CAPO VII.
Copia di Teatri per l’Impero: magnificenza e profusione eccessiva negli spettacoli sceneci.
Ci si prepara l’increscevole aspetto di un gran voto della storia teatrale. Esso seguì nel lungo periodo interposto dalla corruzione della poesia drammatica sino alla perdita della lingua latina avvenuta principalmente per l’incursione delle barbare nazioni nell’Impero Romano.
Non è già che sotto gl’imperadori de’ tre primi secoli della nostra era
cessato fosse il gusto degli spettacoli scenici in Roma ed altrove. I teatri
stabili sussistevano nella regione del Circo Flaminio, e alle occorrenze
gl’imperadori ne rifacevano quel che dal tempo e dagli accidenti veniva
distrutto. Napoli, Capua, Ercolano, Pompei, Nola, Pozzuoli, Siracusa,
Catania ed altre città del regno di Napoli e della
Sicilia, videro i loro teatri per quel periodo assai frequentati. Di
moltissimi altri teatri rimangonci anche oggi gli avanzi nel rimanente
dell’Italia. Oltre a quello di Padova, di Pesaro, dell’altro presso il lago
di Bolsena rammentato nell’iscrizione pubblicata dal Muratori, di quelli
della Toscana accennati dal Borghini, di quello di Anzio, di cui favella il
p. Giuseppe Rocco Volpi, e del teatro di Brescia mentovato nelle Memorie Bresciane del Rossi, de’ quali tutti fece menzione
il chiarissimo Girolamo Tiraboschia:
havvene non pochi altri che in parte ancora esistono e frequentavansi sotto
gl’imperadori de’ primi secoli. Torello Saraina Veronese rammenta il teatro
della sua patriab, oltre all’anfiteatro superbissimo
che ancor si
ammira e si conserva col nome d’Arena. Vestigii di teatro veggonsi nel Piceno dove era
Alia rovinata dal Goto Alarico, della quale a’ tempi di Procopio rimanevano
appena poche reliquie. Nell’Umbria veggonsi in Eugubio alcuni rottami di un
teatro, che ebbe le mura reticolatea. Spoleto ancora, secondo il Biondo e il
Sabellico, ebbe un teatro rovinato da’ Goti insieme colla città dopo la
morte di Teodorico. Veggonsi in Rimini alcuni rottami di mattoni, ne’ quali
altri riconosce un teatro, altri un anfiteatro. Ma per avviso venutomene dal
riputato professore della Sapienza in Roma Giovanni Cristofano Amaduzzi mio
dotto amico, m’indussi a credere che nè l’uno fosse nè l’altro. Le reliquie
indicate per suo parere sono opera de’ bassi tempi, come si rileva dal
lavoro troppo minuto di alquante basi di colonne colà rimaste. Credonsi
percio piuttosto portici dove
introducevansi
mercatanzie in città dall’antico porto, che ora è in secco; e sussistono
ancora le ruine del suo molo chiamate Muraccio o il Terrazzo dell’Ausa fiume che bagna la città dalla parte di
oriente. Oltre Terracina ancora, seguitando la Via Appia, nel luogo dove fu
Longola città descritta da Dionigi Alicarnasseo e da Livio, vedesi un teatro
quadrato appresso il monistero di s. Angelo sul monte, del quale dice il
nomato Alberti descrivendo la Campagna di Roma,
benchè io abbia
veduto molti teatri et anfiteatri…. non però non ho mai veduto il simile
a questo
. Ma l’istesso Alberti chiama teatro anche l’edificio che
in Fidene rovinando schiacciò intorno a ventimila spettatori, stando Tiberio
in Capri. Suetonio però da lui citato lo chiama espressamente anfiteatro:
Apud Fidenas supra XX hominum millia gladiatorio munere
amphitheatri ruina perieranta..
Esistevano intanto in Grecia i già mentovati teatri di Corinto, di Tebe, di Atene, di Delo, di Sparta ecc. Bizanzio ebbe pure un gran teatro, il quale col resto della città su rovinato dalle truppe di Severoa. Antiochia ne avea un altro, e i di lui istrioni furono cagione della trascuraggine e della fatal ruina di Macrinob. In Tebe di Egitto vuolsi che fosse un teatro, e che di là avesse Pilade tratte alcune novità che introdusse nell’arte pantomimica. Erode Ascalonita ne edificò uno assai grandioso in Gerusalemme.
Prima che nella Palestina dominassero i Greci e i Romani, non si trova mentovato verun teatro Ebreo. Fu solo sotto il dominio di tali nazioni che fiorì colà qualche poeta drammatico della nazione Ebrea. Tale fu un Ezechiele citato da autori anteriori all’era Cristianaa. Egli compose una tragedia dell’Uscita degli Ebrei dall’Egitto intitolata Εξαγωγη. Questo Ezechiele veniva appellato il Poeta delle Storie Giudaiche; e i frammenti del di lui dramma si trovano inseriti nella collezione de’ Tragici Greci ed in quella de’ Poeti Cristiani. Ciò che ce ne rimane consiste in una introduzione fatta da Mosè, e in un dialogo pieno di dignità fra questo legislatore e capo degli Ebrei e la Divinità nel roveto ardente, e finalmente in un racconto fatto da un Messo della fuga di quel popolo e dell’evento del Mar Rosso. Vero è che gli antichi poeti Ebrei Davide, Salomone, Asaf, Eman ed altri, si crede che scrivessero pure componimenti drammatici, e per tale senza contrasto è considerata la Cantica di Salomone. Ma che simili poesie pervenissero ad essere spettacolo decorato per fare illusione e dilettare la moltitudine non apparisce. L’antichissima festa de’ Tabernacoli, in cui gli Ebrei divisi in cori cantavano inni al Creatore, tenendo in mano folti rami di palma, di cedro o di altro, conteneva alcuna parte di que’ semi che altrove diedero l’origine alla poesia drammatica; ma pur non si vede che tra gli Ebrei l’avessero prodotta. Essa si rimase sempre una festa sacra, nè mai divenne spettacolo teatrale, come altrove ad altre feste accadde.
Oltre delle regioni Europee già nominate, nel rimanente dove giunsero le vincitrici armi di Roma, trovansi pure teatri. Vedevansi eretti in quella parte dell’Inghilterra, in cui si piantarono colonie Romane. Tacito fa menzione della colonia de’ Veterani di Camaloduno, dove era un tempio dell’imperador Claudio, e un teatro, il quale, fra gli altri prodigii osservati nella rìbellione de’ Trinobanti governando Paulino Suetonio i Brittanni, s’intese risonare di gemiti ed urlamentia.
Nella Spagna solevano alle occasioni alzarsi alcuni teatri di legno. Cosi fece in Cadice il Pretore Balbo, il quale essendosi straricchito con inaudite estorsioni, rapine e ingiustizie, fe costruirvi un teatro con quattordici ordini di scalini per l’ordine equestre; e per potersi millantare di essere la scimia di Giulio Cesare, nell’ultimo giorno de’ giuochi donò l’anello d’oro all’istrione Erennio Gallo, e lo fe sedere tra’ cavalierib. Oltre a ciò si osservano tuttavia in Murviedro le rovine del teatro Saguntino, essendo questa città eretta nel regno di Valenza sulle ceneri dell’antica Sagunto. Era questo teatro capace di circa novemila persone, secondo il calcolo fattone dal dotto Decano di Alicante don Manuel Martì. tanto amico del nostro Gio: Vincenzo Gravina, nella lettera scrittane a monsignor Zondadaria. Alluse a questo teatro e ad altre antichità di Murviedro il poeta Leonardo Argensola quando scrisse:
Con marmoles de nobles inscripciones(Teatro un tiempo y Aras) en SaguntoFabrican oy tabernas y mesonesb.
Alcuni moderni autori Spagnuoli fanno menzione di altre rovine teatrali che si trovano nella loro penisola. Presso il luogo che oggi occupa Senetil de las Botegas, dove fu l’antico Acinippo della Celtica mentovato da Plinio, trovansi tuttavia esistenti le tre porte della scenaa. Una lega distante da Calpe, venendosi da Algezira, si osservano i vestigii di un teatro e di un anfiteatro con altre rovine dell’antica città di Tarteso (differente da Cadice che pure portò questo nome) detta da’ Greci Carteia. Tralle antichità di Merida, dove Augusto pochi anni prima dell’era Cristiana mandò una colonia di Legionarii, vedesi tuttavia quasi intera quella parte del teatro che si appartiene all’uditorio, non essendovi rimasto verun vestigio della scenab.
Osserviamo in oltre che non solo dapertutto i popoli vollero aver teatri, ma che mai non furono più sontuosi e frequenti i giuochi scenici quanto ne’ primi secoli dell’Impero. Gl’Istrioni musici, ballerini e declamatori moltiplicaronsi oltremodo. Fin dal regno di Tiberio componevano un corpo sì numeroso, e riceveano pagne sì esorbitanti, che egli videsi obbligato a rimediarvi col minorarne la mercedea. Nè conseguì per questo di scemarne il numero, anzi a tal segno esso crebbe, che di sole ballerine forestiere, secondo Ammiano Marcellinob, contaronsi in Roma più di tremila, le quali coi loro cori e con altrettanti maestri furono privilegiate ed eccettuate da un bando di sgombero dalla città intimato per timore di carestia a tutti i filosofi, retori ed altri letterati stranieri. Era Tiberio uno de’ principi più avversi allo spettacolo teatrale. Egli punì come reo di maestà lesa un poeta che in una tragedia avea inserite alcune parole ingiuriose contro il re Agamennone. Assai di rado egli fecesi vedere nel teatro dopo che una volta a richiesta del popolo videsi astretto a manomettere il comedo chiamato Accioa. Avea promesso di riedificare il teatro di Pompeo bruciato casualmente, non essendovi nella famiglia del gran competitore di Giulio Cesare alcuno che potesse a suo tempo sostenerne la spesa. Ma Tiberio non mantenne la parola, e dopo molti anni fecene appena rifare la scena, che pure lasciò imperfetta, come afferma Suetonio, o almeno ne trascurò la dedicazione, come racconta Tacitob. Intanto però la gente da teatro avea di giorno in giorno acquistato tal predominio sopra i Romani, che i personaggi più illustri, e le matrone più nobili facevano a gara nell’arricchirla, nel trattarla con somma famigliarità, e nell’amarla follemente. Giulio Messala negò il proprio patrimonio a’ parenti, e ne divise le spoglie tra gl’istrioni. Diede a una mima la tunica di sua madre, a un mimo la lacerna del padre, a un tragedo il pallio dorato di color di porpora di sua nonna, e ad un coraulo un altro pallio in cui era ricamato il proprio nome e quello della mogliea. Peggio era avvenuto in tempo di Augusto, che dovè castigare col bando da Roma, dopo di averlo fatto menare scopando per tre teatri, Stefanione togatario, il quale giunse all’impudenza di farsi servire alla tavola da una matrona Romana in abito servileb. Il medesimo Augusto però ebbe sì caro il pantomimo Batillo, che lo creò edituo del suo tempio eretto nel proprio palazzo, siccome apparisce dall’iscrizione scolpita nel di lui sarcofago recata dal Fabretto e dal Ficoroni. Sotto gli altri imperadori degeneri questi eccessi passarono a delirii. Cajo Caligola non avea ritegno di baciare in pubblico l’eccellente pantomimo tragico M. Lepido Mnestere, e quando egli ballava, se sventuratamente qualche spettatore facesse il più picciolo strepito, se ’l faceva recare innanzi e di propria mano lo flagellavaa. Si sa per quali infami vie ottenne il favore di questo medesimo imperadore un altro famoso attore tragico chiamato Apelle, che giunse ad essere noverato tra’ suoi consiglieri. Ma i Caligoli sono come le fiere addimesticate, che non mai si spogliano di tutta la nativa ferità, e quando meno si attende, la riprendono. Trovavasi un dì Caligola presso ad una statua di Giove col suo Apelle, e gli venne il capriccio di domandargli, qual de’ due fra Giove e lui gli sembrasse più maestoso. E perchè Apelle indugiò alcun poco a rispondere, lo fece battere aspramente, insultando frattanto al di lui dolore, con dire che nel tuono lamentevole ancora spiccava la dolcezza della di lui vocea. Vitellio resse l’imperio quasi sempre a voglia degl’istrionib. Eliogabalo distribuì le maggiori dignità a’ pubblici ballerini; molti di essi furono da lui destinati procuratori delle provincie; ne collocò uno nell’ordine de’ cavalieri; un altro nel senatorio; ed uno che da giovine avea rappresentato nella stessa città di Roma, fu da lui creato prefetto dell’esercitoc.
Queste furono le vicende teatrali nell’Impero Romano dopo la Grecia. Se non tutta l’eccellenza drammatica rinacque nel Lazio, una gran parte in Italia ne risorse.
Ma gli Etruschi ed i Campani aveano favole sceniche senza potersi dire di averle tratte da’ Greci. Tali popoli Italiani ne infusero l’amore in quella gente che Romolo avea raccolta intorno ai sette colli. I Semigreci della Magna Grecia Livio Andronico, Ennio, Pacuvio ed anche Nevio Campano, insegnarono loro ad amar le lettere e a coltivar la poesia drammatica. Plauto calcando le orme di Epicarmo, e non di Aristofane, ed imitando a un tempo Difilo, Filemone, Demofilo rallegra co’ suoi sali un popolo guerriero. Dopo Cecilio il cartaginese Terenzio seguito da Afranio, indossando felicemente le spoglie preziose di Menandro e degli Apollodori, mal grado delle gloriose vestigia impresse in Roma del festivissimo Plauto, introduce in Roma la bella commedia, la quale non che a’ filosofi e letterati, piacque ai migliori della repubblica, ai Furii, agli Scipioni, ai Lelii. Ennio, Accio, e Pacuvio vi riconducono con decoro e gravità la greca tragedia, e spianano il sentiero al Tieste di Vario, all’Ottavia di Mecenate, alla Medea di Ovidio, all’Ippolito e alla Medea e alla Troade di Seneca e all’Agave di Stazio. La grandezza eroica campeggia nel loro stile con carattere particolare, meno attaccato alla naturalezza greca, e più confacente alla maestà Romana. Il perno però su cui volgesi la tragedia Romana, è lo stesso della Greca, cioè il fatalismo, se tralle conosciute se ne eccettui la Medea, che regge per la sola combinazione delle passioni, nè mette capo nella catena di un destino inesorabile.
Ma i Mimi e i Pantomimi trionfano del socco e del coturno sotto gl’imperadori, i quali, non che flagellare i togatarii e gli atellanarii, solevano punir coll’ultimo supplicio i tragici che non rispettavano la memoria de’ re della stessa mitologia o della più remota antichità, come Agamennone. Abbandonato il teatro ai Pitauli e Corauli, ai Mnesteri, ai Paridi, ai Batilli e ai Piladi, più non ammise la commedia Terenziana che parve fredda, insipida, indifferente ad un popolo snervato e corrotto, che sotto Eliogabalo si compiaceva de’ mimici stupri e adulterii, non che finti e imitati, rappresentati al vivo sulle scene profanate. Cosi la vera drammatica senza perfezionarsi nel Lazio fu distrutta dalle depravazioni mimiche, ed il teatro divenne lo scopo delle invettive de’ Cirilli, de’ Basilii, degli Agostini e de’ Lattanzii.
Giacque colla mole dell’istesso Impero sotto i barbari del settentrione, ogni coltura, e sparvero le arti involte in un caliginoso nembo almeno di dieci secoli di barbarie. A cui toccò la gloria di dissiparlo? Dove risorsero le arti, la drammatica, la coltura?