’una nè l’altra cosa è vera. Ed
in prima guai di chi trovasse
stucchevole la
lettura
di componimenti scritti in aureo stile, cui
mancando ogni altro pregio rende accetti e dilettevoli a chi ha sapore di
lingua e di eloquenza italiana, la proprietà, la coltura, la purgatezza e
l’eleganza. Per l’altra parte ha per avventura oggi il gesuita Andres fatta di alcuni di essi qualche esperienza, onde senza
taccia di leggerezza potesse affermare che ne sarebbe
intollerabile la rappresentazione
? Vide l’Italia tutta
in quel secolo di luce quasi tutti que’ componimenti con diletto e plauso
indicibile impressi e rappresentati; e la fama e la riuscita ne fe molti
imprimere e rappresentare e piacere in Francia ancora; e
questa è storia. Nel nostro secolo non solo non è stata intollerabile la rappresentazione dell’Edipo in
Verona e in Venezia, e della Semiramide in Verona, e
dell’Aminta e del Pastor fido in
Napoli ed altrove, e di molte e molte commedie di quel tempo
con leggieri cambiamenti in più di un luogo; ma piacquero sommamente; e questa è storia ancora. Non seppe
questi fatti il signor Andres, ovvero (che sarebbe peggio)
gli volle dissimulare? Sarebbe a desiderare che la bell’opera di questo
erudito gesuita Spagnuolo sopra ogni letterature, al
pregio di essere ottimamente scritta congiungesse sempre l’altro
indispensabile della veracità e sicurezza ne’ fatti e della solidità ed
imparzialità ne’ gìudizii. Ma il campo era troppo vasto, e lo spirito di
apologia volle averci la sua parte. Tornando anche un momento su qualche
particolarità istorica della Semiramide notisi ancora che
il Manfredi è stato il primo in Europa a recare sulle scene questa regina
famosa degli Assiri, e senza averne trovato modello veruno fragli antichi ne
ha inventata e disposta con tanta regolarità ed artificio la favola e con
tale eccellenza, vigore ed eloquenza scolpiti i caratteri e animate le
passioni, che ha invitati i posteri a contar la Semiramide tra gli argomenti
teatrali. Quindi è che il Capitano Virues e don Pedro Calderòn de la Barca
si avvisarono di maneggiarlo in Ispagna nel secolo seguente, e nel nostro vi
si sono appigliati il Crebillon ed il Voltaire, su i quali potrebbe osservare l’avvocato Linguet, se vi sieno stati piuttosto determinati dalla tragedia
del Manfredi abbigliata alla greca, che da’ gotici drammi del Virues e del Calderòn.
Al Manfredi dobbiamo parimente un volumetto di Lettere famigliari da lui scritte nel 1591 dimorando in Nansì, nelle quali trovasi conservata la memoria di varii componimenti specialmente tragici rimasti per la maggior parte inediti. Nella 18.a. egli anima Eugenio Visdomini parmigiano a stampare due sue tragedie l’Amata e l’Edipo. Era colui suo compare; e forse questo titolo gliele fe parere degne di uscire alla luce dopo la Merope del conte Torelli. Nella lettera 19a indirizzata a Gabriello Bambasi altro parmigiano accademico Innominato dice che pubblichi le sue tragedie la Lucrezia e l’Alidoro. Stimola nella 20a il signor Antonio Scutellari a produrre la tragedia di Giacomo suo fratello intitolata l’Atamante, la quale, ei dice, è nobilissima e perfetta. Dell’Alessio tragedia di Vincenzo Giusti, censurata parimente dall’Ingegneri, parlasi nella lettera 31 scritta a Udine ad Erasmo Valvasone; e nella 161 scritta all’istesso Giusti, e se ne favella ancora insieme coll’Eraclea tragedia di Livio Pagello pur criticata dall’Ingegneri. Nella 181 indirizzata ad Orazio Ariosto a Ferrara si rammemorano alcuni suoi componimenti non impressi, un poema epico, una tragedia e una commedia. In fine nella 346 scritta al signor Muzio Sforza a Venezia desidera che gli si mandi un esemplare della traduzione di Girolamo Moncelli del Cristo, avendo saputo di essersi stampata. Debbo a queste notizie aggiugnere che a quel tempo vi furono altre due tragedie di penne non volgari rimaste inedite, l’Edipo principe traduzione di quello di Sofocle di Bernardo Segni, e le Fenicie di Euripide tradotta in latino da Pietro Vettori, che con altre di lui produzioni pur manoscritte si trovava in Roma nel 1756 in potere del commendatore Vettori parente di Pietroa.
Rimettiamo i leggitori alla Drammaturgia, all’opera del Quadrio, ed a qualche altro che si ha presa la cura di spolverarli nelle biblioteche, ove si tarlano, molti drammi sacri parte impressi e parte inediti del medesimo periodo. Tra essi possono togliersi dalla folla i due che soggiungo, perchè ridotti alle leggi della vera tragedia, cioè Jeste di Girolamo Giustiniano genovese impresso nel 1583, e l’altro Jeste di Scipione Bargagli pubblicato in Venezia nel 1600. Il nome di Giammaria Cecchi fa che rammentiamo ancora l’Esaltazione della Croce di lui opera rappresentativa recitata nelle nozze de’ Gran Duchi di Toscana, e stampata presso il Martelli nel 1592. Alcune tragedie Cristiane perdute si vuole che scrivesse ancora il benedettino mantovano Teofilo Folengo morto nel 1544, bizzarro ed ingegnoso autore delle Poesie maccaroniche sotto il nome di Merlin Cocajo, e del raro poema romanzesco l’Orlandino pubblicato col nome di Limerco Pitocco, del quale nel 1773 fece in Parigi una elegante edizione, pochi giorni prima di partirne, l’erudito nostro amico Carlo Vespasiano sotto il nome Arcadico di Clariso Melisseo, corredandolo di curiose erudite note. Lo stesso Folengo, ad istanza del vicerè di Sicilia don Ferrante Gonzaga, compose in Palermo, ove erasi rifugiato, un’ azione drammatica intitolata la Pinta o la Palermita, intorno alla creazione del mondo e alla caduta di Adamo.
Col bellissimo soggetto del greco Cresfonte maneggiato dal conte Pomponio Torelli col titolo di Merope, possiamo chiudere la storia delle tragedie italiane del Cinquecento. Fioriva in Parma verso la fine del secolo l’Accademia degl’Innominati, di cui era il Torelli uno de’ principali ornamenti. Egli vi recitò ciuque sue tragedie, la Merope, la Vittoria, il Polidoro, spiegandone eziandio l’artificio in due grossi volumi di Lezioni sulla Poetica di Aristotile, che trovansi manoscritti nella ducal Biblioteca di Parma. Cita monsignor Giusto Fontanini nell’Eloquenza Italiana l’edizione della Merope e del Tancredi fatta in Parma nel 1597, e poi quella di tutte le cinque tragedie del 1605, cioè tre anni prima della morte dell’autore. Ma la Merope s’impresse prima del 1591, per quel che ne scrisse il prelodato Muzio Manfredi a’ 18 di gennajo di quell’anno. Ora (egli dice) che il signor conte Pomponio Torelli vi ha fatta la strada collo stampare la Merope; la qual cosa confermò nelle lettere seguenti 19. e 20.
Noto n’è l’argomento e i punti interessanti dell’azione dovuti al greco inventore; ma la regolarità, l’economia, la gravità nelle sentenze, l’eleganza dello stile e la vivace dipintura de’ caratteri e delle passioni, debbonsi prima di ogni altro al Torelli, onde merita la sua Merope di collocarsi fralle buone italiane. Può singolarmente notarsi sin dalla prima scena assai bene espresso il carattere di Merope agitata ed oppressa dal pensiero di esser pur giunto il tempo prefisso alle sue nozze dal tiranno; e nell’atto II lo stato del tiranno; e nell’atto II lo stato del tiranno tormentato anche in pace da mille moleste cure. Egregiamente vi si disviluppa il di lui tirannico sistema e la ragion della forza che giustifica le scelleraggini. Ecco in qual guisa argomenta contro del Capitano della sua guardia:
Le leggi e ’l giusto, di che tanto parli,E per parlarne assai poco ne intendi,Non hanno sovra i principi potere,Che mal si converria, s’essi le fanno,Ch’essi all’opera lor fosser soggetti.Ma quella legge che in diamante saldoScrisse di propria man l’alma natura,Sola può dare e variar gl’imperi.Per questa sola tremano i potenti,A questa sola ogni gran re s’inchina.Ella comanda che colui prevaglia,Che di genti, di forza, e di consiglio,Di stato e di ricchezze gli altri avanzi.Che mal si converria che un uom sì degnonObedisse a chi men di lui potesse.
Di maniera che l’ingiustizia mai non trascura di prevalersi a suo pro della massima di Achille, il quale
Jura negat sibi nata, nihil non arrogat armis.
Notabile sembrami parimente nell’atto V l’artificio del poeta nel rendere verisimile l’ardito colpo di Telefonte. Per ordine del Tiranno i satelliti rimangonsi all’entrata del tempio, e Gabria, nel darne, e nel farne eseguire il comando, va esortando i fedeli amici di Merope mostrando loro Telefonte, istigando gli audaci, ispirando in tutti ardire. Preparato in tal guisa il colpo lo fa scoppiare.
Già morte eran le vittime, e le fibbreErano apparse liete alla regina.Fa condur Polifonte un bianco toroCon le corna dorate: a TelefonteChe si appresenti accenna: ei la bipenneAlzando, disse: o sommo Giove, prendiQuesto che per mio scampo t’offerisco.Ciò detto a Polifonte che rivoltoMirava fisso la regina nostra,Con improvviso colpo il capo fiede.Senza difesa far, senza parolaTraboccò nel suo sangue singhiozzando.
Non ho addotti gli squarci delle situazioni somministrate dall’antico argomento, bastando l’animare la gioventù ad osservarle colla sicurezza di trovarle egregiamente rappresentate. In somma se un movimento più vivace rendesse l’azione di questa tragedia meno riposata e più teatrale: se le robuste sentenze non fossero talvolta quasi ravviluppate in una soverchia verbosità: se Merope tentasse di uccidere il figlio, tale non credendolo, con una situazione più verisimile e più vigorosa: se Polifonte col mostrarsi un innamorato sì fido e costante, a segno di attendere dieci anni la conchiusione delle nozze, non venisse a combattere colla propria ambizione, affetto in lui dominante, e a debilitare il suo carattere essenziale di usurpatore avido di sangue: finalmente se Merope dopo l’odio sommo mostrato contro Polifonte in tutta la tragedia non iscendesse sino a piangerlo nella di lui morte e a dirgli,
Fosti ledi, fosti fedele amante: se tutto ciò, dico, non contrastasse con tanti pregi che vi si osservano, potrebbe questo componimento contarsi tra gli eccellenti. Ma quanto al metodo greco che vi si tiene, ed al coro continuo che spesso nuoce a’ secreti importanti della favola, è un difetto comune alla maggior parte delle tragedie di quel tempo. Non ne vanno esenti le altre tragedie del Torelli, e nè anche la Vittoria ed il Tancredi, le quali per altro debbono esserci care essendo del numero di quelle che si allontanano dagli argomenti greci, e dipingono, siccome insinuava il gran Torquatoa, costumi non troppo da noi lontani; e l’ultima singolarmente si rende pregevole per l’attività di purgare le pas ioni, per la qual cosa il conte di Calepio stimava doversi preferire alla stessa Merope.
Da questa ragionata narrazione, e non da arbitrarie decisioni, può ricavarsi
l’indole della tragedia Italiana del XVI secolo. Essa fu un nobile ritratto
della Greca, da cui riportò qualche neo ed una dose di lentezza, volendola
troppo imitare. Non si arrestò però ai soli argomenti greci, come talvolta
trascorsero ad asserire i critici moderni poco diligenti osservatori. Per
mezzo della nostra nazione nel Cinquecento divenne più ricco il teatro con
gli argomenti, che i Greci e i Latini non ebbero, della Sofonisba, del
Torrismondo, della Semiramide, del Tancredi, della Tullia, dell’Orazia, ed i
posteri l’ebbero dagl’Italiani. Ma quando anche queste nuove favole non si
dovessero all’Italia, non basterebbe ad eternarla l’aver fatto risorgere in
tante guise il Teatro Greco? Per questi meriti non ebbe ragione il
chiarissimo Saverio Bettinelli di asserire che
aliora surse e giunse
al colmo
la tragica letteratura, imitata poi da’ Francesi
e da Spagnuoli, con molto maggior minutezza e povertà che non aveano
i nostri mostrata nell’imitazione de’ Greci
? S’ingannò
dunque, dirò un’ altra volta l’abate Andres, allorchè con
troppa precipitazione ed arditezza sentenziò così:
La
parte drammatica
(degl’Italiani)
cede senza contrasto al greco teatro;
e benchè gl’Italiani siano stati
i primi a coltivare con arte e con vero studio la poesia
teatrale, non hanno però prodotto, prima di questo secolo, tolte le
pastorali del Tasso e del Guarino, un poema drammatico che meritasse
lo studio delle altre nazioni.
Quanto è difficile
entrare a sentenziare di cose che non sono della competenza di chi si arroga
l’autorità di giudice! Non hanno meritato lo studio delle altre nazioni i
tanti argomenti nuovi degl’Italiani, da’ quali gli Oltramontani hanno così
spesso
trasportato con poca alterazione non pure
il piano, l’intreccio, la condotta, le situazioni, lo scioglimento, ma i
costumi, i caratteri, i pensieri e gli affetti degl’interlocutori? Non
meritano lo studio delle altre nazioni i drammatici Italiani del XVI secolo,
se non per altro, per la cultura, proprietà, purgatezza della loro lingua
che a que’ tempi rifioriva? E pure il signor Andres stesso
non fu astretto dalla forza della verità a contradirsi:
Si distingue l’Italia sopra le altre nazioni per la superiorità di
parlare con tanta coltura la propria lingua, come se di questa
facesse tutto lo studio. Al principio del secolo XVI le lingue
nazionali giacevano tutte neglette e solo l’Italia poteva vantare
ne’ suoi volgari scrittori esemplari da paragonare in qualche modo
agli antichi, e da proporre al l’imitazione de’ moderni. La Spagna
fu la prima nazione che abbracciasse l’esempio
dell’Italia.
Imitar dunque, emulare con aurea
eleganza e purità
di stile i tragici antichi, inventare a loro norma favole eccellenti, farne
risonare le scene per tante città, quando il rimanente dell’Europa altro
quasi non avea che farse mostruose in lingue tuttavia rozze e barbare, era
l’unico opportuno espediente per diffondere il vero gusto della tragedia; e
il fecero gl’Italiani, con tuttochè non avessero, come indi non ebbero mai,
teatro tragico fisso e permanente, nè speranza di lucro e di premio, e da
qual altra cosa doveano essi incominciare, se non dallo studiare e ritrarre
talora con più recenti colori le bellezze de’ greci esemplari? E che
pedanteria ed affettazione transalpina è quella di tacciare senza riserba di
pedanteria e di greca affettazione i tragici Italiani del Cinquecento? E
senza prima osservare le vestigia de’ migliori, quando mai i moderni si
sarebbero innoltrati sino all’odierna delicatezza di gusto che rende
ingiusti ed altieri ancor certuni che non saprebbero schicchererare una sola
meschina
scena e che pur sono i più baldanzosi a
render giustizia e a dettar leggi teatrali? Ed a chi se non all’Italia si
debbe l’aver fatte risorgere le sagge regole del teatro? Or non sognava Voltaire allorchè scrisse:
Les
Français sont les premiers d’entre les nations modernes qui ont fait
rèvivre les sages regles du thèàtre; les autres peuples ont ètê long
temps sans vouloir recevoir un joug qui paraissait si
sèvère
? Non doveva sovvenirsi di ciò che fecero gl’Italiani
un secolo e mezzo prima di Cornelio introduttor delle
regole tra’ Francesi? Non pensò, ciò scrivendo, a quello che erano nel XVI
secolo nella drammatica i snoi nazionali? Non fu egli stesso che disse.
Pour les Français
(nel
XVI secolo)
quels ètaient leurs livres et leurs spectacles favoris? Les
Chapitres de torcheculs de Gargantua, l’Oracle da la dive Bouteille,
les pièces de Chrètien et de Hardis.
Conviene intanto osservare che i sopralodati ingegni Italiani, benchè per far risorgere la tragedia si avvisassero di seguire le orme de’ Greci, pure la spogliarono quasi totalmente di quella musica, qualunque essa siesi stata, che in Grecia l’accompagnò costantemente. Si contentarono i nostri di farne cantare i soli cori, come si fece in Vicenza, in Roma, in Ferrara, nel rappresentarsi Sofonisba, Orbecche ec. Altro essi allora non si prefissero se non di richiamare sulle moderne scene la forma del dramma de’ Greci, e non già l’intero spettacolo di quella nazione con tutte le circostanze locali, che a’ nostri parvero troppo aliene da’ tempi e da’ popoli, al cui piacere consacravano le loro penne.
Ma per essere stata spogliata della musica dovea dirsi che la tragedia
moderna non sia tale? E pure anche questo volle avanzare nel secolo XVIII
l’avvocato Mattei ornamento del paese ammaestrato da Pitagora.
Questa
(dicea)
che noi chiamiamo
tragedia, è
una invenzione de’ moderni ignota del tutto agli
antichi.
Crede egli dunque che il canto
esclusivamente la costituisca tragedia? Con sua buona pace egli s’inganna.
Dessa è tale per l’azione grande che chiama l’attenzione
delle intere nazioni, e non già di pochi privati,
per le
vicende della fortuna eroica
(secondo la giudiziosa
diffinizione di Teofrasto), per le passioni fortissime che
cagionano disastri e pericoli grandi, e pe’ caratteri
elevati al di sopra della vita comune. Per tali cose essenziali le greche tragedie che noi leggiamo, si chiamano così,
e non già perchè si cantarono in Atene, come immaginò il
Mattei. Euripide e Sofocle ed Eschilo non sono meno tragici nella lettura e
nella nuda recita che in una rappresentazione cantata. Ora i nostri
imitarono la tragedia greca appunto in quello che ne costituisce l’essenza;
mostrando con ciò quella saviezza che loro non supponeva il Mettei; il quale
osò ancora olrraggiare que’ valentuomini con parole poco urbane per
non dirle temerarie.
Essi
vollero
(dice degl’Italiani il calabrese
nuovo interprete de’ Greci Tragici)
lavorare le loro tragedie all’uso de’ Greci, senza sapere
che fossero le greche tragedie.
Un Torquato Tasso! un
Giovanni Giorgio Trissino! Uno Sperone Speroni! E sa il
signor avvocato Mattei quello che dice egli stesso? E come
non seppero essi che cosa fossero le tragedie greche? Non furono i primi
nostri scrittori, specialmente nel Cinquecento, quelli che mostrarono al
l’Europa l’erudizione del greco teatro? Non insegnarono essi tutto ciò che
poi si è ripetuto in altre o simili guise al di là da’ monti? E che si è
scoperto di più a’ giorni nostri? Qual riposto arcano ci ha rilevato la
singolare erudizione di Saverio Mattei? Fòrse che la tragedia e la commedia
greca si cantava? Ma quante e quante fiate si è ciò ripetuto a sazietà
intorno a tre o quattro secoli prima che nascesse don Saverio!