CAPO I.
Drammi Latini del XVI secolo.
Leone X che illustrò i primi anni di sì bel secolo, amando l’erudizione, la poesia e gli spettacoli scenici, gli promosse in Roma come gli avea favoriti nella sua patria; e ciò bastò per eccitare i più grand’ ingegni a coltivar la drammatica. Quindi è che si videro da prima in quell’alma Città, divenuta centro delle lettere, rappresentate nel loro natural linguaggio le favole degli antichi, come il Penulo di Plauto nel 1513 in occasione di essersi dichiarato cittadino Romano Giuliano de’ Medici fratello del pontefice, le Bacchidi del medesimo Comico col celebrarsi le nozze de’ Cesarini co’ Colonnesi, il Formione di Terenzio con un prologo del Mureto fatto recitare dal cardinale Ippolito da Este il giovine, e l’Ippolito di Seneca rappresentato avanti il palagio del cardinale Raffaele San Giorgio, in cui sostenne il personaggio di Fedra con tanta eccellenza il canonico di San Pietro Tommaso Inghiramoa dotto professore di eloquenza ed orator grande che fin che visse ne portò il soprannome di Fedra.
Oltre poi a queste rappresentazioni si composero in latina favella nuove tragedie e commedie. Il dotto Francesco Benzib scrisse due drammi Ergastus, e Philotimus coll’usata sua eleganza, ne’ quali introdusse personaggi allegorici, la Fama, la Virtù, la Gloria, e l’Inganno. Bartolommeo Zamberti veneziano compose la Dolotechne, e Giovanni Armonio Marso la Stephanium commediaa, nella quale fece egli stesso da attoreb. Antonio Mureto, benchè per nascita all’Italia non appartenga, avendo non pertanto quì composta la sua tragedia Julius Caesar, stimiamo più opportuno registrarla fralle molte latine degl’Italiani, che lasciarla isolata nel teatro francese di questo secolo. Giano Anisio, ossia Giovanni Anisio napoletano dell’Accademia del Pontano compose la tragedia Protogonos pubblicata nel 1556, su la quale fe poscia il commento Orazio Anisio suo nipote. Altre tragedie scrisse Giovanni Francesco Stoa.
Ma le più pregevoli tragedie latine
di questo secolo
uscirono da Cosenza. Antonio Tilesio celebre Cosentino dimorando in Venezia
l’anno 1529 diede alla luce la sua tragedia intitolata Imber
Aureus, che si reimpresse nel 1530 in Norimberga, e si rappresentò
ancora
magnificè feliciterque frequentissimo in
theatro
, siccome scrisse Cristofano
Froschovero, l’anno 1531, dirigendo il discorso alla gioventù
raccolta nel Collegio Tigurino. I contemporanei ed i posteri riconobbero la
forza e lo splendore delle sentenze e delle parole di questa Pioggia d’oro, per la quale la tragedia cominciò a favellare con
dignità e decenza. L’argomento consiste nella prigionia di Danae nella torre
di bronzo, e nella discesa di Giove in essa convertito in pioggia d’oro.
Eccone un breve sunto imparziale.
Atto I. Acrisio re degli Argivi avendo consultato l’oracolo sulla scelta di un genero intende che di Danae sua figliuola uscirebbe il di lui uccisore, e spaventato congeda i pretensori della mano di lei, risolve di non accompagnarla a veruno, e si raccomanda a Vulcano. Chiude l’atto un coro di Argive, la cui eleganza e leggiadria poetica gareggia co’ migliori di Seneca, e forse lo supera per lo candore. Ma intanto che compiange la principessa destinata a morir vergine, vede il popolo che in atto di stupore accorre alla reggia. Egli stesso vi si avvicina (e ciò dinota di aver egli mutato luogo senza lasciare di esser presente agli spettatori) e vede alzata una gran torre di bronzo opera istantanea di Vulcano, in cui è rinchiusa Danae con la sua Nutrice.
Atto II. Ode il Coro le voci lamentevoli di Danae che deplora la sua sventura. Ella desidera la morte, e tenta di darsela; la Nutrice la dissuade. Il loro dialogo ha tutta l’energia della passione, ed è soprammodo lontano dalla durezza delle sentenze lanciate ex abrupto alla maniera di Seneca. Danae si accorge dell’aquila ministra di Giove, e ne prende felice augurio, e va a fare una preghiera al Tonante.
Atto III. Gioisce Acrisio per l’opera stupenda in un momento costruita dal suo nume Vulcano, e si accinge a sacrificargli un’ ecatombe, e fa apprestare un lauto banchetto e dell’oro, per rimunerare i Ciclopi che ne sono stati i fabbri. La mercede ad essi distribuita, l’ebbrezza che gli opprime, la pugna che ha con gli altri Polifemo, e la morte di lui, empiono la maggior parte dell’atto. Sarebbesi ciò tollerato sulle scene Ateniesi, nelle quali ebbero luogo le contese piuttosto comiche che tragiche delle Baccanti, di Jone, di Alceste; ma dalle latine tragedie in poi si sono rigettate come impertinenti. Io non debbo dissimulare questo neo della tragedia del Tilesio; ma non è giusto poi lo spregiarla tanto, come altri fece, per tale episodio.
Atto IV. Ammirasi in quest’atto il racconto della pioggia d’oro penetrata nella torre pieno di eleganza e di vaghezza, che viene così preparato dalle commozioni di Danae che vuol parlarne alla Nutrice:
Da.
Nutrix, age, mea nutrix,Perii.Nu.
Quid est?Da.
Quae vidi!Nu.
Quid, mea, stupes?Da.
Heu!Nu.
Fare.Da.
Jam jam occidi.Nu.
Miseram me!Quid passa?Da.
Juppiter…Nu.
Te,Mea, sospitet; quid trepidasExterrita? quid horridulaRiget coma? quid hoc? eheu.Da.
Hic ipse, Juppiter ipse…Deliquit animus. O quaeSpectare contigit!
Gajamente è delineata la nuvoletta di color di rosa che si leva dal mare, ed a guisa di un augelletto si appressa alla torre, pende dalla di lei sommità, comincia a sciogliersi in leggera rugiada, e s’introduce per la finestra. Giova udire il medesimo leggiadro poeta nel rimanente:
Crebrescit Imber diffluens mox AureusIllapsus undique, penetransque, qua domusJunctura, qua diem inferunt spiracula.Mentis mihi quid fuerit ibi tum, cogita,Concreta cum pars, grando ut aurea, crepitans,Circumque resiliens peteret ultro sinum.Obrigui, ac ipso auro magis tunc pallui.Sed ubi animum tandem recepi perditum,Munus rata deum subdidi explicans sinus,Aurumque colludens, micansque sedula,Flavis, sonansque rivulis fluentibusIgnara sponte condidi in gremium mihi,Legens ubique quod jacebat protinus.
Con ugual nitore e vaghezza si descrive la trasformazione di quest’oro in un vaghissimo giovanetto che si palesa pel gran Padre degli nomini e degli dei. Danae ode da lui la serie de’ futuri suoi casi misti di gloria e di disgrazie vicine e lontane. Il Coro da questa pioggia d’oro coglie l’opportunità di parlar della potenza di Cupido, indi lo prega ad esser propizio al genere umano ed a contentarsi di sospiri, di lagrime, di dolci sdegnetti, ed a bandire dal suo regno i ciechi furori, i lacci, i ferri, i precipizii, le stragi.
Atto V. Si narra in esso come al sospettoso Acrisio sembra aver veduto nella finestra della torre il capo di Danae con quello di un uomo dappresso. Ne apre la porta, cerca il nemico insidiatore, si avventa alla figliuola, indi risolve di castigarla con una morte men pronta e più atroce. La fa chiudere in un’ arca di pino, ed inesorabile alle di lei lagrime la spinge egli stesso in mare. Il Coro col Messo ne geme; inveiscono contro dello spietato vecchio, e pregano Anfitrite di salvar l’infelice principessa. Termina la tragedia con tali parole indirizzate a Melpomene;
Jovis, o Melpomene, decus,Roseo vincta cothurno,Lyra cordi cui lugubris,Delatum hoc tibi munusFaxis perpetuum, rogo.
La regolarità, la convenevolezza del costume, la verità delle passioni dipinte, l’eleganza, il candore e la vaghezza mirabile dell’aureo stile, salveranno sempre dall’obblio questa favola; la languidezza e l’episodio poco tragico dell’atto III ne sono i nei che possono rilevarvisi, e che forse tali non parvero all’autore pieno della lettura degli antichi.
Contrasta colle grazie e veneri dello stile del Tilesio la maestà e la grandezza del suo compatriota ed amico Coriolano Martirano celebre vescovo di San Marco in Calabria. Fiorendo verso il 1530 egli divenne il Seneca del regno di Napoli anzi dell’Italia, per lo studio che ebbe di recare egli solo nella latina favella molte delle più pregevoli favole greche. Trasportò da Euripide Medea, Ippolito, le Baccanti, le Fenisse, il Ciclope; da Eschilo Prometeo; da Sofocle Elettra; dal Cristo paziente il suo Christus; da Aristofane il Pluto, e le Nubi; e con tal senno e garbo e buon successo egli il fece, che niuno de’ moderni latini drammi composti prima e dopo di lui può senza svantaggio venire a competenza colle sue libere imitazioni. Per dar conveniente idea del suo gusto e giudizio, additeremo in ciascuna favola la maniera da lui tenuta nel tradurre i Greci.
Nella Medea non potè Martirano approfittarsi delle bellezze
del piano di quella di Seneca, perchè seguì la greca, ma intanto scansò il
difetto del tragico latino di far parlare nell’atto IV pedantescamente la
Nutrice accumolando tante notizie mitologiche e geografiche, e l’altro della
pomposa evocazione de’ morti. Seguì l’originale nell’economia della favola;
ma si permise nel dialogo di dar talvolta nuovo ordine alle stesse idee, di
sopprimerle in un luogo se in un altro si erano
accennate, di rendere con più precisione in latino ciò che in greco si
disse con copia. Facendo moderato uso delle sentenze, schivò ugualmente
l’affettazione di Seneca e gli ornamenti rettorici famigliari ad Euripide.
Ciascuno
(dice in
Euripide nell’atto I il Pedagogo alla Nutrice)
ama più se stesso che gli altri, e chi ciò fa per giustizia
e chì per proprio comodo.
Martirano conserva l’idea
originale e si esprime con più semplicità e nettezza.
Quilibet sibi vult melius esse quam alteri. I trasporti de’
re
(dice nel greco la Nutrice)
sono veementi e da lievi principii prendono incremento, e
con difficoltà poi si cangiano i loro sdegni.
Martirano
così trasporta questo concetto:
… Superba magnorum indolesRegum semel commota, non temerè silet.
Euripide rende al solito assai ragionatrice Medea e per più di quaranta versi
lussureggia con varie sentenze morali, e con riflessioni generali sulle
donne
incominciando da Κορινθιαι
γυναικες
. Martirano risecando quasi tutto questo squarcio
attende solo alla passione di Medea per l’ingratitudine e l’infedeltà di
Giasone, consumandovi appena intorno a quindici versi,
Corinthiae puellae, acerbus est quibus etc.
Ma in contracambio dove campeggia il patetico del greco pennello egli ritiene interamente le più importanti scene, come quelle di Medea che cerca ed ottiene da Creonte un giorno d’indugio alla sua partenza, tutte quelle che ha con Giasone, il racconto della morte del re e della figliuola, nel quale però si è il Cosentino nella conchiusione astenuto dalle sentenze accumulate dal Greco tragico.
L’Ippolito del Martirano accompagna degnamente e senza arrossire al confronto quelli di Euripide e di Seneca e la Fedra del Racine. Merita di notarsi singolarmente la scena del delirio di Fedra che recammo nel tomo IV delle Vicende della Coltura delle Sicilie. Anche il racconto del mostro marino è una prova del gusto del prelato Cosentino, che orna moderatamente l’originale senza pompeggiare come fanno Seneca e Racine, senza l’inverisimile ardire che si presta ad Ippolito nel l’affrontare il mostroa, senza imitar Seneca che quando Teseo dovrebbe solo essere occupato della morte del figliuolo, lo rende curioso di sapere la figura del mostro,
Quis habitus ille corporis vasti fuit?
Nelle Baccanti segue Martirano al solito l’economia dell’originale esprimendone i concetti; ma negli incontri di Penteo con Bacco e nel di lui travestimento si contiene dentro i confini tragici, nè con Euripide scherza o motteggìa comicamente. L’ammazzamento inspira tutta la compassione. Gli si avventano Agave, Ino, le Baccanti, ed egli, perchè lo riconosca, così favella senza frutto alla madre:
………… Quo, mater, ruis,Clamabat. Ipsa haec membra, quae scindis, creas.Echionis, tuoque sum partu editus.Unde hic furor? Me cerne; sum natus; teneManus cruentas, mater, et Bacchum abjice,Quem cerno vestra terga quatientem anguibus.
Desta tutto il terrore la riconoscenza di Agave che nella pretesa testa del leone ucciso ravvisa quella del figliuolo.
Traducendo ed imitando le Fenisse sembra aver voluto dopo quindici secoli mostrare l’autore, in qual maniera avrebbe dovuto Seneca o qual altro sia stato l’autore della Tebaide, recare nella lingua del Lazio, senza i difetti di stile che gli s’imputano, le Fenisse di Euripide. Per nostro avviso niuna delle bellezze originali si è perduta nella versione del Cosentino. Vi si vede con somma naturalezza e vivacità espressa felicemente la scena di Giocasta co’ figliuoli, la dipintura assai viva de’ loro caratteri, la robustezza dell’aringa della madre, la descrizione dell’assalto dato a Tebe, l’uscita degli assediati, la rotta degli Argivi, Capaneo fulminato, il duello de’ feroci fratelli con tutta l’energia delineato.
Pari verità e sobrietà di stile e giudizio si scorge nell’imitazione del Ciclope di cui mi sembra singolarmente notabile il Coro dell’atto I da noi tradotto e recato nel t. IV delle Vicende della Coltura delle Sicilie.
Spicca parimente il di lui gusto nella scelta fatta nel tradurre l’Elettra. Delle tre greche tragedie rimasteci sulla
vendetta di Agamennone, benchè Martirano amasse con predilezione Euripide,
si attenne a quella di Sofocle
che per gravità di
dizione e per economia sorpassa l’Elettra di Euripide e le
Coefori di Eschilo. Manifesta parimente in essa il suo
buon senno col seguire più fedelmente che in altre l’originale, non avendo
dovuto risecar molto del dialogo giusto non meno che grave e naturale di
Sofocle. Egli appena vi si permette qualche picciolo cambiamento. Non
insinuarmi (dice Elettra a Crisotemi) di non serbar la fede a chi la debbo.
No (quella risponde) io ciò non insinuo ma sì bene di cedere ai potenti
(Αλλʹ ου διδασκω τοις κρατουσι δʹεικαθειν
). Martirano
muta solo l’idea della forza che presenta la potenza in
quella della giustizia, col sostituire la regia potestà:
Non ajo. At ipsis obsequendum regibus.
Degna di osservarsi è la di lui maniera di tradurre con sobria libertà nel famoso lamento di Elettra che ha in mano l’urna delle pretese ceneri di Oreste, che noi pur traducemmo colla possibile esattezza nel t. IV delle Vicende della Coltura delle Sicilie.
Colla stessa signoril maniera è cangiato in latino il Prometeo al Caucaso di Eschilo, benchè con più libera imitazione, specialmente nel descrivere che fa la situazione di Tifeo atterrato dal fulmine di Giove e sepolto sotto l’Etna, nella narrazione fatta da Prometeo de’ beneficii da lui procurati agli uomini e nelle veramente tragiche querele d’Io. Insomma il leggitore intelligente, oltre all’eleganza e alla maestà dello stile, ammirerà nelle di lui nobili imitazioni ora più ora meno libere ugual senno e buon gusto in quanto altera e in quanto annoda con nuovo ordine.
Quanto al di lui Cristo, ben possiamo con sicurezza e compiacenza affermare che per sì maestosa e grave tragedia debbe in tal Cosentino raffigurarsi un Sofocle Cristiano, sì savio egli si dimostra nell’economia dell’azione, e sì grande insieme, patetico e naturale nelle dipinture de’ caratteri e degli affetti, e nello stile sì sublime. Meriterebbe un lungo estratto, ma cel vieta l’ampiezza del nostro lavoro. Rechiamone un solo frammento del racconto eccellente della morte di Cristo fatto da Gioseffo a Nicodemo:
Jamque artubus se Christus e pallentibusSolvebat, inque extrema vexatus diuTendebat, imo corde cum gemitum ciensErexit oculos morte tabentes polo,Summamque acuto verberans auram sono,O rector, inquit, orbis omnipotens Deus,Cur me tuum relinquis? Afflicta exciditEx artubus vis omnis. O tandem, Pater,Mortalibus me liberum vinclis cape.Vix haec; et ecce pectori accidit caput;Lethique durus lumina obsedit sopor.Tum de repente magnus exoritur fragor,Tellusque ab imis mota sedibus diuImmugiit: vulsisque nutarunt jugisMontes: hiulcus saxa quatiebat tremor.Sol et repente (mira res) moriens velutSuam tenebris obruit densis facem:Terrisque dirus noctis incubuit nigror.
Anche il lamento sommamente patetico di Maria sopra la crudeltà Ebrea meriterebbe di trascriversi. Non cede questa tragedia in regolarità di condotta alle migliori; e in vivacità e verità di colorito ne’ caratteri e nelle passioni, e in grandezza e sobrietà di stile va innanzi a quasi tutte le tragedie di Seneca.
Ma per vedere Aristofane ritratto con tutte le sue grazie comiche senza che si rimanga offeso dall’oscenità tutta sua bisogna consultare l’eleganti traduzioni fatte dal prelato Cosentino delle Nubi e del Pluto, le più felici commedie di quel gran comico. Noi esortiamo la gioventù a leggerle, colla certezza che il travaglio di confrontarle coll’originale e colle languide ineleganti traduzioni de’ fratelli Rosetini di Prat’alboino, verrà compensato con usura dal diletto. In somma il vescovo Martirano quasi ne’ primi lustri del secolo colle otto sue tragedie e colle due commedie eseguì egli solo con ottima riuscita quanto a fare imprese in tutto il secolo l’Italia tutta, cioè fe rinascere con decenza e maestria la maggior parte del teatro Greco. Dovrà tutto ciò coprirsi d’ingrato obblio, perchè più di un secolo dopo surse Racine in Francia? Sono pur degni di compatimento certi critici e ragionatori di ultima moda! Passiamo alle tragedie Italiane.