(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome IV « LIBRO III — CAPO II. Ritorno delle rappresentazioni teatrali dopo nate le lingue moderne. » pp. 80-124
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome IV « LIBRO III — CAPO II. Ritorno delle rappresentazioni teatrali dopo nate le lingue moderne. » pp. 80-124

CAPO II.

Ritorno delle rappresentazioni teatrali dopo nate le lingue moderne.

L’orrore e la desolazione che alla venuta de’ barbari settentrionali si distese per le provincie del Romano Impero, nè le sole furono nè le più fatali conseguenze di quel rapido incendio di guerra che le sconvolse. Col tempo si riparano le rovine, gli edifizii si rialzano, si ripopolano i paesi, quando il nuovo signore lascia intatti i costumi, e molto non altera la natura o la costituzione del governo. Egli stesso in tal caso parrà in certo modo conquistato dal popolo vinto; la qual cosa avvenne in fatti agli ultimi Tartari conquistatori della China, i quali ritenendo la polizia, la legislazione e i costumi del paese, diventarono i primi Cinesi. Ma i figli degli antichi Tartari che inondarono le provincie del Romano Impero sotto i nomi di Goti, Unni, Eruli, Gepidi, Vandali e Longobardi, con istabilir nelle conquiste una nuova forma di governo assai peggiore dell’antica, ci tolsero i patrii costumi ed il linguaggio, e ci coprirono di tutta la loro barbarie. Ed oh quanto tardi il tempo col soccorso di molte favorevoli circostanze giugne a distruggere gli effetti perniciosi di sì luttuose vicende! Alzò sulle nostre ruine il suo trono il governo feudale, tremenda polizia sino a quel punto a noi ignota e per propria natura poco propizia all’ordine e alla pubblica tranquillità. Usciti que’ conquistatori da paesi, ove regnava l’indipendenza, ove í primori riconoscendo un capo della nazione conservavano una gran parte de’ loro diritti, stabilirono fra noi un governo fatto per dividere in vece di unire. Le regioni conquistate formarono un corpo di varie picciole signorie col nome di feudi, le quali appena in tempo di guerra si congiungevano per bisogno, e nulla pace nulla fra loro convenivano e poco si attenevano al tuttoa.

L’Italia, la Spagna, l’Inghilterra empieronsi di piccioli tiranni gelosi degli acquisti e sempre pronti a guerreggiare sotto di un capo contro gli stranieri, o ad avere in conto di stranieri ora i compagni ora lo stesso sovrano per difendere i proprii diritti. Quindi il continuo sospetto che alimentava la discordia delle parti: quindi vennero quelle fortezze e castella opposte ad ogni nemico domestico o straniero, delle quali e nella Spagna e nel regno di Napoli ed altrove scorgonsi tuttavia in piedi su ripide balze grosse reliquie: quindi tante guerre intestine e tanti diritti di Leudi e Antrustioni, di Fedeli o Comiti e Gastaldi, di Ricoshombres e Infanzones: quindi i guidrigil o tasse degli uomini, per le quali un uomo ucciso valutavasi tal volta al vilissimo prezzo di venti soldi: quindi le misere condizioni di tanti vassalli angarii, parangarii, schiavi prediali, censili, terziarii, fiscalini ed altre specie di servi ed aldionia.

Ora quando trovansi gli uomini in una mutua guerra, quando poca è la sicurezza personale e presso che nulla la libertà, quando gli spiriti gemono agitati dal timore e depressi dall’avvilimento, come mai coltivar le scienze e le arti, polire i costumi e le maniere, e richiamare il gusto? Spazia allora senza ritegni una cieca e stupida ignoranza, e tutto è rozzezza, oscurità e squallore. Era tale presso a poco l’aspetto dell’intera Europa sino all’undecimo secolo.

In mezzo a tanta barbarie pur non manco in alcune regioni qualche solitario allievo della sapienza, il quale appressandosi al solio di Carlo Magno potè co’ suoi consigli eccitarlo alla magnanima impresa d’ingentilire e illuminare i popoli. Essendo in età di anni trenta calato questo gran principe in Italia nel 773 sfornito de’ rudimenti gramaticali della lingua latina; conobbe in Pavia il diacono Pietro da Pisa, ed esser volle suo discepolo. Dopo sette anni in circa apprese dall’inglese Alcuino la rettorica, la dialettica, l’aritmetica, l’astronomia; e così iniziato ne’ misteri del sapere concepì il bel disegno di spargere la coltura ne’ suoi vasti dominii, che oltre la Francia stendevansi in gran parte dell’Italia, e della Germania, e della Spagna. Il primo che in Francia tenne scuola nel di lui palagio, fu lo stesso lodato Pietro Pisano. Altri maestri di canto, di gramatica, di aritmetica, e di tutte le sette arti liberali, vi chiamò dall’Italia ad insegnare, mosso probabilmente da Paolo Diacono e da Paolino II di Aquileja, due uomini de’ più dotti del suo tempo. In simil guisa pervenne questo sovrano ad inspirar ne’ suoi sudditi l’amore delle scienzea. Alfredo intanto attese a rischiarare la Gran Battaglia. Ma questo barlume passeggiero sparso per le provincie oltramontane sparì sotto i successori dell’uno e dell’altro principe, e si ricadde nell’oscurità primiera. Dimenticate le leggi scritte, il dritto Romano, i capitolari, sursero da per tutto le costumanzea. La giudicatura cadde nelle mani di uomini senza lettere, i quali non di rado venivano dalle parti astretti a provar coll’armi la propria integrità e la giustizia della sentenza profferita, per la qual cosa in essi richiede vasi più forza di corpo che di mente. La maggior parte degli ecclesiastici intendeva a stento il Breviario. Presso i Francesi ed i Germani era ben rara cosa il sapere scrivere sino al XIII e XIV secolo; gli atti si attestavano con testimoni, ed appena sotto Carlo VII in Francia nel 1454, si raccolsero in iscritto le costumanze francesi. L’arte di scrivere era del pari ignorata presso gli Spagnuoli. La lingua Latina non solo si obbliò generalmente, ma degenerò ne’ pochi scrittori imbarbariti, e contrastando con cento idiomi oltramontani si convertì in certi nuovi parlari gergoni, i quali presero un carattere nazionale e distinto in Italia, in Francia, e nelle Spagne.

Chi avrebbe mai allora indovinato che in queste nuove lingue doveva col tempo rifiorire la più sfoggiata eloquenza Ateniese e Romana? che tutte le Muse doveano abbellirle di tutte le loro grazie? E pure il corso naturale delle nazioni apportò rivoluzione sì vaga e sì mirabile. Per un flusso e riflusso costante avverato da’ fatti corrono le nazioni dalla barbarie alla coltura, indi da questa a quella, giunta che sia l’una e l’altra al grado estremo. L’estrema barbarie produce inopia, e questa col divenir per forza industriosa reca successivamente ricchezza e coltura. L’estrema coltura degenera in lusso eccessivo, il quale diventa padre della mollezza e poltroneria; ed allora trascuransi le arti, si deprava il gusto, e si rientra nella barbariea.

L’Italia governata da’ pontefici Romani e in gran parte dagl’imperadori Greci, per consenso degli stessi Oltramontani, prima di ogni altro popolo emerse dalle ombre. Eravisi meglio conservato l’uso della scrittura ed i semi dell’industriab. Venezia, Genova, Pisa, Amalfi ed altre città Italiane furono senza contratto le prime a vedere il cammino di arricchire per mezzo del commercio. In questi paesi (dice Robertson nell’introduzione alla Storia di Carlo V) i più coltivati e civilizzati di tutta l’Europa , scendevano i crocesignati prima di passare in Asia, e vi lasciavano immense somme pel trasporto verso Terra Santaa. Le guerre d’Asia poi, la presa di Costantinopoli fatta da’ Latini, il passar che fecero le più fertili Isole dell’Arcipelago con una gran parte del Peloponneso sotto il dominio de’ Veneziani, de’ Genovesi e di altri Italiani, produssero lo stabilimento del commercio in Italia come nella sua più nobil sede. Quindi è che il celebre Ottone vescovo di Frisinga zio dell’imperadore Federigo I Barbarossa nel ritratto che dopo la mettà del XII secolo fece dell’Italiab, fralle altre cose attesta che le città Italiane de’ suoi tempi erano senza dubbio più ricche di quelle di oltramonti . La medesima sorgente di ricchezza, il commercio, ridestò fra noi il sopito natural desiderio dilibertà, sotto i cui soli auspici escono gl’ingegni dalla stupidezza e dall’inazione. Al commercio fiorente si dovettero i mezzi di scuotere il giogo de’ signori, e di stabilire un governo libero ed eguale, che agli abitanti assicurasse la proprietà de’ beni, accrescesse la popolazione e incoraggisse le arti. Uno spirito generoso d’indipendenza e di libertà fermentava nel cuor dell’Italia con tal vigore, che prima di terminare l’ultima crociata tutte le città considerabili avevano dagl’imperadori comperati o ottenuti tanti privilegii che si potevano chiamar libere a.

Qual meraviglioso insolito spettacolo non fu allora agli Oltramontani l’Italia florida e coraggiosa che osava la prima assalire e battere l’orribil mostro del governo feodale! La Francia vicina (dice il prelodato Storico Inglese) prima di ogni altra regione verso il VII secolo approfittossi del bell’esempio, il quale di mano in mano si comunicò all’Alemagna, indi alla Spagna, all’Inghilterra e alla Scozia. Così dietro le ardite tracce dell’Italia libera videsi quel terribil mostro in tanti luoghi perseguitato e mortalmente ferito. Così venne a indebolirsi l’indipendenza de’ baroni, le corone accrebbero la propria prerogativa, ed il popolo spezzate gran parte delle sue catene diede allo stato cittadini utili e industriosi. Ed ecco che intorno a questo tempo cominciarono i talenti a mettersi in movimento, e fiorirono in copia i versificatori volgari Provenzali, Piccardi, Siciliani e Toscani. Lusingossi l’apologista Lampillas di partecipar delle glorie Italiane di quel tempo col seminar dubbii pedanteschi sulla nascita di qualche scrittore e col procurare di appropriarlo alla sua nazione presupponendo scambi di sillabe ne’ codici adulterati. Non si curino gl’Italiani di segnalarsi in queste ridevoli picciole guerre di lettere posposte, le quali sprezzate risolvonsi in nulla. Basti alla moderna Italia il pregio singolare, non efimero, non equivoco, non mendicato con sofismi, reticenze ed artificii Lampigliani, nè con invettive e declamazioni di omiciattoli sedicenti filosofi, nè con villanie e tagliacantonate, ma certo, veduto e confessato da classici scrittori transalpini, cioè quello di avere insegnato alle nazioni ad esser libere.

Rinate colla libertà le opere dell’ingegno svegliossi lo spirito imitatore e rappresentativo. Fece il commercio stabilir le fiere, nelle quali ad oggetto di chiamarvi e trattenervi il concorso s’introdussero le danze e i divertimenti ludrici. Il Clero cui importava che i popoli non venissero distratti dalla divozione, alla prima proscrisse siffatti spettacoli, indi cangiando condotta e seguendo lo stile delle precedenti età, quando ad onta de’ divieti si videro introdotti nelle Chiese, ne ripigliò egli stesso l’usanza, esercitando L’arte istrionica, e mascherandosi e cantando favole profane nel Santuarioa Teodoro Balsamone autore del XII secolo sul Canone 62 del Concilio Trullano che proibisce agli uomini il prender vesti femminili, e coprirsi con maschere, osserva che a suo tempo ancora nel Natale di Cristo, e nell’Epifania i chierici si mascheravano in chiesa. Mediante però la legge del pontefice Innocenzo III riportata nel citato capitolo del Decretale, si conseguì finalmente nel principio del XIII secolo che si abolisse simile contaminazione de’ templi. Restovvi tuttavia la musica, e l’uso di celebrarvi con una specie di rappresentazione certe feste bizzarre, le quali oltramonti ebbero più il carattere di follia che di giuoco. Era nota bile nella cattedrale di Roano il dì di Natale la festa asinaria, nella quale compariva Balaam su di un’asina, e varii profeti che aveano predetta la venuta del Messia, e Virgilio, e la Sibilla Eritrea, e Nabucdonosorre, e i tre fanciulli nella fornacea Correva il popolo volentieri alla festa de’ pazzi che si celebrava dal Natale all’Epifania in molte chiese greche, e latine. In Costantinopoli l’introdusse verso il X secolo il patriarca Teofilattob: si celebrava in Francia in Dijon, in Autun, in Sens, in Viviers: in Inghilterra anche verso il 1530 trovavasi nella chiesa di Yorck un inventario, in cui si parlava della mitra e dell’anello del Vescovo de’ Pazzi c Non riusciva men cara a’ popoli di quel tempo la festa degl’Innocenti che era un tralcio di quella de’ Pazzi, e si celebrava nel dì de’ Santi Innocentia

Posero in oltre i monaci di mano in mano in dialogo le Vite de’ Santi, come quella di Santa Caterina recitata nel convento di san Dionigi. Altri simili dialoghi senza numero in Francia, in Alemagna, in Italia e nelle Spagne, recitaronsi nelle chiese o ne’ cimiteri, dove passava il popolo dopo la predica.

Ma sino al principio del XIII secolo fra tante poesie nella Piccardìa, nella Provenza, nella Sicilia e nella Toscana, non si rinviene cosa veruna appartente al teatro. Si favella di tragedie e commedie di Anselmo Faìdits nella poco esatta e favolosa storia de’ Poeti Provenzali del Nostradamus a, ma quell’Anselmo fiorì nel XIII secolo essendo morto nel 1220. Non ostante poi il titolo di tragedie e commedie, le di lui favole altro esser non doveano che meri monologhi o diverbii per lo più satirici senza azione, posti in musica da lui stesso, e cantati insieme colla moglie che egli menava seco iu cambio de’ ministrieri e de’ Giullari. L’Heregia dels Preyres è il titolo rimastoci di uno de’ dialoghi del Faidits, che si vuole che fosse una commedia da lui recitata in Italia stando al servizio del marchese Bonifacio da Monferrato.

Si parla eziandio di alcune pastorali de’ Provenzali che erano piccioli dialoghi ne’ quali confabulava il poeta e qualche pastorella. Tale fu quella di Paulet e della sua pastorella, i quali entrarono a parlare degli affari politici e delle vedute de’ gabinetti dell’Europa, e la pastorella specialmente favella dell’infante don Pietro di Aragona e di Odoardo d’Inghilterra. Simile fu il dialogo di Gherardo Richier con una pastorella, la quale benchè da lui trovata a caso, si mostra informata degli amori di lui colla sua Bel-deporta

Comprendesi nella denominazione di Poeti Provenzali più di una specie di mestiere. Dividevansi in Troubadores, cioè Trovatori detti dal trovar prontamente le rime e dall’inventar favole e narrarle in versi; in Canteres, o Cantori che aggiungevano il canto ai versi de’ Trovatori; e in Giullares, ovvero Giullari o Giucolieri, che equivalevano a’ Giocolieri o buffoni, i quali nelle pubbliche piazze, nelle fiere, e nelle feste o conviti che solevano dare le persone doviziose, intertenevano gli astanti con varie buffonerie accompagnate dal suono di qualche stromento ed anche dal ballo. Generalmente si dissero in latino barbaro Ministelli, che poscia si chiamarono in italiano da Giovanni Villani Ministrieri e da Matteo Villani Minestrieri, derivando dalla voce provenzale Mnestrels. Fiorirono principalmente i Trovatori verso la mettà del secolo XII nella Provenza, Linguadocca, Guascona, Gujenna, nel Limosino, nel Poitù, nell’Alvernia, in somma in tutta la parte di Francia che si diceva Gallia Gotica, o Meridionale, o Provenzale. Furono detti Trovatori quelle persone decorate ed ingenue che coltivarono la Gaja Scienza, cioè la poesia tutta a que tempi rivolta a sviluppar concetti amorosi che comprendeva la scienza d’amore; e per lo più tali trovadori erano Cavalieri, Principi, Vescovi, Canonici, Claustrali, e donne distinte per nobiltà, talento e pregi naturali. Essi tennero nella città di Aix capitale della Provenza e in Avignone la famosa Corte o Parlamento d’Amore, e poscia in Tolosa l’Accademia de’ Giuochi Florali, ove ognuno sceglievasi un’ Amica e la stabiliva sovrana dominatrice delle sue azioni e de’ suoi pensieri, e ne portava la divisa, ed a lei dedicava tutti i frutti poetici della propria fantasia, o le propensioni ed il pendio del proprio cuore. E chi volesse andar più oltre troverebbe in tali esercizii ed in simili amiche i semi di tutte le Nici, Clori, Lidie, Iri immaginarie e Dulcinee del Toboso e di ogni paese Europeo. Non può ragionevolmente rigettarsi l’opinione di chi afferma che tali poeti degl’infimi tempi e de’ mezzani non avessero preso l’esempio da essi conosciuto per sola tradizione da primi antichissimi Cantori e Rapsodi della Grecia, e posteriormente dagli Scaldi della Scandinavia e da’ Bardi poeti Celti della Gallia, della Scozia, dell’Irlanda e del paese di Galles nella Gran Brettagna. De’ quali verseggiatori famosi favellarono egregiamente lo Scozzese sig. Blair nella dissertazione intorno ai poemi del Celto Ossian, ed il valoroso nostro amico il sig. Cooper Walker nelle Memorie de’ Bardi Irlandesi. Furono questi i successori de’ Greci poeti, come Tirteo, che nelle battaglie accendevano e sostenevano co’ loro canti l’ardor marziale de’ guerrieri, battendo con entusiasmo l’arpa e cantando acconciamente alla circostanza. Inglesi, Scozzesi, Sassoni e Danesi ebbero’ simili cantori, che sommamente si tennero in pregio. In quanta stima essi fossero si rileva da’ fatti seguenti. Alfredo gran re d’Inghilterra in un tempo di barbarie, cioè nell’878, volendo spiare la situazione dell’armata Danese che avea fatta irruzione nel suo reame, si presentò al campo Danese. E benchè fosse conosciuto per istraniere, fu introdotto alla presenza del re, e cantò molti versi, e poscia esaminato il campo formò un piano di assalto, col quale tagliò a pezzi il nemico esercito. Sessanta anni dopo, cioè nel X secolo, Anlaff re di Danimarca collo stesso travestimento volle osservare il campo di Atelstan re d’Inghilterra, ma lo stratagemma riuscÌ infruttuosoa. Eduardo I d’Inghilterra era talmente persuaso della potente influenza de’ ministrieri sull’animo de’ combattenti, che avendo fatta la conquista del paese di Galles, per assicurarsela per dirlo colle parole del celebre storico filosofoDavide Hume) per una politica barbara ma non assurda , radunati in un luogo tutti i Bardi del paese, ordinò che si uccidesseroa. Ma sotto il regno di Riccardo II verso la fine del secolo XIV trovansi i ministrieri decaduti, nè altro essi erano che cantori volgari poco pregiati; anzi a tal segno degenerarono che verso la fine del secolo XVI fu pubblicata una legge, per cui i menestrels erranti si considerarono nella classe de’ mendici, de’ vagabondi, delle persone senza mestiereb

Tornando al secolo XIII osserviamo che in Alemagna fiorivano i Minnesoenger, ovvero Cantori d’Amore, nelle cui poesie tuttavia esistenti non si rinviene pezzo veruno teatrale. Si mentovano nelle Spagne i versi cantati da’ pellegrini che visitavano in Galizia il sepolcro dell’apostolo san Giacomo, da’ quali seppe don Blàs de Nasarre rintracciar la famosa origine delle Orazioni de’ ciechi. Fiorì però in tali paesi a quel tempo il monaco Gonsalo Berceo forse il più antico Spagnuolo che poetò in lingua castigliana. Non-dimeno ne’ suoi componimenti non se ne trova alcuno che al teatro si appartenga.

L’Italia che già contava varii non ispregevoli poeti, come Guitton di Arezzo che perfezionò il Sonetto invenzione degl’Italiani, Dante da Majano, l’abate Napoli, Cino da Pistoja, Guido Cavalcanti, Brunetto Latini, ed il migliore di tutti Dante Alighieri: pare che sia l’unica nazione che ci presenti qualche teatral monumento del secolo XIII. Nel 1230 si celebrò in Piacenza nel borgo e nella piazza di s. Antonino un giuoco, che nella Cronaca Piacentinaa cosî seccamente si enuncia: Fuit Ludus Imperatoris, et Papiensium, et Regiensium, et Patriarchae. Apparentemente fu questo un ludrico spettacolo, in cui s’introdusse Federigo II co’ suoi aderenti i Pavesi, i Reggiani, ed il Patriarcaa. Ma sulle riferite parole non può assicurarsi che fosse rappresentazione animata dalle parole. Apostolo Zeno chiaro per erudizione, probità ed accuratezza, ricavò da varie cronache, che in Padova nel Prato della Valle fecesi una rappresentazione spirituale nel dì di Pasqua di Risurrezione del 1243 o 1244b. Pretese il Bumaldi che Fabrizio da Bologna nel 1250 componesse volgari tragedie, ma ciò affermò, perchè nel libro di Dante della Volgare Eloquenza Fabrizio è chiamato poeta di stile tragico , la qual cosa, come ognun sa, in Dante significa stile sublime, nè indica che fosse autore di tragediea. Quel che però non ammette dubbio veruno, è che in Roma nel 1264 fu istituita la Compagnia del Gonfalone, che per oggetto principale si prefisse il rappresentare i Misteri della Passione di Gesù Cristo, siccome per lungo tempo continuò ad eseguire nella settimana santab. Un’altra rapresentazione de’ Misteri della Passione di Cristo trovasi fatta dal Clero con molto applauso nel Friuli l’anno 1298 nel dì di Pentecostea.

Il dottissimo Storico della Letteratura Italiana argomenta giustamente sopra varie feste per mezzo degli strioni e buffoni eseguite nel sccolo XIII rammentate dal Muratorib, asserendo non potersi mettere in conto di teatrali. Vuole altresì con fondamento che il nominarsi versi recitati pe’ teatri non sempre additi un’azione drammatica. Passa inoltre a dubitare che le accennate rappresentazioni di Padova, del Friuli, della Compagnia del Gonfalone, siano state eseguite con dialogo, stimandole semplici apparenze mute figurate dal Clero in tempo di Pasqua e di Pentecoste. Veramente noi che reputiamo drammatiche, ed espresse con parole quest’ultime, non possiamo recarne nè squarcio che il dimostri nè testimonio sincrono che espressamente l’affermi. Tutta volta la parola ludus usata da’ cronisti par che favorisca più il nostro avviso che il dubbio del celebre Storico. Forse non si direbbe con ogni proprietà ludus un mistero espresso con un gruppo di figure; nè perchè in vece di quelle statue si mettessero degli uomini, tal rappresentazione diventerebbe un giuoco. Ma ciò tralasciando, la Compagnia del Gonfalone istituita nel XIII secolo per rappresentare i Misteri, ne’ tempi più a noi vicini ciò fece con parole a tenere del suo istituto. Nel XV secolo rappresentava pubblicamente nel Coliseo di Roma la Passione; e le parole del dramma si composero dal Vescovo di s. Leo Giuliano Dati fiorentino che fiorì circa il 1445, e per gran parte del XVI seguitò esso a rappresentarsi nella stessa guisa, siccome attesta Andrea Fulvioa. Verisimilmente ciò che continuò a farsi nel XV e XVI, praticossi nel XIV, e venne dal XIII quando surse la Compagnia. Che se le parole vi si fossero introdotte non già dal XIII come a noi sembra, ma dal XV, in cui si compose indubitatamente il dramma del Dati, nell’imprimersi che si fece nel declinar del secolo XVI il libro degli Statuti della Compagnia, non avrebbe in essi dovuto esprimersi questa varietà essenziale, cioè, che le rappresentazioni da mute che si furono nel XIII, passarono poscia ad animarsi con parole? Appresso. Il Ludus Pascalis de adventu et interitu Antichristi recato dal Muratorib, e poi dal Tiraboschic, e da me nel tomo precedente, fu senza contrasto azione drammatica atta a recitarsi. Qualche altra ne accenneremo appresso dell’Alemagna. Vedrassi nel seguente capo che in Francia sin dal tempo di Filippo il Bello vi fu una festa simile con canti e parole. Alcuni squarci di simili Misteri fatti in Napoli nel tempo degli Angioini recammo nel III volume delle Vicende della Coltura delle Sicilie. Or perchè quelli del XIII secolo debbono soltanto essersi rappresentati mutamente? Forse perchè niuno se n’è conservatoa? Ma per essere periti tanti drammi greci e latini potrà negarsi che si composero e si recitarono nella Grecia e nel Lazio, e che rassomigliarono a quelli che ci rimangono? Egli è vero che in Francia, nelle Fiandre ed altrove furonvi alcuni Misteri rappresentati alla muta per le strade; ma gli scrittori che ne parlano, dicono espressamente che si esposero solo alle vista; or quando poi tal circostanza non si specifica, sembra ragionevole il credere che allora si parli di rappresentazioni cantate e recitate. Per altro non può negarsi quel che osserva il medesimo Tiraboschi, cioè che siffatti Misteri, ed i versi cantati su’ teatri dagl’istrioni e giocolieri a que’ tempi, non meritino rigorosamente nome di vere azioni teatrali. Con tutto ciò debbono entrare nella storia drammatica come primi saggi che ricondussero a poco a poco in Europa la poesia scenica. I Cori Dionisiaci in Grecia non erano vere azioni teatrali, nè tal fu la ludrica degli Etruschi introdotta in Roma; ma di quelli e di questa si conservano le memorie da quanti imprendono a favellare dell’origine e del progresso della poesia teatrale greca e latina; essendo come le povere scaturgini de’ gran fiumi, che con ogni diligenza e con diletto curiosamente si ritraccianoa.