CAPO VI.
La Drammatica oltre le Alpi nel XV secolo non oltrepassa le Farse e i Misteri.
Mentre sulle orme degli antichi giva risorgendo in Italia la poesia rappresentativa in latino e in italiano, l’ombra che n’ebbero i Provenzali si estinse e svanì totalmente, ed in Parigi rozza ed informe si restrinse a’ sacri misteri ed alle farse. Avea quivi preso forma di dramma il Canto Reale, rappresentandosi la Passione di Cristo nel borgo di san Mauro. Chi riflette alla vittoriosa forza della religione sugli animi umani, non istupirà dell’universale accettazione che ebbe sì importante argomento in tutta l’Europa Cristiana. In Francia tirò una prodigiosa folla di spettatori. Ma perchè difficilmente possono le cose sacre presentarsi ne’ pubblici teatri senza inconvenienti e senza certa profanazione, convenne al Prevosto di Parigi proibir tali rappresentazioni. Gli attori che ne traevano profitto, implorarono il favore della Corte prendendo il titolo di Fratelli della Passione, e nel 1402 ne ottennero da Carlo VI l’approvazione. Posero allora il teatro nell’ospedale della Trinità, rappresentandovi per tutto il secolo varie farse della Passione e diversi misteri del vecchio e del nuovo testamento. Uno di questi drammi della Passione scritto circa la mettà del secolo si crede composizione di Giovanni Michele vescovo di Angers morto in concetto di santo. Conteneva la vita di Cristo dalla predicazione del Precursore sino alla Risurrezzione, e consisteva in una filza di scene indipendenti l’una dall’altra, senza divisione di atti, e si recitava in più giorni. V’intervenivano il Padre Eterno, Gesù Cristo, Lucifero, la Maddalena e i di lei innammorati. Vi si vedeva Satana zoppicando per le bastonate ricevute da Lucifero per aver tentato Gesù-Cristo senza effetto. La figlia della Cananea spiritata vi profferiva parole soverchio libere. L’anima di Giuda non potendo uscire per la bocca che avea baciato il divino Maestro, si figurava che scappasse fuori del ventre insieme colle interiora. Gesù-Cristo sulle spalle di Satana volava sul pinacolo ec. Tali rappresentazioni si adornavano con decorazioni curiose, e se ne cantavano gli squarci più rilevanti, come le parole del Padre Eterno.
Sotto la denominazione di Misteri vengono parimente le Vite de’ Santi poste sul teatro francese in questo secolo. Nominasi da’ collettori de’ pezzi teatrali francesi la Vita e i Miracoli di S. Andrea, la Vita di S. Lorenzo, la Pazienza di Giobbe. S’impresse in Grenoble la Vita di S. Cristofano composizione del maestro Chevalet, il quale conseguì il titolo di sovrano maestro in siffatti drammi. Narrasi in essa la conversione del gigante Reprobo chiamato poi Cristofano, il quale serve a varii re, perchè gli crede potenti, indi al diavolo da lui stimato di essi più potente; ma vedendo che si spaventa di una croce ed udendone dall’istesso diavolo la cagione, ne abbandona il servizio, e va in traccia di colui che l’aveva vinto. Nel tragittar che fa, per consiglio di un’ eremita, i viandanti da una sponda all’altra di un fiume, porta sopra le spalle un bambino, il cui peso crescendo a dismisura in mezzo all’acqua, si avvede della propria debolezza, e ne stupisce. Il bambino che era Gesù-Cristo gli si mostra circondato da’ raggi della propria gloria, e vola fralle nuvole. Reprobo riceve il battesimo. Termina il dramma col di lui martirio, e colla conversione del re di Licia, il quale per miracolo è ferito in un occhio da una saetta che dal petto di Cristofano ritorna verso di lui, e per miracolo ancora ricupera la vista giusta la predizione del martire gigante. Il mistero del Re che ha da venire, l’Incarnazione e la Nascita, sono altre farse spirituali di quel tempo, nelle quali solevano intervenire or cento or settanta or cinquanta personaggi.
Sotto Carlo VI morto nel 1422 furonvi in Francia, oltre a’ Fratelli della
Passione, varie altre compagnie di rappresentatori. Gli Spensierati (les Enfans sans souci) che aveano un capo chiamato il Principe degli sciocchi, mettevano sul teatro avventure
bizzarre e ridicole. I Clerici de la Bazoche, che
cominciarono con alcune farse dette Moralità, proseguirono
rappresentando mere buffonerie. I Cornards di Normandia
sotto un capo chiamato l’Abate de’ Cornards che portava la
mitra ed il pastorale, rappresentavano farse satiriche e insolenti. Tali
spettacoli francesi del XV secolo erano
scuole di
superstizione, indecenza e rozzezza
a
. Colà non si capiva ancora, che nella
drammatica eranvi modelli antichi da imitarsi con
profitto. Nè anche si erano i Francesi disfatti de’ misteri muti. Quando Carlo VII entro in Parigi l’anno 1436, vi fu ricevuto
come in trionfo, e dalla porta di san Dionigi sino alla chiesa di Nostra
Signora trovò tutte le strade piene di palchi con simili rappresentazioni.
La prima che incontrò fu la mascherata de’ sette peccati mortali combattuti
dalle tre virtù teologali e dalle quattro virtù cardinali.
Nella penisola di Spagna il popolo trattenevasi colle buffonerie de’ giullari
degenerati in meri cantimbanchi e ciarlatori. Nelle chiese recitavansi farse
sulle vite de’ santi così piene di scurrilità che sulla fine del secolo ne
furono escluse per un canone del Concilio Toledano tenuto nel 1473. Per dar
giusta ed istorica idea dello stato della drammatica del XV secolo in
Ispagna, ho voluto rileggere con somma pazienza quanto ne scrissero di
passaggio o di proposito i critici e gli storici della nazione. Ho voluto
pormi
sotto gli occhi il prologo di Miguèl Cervantes, la dissertazione del bibliotecario don Blàs de’ Nasarre, i discorsi del Montiano, e
del mio amico Don Nicolàs de Moratin, il tomo VI del Parnaso Espanol del Sedano: non ho
voluto trascurar di rivedere nè gl’infedeli sofistici Saggi
apologetici di Saverio Lampillas, nè le maligne
rodomontate e cannonate senza palla di Vincenzo Garcia de la
Huerta, nè i rapidi quadri di ogni letteratura
del gesuita sig. Andres. Dopo questa nuova cura nulla ho
trovato di più di quello che altra volta ne accennai, cioè dei due
componimenti quasi teatrali di don Errico di Aragona
marchese di Villena e di Giovanni La
Encina. Era il primo di essi una serenata o favola allegorica,
nella quale favellava la giustizia, la pace, la verità e la misericordia, la
quale secondo il cronista Gonzalo Garcia di Santa Maria
citato anche dal Nasarre, si rappresentò alla presenza del
sovrano in Saragoza. Fu il secondo una festa fatta
rappresentare dal conte de Ureñas nella propria casa
ospiziando il re Ferdinando che passava a Castiglia per isposare la regina
Isabellaa, e non già
in occasione
delle nozze de’ Cattolici re
, come asserì il Lampillas. Questo medesimo apologista (su di cui si fondò il più
volte lodato Andres suo confratello) di tale festa
teatrale dell’Encina ne fece
diversi
componimenti drammatici sacri e profani del XV secolo
, convertendo
al solito la storia in romanzob.
Il più volte mentovato signor Andres osa collocare in questo secolo ancora, e mettere in
confronto dell’Orfeo vero dramma compiuto e
rappresentato, la Celestina, dialogo, come confessa lo
stesso Nasarre,
lunghissimo e incapace di rappresentarsi
,
di cui il primo autore Rodrigo Cotta appena scrisse un
atto solo de’ ventuno che n’ebbe nel seguente secolo per altra manoa. Lo spirito di apologia nemico della verità e del merito
straniero imbratta in più di un luogo varie belle opere.
In Alemagna erano a que’ tempi assai usitati i giuochi di carnovale, dialoghi che la gioventù mascherata giva nel carnovale recitando per le case. Essi piacquero oltremodo pe’ colpi satirici che vi si lanciavano con lepidezza, e se ne composero non pochi. I più antichi che siensi conservati, si scrissero verso la mettà del secolo da Giovanni Rosenblut in Norimberga. Se ne contano sei così intitolati: 1 Giuoco di carnovale, 2 i Sette Padroni, 3 il Turco, nel quale il Soldano viene a Norimberga per pacificare i Cristiani, a cui un legato del Pontefice partecipa di aver commissione di caricarlo ben bene di villanie, 4 il Villano ed il Capro, il 5 tratta di tre persone che si sono salvate in una casa, ed il 6 contiene una dipintura della vita di due persone maritate. Oltre a questi giuochi cominciarono gli Alemani verso la fine del secolo a volgere gli sguardi alcun poco agli antichi e tradussero Terenzio. Si conserva nel Collegio di Zwickau un estratto di due commedie Terenziane de stinate a rappresentarsi dagli scolari. Nel 1486 s’impresse in Ulm una traduzione dell’Eunuco, e nel 1499 quella di tutte le commedie del comico Latino.
Nelle Fiandre troviamo a stento quella rappresentazione muta che soleva praticarsi ne’ dì festivi nelle chiese e ne’ pubblici ingressi de’ sovrani nelle città. Allorchè Carlo ultimo duca di Borgogna entrò in Lilla nel 1468, i Fiaminghi rappresentarono per mistero senza parole il Giudizio di Paride. Tre femmine nude erano le tre Dive: una ben robusta, pingue e di statura gigantesca figurava Giunone; Venere era dì una magrezza straordinaria; e Pallade si rappresentava da una nana, gobba e panciutaa.
Continuarono in Inghilterra i Misteri e le Farse, come può vedersi dal Dizionario di Chambers.
Tale è la storia teatrale dal risorgimento delle lettere sino alla fine del secolo XV. Chiaramente da essa si ravvisa che dentro delle Alpi, dove appresero gli altri popoli a vendicarsi in libertà, e propriamente in Piacenza, in Padova, in Roma, colle rappresentazioni de’ Misteri rinacque l’informe spettacolo scenico sacro: che quivi ancora, e non altrove, nel XIV secolo se ne tentò il risorgimento seguendo la forma degli antichi coll’Ezzelino e coll’Achilleide tragedie del Mussato, e colle commedie della Filologia del Petrarca e del Paolo del Vergerio: che nel XV, il secolo dell’erudizione, continuarono a scriversi tragedie dal Corraro, dal Laudivio, dal Sulpizio, dal Verardo, e commedie dal Bruni, dall’Alberti, dal Pisani e dal Polentone, ed in volgare assicurarono alle italiche contrade il vanto di non essere state da veruno prevenute nel dettar drammi volgari, la Catinia, l’Orfeo, il Gaudio di amore, l’Amicizia, molte traduzioni di Plauto, il Giuseppe, la Panfila, il Timone: finalmente che gl’Italiani nel XIV e XV secolo nel rinnovarsi il piacere della tragedia non si valsero degli argomenti tragici della Grecia, eccetto che nella Progne, ma trassero dalle moderne storie i più terribili fatti nazionali, e dipinsero la morte del Piccinino, le avventure del signor di Verona, la tirannide di Ezzelino, la ferita del re Alfonso, la presa di Granata, l’espugnazione di Cesena.
Che se l’esser primo nelle arti reca qualche gloria, e questa non può negarsi all’Italia per la serie de’ fatti narrati e finora non contraddetti da pruove istoriche, sarà il ridirlo delitto per lo storico, oltraggio pel rimanente dell’Europa? Dovea egli perciò meritare di esser lo scopo delle villanie del superficialissimo pedante Vicente Garcia de la Huerta seminate col carro in un Prologo da premettersi ad una immaginaria collezione di componimenti spagnuoli, che non aveva ancor fatta, e che non poteva mai far bene per mancanza di gusto, di materiali e di principii? Ci si presenterà nel proseguimento della nostra storia la gloria drammatica delle altre nazioni in qualche periodo talmente luminosa, che la stessa Italia ne rimarrà quasi offuscata, ed allora nel riferirla ci faremo un pregio non solo di tributare al merito straniero le dovute lodi, ma d’impiegar la nostra diligenza in rintracciar quel bello che sembra sovente esser fuggito agli stessi panegiristi e declamatori nazionali. In attendendo non attribuisca a’ pregiudizii italiani ciò che qui si è narrato, nè se ne offenda qualche appassionato straniero. Il vero mal si nasconde, ed il saggio non se ne offende. L’affettar dovizia nella nudità, l’affastellar sofisticherìe ed ironie impertinenti, l’inorpellar o non confessar la storia, il dissimular la forza dell’altrui ragionamento, l’andar accumulando contro l’Italia quanto di maligno altra volta ne ha seminato l’invidia, ed il sopprimer poi quanto se ne disse in vantaggio, l’esaltare i nomi de Lampillas, Huerta, Sherlock, Archenheltz, Kotzbue pel solo merito di aver maltrattato l’Italia; tutto ciò, dico, che costituisce la tremenda batteria degli apologisti antitaliani, piacerà a pochi entusiasti, i quali per un mal inteso patriotismo si lusingano di potersi accreditare per amici zelanti del proprio paese mostrandosi nemici del vero. Ma di grazia che cosa guadagnano i declamatori di mestiere nell’applauso fugace di un branco di compatriotti che vivono di relazioni, quando della di loro sottile eloquenza, della dialettica cavillosa, della maldigerita erudizione e della maschera filosofica, avveggonsi tosto gli nomini migliori della culta Europa?