(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome IV « LIBRO III — CAPO V. La Drammatica nel secolo XV fa ulteriori progressi in Italia. » pp. 148-185
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome IV « LIBRO III — CAPO V. La Drammatica nel secolo XV fa ulteriori progressi in Italia. » pp. 148-185

CAPO V.

La Drammatica nel secolo XV fa ulteriori progressi in Italia.

Due ben differenti aspetti all’apparenza contraddittorii presentano agli osservatori quelle Nazioni che si renderono chiare per le cose operate o patite nella pace e nella guerra. Mirate dal punto che discopre i loro progressi nelle scienze e nelle arti, sembra che un’ aurea pace abbia fornito tutto l’agio a’ filosofi, ed agli artisti tranquilli pergir tant’oltre. Viste poi dal punto che tutte manifesta le politiche e militari turbolenze che l’agitarono, si temerà pel destino delle arti e delle scienze. Ma simili dubbii e timori, giusti nelle distruttrici inondazioni de’ barbari, ben di rado si avverano nelle guerre de’ popoli culti, nelle quali la nazione che soffre, fida nel sovrano che vigila pel tutto, e conta ne’ casi avversi sulla moderazione del vincitore; ond’è che gli artisti e i letterati non intermettono i proprii lavori.

Arse l’Italia nel XV secolo di un alto incendio di guerra in più luoghi; ma le contese de’ Pisani co’ Fiorentini, de’ Veneziani co’ duchi di Milano, degli Angioini cogli Aragonesi, non impedirono l’avanzamento degli studii e delle arti, nè il favore e la munificenza di tanti principi e ministri verso i coltivatori di esse. Quindi è che dedicaronsi quasi generalmente gli uomini di lettere ad apprendere profondamente le due più famose lingue de’ dotti, ed anche a disotterrar nelle lontane regioni i Codici Greci e Latini, ed a moltiplicarne le copie, a correggerli, a confrontarli, ed interpretarli. Si raccolsero da per tutto diplomi, medaglie, camei, statue, iscrizioni ecc. Stabilironsi accademie, università, cattedre novelle, biblioteche pubbliche e stamperie. Si promosse lo studio della filosofia di Platone. Risorse l’epopea. Si coltivò l’una e l’altra eloquenza ed ogni genere di erudizione, specialmente per le cure del famoso segretario e consigliere de’ re Aragonesi Napoletani Giovanni Pontano, e del precettore di Leone X Agnolo Ambrogini detto il Poliziano, e del regnicolo Giulio Pomponio Leto.

Chi non sa che nel XV secolo foriero dell’aureo seguente divenne l’Italia l’emporio del sapere, chi nella propria casa non vide spuntare altrettanta luce, stenterà a crederea che dentro delle Alpi gli studii teatrali nelle mani di molti cospicui letterati fossero divenuti comuni e maneggiati con arte maggiore. Ebbero intanto gl’Italiani in tal periodo I farse per lo più italiane sacre e profane, 2 drammi regolari latini, e 3 componimenti eruditi dettati in volgare idioma.

Quanto alle farse non cessarono in Roma le rappresentazioni de’ Misteri, ma si fecero con maggior sontuosità. Scritta in volgare fu la rappresentazione di Gesù Cristo, a cui lavorarono il fiorentino Giuliano Dati vescovo di san Leo, il Romano Bernardo di Mastro Antonio e Mariano Particappa, e s’impresse in Milano per Valerio e Girolamo di Meda fratelli, e si ristampò in Venezia l’anno 1568 per Domenico de’ Franceschia. Altre ne scrisse anche in volgare Feo Belcari, di cui l’Isacco composta in ottava rima fu la prima volta recitata in Firenze nel 1449b. Posteriore alle nominate ma appartenente al medesimo secolo XV fu la Conversione di S. Maria Maddalena di Jacopo Alamanni divisa in cinque atti. La Conversione di S. Paolo si rappresentò in Roma verso il 1380 d’ordine del cardinal Riario. In Firenze sotto Lorenzo Medici si rappresentò il dramma San Lorenzo e Paolo nel 1488 da’ figliuoli di Francesco Cibò nipote d’Innocenzo VIII e di Maddalena figliuola di Lorenzo, di che può vedersi il suo biografo Roscoe presso Cooper-Walker nell’Introduzione alla sua opera su la Tragedia Italiana. Si vogliono al medesimo secolo riferire le sette farse spirituali inedite recitate in Napoli da me descritte nelle Vicende della Coltura della Sicilie a; come ancora le favole drammatiche allegoriche recitate da’ Fiorentini nel 1442 nell’ingresso trionfale di Alfonso I di Aragona in Napoli; e i Misteri della Passione ivi fatti rappresentare nella Chiesa di santa Chiara con magnifiche decorazioni dal medesimo re nella settimana santa l’anno 1452, in cui venne in questa città Federigo III imperadore; ed anche le farse buffonesche inedite di Antonio Caracziolo rappresentate per lo più alla presenza di Ferdinando I; e finalmente li Gliuommere nel dialetto napoletano di Jacobo Sannazzaro, e la farsa toscana del medesimo illustre poeta della presa di Granata rappresentata in quella reggia in presenza di Alfonso duca di Calabria nel 1489a. In questo secolo ancora, e propriamente nel 1489b, da Bergonzo Botta gentiluomo Tortonese si diede in Tortona quella tanto magnifica festa nelle nozze d’Isabella di Aragona figlia di Alfonso duca di Calabria con Giovanni Galeazzo Maria Sforza duca di Milano, nella quale, per quanto vedesi presso il Corio ed altri, la poesia, la musica, la meccanica e la danza spiegarono tutte le loro pompea.

Passando poi a componimenti veramente scenici composti in tal secolo da non volgari ingegni, troviamo una tragedia di Gregorio Corraro patrizio veneto morto nel 1464 composta in versi latini nel l’età di soli anni diciotto, intitolata Progne, alla quale fanno plauso, secondo Lilio Gregorio Giraldi, moltissimi eruditi del XVI secolo, e nel nostro col Marchese Scipione Maffei altri letterati ragguardevoli. Si produsse la prima volta in Venezia nel 1558, ed il Domenichi la tradusse in italiano, spacciandola come cosa propria.

Un’altra tragedia latina sulla Passione di Cristo compose in questo secolo Berardino Campagna dedicata dall’autore al pontefice Sisto IV, della quale fa menzione il lodato Maffei nella Verona illustrata.

Altra tragedia latina in versi giambici dedicata al duca di Ferrara Borso da Este compose Laudivio cavaliere Gerosolimitano nativo di Vezzano nella Lunigianaa, il quale appartenne alla famiglia Zacchia e fu ascritto all’Accademia del Panormita, benchè dal Pontano poco pregiato. Si agira sulle vicende del famoso condottiere conte Jacopo Piccinino arrestato improvvisamente nel 1464, e poi l’anno seguente ucciso per ordine di Ferdinando redi Napoli. Vidi il Codice Estense di tal tragedia in Modena nel fermarmivi per alcune ore nel 1779, ma non avendo l’agio necessario per leggerla interamente, degnò l’umanissimo cavaliere amico trasmettermene un breve estratto e qualche verso. Eccone il titolo: De captivitate Ducis Jacobi tragoedia. Contiene cinque atti senza divisione di scene, e solo in margine si segnano i personaggi che parlano, e qualche volta s’indica l’argomento della scena. Nell’atto I leggesi in margine Rex Borsius loquitur ; ed in fatti seco stesso egli parla a lungo delle prodezze del Piccinino; indi sopragiunge un sacerdote che narra varii funesti prodigii, e dopo aver molto l’uno e l’altro cianciato termina l’atto con un coro. Trattasi nel II atto de’ mali apparsi dopo la pace fatta , e gl’interlocutori sono un augure, il coro ed un messo che nulla dice di più degli altri. Nel III la scena passa da Ferrara a Napoli, ed in esso un ambasciadore del Piccinino al re Fernando dà avviso della venuta del generale, ed il re promette accoglierlo onorevolmente. Termina quest’atto col coro che canta le lodi di Drusiana moglie del Piccinino. Il IV atto è il più bizzarro. Il re alterca col carnefice esaminando se debba uccidersi il Piccinino tosto che fidando nel trattato venga in suo potere. Il carnefice insinua che si uccida, e la di lui eloquenza prevale. Si vede poscia il Piccinino nella prigione. Il carnefice viene ad intimargli l’ordine della di lui morte:

Dux Jac.

En jam satelles adest, meque petit.

Satel.

Dux, martis auctor potens, bellis inclyte,
Piget, dicam, piget: tibi fero necem:
Sic rex jubet, jam colla tende gladiis.

Il duce si sottopone alla condanna ed è ucciso; dopo di che dice il carnefice:

Quam graviter diram constans tulit necem.
Indolui huic tam duram sortem accidere.
Sed redeo ad regem; jam perfectum est scelus.

L’atto termina col coro che in compagnia di Drusiana compiange la prigionia del Piccinino. Nel V atto la scena torna a Ferrara. Un messo racconta al duca Borso la sventura del duce, e la tragedia termina con un coro. È un componimento languido e difettoso, nè la condotta, nè lo stile invita a desiderarsene l’impressione; ma pure è tragedia, ed ha il pregio di essere una delle prime di argomento tratto della storia moderna nazionale.

Giovanni Sulpizio da Veroli, il quale sotto il pontificato d’Innocenzo VIII teneva scuola dì belle lettere in Roma, vi fece rappresentare un’altra tragedia. Secondo ciò che ne scrive lo stesso Sulpizio nella dedicatoria delle sue Note sopra Vitruvio al cardinal Raffaello Riario nipote di Sisto IV, essa fu la prima veduta in Roma dopo molti secoli. Pietro Bayle, citando il p.Menestrier, afferma che questa tragedia fu cantata come un’ opera musicale di oggidì, fondandosi sulle parole del medesimo Sulpizio: Tragoediam quam nos agere et cantare primi hoc aevo docuimus. A me sembra però che il Menestrier ed il Bayle facciano significar troppo a quell’agere et cantare. Potrebbero, è vero, tali voci indicare che la tragedia tutta si fosse cantata, a somiglianza delle moderne opere in musica dal principio sino al fine. Ma potrebbero forse avere altri due significati, in ciascuno de’ quali sparisce ogni idea di opera. Perchè in prima non potrebbero esprimere rappresentare e declamare? Cantare dicesi pur da’ Latini e da noi il recitar versi, per quella specie di canto con cui si declamano; ed ogni poeta dice de’ suoi versi, io canto. Perchè poi non potrebbe dirsi che Sulpizio avesse voluto dinotar coll’agere il rappresentar nudamente la tragedia, e col cantare il cantarne con vera musica ciò che và cantato, cioè i cori, la qual cosa direbbesi acconciamente e con latina proprietà agere et cantare tragoediam, senza convertirla in melodramma moderno? Sopra simili fondamenti i due citati autori, seguiti pochi anni fa dal riputato cavaliere Antonio Planelli mio amico, veggono l’opera in musica dovunque cantaronsi versi, cioè ne’ canti de’ pellegrini di Parigi, nelle sacre cantate delle chiese, nelle cantilene riferite di Albertin Mussato. E potevasene allungar la lista co’ versi cantati da’ Mori prima delle giostre, con i cori Messicani, colle musiche Peruviane, co’ rustici canti de’ selvaggi, e con che no? Ma i moderni alla voce opera aggiungono una idea complicata e talmente circostanziata che la diversificano, non che dalle cose accennate, dagli stessi pezzi drammatici de’ Greci e de’ Latini, a’ quali pur si avvicina. Aggiungasi che dicendo Sulpizio di aver dopo molti secoli fatta rappresentare in Roma una tragedia, ci fa retrocedere col pensiero almeno sino a’ Latini, nè possiamo altrimenti concepir la tragedia di cui fa motto, se non come quella degli antichi. Ciò che solo con certezza si deduce dalle di lui parole, si è, che quel componimento fu una tragedia. Che poi questa si cantasse tutta, come pretese il Menestrier, ovvero se ne cantassero i soli cori, come noi stimiamo, ambedue queste opinioni sono arbitrarie, ed hanno bisogno di nuova luce istorica.

Verso la fine del secolo, cioè nel 1492 Carlo Verardo da Cesena nato nel 1440 e morto nel 1500, che fu arcidiacono nella sua patria e cameriere e segretario de’ Brevi di Paolo II, di Sisto IV, d’Innocenzo VIII e di Alessandro VI, compose due drammi fatti rappresentare in Roma solennemente dal mentovato cardinal Riario. Parla del Verardo e del suo Fernandus servatus Apostolo Zeno nelle Dissertazione Vossiane; ma non pare che avesse conosciuto la prima edizione in quarto fatta de i di lui drammi in Roma per Magistrum Eucharium Silber, alias Franck nel 1493 a’ 7 di maggioa Vi si trova impresso il Fernandus servatus, la Historia Betica, e una ballata in fine colle note musicali. Il piano del Fernando fu dal Verardo ideato in occasione dell’attentato di un traditore contro la vita del re che per miracolo di san Giacomo sanò dalla ferita; ma fu disteso in versi esametri da Marcellino suo nipote. Carlo dedicò il componimento all’arcivescovo di Toledo e primate delle Spagne Pietro Mendoza, e l’intitolò tragicommedia. Dicesi nella dedicatoria che fu ascoltata con sommo applauso dal pontefice e da’ cardinali e prelati. Nell’azione che non ha divisione di atti, intervengono Plutone, Aletto, Tisifone, Megera, Ruffo (che è il traditore) la Regina, una Nutrice, san Giacomo, il Re, il cardinal Mendoza, il Coro. Nel parlar che fa Plutone della religione di Cristo e di Maometto frammischia i nomi e i fatti di Piritoo, Castore, Oreste ed Ercole. Questa incongrua mescolanza è compensata dall’unità dell’azione condotta regolarmente nel giusto tempo con gravità e con facilità, e non senza nitidezza di locuzione se non con proprietà ed eleganza Virgiliana. Adduco per saggio la dipintura che fa Mendoza del traditore Ruffo dopo aver commesso l’attentato:

Respondet tanquam penitus ratione careret;
Nec dubium ratione caret, prenditque catenas
Mordicus, et populo spectanti triste minatur.
Res monstrosa quidem. Capiti stant lumina tetra,
Terribilis facies premitur pallore nefando,
Intuiturque solum semper non lumine recto:
Lingua venena gerit: livent rubigine dentes:
Deformis macies apparet corpore toto:
Nusquam risus adest: suspiria semper abundant:
Horrendumque caput redimitur crinibus atris:
Inficit aspectu quicquid conspexit acerbo.

L’altro componimento intitolato Historia Baetica rappresenta l’evenimento dell’espugnazione di Granata, ed è scritto in prosa, eccetto l’argomento ed il prologo che sono in versi giambici. Si fece pure rappresentare dal cardinal Riario nel suo palazzo in un teatro erettovi espressamente, e si ascoltò con grande applauso. Dicesi nel prologo:

Requirat autem nullus hic comoediae
Leges ut observentur, aut tragoediae;
Agenda nempe est historia, non fabula.

Ed in fatti par che l’autore si proponesse di narrare in un dialogo continuato l’azione esposta nell’argomento. In fine di questa composizione si trova scritto: Acta ludis Romanis, Innocentio VIII in solio Petri sedente, anno a Nat. Salvatoris mccccxcii, undecimo Kalendas Maii.

Leonardo Bruni che da Arezzo sua patria portò il nome di Aretino, nato nel 1369, e morto nel 1444, avea composta una commedia intitolata Polixena stampata più volte in Lipsia nel principio del secolo XVI. Leon Batista Alberti nato, secondo il Manni e il Lami nel 1398, e secondo il Bocchi nel 1400, e secondo che con maggior probabilità congettura il Tiraboschi nel 1414, scrisse in prosa latina nell’età di venti anni una commedia intitolata Philodoxeos, creduta per due lustri opera di un antico scrittore, perchè ha non poco dello stile degli antichi comici, e mostra lo studio fatto dall’Alberti della latina favella. E benchè poi giunto l’autore all’età di trenta anni l’avesse ritoccata e divolgata col suo nome, dedicandola al marchese di Ferrara Leonello da Este, non pertanto Aldo Manuzio il giovane volle pubblicarla nel 1588 sotto il nome di Lepido comico poeta antico. Alberto da Eyb ne inserì molti squarci nella Margarita Poetica, ma chiamò l’autore Carlo Aretino. Nella medesima opera dell’Eyb si mentova un’altra commedia latina di quel tempo di Marcello Ronzio vercellese intitolata de falso Hypocrita et tristi, adducendone molti passi. Ugolino Pisani parmigianoa compose alcune commedie latine, per le quali da Angelo Decembrio vien chiamato valoroso imitatore dello stile plautino b Una ne presentò al nominato Leonello succeduto al padre nel 1441, nella quale confabulavano le massarizie di cucina, secondo il medesimo Decembrio. Un’ altra in prosa intitolata Philogenia c trovasi ms nella R. Biblioteca di Parigi e nella Vaticanad, e nell’Estense benchè senza nome dell’autoree Quella che ne vidi io nella Biblioteca di Parma s’intitola Ephigenia a Secco Polentone, ossia da Polenta, cancelliere della Repubblica Padovana, chiamato dagli scrittori di que’ tempi Sico o Xicus Polentonus, cui i Padovani aggiungono il cognome di Ricci, compose anche in latino verso la metà del secolo una commedia in prosa intitolata Lusus ebriorum, la quale serbasi ms fra’ codici di Giacomo Soranzo.

Ma non composero gl’Italiani altro che farse e componimenti latini in questo secolo? Non ne scrissero alcuno in volgare, che loro assicuri l’anteriorità anche per questa via? Ve ne furono almeno dodici recitati e stampati, che quì recheremo, sebbene per esperienza io sia certo, che neppure un solo vogliano vederne i Lampigliani, tra’ quali con rincrescimento sembraci, che si debba noverare il riputato esgesuita Andres.

Appunto dal nominato Lusus ebriorum venne la più antica commedia volgare che abbiasi alle stampe. Modesto Polentone ne fè una traduzione Italiana, intitolandola Catinia da Catinio protagonista della favola, e pubblicolla in Trento nel 1472.a

Venne poi l’Orfeo del Poliziano, nel quale dee riconoscersi la prima pastorale tragica fra noi composta in volgare con qualche idea di regolare azione. L’autore non oltrepassava l’anno diciottesimo di sua età, quando lo scrisse in tempo di due giorni (com’egli accenna in una lettera a Carlo canale) intra continui tumulti a requisizione del reverendissimo cardinale Mantuano Francesco Gonzaga , in occasione che questi da Bologna ove risedea Legato, portossi a Mantova sua patria, ove era Vescovo nel 1472, come col Bettinelli asserisce il lodato padre Affò, o almeno prima del 1483, nel quale anno morì il Cardinale, come osserva Girolamo Tiraboschi. Il Bibliotecario di Parma nel 1776 fe pubblicarlo in Venezia, così intitolandolo: L’Orfeo tragedia di Messer Angiolo Poliziano tratta per la prima volta da due vetusti codici, ed alla sua integrità, e perfezione ridotta ed illustrata. Precede un argomento rinchiuso in due ottave. Ciascuno de’ cinque atti, ne’ quali è diviso, porta un titolo particolare. Chiamossi il primo Pastorale, il secondo Ninfale, il terzo Eroico, il quarto Negromantico, il quinto Baccanale.

Contiene il primo un’ecloga amorosa di Aristeo, che poi va in traccia della ninfa Euridice. Nel secondo egli la trova, e le corre dietro, ed indi a poco una Driade piangendo annunzia alle compagne la morte di Euridice, e vedendosi venir da lungi Orfeo la Driade manda altre ninfe a coprir di fiori l’estinta, ed ella ne reca a lui l’amara novella. Nel terzo esce Orfeo ignaro della sua sventura cantando un tetrastico latino ad Ercole, che incomincia, Musa, triumphales titulos et gesta canamus , e s’interrompe all’arrivo della Driade, da cui ode la morte dell’amata Euridice punta da morso velenoso di un serpente. Istupidito dal dolore parte Orfeo senza far motto alla maniera di Sofocle, rimanendo in iscena il satiro Mnesillo; indi ritorna piangendo la consorte, e risolve di calar giù nell’inferno,

A provar se laggiù mercè s’impetra. Trattasi nel quarto atto di ciò che avvenne ad Orfeo nell’inferno. Ma quì si chiederà come debba concepirsi la scena, passando tutta l’azione in due luoghi. Giudica il prelodato Affò essersi dovuta in Mantova formar la scena ad imitazione delle antiche, che figuravano a un tempo stesso più luoghi, e mostrar da un lato la via che faceva Orfeo nell’avvicinarsi alla reggia di Plutone, e dall’altro l’inferno stesso. Ma tale scena bipartita converrebbe all’atto IV, e non al rimanente. I sospiri di Aristeo, i lamenti delle Driadi, il pianto di Orfeo, cose che passano negli atti precedenti, e l’ammazzamento del poeta amante eseguito nel V dalle Baccanti, esiggono un’apparenza diversa da quella dell’atto IV. Dovè dunque cangiarsi la scena nella guisa che oggi avviene ne’ drammi musicali, servendo all’azione. La scena dell’atto I dovea rappresentare una campagna a piè di un monte con una fonte, presso di cui era Aristeo:

… appresso a questa fonte
Non son venuti in questa mane armenti,
Ma ben sentii mugghiar là dietro al monte.

Ed in tale scena potevano passare anche il II e III atto parlandovisi del medesimo monte. Rappresentò forse il IV il dilettevole orrore della dipintura di tante pene infernali sospese al cantar di Orfeo (siccome l’espresse il Poliziano seguendo Virgilio), e la reggia di Pluto, e la strada tenuta da Orfeo. Nel V potè tornare la mutazione de’ primi tre atti, accennandovisi eziandio il monte, questo monte gira intorno , ovvero cangiarsi il teatro in una foresta su questo monte destinata dalle Baccanti alla celebrazione de’ loro riti. Che se di tutte queste cose volesse idearsi una scena stabile, non riuscirebbe difficile compartirvele; ma allora sorgerebbe un dubbio inevitabile, cioè, come mai ninfe e pastori scorrendo per ogni banda non si sono avveduti della via che mena all’inferno, e delle apparenze dell’atto IV? Lascio poi stare il poco artificio di tener sotto gli occhi dello spettatore per tutta la rappresentazione la più vistosa decorazione della reggia di Pluto, mentre altrove espongonsi cose assai meno vivaci. Adunque la scena nell’Orfeo fuor di dubbio cangiossi, servendo anche allo spirito di magnificenza del secolo XV, in cui amavansi all’estremo (e ben l’accenna l’erudito annotatore) le maravigliose rappresentazioni, e le macchine sorprendenti . In quest’atto Orfeo implora il ritorno di Euridice tra’ vivi, Proserpina intercede per lui, e Plutone gliela concede a condizione, che non abbia a volgersi indietro per mirarla in tutta la via infernale. Sembra che dopo ciò dovesse chiudersi la porta ferrata della reggia. Orfeo tutto giojoso seguito da Euridice profferisce il seguente tetrastico latino:

Ite triumphales circum mea tempora lauri:
    Vicimus; Euridice reddita vita mihi est.
Haec mea praecipue victoria digna corona.
    Credimus, an lateri juncta puella meo?

L’ultimo pentametro indica la curiosità di Orfeo, che contro il divieto si volge a mirar la moglie, e la perde di nuovo per sempre. Euridice sentendosi tirar indietro, stende invano le braccia al marito, ed è tratta di nuovo nel regno della morte. Il Poliziano calcando anche quì l’orme di Virgilio così la fa parlare:

Aimè! che troppo amore
Ci ha disfatti ambidua!
Ecco che ti son tolta a gran furore,
E non son or più tua.
Ben tendo a te le braccia, ma non vale,
Che indietro son tirata. Orfeo mio, vale.

Orfeo vuol tornare per ridomandarla, ma vien respinto da Tisifone. Nel V atto Orfeo vaneggiando per lo dolore risolve di non mai più innammorarsi di donna veruna; ed era questo un sentimento naturale per la disperazione in cui si trovava. Ma doveva il Poliziano farlo passare ad abborrir le donne che non avevano a lui mancato, e a detestarle con certe espressioni convenienti unicamente agli Orlandi traditi da qualche Angelica? Doveva mettergli in bocca que’ versi che mostrano l’autor del dramma proclive al più detestabile sfogo della lascivia? Questi sono errori dell’età giovenile, o di quegli ingegni vivaci che troppo a se fidando mettono giù i loro parti senza scelta e con precipitanza a somiglianza de’ verseggiatori estemporanei impazienti di lima. Ma questo difetto e qualche altro che possa notarsi in questo dramma, faranno si che ne venga a perdere la natura drammatica? faranno che possa cancellarsi dal numero delle poesie sceniche volgari del secolo XV? faranno che l’eseguita sig. Andres abbia a cadere a porlo in confronto colla Celestina spagnuola pretta novella in dialogo, la quale non fu mai azione drammatica, non mai si rappresentò, non è fatta per rappresentarsi, non si era nel XV secolo ancora composta, perchè il primo di lei autore Cotta non ne compose se non che un atto solo de’ ventuno ch’ n’ebbe poi nel secolo XVI? Conchiudiamo sull’Orfeo. I sentimenti del cantore ingiuriosi al sesso femminile muovono a sdegno le Menadi furibonde che ne risolvono ed eseguiscono la morte, e con una canzonetta ditirambica termina la favola. Vuolsi in essa notare ancora che molte cose dovettero cantarvisi, specialmente alcuni pezzi delle scene di Orfeo, e le canzoni de’ Cori.

Due altre azioni teatrali volgari leggonsi nelle rime del Notturno poeta napoletano appartenente a questo periodo. S’intitola la prima Tragedia del maximo et dannoso errore in che è avviluppato il fragil et volubil sexo femineo, la quale nella Drammaturgia dell’Allacci s’intitola Errore femineo. In questa pretesa tragedia si trovano alcune scene comiche. Il metro è vario, contenendo arbitrariamente ottave e terze rime ed alcune strofe anacreontiche con un intercalare cantato da quattro musici. Su tali strofe osserviamo di passaggio che il pensiero di adoperare ne’ drammi le arie, cioè le stanze anacreontiche che oggi formano il più musicale dell’opera Italiana, non ci venne miga dal Cicognini, il quale verso la metà del secolo XVII le frammischiò al recitativo nel suo Giasone. Ciò credemmo da prima il cavaliere Antonio Planelli seguito poscia dal Tiraboschi, ed io nella Storia de’ Teatri che produssi in un solo volume nel 1777. Volendo io però nel terzo volume della Coltura delle Sicilie pubblicato nel 1784, a cagione delle strofe del Notturno, confessare spontaneamente di essermi ingannato, avvenne che un modernissimo gazzettiere de’ nostri paesi pretese che in sua coscienza io riposassi sulla prima asserzione del Planelli. Ma io che penso di avere una coscienza un pò più delicata de’ gazzettieri di queste contrade, le dico che si astenga di trarre il capo fuori del suo telonio e di frammischiarsi in ciò che ignora, e stia ad ascoltare chi sa più in là delle gazzette. Ripeto quì dunque che le ariette del Notturno interruppero il recitativo del dramma, nè ciò fecero ne’ soli cori, ma nel corso dell’atto; ed aggiungo che ciò accadde verso la fine del XV, cioè a dire un secolo e mezzo prima del Cicognini. Anche lo spagnuolo Stefano Arteaga volle rilevar l’additato avviso del Planelli, del Tiraboschi e del Signorellia, ed addusse l’aria dell’Euridice del Rinuccini

Nel puro ardor della più bella stella.

Egli però ciò scrisse nel 1785, ed io gli avea tolto il travaglio intempestivo di correggermene; giacchè un anno prima, cioè nel 1784, quando usci il citato volume III delle mie Vicende delle coltura delle Sicilie, me ne accusai e corressi senza bisogno dell’opera altrui. Lascio poi che le stanze allegate del Notturno hanno la prerogativa di aver preceduto di tutto un secolo anche quell’aria del Rinuccini posta in musica dal Peri.

La seconda azione scenica del Notturno è detta commedia nuova nell’edizione milanese, ed in alcune veneziane Gaudio d’amore. Il carattere di essa è nel basso comico, seguendo la condizione de’ personaggi antichi servi ruffiani parassiti meretrici. Ma tempo è di accennare alcuni altri passi teatrali dati in altre città italiane, e singolarmente in Roma ed in Ferrara.

In Milano il duca Ludovico Sforza fe aprire in questo secolo un magnifico teatro, di cui si parla in un epigramma di Lancino Cortia In Firenze il celebre traduttore di Tito Livio, Giacomo Nardi, secondo il Fontanini, al più tardi produsse nel 1494 la sua commedia composta in vario metro intitolata l’Amicizia. In Roma senza verun dubbio uno de’ principali autori del risorgimento della drammatica fu il rinomato calabrese Pomponio Leto. Per quanto leggesi nella Vita di lui composta da Marcantonio Sabellico, cominciò il Leto a farvi recitare ne’ cortili de’ prelati più illustri le commedie di Terenzio e di Plauto ed anche di qualche moderno, insegnando egli stesso ad alcuni civili giovanetti il modo di rappresentarle. A tempo di Paolo Cortes, per quanto egli stesso racconta, fecesi anche sul colle Quirinale la recita dell’Asinaria. Nel Diario di Jacopo Volterrano pubblicato dal Muratoria si parla di un dramma intorno alla vita di Costantino rappresentato a’ cardinali nel carnovale del 1484, nel quale sostenne il personaggio di Costantino un Genovese che da quel tempo sino alla morte fu sempre chiamato l’Imperadore.

Con maggior magnificenza ancora cominciarono nel 1486 a rappresentarsi in Ferrara feste e spettacoli teatrali sotto la direzione dell’infelice Ercole Strozzi figlio di Tito Vespasiano ferraresea; e niuno vi ebbe (dice Girolamo Tiraboschi) che nella pompa di tali spettacoli andasse tant’oltre quanto Ercole I duca di Ferrara principe veramente magnifico al pari di qualunque più possente sovrano. A’ venticinque di gennajo del mentovato anno, secondo l’antico diario ferrarese, questo splendido duca fe rappresentare in un gran teatro di legno innalzato nel cortile del suo palazzo la commedia de’ Menecmi di Plauto, alla cui traduzione egli stesso avea posto manob. A’ ventuno poi del medesimo mese del seguente anno vi si rappresentò la favola di Cefalo divisa in cinque atti e scritta in ottava rima dall’illustre guerriero e letterato Niccolò da Correggio (che non so perchè vien detto da Saverio Bettinelli Reggiano, essendo nato in Ferrara l’anno 1450, ove erasi recata Beatrice da Este sua madre); ed indi a’ ventisei dello stesso mese l’Anfitrione tradotto in terzarima da Pandolfo Collenuccio da Pesaro, il quale a richiesta parimente di Ercole I compose la sua commedia, o a dir meglio, azione sacra intitolata Joseph impressa poi in Venezia nel 1543 corretta da Gennaro Gisanelli. Sotto il medesimo duca e pel di lui teatro Antonio da Pistoja della famiglia Camelli secondo il Baruffaldi e secondo altri della Vinci, compose alcuni drammi, e specialmente la Panfila tragedia in terzarima in cinque atti stampata in Venezia nel 1508a. Pietro Domizio scrisse un’altra tragedia pel medesimo teatro che dovette rappresentarsi nel 1494b. Per uso dello stesso teatro furono tradotte anche in terzarima da Girolamo Berardo ferrarese la Casina e la Mostellaria stampate in Venezìa. Il famoso Matteo Maria Bojardo conte di Scandiano, ad istanza del medesimo duca, compose in terzarima e in cinque atti il Timone commedia tratta dal dialogo così chiamato di Luciano, la quale trovasi impressa la prima volta senza data, ma certamente si scrisse prima del 1494, anno in cui seguì la morte dell’autore, e se ne fece nel 1500 una seconda edizionea.

Non ci curiamo di riferire a questo secolo le due commedie italiane di Giovanni di Fiore da Fabbriano, e l’altra di Ferdinando di Silva cremonese intitolata l’Amante Fedele rappresentata nelle nozze di Bianca Maria Visconti col conte Francesco Sforzaa. A noi basti l’aver mostrato ad evidenza con altri non ambigui monumenti ciò che incresce ai Lampigliani, che l’Italia può vantarsi di aver coltivata la drammatica ad imitazione degli antichi con quella felicità che altri le invidia. Aggiugneremo con pace dell’esgesuita stimabile sig. Andres, che essa parimente prevenne le altre nazioni Europee in produrre i primi indubitati pezzi teatrali in lingua volgare (giacchè è piaciuto a questo letterato, altro non potendo, ricorrere a questo asilo) nè solo coll’Orfeo, ma con altri drammi eziandio, verità che vedrebbero con tutta l’Europa gli apologisti di ogni nazione, purchè gettassero via i vetri colorati di Plutarco. E chi allora metterebbe più in confronto una ventunesima parte di una novella in dialogo come la Celestina (che ebbe nel secolo vegnente per altra mano il componimento e mai non si rappresentò nè per rappresentare si scrisse) a tanti per propria natura veri drammi Italiani rappresentati con plauso e per tali riconosciuti, cioè alla Catinia, al Cefalo, al Gaudio d’amore, alla Panfila, ai Menecmi, all’Anfitrione, alla Casina, alla Mostellaria, all’Amicizia, al Timone? Ma passiamo subito a vedere lo stato della drammatica per tutto il XV secolo fra gli Oltramontani.