CAPO I
Vuoto della Storia Teatrale nell’età mezzana.
Chiamo vuoto della storia teatrale la decadenza della poesia drammatica e la mancanza degli scrittori.
I.
Onde provenisse la decadenza della drammatica.
Non ostante il numero e la magnificenza de’ teatri e gli onori e le ricchezze prostituite agl’istrioni, vuolsi raffigurare ne’ tempi di mezzo il voto della storia teatrale, quando la drammatica più non contò scrittore veruno Greco o Latino che meritasse di passare a’ posteri. Appena in Roma ripetevansi le antiche produzioni, ed il popolo trovava insipido ogni altro spettacolo scenico, fuorchè i pantomimi e i mimi che occuparono interamente le scene.
Potrebbe quì domandarsi, perchè mai in Roma, dove la poesia si elevò sino al punto di partorire Orazii e Virgilii, non potesse, specialmente sotto gl’imperadori, sorgere un Sofocle e un Menandro? Manifesta a me ne sembra la ragione. Sotto la repubblica surse un Accio, un Cecilio, un Plauto, un Afranio, un Terenzio, i qùali se non uguagliarono i Menandri e i Sofocli, passarono innanzi a molti tragici e comici della stessa Grecia; e questi principii avrebbero accelerata la perfezione della poesia rappresentativa. Ma la repubblica sotto gl’imperadori se non si estinse totalmente, cangiò almeno di aspetto, ed i costumi si alterarono enormemente. I Romani da eroi che erano e superiori a’ principi stranieri, come credevansi, divennero de’ proprii signori bassissimi cortigiani. La libertà cedette all’adulazione, l’indipendenza e l’orgoglio al timore, e il dispotismo senza freno o moderazione atterrì i poeti drammatici, e ne intepidì e raffreddò il genio. Agamennone Greco maltrattato in una tragedia Romana divenne un delitto di stato. In quale monarchia moderata si è mai più ciò veduto? Alcuni versi inseriti in un’altra, e dalla malignità naturale degli adulatori interpretati contro del principe, cagionarono la morte del poeta. Uno scrittore di favole Atellane per un verso ambiguo fu da Caligola fatto bruciar vivo in mezzo dell’anfiteatro. E chi poteva amare e coltivare una poesia che menava alla morte e all’infamia del supplizio per l’apparenza di un delittoa? Abbiamo già osservato che la legge ora dirige ora aguzza gl’ingegni, e l’arte si perfeziona. Ciò però s’intende, quando la legge guidata dalla saviezza gastiga i delitti manifesti, non già quando un’arbitraria indomita passione gli crea, ed infierisce contro l’innocenza, e punisce ne’ deboli i proprii sogni e vaneggiamenti. Il veleno è un antidoto, ma dà la morte se intempestivo si adopri, o se la dose ecceda il bisogno. Non è adunque meraviglia che anche in tempi luminosi la drammatica contati avesse così pochi coltivatori. Vero è che Plinio ascrive a lode di Trajano che il popolo stesso abborriva sotto di lui l’effeminatezza de’ pantomimi. Vero è ancora che, per quanto Sparziano ne racconta, l’imperadore Adriano ne’ suoi conviti amava di far rappresentare commedie, tragedie e atellane. Ma le cagioni distruggitrici della drammatica sussistevano, e i costumi e gli studii aveano già preso nuovo cammino.
II.
In quali secoli quasi del tutto mancarono gli scrittori scenici.
IN tempo di Antonino Pio troviamo da Capitolino mentovato solamente Marco Marullo attore e scrittore di favole mimiche, il quale ebbe l’ardire di satireggiare i principali personaggi della città senza eccettuarne lo stesso imperadore. Marco Aurelio di lui figliuolo adottivo e successore diceva che le commedie de’ suoi tempi altro non erano che mimi. In fatti sotto gli Antonini non troviamo mentovati con applauso se non Q. Trebellione pantomimo insigne della città di Telese due volte coronatoa, e L. Acilio della Tribù Pontina archimimo che fu decorato dalla città di Boville del decurionato, come si ricava dall’iscrizione recata dal Grutero nella pagina 1089, numero 6. Sino alla divisione del Romano Impero, per quanto io so, non si trova nominato veruno scrittore drammatico.
E come trovarne dalla morte di Teodosio I sino allo stabilimento de’ Longobardi in Italia, periodo il più deplorabile per l’umanità a cagione del concorso di tante calamità, di guerre, d’incendii, di penurie, di contagii che all’inondazione de’ barbari desolarono l’Europa? Ausonio ha conservata memoria di certo Assio Paolo retore che fioriva verso la fine del IV secolo e coltivava più di un genere poetico oltre della storia. Ausonio gl’indirizza sette delle sue Epistole. Nella X invitandolo in campagna gli dice che venga con tutti gli scritti suoi,
Dactylicos, elegos, choriambum carmen, epodos,Socci et cothurni musicamCarpentis impone tuis, nam tota supellexVatum piorum chartacea est.
Nella XIV poi l’invita a venire alla leggiera:
Attamen ut citius venias, leviusque vehare,Historiam, Mimos, Carmina lingue domi.
Ed era forse una specie di mimo il componimento di questo Paolo
intitolato Delirus mentovato nella lettera XI che è in
prosa:
Ergo nisi Delirus tuus in re tenui non tenuiter
elaboratus, opuscula mea, quae promi studueras, retardasset
etc.
a.
Presso Roberto Stefano si ha
la commedia pubblicata in Parigi nel 1564 da Pietro
Daniele con questo titolo: Querolus antiqua
comoedia nunquam antehac edita, quae in vetusto codice ms
Plauti Aulularia inscribitur, nunc primum a Petro
Daniele Aurelio luce donata et notis illustrata. L’orleanese
Pietro Daniele approfittandosi del saccheggio dell’Abadia di san
Benedetto sulla Loira fatto dagli Ugonotti, s’impossessò di varii
manoscritti che vi erano, molti comprandone a vil prezzo; e fra essi
trovò questa commedia, che il Vossio chiama
dramma
prosaico
a. Fu essa poi reimpressa da Cummelino colle note del primo autore e del Rittersusio e del Grutero. Ebbe pur luogo
nella bella
edizione di Filippo Pareo uscita
nel 1619. Se ne ignora l’autore. Il dotto Fabricio ci dice:
Marci Accii minimè est, quoniam author ipse in prologo hanc fabulam
investigatam Plauti per vestigia profitetur
a. Ne sarebbe mai stato autore
qualche Greco? Svegliano simil dubbio le parole del passo che aggiungo,
sic nostra loquitur Grecia
. Variamente
congetturano i letterati sull’epoca in cui si scrisse. Taluno la
credette della fine del secolo VI, benchè lo stile sia di un gusto
differente. Il p. Rivetb fa risalire il Querolus almeno al cominciamento del V secolo fondandosi sulla
dedicatoria fatta a Rutilio. L’opinione di chi lo fissa all’imperio di
Teodosio è la più comune; ed il lodato Pietro Daniele l’avea abbracciata
come semplice congettura, nè disconvennero il Taubman e qualche altro.
Goujet nel suo primo supplimento al
Moreri pone
tal commedia sotto Teodosio II. Uno squarcio di essa però merita
riflessione, e pare che la faccia ascendere sino alla fine del I secolo,
mentovandovisi i Gaulesi della Loira, i quali scrivevano su gli ossi le
sentenze di morte pronunziate sotto le querce:
Habeo
(vi si dice) quod exoptas; vade, ad Ligerim vivito. Quid
tum? Illic jure gentium vivunt homines: ibi nullum est praestigium;
ibi sententiae capitales de robore proferunt, et scribuntur in
ossibus: illic etiam rustici perorant, et privati judicant: ibi
totum licet si dives fueris, patus appellaberis, sic nostra loquitur
Graecia.
Questo costume motteggiato nel dramma ci mena al tempo
in cui i Gaulesi aveano diritto di vita e di morte, e la giustizia si
amministrava da paesani rustici senza appellazione. Non era dunque colà
ancora introdotta la Romana giurisprudenza, della quale non pertanto
trovansi monumenti ne’ testamenti di san Remigio, di Chadoin, di Bertramo e di Ermentruda.
Sappiamo poi che i Druidi furono proscritti da Tiberio e da Claudio; e
m. Schoepfin
a sostiene che sotto Claudio i
Druidi rifugiaronsi al di là del Reno. Ora se nella Commedia si
motteggiarono quelle sentenze rusticane capitali date sotto le querce
come tuttavia esistenti, pare che il Querolus dovette
comporsi prima del discacciamento de’ Druidi, e non già sotto Teodosio II, quando i Romani aveano introdotto nella Francia settentrionale la
propria giurisprudenza, ed erano già state abolite le sentenze di morte
dettate da’ rustici e scritte su gli ossi.
Ma queste rarissime ed oscure fatiche che mai potevano influire in tempi sì tristi a vantaggio della poesia rappresentativa?
Non ci somministra veruno scrittore il rimanente del secolo VI, quando i popoli cominciarono a respirare alquanto. Troviamo bensì in esso i giuochi e i disordini teatrali. In Oriente Giustiniano imperadore e legislatore famoso chiamò a parte del suo letto e dell’alloro imperiale la mima Teodora. In Italia il Goto re Teodorico fe rialzare le terme di Verona, e riparare in Roma il teatro che minacciava ruinaa, ed in Pavia fe costruire un anfiteatro e nuove terme. Sotto Atalarico frequenti furono gli spettacoli scenici in Italia, e vi si profusero ricchezze grandi per diletto e ristoro del popolob. La Sicilia fin dal IV secolo ebbe in costume d’inviare a Roma gli artefici di scena che produceva, essendovi spesso chiamatic. Ma niun monumento di quel tempo ne presente scrittori drammatici.
Non ne troviamo nel VII, VIII e IX secolo, ne’ quali sparì dal cospetto degli uomini pressochè interamente ogni vestigio di politica, di giurisprudenza, di arti e di letteratura Romana, e s’introdussero nuovi governi, nuove leggi, nuovi costumi, nuove vesti, nuovi nomi di uomini e di paesi e nuove lingue, cangiamenti meravigliosi che non poterono accadere senza l’esterminio quasi totale degli antichi abitatori. In Francia appena si ripeterono le sconcezze mimiche nel barlume che vi fe rilucere Carlo Magnoa.
Non empiono questo gran voto nè le musiche e i balli e i travestimenti usati da’ Cherici nelle feste solenni dal VII sino al X secolo, nelle quali con istrana mescolanza di pagane reliquie e di cerimonie Cristiane danzando esponevano le favole delle divinità gentilia; nè gl’ignorati o negletti sei dialoghi di Roswita monaca di Gandersheim intitolati Commedie, che appartengono al X secolob. Sono esse composte in un latino barbaro, e ripiene di apparizioni ed incoerenze. La prima di esse è divisa in due parti, o atti, e s’intitola Gallicano, che è un generale di Costantino pagano, il quale va a combattere contro gli Sciti, n’è vinto, è ricondotto contro di essi da un angelo, vince, si battezza, e fa voto di castità; e nella seconda parte non regna più l’imperadore Costantino, ma Giuliano, da cui Gallicano viene esiliato, e riporta la corona del martirio. Le altre cinque commedie di un atto solo s’intitolano Dulcizio, Callimaco, Abramo eremita, Pafnuzio, la Fede Speranza e Carità. Ciò che reca maggior meraviglia in tali dialoghi è che l’autrice amava gli antichi, e traduceva Terenzio. I medesimi capi d’opera dell’antichità si lessero quasi dapertutto, ma non riprodussero dapertutto il loro gusto.
Oltre a’ riferiti dialoghi, o commedie in tutto il secolo X e nell’XI e XII, sebbene comparvero alcune incondite poesie nelle nuove lingue, non ve ne furono a patto veruno teatrali. Egli è però evidente che non mancarono totalmente gli scenici spettacoli, benchè altre feste s’introdussero. Lasciando stare i travestimenti de’ Cherici, e le loro danze nella festa del Natale id Cristo e nell’Epifania, che, per testimonianza di Teodoro Balsamone, duravano tuttavia nel XII secoloa; e i cantambanchi e buffoni che intervennero nelle famose nozze di Bonifacio marchese di Toscana con Beatrice di Lorena nel 1037b; alquanti anni prima di terminare il secolo XII troviamo nella storia del Basso Impero mentovate persone di teatro. L’usurpatore Andronico (colui che al contrario di Tito diceva di aver perduto il giorno, in cui non gli era riuscito di fare strangolare o almeno accecare qualche personaggio illustre) uccisore fraudolento di Alessio Comneno, costretto da Isacco Comneno a fuggire, s’imbarcò in un picciol legno colla moglie e con una mima che egli amavaa.
Si pretende anche trasportare a questo medesimo secolo un informe abbozzo
di dramma latino intitolato Ludus Pascalis de adventu et
interitu Antichristi, composto e forse rappresentato nella
Germania, nel quale intervengono il Papa, l’Imperadore, i Sovrani di
Francia, della Grecia, di Babilonia, l’Anticristo, L’Eresia,
L’Ipocrisia, la Sinagoga, il Gentilesimo. Così pensa il p. Bernardo Pez che lo diede alla luceb. Ma
più tardi che egli non istima, uscirono nella Germania drammi
simiglianti al riferito, come vedremo ne’ seguenti volumi, e per fissare
l’epoca di questa rappresentazione Pascale al secolo
XII, bisognerebbe o averne monumenti storici sicuri, o
addurne congetture convincenti, esaminando i costumi
che vi si dipingono, e le dottrine ed opinioni, le quali potrebbero
menarne a rinvenire il nascimento di questa farsa. Certo è però che il
primo io non sono a dubitarne; e il dotto Scipione Maffeia,
più cose
, dice,
alquanto difficultano il crederlo
(del secolo XII)
e tanto più se ciò si fosse arguito dal solo carattere del
codice, che è congettura molto fallace.
Don Blas de Nasarre letterato spagnuolo in una sua dissertazione publicata nel 1749, faceva sperare monumenti drammatici nella letteratura Araba ricavati dalla Biblioteca dell’Escorialeb. Fu illusione del suo desiderio. Tra gli Arabi non si trova se non quello che ebbero tutte le nazioni anche rozze, cíoè musica, balli, travestimenti adoperati ne’ loro giuochi di canne, quadriglie e tornei. Furono anche versificatori; ma per lo più (almeno per quel che apparisce da i libri dell’Escoriale) si limitavano a’ componimenti di non moltissimi versi, ne’ quali facevano pompa di acrostichi, antitesi e giuchetti sulle parole, sembrando che i loro talenti non si fossero avvezzati a soffrire il peso di un poema grande e seguito come il drammatico. Certamente nel Saggio della Poesia Araba del signor Casiri inserito nella Biblioteca Arabico-Ispana, da cui Nasarre si prometteva tali monumenti, si dice nettamente che gli Arabi non conobbero gli spettacoli teatralia. E sebbene l’istesso lodato Casiri aggiunga che parlerebbe a suo luogo di una o due commedie Arabe, tuttavolta scartabellando la mentovata Biblioteca io non trovai un solo componimento drammatico, non dico de’ secoli de’ quali ora si favella, ma nè anche de’ seguenti sino all’intera espulsione de’ Mori dalle Spagne. Altro non vi si legge se non che qualche dialogo ma non teatrale, appartenente al secolo XIV e XV. Il primo del 746 dell’Egira scritto parte in versi e parte in prosa, è di Mohamad Ben Mohamad Albalisi, nel quale trattengonsi a darsi viceudevolmente il giambo cinquantuno artefici. L’altro dell’anno 845 dell’Egira è di un Anonimo, e s’intitola Comoedia Blateronis, in cui da diversi interlocutori si tratta di tre cose differenti: nella prima parte parlasi della vendita di un cavallo, nella seconda delle furberie di alcuni vagabondi, nella terza di certi innammorati. S’ingannò adunque Nasarre, e seco trasse Velazquez che gli credè buonamente. Costui nel libretto delle Origini della Poesia Castigliana asserisce primamente, che i Romani portarono in Ispagna i giuochi scenici, senza curarsi di addurne qualche pruova, siccome per altro avrebbe potuo, facendo parola di quanto noi abbiamo non ha guari riferito, cioè de’ giuochi teatrali dati in Cadice da Balbo, del teatro Saguntino e delle rovie teatrali di Acinippo, di Tarteso e di Merida. Egli si contentò solo di porompere in invettive generali fuori di tempo contra Filostrato, perchè ella Vita di Apollonio affermò, che la Betica in tempo di Nerone neppur conosceva gli spettacoli scenici. Soggiugne poi che i Goti non permisero che la poesia drammatica allignasse in Ispagna, e conchiude, che gli Arabi (i quali, come si è dimostrato, no l’aveano) ve la portarono, adottando senza esame l’opinione del Nasarre, la cui solidità si è già osservata.
Da quanto abbiamo in questo capo ragionato, si deduce che il principio del vuoto della storia teatrale si trova a’ tenpi de’ Tiberii, de’ Caligoli e degli altri imperiosi despoti, i quali fecero ammutolire i poeti, spaventandoli con diffidenze e crudeltà, e furono cagione che i teatri risonassero unicamente di buffonerie e laidezze, per le quali ci bisogna più impudenza che ingegno. Sorse poscia il Cristianesimo, e col divenire la religione dell’Imperio, intimò la guerra a qualsivoglia superstizione della gentilità, e conseguentemente ai teatri consecrati alle divinità pagane. E non trovandovi nè anche salva la decenza e la morale, perchè le buone tragedie e commedie aveano ceduto alle leggerezze e agli adulterii delle mimiche rappresentazioni, gli zelanti Cristiani concepirono del teatro le più sozze idee, e scagliarono le più amare invettive contro gli spettacoli e gli attori scenici, sotto la qual denominazione compresero soltanto gl’infami mimi e pantomimi, e le impudentissime mime, cantatrici e ballerine. E quale orrore non doveano destare ne’ Padri Cristiani, ne’ Cirilli, ne’ Crisostomi, ne’ Basilii, ne’ Cipriani, ne’ Lattanzii, negli Agostini, quelle detestabili rappresentazioni di nefandi stupri, che Marsiglia gentile, ma non corrotta, escluse dalle sue scenea? E come avrebbero mirato senza indignazione gli adulterii mimici, che, secondo Lampridio, non bastò ad Eliogabalo di vedere fintamente rappresentati, ma ordinò che s’imitassero sulla scena al naturaleb? Così ci avvezzammo a detestare indistintamente i teatri, e per fuggirne gli abusi ci privammo ancor de’ vantaggi: a somiglianza di quegl’impazienti matti coltivatori, i quali in vece di potare e recidere i rami lussureggianti, che fanno ombra inutile e perniciosa, danno al tronco e alle radici degli alberi, e privansi per sempre de’ loro frutti.