(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome III « STORIA DE’ TEATRI. LIBRO SECONDO — CAPO IV. Ultima epoca della Drammatica nel finir della Repubblica, e sotto i primi Imperadori.  » pp. 245-317
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome III « STORIA DE’ TEATRI. LIBRO SECONDO — CAPO IV. Ultima epoca della Drammatica nel finir della Repubblica, e sotto i primi Imperadori.  » pp. 245-317

CAPO IV.

Ultima epoca della Drammatica nel finir della Repubblica, e sotto i primi Imperadori.

I.

Drammatici illustri di quest’epoca.

NEI rimanente della Repubblica e sotto i primi Imperadori applicaronsi alla poesia rappresentativa, non che i liberti e gli stranieri eruditi, i più cospicui personaggi di Roma. Lasciando da banda il romore che correva nella città, che nelle commedie di Terenzio avessero avuto parte Lelio e Scipione, ci fa sapere Plutarco che il Dittatore L. Cornelio Silla compose varie commedie satirichea. Il fondatore dell’ Impero Romano Giulio Cesare scrisse una tragedia intitolata Edipo, oltre ad alcune altre chiamate Giulie, delle quali il di lui successore proibì di poi la pubblicazione. Sotto Augusto, il quale pure intraprese a scrivere un Ajace, Aristio Fusco compose commedie togate: un altro Cajo Tizio (diverso dall’oratore soprannomato) secondo Orazio fu buon poeta lirico, e scrisse ancora tragedie: Ovidio fece una Medea, della quale abbiamo un frammento in Quintiliano: e il famoso Mecenate, oltre a varii poemi, scrisse alcune tragedie, delle quali da Seneca si mentova il Prometeo, e da Prisciano l’Ottavia. Tutto perì quel che produsse questo celebre favorito di Augusto, a riserba di qualche verso, come questo,

Nec tumulum curo, sepelit natura relictos.

Sotto il medesimo Augusto fu composta l’eccellente tragedia intitolata Tieste tanto esaltata nel dialogo intorno agli Oratori attribuito a Tacito, la quale, a giudizio di Quintiliano, poteva degnamente compararsi colle migliori tragedie greche, e pure (già l’accennammo) egli riconobbe sinceramente la debolezza de’ Comici Latini al confronto de’ Greci. Questo Tieste comunemente stimavasi produzione di Quinto Varo o Vario, che con Tucca e Plozio fu deputato da Augusto alla correzione dell’Eneide. Ma Elio Donato e Servio credettero che il Tieste fosse atato scritto da Virgilio e dato alla moglie di Vario, la quale coltivava le lettere, e che di poi da costui si fosse come propria pubblicata, V’è chi sospettò che fosse opera di Cassio Severo Parmigiano, del quale parla Orazio nell’Epistola ad Albio Tibulloa. Chiaro sotto il medesimo Augusto fu Cajo Asinio Pollione pe’ talenti tragici e per altri meriti letterarii, per la presa di Salona in Dalmazia, per l’onor del trionfo e pel consolato, e celebrato da i due maggiori ingegni onde si vanti la poesia latina, Virgilio ed Orazio. Se di tragedie intenda favellare quest’ultimo nell’ode che a lui indirizzaa, Pollione ebbe anche il merito di uscire da soliti argomenti tratti da Omero e dalle favole Greche, ed esporre con nobile intrepidezza sul teatro di Roma la civile querela di Cesare e Pompeo, ed il giogo imposto dal vincitore a tutta la terra, fuorchè al gran cuore di Catone,

Et cuncta terrarum subacta
Praeter atrocem animum Catonisb.

Parve però lo stile di Pollione così duro e secco, come quello di Pacuvio e di Accio, all’autore del dialogo De Causis corruptae Eloquentiae a. Germanico figliuolo di Druso e di Antonia minore, insigne capitano, vero eroe ancor dopo estinta la Repubblica, e che colla posterità non ebbe altro demerito se non di aver prodotto Cajo Caligola; fu parimente orator grande e poeta esimio, e tralle altre sue fatiche letterarie compose alcune commedie grecheb. Mamerco Scauro sotto Tiberio scrisse pure una tragedia la quale cagionò la morte dell’autore, senzachè gli giovasse l’amicizia di Sejano, essendo stato accusato occultamente da Macrone di averla scritta espressamente per mordere la condotta dell’imperadorea. Per quel che narra Suetonio l’imperador Claudio fe recitare nel certame Napolitano una sua commedia greca per onorare il soprallodato suo fratello Germanico. Troviamo indi nel precitato autore del dialogo sulla corruzio ne del l’Eloquenza, sommamente esaltate le tragedie Medea, Tieste, Catone, Domizio del celebre poeta e giureconsulto Curiazio Materno. Oltre al nominato autore di quel dialogo, Tacito più di una volta negli Annali fa menzione di Pomponio Secondo, di cui Plinio il naturalista avea composta la vita. Le tragedie di questo Pomponio (dal marchese Maffei nella sua Verona illustrata tenuto per Veronese) furono sopra ogni altra pregiate per l’erudizione e per l’eleganza, benchè i vecchi l’accusavano di non essere abbastanza tragicob. Plinio il giovinea racconta di questo Pomponio amico di Seneca che allor quando alcuno amico esortavalo a far qualche cambiamento nelle sue tragedie da lui non giudicato opportuno, soleva provocare al giudizio del popolo ed alla di lui sentenza rapportarsene. In fatti nel consenso del popolo (non della plebe) consiste il vero giudizio quanto a’ caratteri, a’ costumi, alla condotta delle favole; e solo per mio avviso prevaler debbe il giudizio de’ conoscitori e scrittori trattandosi di stile e di lingua. Era per ciò che il signor di Voltaire ben diceva: il n’y a que les connoisseurs, qui fixent à la longue le merite des ouvrages . Il nomato Plinio il giovine, che, come egli stesso ci attestab, nell’età di quattordici anni scrisse in greca favella una tragedia, rammenta con grandi encomii le commedie togate di Virgilio Romano degne a suo dire re di aver luogo fra quelle di Plauto e di Terenziona. Un’altra Medea prese anche a scrivere Marco Anneo Lucano che lasciò imperfetta. Della tanto applaudita Agave di Stazio ci ha conservata la memoria Giovenale, come altresì dell’Atreo di Rubreno Lappa. Persio ci parla di alcuni suoi contemporanei che composero una tragedia d’Issipile, e che essi stessi montarono in pulpito per recitarla.

Da quanto riferito abbiamo de’ Tragici Latini di quest’epoca, e della precedente, non parmi che negar si possa che la lingua latina si prestasse felicemente al genio tragico, come accennò Orazio,

Et spirat tragicum satis, et feliciter audet.

In fatti Ennio (non c’incresca ripetere alcune delle cose già dette) diede a Roma una Medea esule, che fe dire a Cicerone (de Finibus) non potervi essere alcuno così del nome Romano nemico che ardisca sprezzar quella tragedia. Pacuvio colle sue tragedie procacciossi rinomanza di dotto, e la si conservò anco a’ tempi di Augusto, secondo l’istesso Cicerone dove parla dell’ottimo genere degli Oratori. Accio produsse Atreo che gli acquistò, per detto di Orazio e di Quintiliano, nome di sublime; e da Acrone non si esitò di anteporre Accio ad Euripide, e da Columella si collocò accanto a Virgilio riconoscendo nell’uno e nell’altro i due più grandi poeti del Lazio. Tali Tragici debbono convincerci che la maestà dell’idioma Latino, l’eroismo proprio de’ petti Romani, lo spirito di sublimità che gli elevava fin da’ primi tempi dell’arte, gli facesse assai più riescire nella tragedia che nella commedia. Ed in seguito i Romani ebbero in gran pregio la Medea di Ovidio, il Prometeo e l’Ottavia di Mecenate, il Tieste che altri attribuisce a Quinto Vario, altri a Virgilio, altri a Cassio Severo, e da Quintiliano riputato degno di compararsi colle migliori tragedie greche. Aggiungansi a ciò le nominate tragedie di Curiazio Materno esaltate dall’autore del dialogo sulla corruzione del l’Eloquenza; quelle di Pomponio Secondo distinte per l’erudizione e per l’eleganza; la Medea di Lucano; l’Agave di Stazio sì bene accolta in Roma, ed encomiata dal satirico Giovenale. Tante ricchezze tragiche a noi non pervenute che abbiamo stimato di ripetere, danno alla posterità diritto di affermare, che un genere di poesia maneggiato da migliori poeti Latini dovette trovare nell’idioma latino ordigni proprii per elevarsi, ed in copia maggiore che non ne rinvenne la poesia comica.

Ora tutto ciò si oppone perfettamente all’idea che della latina tragedia formata si avea Carlo Denina, il qualea asseri che in Roma si stava peggio ancora nella tragedia che nella commedia . Denina sente dun que all’opposto dell’avviso di Quintiliano; imperocchè egli che ingenuamente confessava che i Latini (malgrado di posseder Nevii, Cecilii, Plauti, Terenzii ed Afranii) zoppicavano nella commedia, non mai affermò altrettanto della tragedia; anzi sostenne nettamente esservi state alcune tragedie latine degne di venire in confronto colle migliori de’ Greci. Cicerone, Tacito, Plinio anche evidentemente discordano dal sentir del riputato Piemontese signor Denina. Laonde noi incliniamo a prestar tutta la fede a que’ Latini scrittori che ebbero sotto gli occhi le tragedie romane da essi esaltate, a que’ Latini che sapevano bene quel che si dicessero sulla propria lingua e poesia; ed assai peco in concorrenza (non ci s’imputi a colpa) crederemo al lodato Denina che con tutta la posterità non ha veduta nè anche una delle tragedie latine. Nè debbe egli fondarsi nè poco nè punto nella mancanza di originalità desiderata nelle tragedie latine; perchè se tal mancanza derogasse al merito de’ Tragici Latini, nè Eschilo nè Sofocle nè Euripide potrebbero ammirarsi come grandi, giacchè originali neppur dirsi debbono, secondo la regola del Denina, niuno ignorando che gli argomenti di que’ grandi tragici Greci tutti si trassero da Omero, da Esiodo e da’ Tragici che gli precedettero. Molto meno debbe egli appoggiarsi nell’abbondanza de’ difetti de’ Tragici Latini e nella, scarsezza di sublimità; perchè se dalle ultime favole moderne si risalga sino ai Cori di Bacco prodotti in Icaria, dir non sapremmo quante tragedie ostentar si potrebbero come perfette, grandiloquenti ed’ esenti di ogni taccia. L’uomo d’ingegno e di gusto purgato condona di buon grado i difetti, ove le bellezze di ogni tempo e di ogni clima soprabbondino.

II.

Tragedie attribuite a Seneca.

DI tante produzioni drammatiche scritte a un di presso sotto i primi Imperadori da personaggi ragguardevoli, non sono a noi pervenute se non le dieci tragedie attribuite a Seneca, le quali (che ne dica Martin del Rio e qualche altro) appartengono fuor di dubbio almeno a quattro scrittori, se la differenza del gusto e dello stile può servirci di scorta a conoscerne l’autore. Danno i Critici più sagacia a Lucio Anneo Seneca il filosofo la Medea, l’Ippolito e la Troade: a Marco Anneo Seneca il tragico l’Edipo, l’Ercole furioso, l’Agamennone, il Tieste, e v’ha chi vi unisce anche l’Ercole Eteo: a qualche sofista imitatore di Marco la Tebaide, benchè Giusto Lipsio vorrebbe riferir questa al felice secolo di Augusto: e ad alcun novizio declamatore l’Ottavia.

Se vogliansi queste tragedie paragonare in generale colle greche, si troveranno assai inferiori; scorgendosi in tutte poco o molto la gonfiezza e lo spirito di declamazione sostituito alla vera sublimità e alla passione. Ma si tradirebbe la verità, se si trascurasse, come d’ordinario avviene, di rilevarsene colla severità d’imparziale storico critico non poche bellezze che in esse si discernono. Cercheremo d’investigarle.

La Medea. Se v’ha tralle tragedie latine conservate alcuna che sostenga il confronto delle greche, è questa Medea. L’autore manifesta di avere abbastanza conosciuto il carattere del sublime tragico e sentenzioso. Il piano semplice è lavorato sulla greca di Euripide; ma in alcune parti è alterato, e talvolta con miglioramento. Tutto va senza intoppi al suo scopo, tutto è animato dalla passione, ed havvi pochi passi ne’ quali possa dirsi di aver più parte la mente che il cuore. Il soliloquio di Medea che forma l’atto I, e serve d’introduzione, è vigoroso. Invocati gli dei che presiedono alle nozze funeste, come furono le sue, e il caos e le furie (che può risentirsi alcun poco della declamazione senza riserba imputata a Seneca) si determina a una vendetta orrenda. In parole altiere, e quali dall’acuto critico Boileau si concedono allo sdegno e all’indignazionea, dà ad intendere i delitti e la strage che va meditando:

Quodcumque vidit Phasis aut Pontus nefas,
Videbit Isthmos. Effera, ignota, horrida,
Tremenda caelo pariter ac terris mala
Mens intus agitat; vulnera, et caedem, et regum
Funus per artus. Levia memoravi nimis:
Haec virgo feci; gravior exsurgat dolor.
Majora jam me scelera post partus decent.

Nell’epitalamio cantato dal Coro per le nozze di Giasone con Creusa, vedesi, il progresso dell’azione; e Medea dice nel cominciar l’atto II:

Occidimus! aures pepulit hymenaeus meas.
Hoc facere Jason potuit?

Cresce il suo furore; numera i passati delitti da lei commessi per amore, e soggiugne:

               nullum scelus
Irata feci.

Sommamente energica è la risposta che dà alla Nutrice che le rappresenta di trovarsi priva di ogni soccorso. Ecco le parole di entrambe:

Nut.

Abiere Colchi, Conjugis nulla est fides,
Nihilque superest opibus tantis tibi.

Med.

Medea superest.

Questa sublime risposta è seguita da un dialogo enfatico e rapido:

Nut.

Rex est timendus.

Med.

Rex meus fuerat pater.

Nut.

Non metuis arma?

Med.

Sint licet terra edita.

Nut.

Moriere.

Med.

Cupio.

Nut

Profuge.

Med.

Poenituit fugae.
Medea fugiam?

Nut.

Mater es.

Med.

Cui sim, vides.

Nella scena con Creonte si scorge l’artificio medesimo della tragedia greca; ma in questa latina è da notarsi che Medea in mezzo alle preghiere serba certo nobile contegno che tira l’attenzione. Di più l’interesse in questa par maggiore, perchè Seneca ingegnosamente suppone esser Giasone astretto a sposar Creusa per evitar la morte, perchè Acasto figliuolo di Pelia minaccia di saccheggiar Corinto, se Creonte non rende i colpevoli al castigo che gli attende. Or Giasone provvede alla sua salvezza promettendo di sposar la figlia di Creonte, e Medea rimane sola la vittima dello stato; per la qual cosa obbligata ad abbandonar tosto Corinto ottiene a stento la dilazione di un solo giorno. Nell’atto III è piena di bellezza la scena dell’incontro di Giasone e Medea. Vi si mostra alla prima meno odiosa l’infedeltà di Giasone ed in certo modo scusabile, trovandosi egli nella dura necessità di morire insieme coi figliuoli, o di tradir Medea:

                  Si vellem fidem
Praestare meritis conjugis, letho fuit
Caput offerendum: si mori nolimus, fide
Misero carendum est. Non timor vincit virum,
Sed trepida pietas…
Nati patrem vicere.

L’indignazione, l’impeto, l’orgoglio, tutta in somma ad ogni tratto Medea si manifesta. Avvedutasi di Giasone gli va incontro con questa amara ironia:

Fugimus, Jason, fugimus: hoc non est novum:

Ma dove andrà?

Phasim et Colchos petam,
Patriumque regnum?

e ciò è tratto dalla Medea di Euripide. Giasone le domanda:

Objicere crimen quod potes tandem mihi?

ed ella, Quodcumque feci , risponde con enfasi, disdegno e calore. La stessa sublimità spicca nella risposta data all’altra di lui domanda:

Tes.

Quid facere possim, eloquere.

Med.

Pro me vel scelus.

Si scusa lo sposo infedele col timore de’ due re Creonte ed Acasto, hinc rex et illinc , e Medea minaccevole gli ricorda quanto sia più da temersi la sola Medea:

Est et his major metus, Medea.

Alta extimesco sceptra , soggiugne Giasone, e Medea rinfacciandogli le di lui ambiziose mire replica, ne cupias vide . Giasone vuol troncare il discorso, ed ella freme, invoca Giove, ne implora i fulmini sopra qualunque di loro due. Tenta egli infine di moderarne le furie ad ogni costo, insinuandole di chiedere qualche conforto, al che ella domanda i figliuoli per condurli seco. Ma il padre risolutamente si oppone, manifestando la somma tenerezza che ha per essi:

    Spiritu citius queam
Carere, membris, luce.

Come? tanto trasporto? Sic gnatos amat (dice Medea maravigliata)? Bene est; tenetur; vulneri patuit locus. Questa bellezza, questa giudiziosa catena di pensieri, questa origine dell’ultimo grande delitto di Medea così scortamente disviluppata, è pure sfuggita ad Euripide. Ma le studiate bellezze poetiche profuse nell’atto IV, allorchè la nutrice novera i veleni raccolti, e gl’incantesimi di soverchio particolareggiati con descrizioni mitologiche e geografiche, appartengono a tutt’altro genere che al drammatico; benchè, a quel che io ne giudico, l’azione onde venivano accompagnati, deveva forse produrre nella scena Romana un vago effetto. Bella in Euripide è la narrazione dell’incendio e della morte di Creonte e della figliuola, che serve a far trionfare Medea per la ben riuscita vendetta. Ma forse non men bellamente Seneca se ne disbriga in quattro o sei versi, scorrendo più rapidamente alla tremenda strage de’ figliuoli per trafigere nella più tenera parte il cuor del padre. La Nutrice atterrita esorta Medea a fuggirsi. Egon’ut recedam? risponde ella colla solita energia e ferocia. Si profugissem prius, ad hoc redirem. E si accende, e si dà moto per eseguire ciò che le rimane a fare. Fas omne cedat.. Quidquid admissum est adhuc, pietas vocetur… Prolusit dolor per ista noster… Nescio quid ferox decrevit animus intus… Ex pellice utinam liberos hostis meus aliquot haberet! Quidquid in illo tuum est, Creusa peperit. Tratti grandi e gravemente espressi, che manifestano la serie de’ pensieri che la conducono al gran misfatto. È parimente maneggiata con vigore l’esitazione ed il contrasto di Medea madre con Medea consorte oltraggiata:

             Liberi quondam mei,
Vos pro paternis sceleribus poenas date…
Cor pepulit horror, membra torpescunt gelu,
Pectusque tremuit; ira discessit loco,
Materque tota, Conjuge expulsa, redit.
Egon’ut meorum liberum ac prolis meae
Fundam cruorem?
       Quod scelus miseri luent?
Scelus est Jason genitor, et majus scelus
Medea mater. Occidant: non sunt mei.
       Pereant: mei sunt.

Ucciso un figlio giugne Giasone e porge a Medea lo spietato piacere di trucidar l’altro sotto gli occhi del padre:

       Deerat hoc unum mihi,
Spectator ipse: nihil adhuc factum reor,
Quidquid sine isto fecimus sceleris, periit.

Nuovo interesse, nuova situazione estremamente tragica, quadro fuor di modo orribile. Un figlio svenato, una madre in atto di trapassare il cuore all’altro, un padre trafitto dallo spettacolo del primo e spaventato dall’irrevocabil morte imminente dell’altro. Egli prega, piagne, smania, vuol morire in vece del figlio, e la madre disumenata insultandolo risponde:

Hac qua recusas, qua doles ferrum exigam.
In matre si quod pignus etiamnum latet,
Scrutabor ense viscera, et ferro extraham.

Che idee! che terribili pennellate! Esse risvegliano il fremito dell’umanità, e giustificano il gusto di chi detestando il fatto ne ammira la dipintura. Non aveva torto Orazio allorchè del latino linguaggio affermava, che spirat tragicum satis, et feliciter audet .

Da alcuni questa Medea latina è anteposta alla greca. Noi non osiamo giudicare del patetico che in entrambe si trova espresso con tanta verità che giugne al cuore. Ma la condotta della latina sembra più rapida e più regolare, e vi si eccita il terrore contratti cosi forti e vivaci che farebbero nobile comparsa in qualunque tragedia di Eschilo e di Euripidea. Notava il signor di Voltaire in tal tragedia come un principal difetto, che non produce interesse, al suo dire, in pro di veruna persona. Medee (diceva) est une mechante femme qui se venge d’un malhonnete homme. La manière dont Corneille a traitè ce sujet, nous revolte aujourd’hui, celle d’Euripide et de Seneque nous revolterait encor davantage. Affermava ancora che essa presso i Romani non ebbe felice incontro. Se quest’ultima notizia è vera (di che non mi si è presentato sinora verun documento) non debbe essere avvenuto perchè Medea è malvagia e Giasone perfido e senza onestà. Medea tuttochè feroce alla prima ha dritto di lagnarsi dell’indegna incostanza di Giasone, ed allora ha per se tutto l’interesse ed i voti dell’uditorio; Medea indi eccede nel vendicarsi arrivando alla più inaudita spietatezza, e n’è detestata, e fa inorridire lo spettatore, che deplora un padre trafitto e punito con tale eccesso. L’una situazione e l’altra deriva con naturalezza dalle loro ben dipinte grandi passioni che perturbano ed interessano alternativamente per l’uno e per l’altro personaggio, ed attaccano chi ascolta all’azione intera. Queste riflessioni menano a conchiudere l’opposto di ciò che sostenne Voltaire. Doppiamente apparisce poco giusta l’osservazione dell’illustre autore francese, se si considera che quest’atroce argomento, che per suo avviso non produce interesse per veruno, si è conservato per tanti secoli, e nelle nazioni più colte ha eccitato l’entusiasmo di tanti Tragici. La Grecia ammirò la Medea di Euripide. Cicerone e Quintiliano ed altri Romani intelligenti non rimasero nauseati nè dalla Medea di Ennio, nè da quella di Ovidio, nè dalle due di Pacuvio e di Azzio, nè probabilmente da questa di Seneca. Stile e grandi affetti comprendono il gran secreto della scena tragica; e se l’argomento di Medea non esclude le passioni grandi, o Seneca le ha rilevate con uno stile vigoroso ed energico, onde viene l’umore che prende Voltaire per una favola tanto dagli antichi, e da’ moderni maneggiata e ripetuta?

La stessa mano della Medea sembraci che abbia colorito l’Ippolito, benché lo stile ne sia più ornato, e talvolta più del bisogno verboso, specialmente nell’atto I. Molte ciarle in assai bei versi contiene la scena d’Ippolito colla Nutrice dell’atto II, dove poeticamente espongonsi le lodi della vita semplica rusticale, e vi si ammirano varie belle imitazioni di alcuni passi di Esiodo e di Ovidio; ma simili cose sono meno tragiche di quel che si brama. Il solo squarcio che convenga direttamente all’argomento, si racchiude ne’ sei ultimi versi del ragionamento d’Ippolito, Sed dux malorum foemina ; e quel che veramente caratterizza questo personaggio, è la risposta data con impeto e vivacità a ciò che dice la Nutrice:

Nut.

Cur omnium fit culpa paucorum scelus?

Ip.

Detestor omnes, horreo, fugio, execror;
Sit ratio, sit natura, sit dirus furor,
Odisse placuit.

Eccellente è la scena della dichiarazione di amore fatta da Fedra ad Ippolito; ed il signor Racine che l’ha presso che interamente trascritta nella sua Fedra, ne ha renduta meno vivace l’introduzione. L’autor latino mostra lo stato compassionevole della regina, e la fa cadere tramortita nelle braccia d’Ippolito. Rinvenuta esita ancora, non sa risolversi a parlare; al fine si fa coraggio per le parole d’Ippolito, Committe curas auribus, mater, meis . Questo nome di madre che pure la molesta, le somministra l’introduzione:

Matris superbum est nomen, et nimium potens;
Nostros humilius nomen affectus decet;
Me vel sororem, Hyppolite, vel famulam voca,
Famulamque potius.
Mandata recipe sceptra; me famulam accipe;
Te imperia regere, me decet jussa exequi;
Muliebre non est regna tutari patris.
Tu qui juventae flore primaevo viges,
Cives paterno fortis imperio reges,
Sinu receptam, supplicem, ac servam tege.
Miserere viduae.

Questa offerta dello scettro fatta da Fedra con tanto garbo, ha servito a Racine per formarne una scena intera. Ippolito col promettere semplicemente di proteggerla,

Et te tuebor, esse ne viduam putes,
Ac tibi parentis ipse supplebo locum,

avviva le speranze di Fedra, e l’anima a palesarsi amante. Ippolito o per farla ravvedere, o perchè ancora non ben l’intenda, le dice, Amore nempe Thesei casto furis? Si, ella risponde incapace già di ritirarsi, di Teseo ma giovanetto:

                  Thesei vultus amo,
Illos priores quos tulit quondam puer;
……… genitor in te totus…
Tibi mutor uni……………………
Miserere amantis.

Bellissima è l’indignazione d’Ippolito:

Magne regnator Deum;
Tam lentus audis scelera……
In me tona, me fige……………
Sum nocens, merui mori,
Placui novercae.

Commosse a questo segno le passioni, la scena prende maggior movimento e vigore. Non è meno vivace l’atto III in cui Fedra accusa della propria colpa l’innocente Ippolito, e Teseo in di lui danno invoca il soccorso di Nettuno obbligato a compiere l’ultimo di lui desiderio. L’atto IV tratto interamente da Euripide contiene il magnifico elegante racconto del mostro marino e della disgraziata morte d’Ippolito. Vivace è la dipintura de’ cavalli inalberati:

Tum vero pavida sonipedes mente exciti
Imperia solvunt, seque luctantur jugo
Eripere, rectique in pedes jactant onus.

L’evento funesto chiama le lagrime sugli occhi di Teseo:

Occidere volui noxium (dice), amissum fleo.
Malorum maximum hunc cumulum reor,
Si abominanda casus optata efficit.

Nut.

Et si odia servas, cur madent fletu genae?

Th.

Quod interimi, non quod amisi, fleo.

Versi eccellenti, pensieri tragici, giusti, disviluppati ottimamente, a tempo e con passione. Il dolore, i rimorsi, le furie della madrigna, la funesta sua risoluzione di seguire Ippolito, tutto è con forza espresso.

Con tutto ciò le bellozze dell’Ippolito greco sorpassano di gran lunga quelle dell’Ippolito latino, che per altro per le additate maestrevoli pennellate merita non poca lode, ed ha molto contribuito ad arricchire la Fedra del gran tragico Francese, secondochè il lodato Brumoy con ingenuit à parimente confessaa Si è finora detto e ripetuto sino all’estrema noja: Seneca è gonfio, monotono, affettato; abusa delle sentenze e delle antitesi; declama; il suo stile sente di scuola. Ma è poi vero che alterò sempre la verità della natura nell’imitare le greche tragedie, e che corruppe, come altri disse, quel vin greco sì sano sì grato colla sua mordente acquavite? Seneca spessissime volte per troppa voglia di farsi ammirare cade in una manifesta affettazione; ma Seneca ha molte bellezze degne di notarsi; e se non vince o non uguaglia sempre i Greci, talora ai medesimi soggetti di Euripide presta maestà e vigorea Seneca dunque non sempre è affettato declamatore e secco filosofo, e doveasi dagl’intelligenti (se volevano dar prova di non copiarsi alla cieca l’un l’altro) sceverar dal grano la paglia, ciò chè rare volte si è praticato. Non si vuol decidere per sistema anticipatamente adottato, ma per esame ben ragionato. Se i giovani leggeranno le opere teatrali in simil guisa, ravviseranno molte bellezze degli antichi e mostreranno a pruova di saper ben leggere e ben intendere, e daranno a’ critici di sistema occasione di rilegger canuti gli autori dal loro tripode mimico approvati o condannati negli anni loro più verdi. Questa è la sola maniera di bene ed utilmente favellar di quello di cui tante volte si è scritto.

Accompagna degnamente le due tragedie descritte la Troade, la qualo abbraccia parte dell’Ecuba e parte delle Trojane di Euripide, aggirandosi sulla divisione delle schiave Trojane tra’ vincitori, sul sacrifizio di Polissena all’ombra di Achille, e sulla morte di Astianatte. Sublime n’è lo stile, molto vaghi ne sono i versi, nè vi si scorge copia di antitesi e di sentenze affettate che la deturpino; per le quali cose il celebre Marc’ Antonio Muretoa diceva: Ex omnibus Senecae tragoediis plurimum mihi semper placuerunt Troades.

Querelasi Ecuba nobilmente de’ mali della patria e della propria famiglia nell’atto I, malgrado di quel falso pensiero, Priamus flamma indiget ardente Troja . Tutti i cori delle tragedie latine, ancorchè ben verseggiati, cedono di assai a quelli delle greche per artifizio, interesse e passione, che che ne dicesse nel secolo XVI il celebre gramatico Bartolommeo Riccioa.

Questo primo coro pero della Troade accoppiato ai lamenti di Ecuba rassomiglia ad alcuni delle tragedie greche, e dovè riescire assai commodo alla musica per gli oggetti diversi che le appresta. Nell’atto II la vivace contesa di Pirro e Agamennone presenta i caratteri del vecchio re e del giovano eroe coloriti con brio. Singolarmente il discorso di Agamennone, Juvenile vitium est regere non posse impetum , è grave, nobile, sobrio e pieno di bellezza:

……… magna momento obrui
Vincendo didici.
Tu me superbum, Priame, tu timidum facis.
            Exactum satis
Poenarum, et ultra, est. Regiaut virgo occidat,
Non patiar. In me culpa cunctorum redit…
Qui non vetat peccare, cum posit, jubet.

Ma l’originale bellezza dell’eccellente atto III gareggia colle più teatrali patetiche situazioni del greco coturno. Astianatte rinserrato nella tomba di Ettore e scoperto dall’astuto Ulisse, le materne agitazioni e preghiere, l’inflessibilità del Greco, tutto in somma produce un movimento che tira l’attenzione universale, e lacera tutti i cuori sensibili. Il sogno di Andromaca è primieramente descritto con immagini patetiche e senza superfluità liriche:

… Subitò nostros Hector ante oculos stetit,
Non qualis ultro bella in Argivos ferens,
Sed fessus ac dejectus, et fletu gravis.
Depelle somnos, inquit, et natum eripe,
O fida conjux. Lateat: baec una est salus.
Omitte fletus. Troja quod cecidit, gemis?
Utinam jaceret tota!

La visione del consorte apporta con molta naturalezza la comparazione del padre col figlio somministrata da Virgilio, sic oculos, sic ille manus, sic ora ferebat :

…………………………… Hos vultus meus
Habebat Hector, talis incessu fuit,
Habituque talis; sic tulit fortes manus ecc.

Cerca poi Andromaca un luogo per sottrarlo alle inchieste, e si determina al sepolcro del padre:

……… Optime credam patri.
Sudor per artus frigidus totos cadit.
Omen tremisco misera feralis loci…..
Succede tumulo, nate; quid retro fugis?
……… Agnosco indolem,
Pudet timere. Spiritus magnos fuge.
Animosque veteres: sume quos casus dedit.
En intuere turba quae simus super,
Tumulus, puer, captiva.

Chiuso il fanciullo sopravviene Ulisse a chiederlo, Ubi natus est? Ed Andromaca ripiglia:

Ubi Hector? ubi cuncti Phryges?
Ubi Priamus? Unum quaeris, ego quaero omnia.

Finge poi di cedere forzata a confessare che Astianatte è morto, e con equivoco giuramento conferma che luce caret, inter extinctos jacet . Crede per un istante Ulisse, indi dubita, e dice a se medesimo: richiama le tue usate frodi e tutto te stesso, o Ulisse,

Scrutare matrem. Moeret, illacrymat, gemit;
Et huc et illuc anxios gressus refert,
Missasque voces aure sollicita excipit.

Gran verità! gran naturalezza! gran conoscenza de’ caratteri delle passioni! In questa scena veramente teatrale, nouv’ha mordente acquavite che corrompa il vin greco e sano apprestato dalla natura. Indi con molta avvedutezza lo scaltro Itacese conchiude: magis haec timet, quam moeret . E perchè totalmente scoppi la tenerezza materna, cerca atterrirla:

Tibi gratulandum est, misera, quod nato cares,
Quem mors manebat saeva, praecipitem datum
È turre, lapsis sola quae muris manet;

alla qual cosa Andromaca sbigottisce:

Reliquit animus, membra quatiuntur, labant,
Torpetque vinctus frigido sanguis gelu.

Dice allora Ulisse che l’osserva attentamente:

En tremuit: hac hac parte quaerenda est mihi.
Matrem timor detexit. Iterabo metum.

Comanda a’ seguaci che si cerchi Astianatte per tutto; indi finge che siasi trovato e preso alle spalle di Andromaca:

Bene est; tenetur. Perge, festina, attrahe.
Quid respicis, trepidasque?

Porta l’ultimo colpo all’infelice madre il pensiero che sopravviene ad Ulisse di spargere al mare almeno le ceneri di Ettore abbattendo la di lui tomba, quando non si possa avere il di lui figlio per ucciderlo. Che farà la misera madre? Parlando palesa il figlio, e tacendo, senza salvarlo, soffre che si profanino e dispergano le amate reliquie del gran consorte. Vinta dunque dall’astuto volgesi alle preghiere, confessando di esser vivo Astianatte: miserere matris , ella dice; ed Ulisse, exhibe natum, et roga . Ogni passo di questa scena è un prezioso quadro della natura colorita maestrevolmente. Il fanciullo tratto dalla tomba da’ seguaci di Ulisse grida, miserere, mater , e la desolata madre,

Quid meos retines sinus,
Manusque matris? cassa praesidia occupas;

immagine vaghissima presa da Euripide. La comparazione però da questo tragico Greco fatta e chiusa in un verso dell’augellino che si ricovera sotto le ali della madre, è assai più delicata e bella di quella di Seneca quì usata e distesa in quattro versi e mezzo, del giovenco che impaurito dal ruggito del lione si appressa alla madre. Cresce l’interesse e il lutto nell’atto IV, vedendosi condotta con inganno Polissena al sacrificio, e annunziandosi alle prigioniere quali padroni sieno loro caduti in sorte. Si narra nell’atto V l’intrepida morte di Polissena e il precipizio di Astianatte. A questo terribile racconto però Andromaca si ricorda delle crudeltà esercitate in Colco, degli Sciti erranti, degl’Ircani, degli altari di Busiride, de’ cavalli di Diomede; ma, oimè? l’uomo di buon gusto e discernimento quì vede il poeta, quando aspettava di vedere quella medesima madre trafitta e sì al vivo scolpita nell’atto III. Trovansi di questa tragedia varie espressioni bellamente imitate da Metastasio. Seneca dice nel l’atto II: Si manes habent curas priores, nec perit flammis amor , ed il Poeta Cesareo nel Catone,

S’è ver ch’oltre la tomba amin gli estinti.

Seneca nell’atto III: Levia perpessac sumus, si flenda patimur , e Metastasio nell’Artaserse,

Picciolo è il duol, quando permette il pianto.

Seneca nell’atto IV: Perge thalamos appara, quid tedis opus est, quidve solemni face? Quid igne? thalamis Troja praelucet novis , ed il nostro drammatico nella Didone,

Va pure, affretta il piede,
Che al talamo reale ardon le tede.

L’autore dell’Edipo latino sia per istile sia per condotta di azione, dimostra essere diverso da quello delle tre precedenti tragedie. Sofocle ha somministrata la materia di questa; ma la traccia della favola va piggiorando a misura che si scosta dal l’originale. L’apertura dello spettacolo, in vece di essere com’è in Sofocle una decorazione teatrale e un quadro compassionevole, quì si converte in una cicalata, in una declamazione di Edipo su i mali della peste ripetuti dal coro nell’atto I. Sofocle con saggia economia svolge gradatamente i fatti passati, per apportar con garbo quel felice scioglimento che egli diede alla sua favola; là dove Seneca accenna variè circostanze senzachè l’azione avanzi, ovvero se ne accrosca l’interesse. Quel trivio con tanto senno riserbato da Sofocle per la bellissima scena di Giocasta con Edipo, viene da Seneca fatto accennare scioperatamente da Creonte nella prima scena dell’atto II, senza che Edipo mostri di ricordarsi che egli in simil luogo ammazzò ancora un uomo. Tiresia che nella favola greca viene alla presenza del re chiamato per ben due volte per ricordo di Creonte, nella latina si presenta spontaneamente senza esser la di lui venuta preparata o attesa; sebbeno al volgo Romano superstizioso sarà riuscito grato e popolare lo spettacolo dell’auspicio. Ma ciò nè anche bastando all’augure, alia , dice, tentanda est via

Ipse evocandus noctis aeternae plagis
Emissus Erebo ut caedis auctorem indicet.

E con ciò si prepara per l’atto III un lunghissimo racconto dell’evocazione delle ombre e di Lajo. La scena di Edipo e Giocasta in Sofocle tira l’attenzione di chi legge, mentre quanto Giocasta adduce per dissipare il timore del re, tutto sventuratamente serve per aumentarli e per accendere vie più in lui la curiosità di abboccarsi col pastore. All’opposto in Seneca nell’atto IV e magrissima e pressochè sfornita di passione. Lo scioglimento poi con arte somma maneggiato nella tragedia greca, quì si precipita, non avendo saputo il tragico latino mettere a profitto quelle patetiche situazioni che nello svilupparsi la favola stessa naturalmente appresterebbe. Le disperate riflessioni, i tratti terribili e compassionevoli sugeriti a Sofocle dalla situazione deplorabile e dall’acciecamento di Edipo, trovansi presso Seneca sommersi in una piena di studiate e stravaganti locuzioni. Secondo il Messo che lo riferisce, mai Edipo non fu più sofistico ragionatore che sul punto di volersi ammazzare. Moreris? hoc patri sat est. Quid deinde matri? quid male in lucem editis gnatis? quid… flebili patriae dabis? Solvenda non est illa quaeleges ratas natura in uno vertit Oedipode, novos commenta partus. È questo forse il linguaggio de’ rimorsi e di un dolor disperato? Egli vuol morire e vivere di bel nuovo e tornare a morire e rinascer sempre,

Iterum vivere, atque iterum mori
Liceat, renasci semper.

Non vuol esser tra’ morti, nè dimorar tra’ vivi,

……… quaeratur via,
Quâ nec sepultis mixtus, et vivis tamen
Exemptus erres.
Fodiantur oculi.

Ed in fatti gli occhi condannati a seguir le lagrime, impazienti appena si contengono nelle occhiaje, e finalmente

              suam intenti manum
Ultro insequuntur: vulneri occurrunt suo.

Se gli svelle dalle radici, e la mano non è sazia di lacerare fin anche le loro sedi, e temendo (dove giunge il delirio del poeta!) che vi abbia a rimaner qualche luce,

           … attollit caput
Cavisque lustrans orbibus coeli plagas,
Noctem experitur.

Ecco a quali vaneggiamenti conduce nel genere drammatico la frenesia del dir cose non volgari. Egli è però da confessarsi che pur si trova in tal tragedia qualche imitazione fatta di Sofocle non infelicemente, e vi si veggono sparsi quà e là molti bei versi ed alcuni squarci pregevoli. Tale può parere quello dell’atto IV, quando l’orrore s’impossessa di Edipo già noto a se stesso:

Dehisce tellus, tuque umbrarum potens
In tartara ima rector ecc.

Meno riprensibile, declamatorio e ampolloso dello stile dell’Edipo riferito e dell’Ercole Eteo che or ora ossorveremo, sembrami lo stile del l’Agamennone. Non è molto infelicemente espressa nell’atto II la situazione di Clitennestra presso a rivedere il marito,

Quocumque me ira, quò dolor, quò spes feret,
Huc ire pergam. Fluctibus dedam ratem.
Ubi animus errat, optimum est casum sequi.

Questo pensiero pose Metastasio in bocca a Massimo nell’Ezio così:

Il commettersi al caso
Nell’estremo periglio
È il consiglio miglior d’ogni consiglio.

E lo stesso nostro celebre Melodrammatico ne trasse un’altra sentenza detta pure da Clitennestra:

Remeemus illuc unde non decuit prius
Abire: sic nunc casta repetatur fides;
Nam sera nunquam est ad bonos mores via.
Quem poenitet peccasse, pene est innocens.

Di ciò così Fulvia si vale nell’Ezio:

Non è mai troppo tardi onde si rieda
Per le vie di virtù. Torna innocente
Chi detesta l’error,

Magnifica nell’atto II è la dipintura della tempesta che scompiglia e dissipa l’armata greca; e ciò che la rende più lodevole si è che cade in un luogo, in cui senza nuocere all’azione prepara la venuta di Agamennone. Tragicamente e con nobiltà si esprime Cassandra:

Vicere nostra jam metus omnes mala.
Equidem nos ulla coelites placo prece.
Nec si velint saevire, quo noceant, habent.
Fortuna vires ipsa consumpsit suas.
Quae patria restat? quis pater? quae jam soror etc.

I di lei furori fatidici sono pieni dell’entusiasmo che la trasporta:

Timete, reges, moneo, furtivum genus.
Agrestis ille alumnus evertet domum.
Quid ista vecors tela foeminea manu
Districta praefert?…
Quid me vocatis sospitem solam e meis
Umbrae meorum? Te sequor, totâ pater,
Trojâ sepulte: frater, auxilium Phrygum etc.

La prima scena dell’atto IV benchè breve presenta un rapido vivace dialogo di Agamennone lieto di vedersi nella patria e di Cassandra che predice la prossima morte di lui senza esser creduta. I caratteri sono quali esser debbono, e le passioni non sono tradite dall’affettazione, benchè non mostrino di essere animate da que’ medesimi colori della natura che nella Troade e nella Medea enunciano la mano esperta di un valente pittore. Ciò abbiamo voluto con ingenuità rilevare, sebbene il piano di questa favola non parmi disposto col giudizio che si richiede per tener lo spettatore attento e sospeso; e bisognerebbe che le scene vi fossero con più artificio concatenate. Soprattutto nell’atto V si scopre la poca destrezza e pratica di teatro che avea l’autor latino; e sempre più si desidera il bellissimo veramente tragico atto V del coronato Agamennone di Eschilo.

Il Tieste è una delle più terribili tragedie per l’atrocità dell’azione. Ma l’autore latino che d’altro non va in traccia che di declamare, prende a tale oggetto i punti principali dell’argomento l’un dopo l’altro, senza tesserne un viluppo verisimile insieme ed artificioso, come fa Sofocle, che con siffatta industria sin dalle prime scene si concilia l’altrui attenzione; come anche senza imitar la delicatezza di Euripide che nulla trascura per ben dipignere gl’interni movimenti del cuore umano, e riuscire in tal guisa a commuovere, perturbare e disporre gli animi agli orribili evenimenti. Uno studio continuo di mostrare ingegno ad ogni parola fa sì che l’autore si affanni per fuggire l’espressioni vere e naturali, e per correr dietro a certo sublime talvolta falso, spesso affettato, sempre nojoso per chi si avvede della fatica durata dall’autore a portar la testa alta e a sostenersi sulle punte de’ piedi. Gli squarci più tragici vengono bruttati dal furore di presentar sempre pensieri maravigliosi. La strage de’ nipoti da Atreo atrocemente eseguita, è ben narrata ne’ seguenti versi:

          … O nullo scelus
Credibile aevo, quodque posteritas neget!
Erepta vivis exta pectoribus tremunt,
Spirantque venae, corque adhuc pavidum salit.
At ille fibras tractat, ac fata inspicit,
Et adhuc calentes viscerum venas notat.
Postquam hostiae placuere, securus vacat
Jam fratris epulis.

Ma tal maniera naturale di esprimersi è straniera all’autore di questa tragedia, il cui vero carattere torna a comparire nelle seguenti false espressioni dal verso 768 al 775: il fuoco arde di mala voglia, le fiamme piangono, il fummo stesso esce malinconico, e si piega in vece di ascendere direttamente . Avvegnachè alcune sentenze sieno ottime e non affettate, pure per la maggior parte hanno l’aria di aforismi o di responsi di oracolo. Poetiche sono molte comparazioni ma sembrano assai improprie nel genere rappresentativo, quando sono lunghe e troppo circostanziate. Tale è quella di Atreo nell’atto III: Sic cum feras vestigat, et longo sagax Loro tenetur Umber etc. allungata per ben sette versi; e l’altra dell’atto IV contenuta in cinque: Jejuna sylvis qualis in Gangeticis etc. ; ed anche un’altra del medesimo atto, nè molto da questa lontana spiegata in altrettanti versi: Sylva jubatus qualis Armeniâ leo etc.. Può non pertanto osservarsi in essa più di uno squarcio in cui la locuzione è sobria. Tale è questo dell’atto II:

Per regna trepidus exul erravit mea.
Pars nulla nostri tuta ab insidiis vacat.
Corrupta conjux, imperii quassa est fides,
Domus aegra, dubius sanguis: est certi nihil,
Nisi frater hostis.

Bella è pure la sentenza dell’atto III:

Habere regna casus est, virtus dare;

ciocchè Metastasio imitò così nell’Ezio;

        … Se non possiedi,
Tu doni i regni, e il possederli è caso,
        Il donarli è virtù.

Tratto dal vero è parimente ciò che dice Tieste al figliuolo Plistene nell’atto IV:

Occurret Argos, populus occurret frequens,
Sed nempe et Atreus…
Nihil timendum video, sed timeo tamen.
Placet ire, pigris membra sub genibus labant,
Alioque, quam quò nitor, abductus feror.

Degno è pur di leggersi quanto aggiugne Tieste un tempo scellerato, ma che nella tragedia si enuncia pentito e corretto dalle sventure, e bramoso della vita privata. Le riflessioni filosofiche di lui sono ricavate con molta cura da varie epistole di Seneca. L’elegante descrizione del Bosco sacro e del Larario di Atreo spira magnificenza, e dispone all’orrendo sacrificio de’ figliuoli di Tieste. A taluno parrà soverchio lunga: ma se in qualche occorrenza è permesso al poeta drammatico di adornare ed esser pomposo, egli è in simile congiuntura, in cui l’orrore del luogo ben dipinto contribuisce a destare l’orrore del misfatto. Sublime è anche la risposta di Tieste nell’atto V allorchè Atreo insulta al di lui dolore:

Atr.

… Gnatos ecquid agnoscis tuos?

Th.

Agnosco fratrem.

L’argomento dell’Ercole furioso è lo stesso di quello di Euripide, ma la condotta dell’azione è cangiata. Nel greco è più manifesta la duplicità della favola, e nel latino i due oggetti, l’ammazzamento di Lico e il delirio di Ercole colle conseguenze, sembrano più connessi a cagione del prologo di Giunone che forma l’atto I. Ma poi la tragedia greca trionfa per la vivacità dell’azione e pel vero colorito degli affetti, là dove la latina al paragone par dilombata e senza anima, e le passioni vi si veggono maneggiate più ad ostentare erudizione in una scuola di declamazione rettorica che a ritrarre al vivo il cuore umano e presentarne agli uomini la dipintura in un teatro. II discorso di Megara nell’atto II fa desiderare il patetico che si ammira nella tragedia di Euripide, quando tutta la famiglia di Ercole spogliata del regno rifugge all’ara di Giove per evitar la morte. Il carattere di Megara si allontan dal gusto greco, e prende l’aspetto di certo eroismo più proprio de’ costumi Romani, il quale a poco a poco si è stabilito ne’ teatri moderni e no forma il sublime:

Patrem abstulisti, regna, germanos, larem
Patrium. Quid ultra est? una res superest mihi,
Odium tui;

la qual cosa vedesi da Metastasio emulata,

        … Sola mi avanza
(E il miglior mi restò) la mia costanza.

Cogere, le dice il tiranno, ed ella:

… Cogi qui potest, nescit mori.

Ly.

Effare, thalamis quod novis potius parem
Regale munus?

Meg.

Aut tuam mortem, aut meam.

Venuto Ercole il poeta fa che egli intenda lo stato del regno e voli a trucidare il tiranno; ma intanto che la sua famiglia dovrebbe mostrarsi sollecita dell’esito dell’impresa, Anfitrione si diverte ad ascoltar da Teseo l’avvenimento di Cerbero tratto fuori dall’inferno, e a domandare, se in quelle regioni si trovino terre feraci di vino e di frumento . Per altro tale racconto contiene più d’una bellezza, che a miglior tempo si farebbe ammirare. Tale è la nobile descrizione del Giove infernale:

        … Dira majestas Deo,
Frons torva, fratrum quae tamen speciem gerat,
Sed fulminantis. Magna pars regni trucis
Est ipse dominus, cujus aspectum timet
Quidquid timetur.

Tale è pure la pittoresca immagine di Cerbero smarrito al vedersi esposto alla luce:

   … Vidit ut clarum aethera,
Et pura nitidi spatia conspexit poli,
Oborta nox est, lumina in terram dedit,
Compressit oculos, et diem invisum expulit,
Aciemque retro flexit, atque omni petiit
Cervice terram, tum sub Herculeâ caput
Abscondit umbrâ.

Meritevoli di particolar lode sono eziandio le preghiere di Ercole nell’atto IV. Anfitrione gl’insinua d’implorar da Giove il termine delle sue fatiche. Ed egli risponde, che farà de’ voti di Giove e di se più degni, cioè che il cielo, l’etere e la terra serbino concordi il luogo che ottennero nell’uscir dal caos: che gli astri non sieno turbati nel loro corso: che il mondo goda una perenne pace: che tutto il ferro s’impieghi negl’innocenti lavori villeschi e mai non si converta in armi; voti nobili e proprii di un cuor magnanimo. Non è da omettersi la bella espressione di Giunone nell’atto I:

      … Monstra jam desunt mihi;
Minorque labor est Herculi jussa exequi,
Quam mihi jubere;

che è una vaga imitazione di ciò che Ovidio con eleganza fe dire all’istesso Ercole nel IX delle Metamorfosi:

      … Defessa jubendo
Saeva Jovis conjux, ego sum indefessus agendo.

Trovansi in tal tragedia altre sentenze ancora non meritevoli di riprensione:

Ars prima regni est posse te invidiam pati,

che Metastasio inserì nell’Ezio:

La prima arte del regno
È il soffrir l’odio altrui;

e quest’altra,

Pacem reduci velle victori expedit,
Victo necesse est,

pur da Metastasio nell’Adriano imitata,

   …… Alfin la pace
È necessaria al vinto,
Utile al vincitor.

La Tebaide che non ci è pervenuta intera, contiene lo stesso argomento de’ Sette Capi a Tebe di Eschilo, e delle Fenisse di Euripide: ma questa Tebaide latina cede di molto alle due favole greche per istile e per condotta. Nel lunghissimo atto primo, benchè pur tronco, presenta una verbosa declamazione di Edipo colla figliuola di circa trecento versi, de’ quali più di 275 esprimono la disperazione e la dolorosa rimembranza delle sventure di Edipo, e si aggirano in tutt’altro che nell’argomento della Tebaide; di maniera che sembra piuttosto prepararsi l’azione dell’Edipo ramingo in Colono trattata da Sofocle, che la guerra de’ figliuoli di lui. Ciò vuolsi dai poeti fuggire con somma cura; perchè lo spettatore che ha motivo d’ingannarsi sul di loro disegno, se ne vendica col disprezzo. Nel frammento dell’atto II Edipo comparisce un mentecatto, perchè pregato a interporre la sua autorità fra i due fratelli, egli al contrario fulmina contro di loro varie maledizioni. Non satis est adhuc civile bellum, frater in fratrem ruat; nec hoc sat est etc… Ma perchè mai? qual motivo aveva Edipo di abbandonarli al loro furore? I Greci con più senno fecero derivare la di lui avversione e le maledizioni dal disprezzo e dall’ingratitudine de’ figliuoli verso di lui, come può vedersi nell’Edipo Coloneo. Nell’altro frammento dell’atto III si vede il falso gusto dell’autore che non sa internarsi nel l’interesse de’ personaggi. Alla notizia della battaglia imminente Antigone prega la madre ad affrettarsi per impedirla: Scelus in propinquo est; occupa, mater, preces. Ed in fatti, come indi dice il messo, ella è accinta a precipitarsi in mezzo alle squadre, come fende l’aria veloce partico strale, come va una nave spinta da vento furioso, o come dal cielo cade una stella . Gran velocità! Ma pure avanti di correre in tal guisa ella è arrestata dall’urgente necessità, di che mai? di declamar sette versi per desiderare un turbine che la trasporti per aria, l’ali di una sfinge, o di un uccellaccio Stinfalide capaci di ecclissare il sole, o di un’ arpia . Ad onta però di tutto ciò che salta agli occhi, Giuseppe Scaligero serivendo a Claudio Salmasio chiamava questa tragedia princeps omnium Senecae , Martino del Rio la stimava latinior et melior quam caeterae , e Giusto Lipsio la riferiva all’aureo secolo di Augusto. Ma le sottigliezze, l’espressioni ampollose, i lampi d’ingegno ricercati con istudio, l’oricalco posto in opera in vece dell’oro di quella felice età, enunciano anzi l’indole del secolo in cui si corruppe e si perdè ogni eloquenza, e si prese per entusiasmo vigoroso la foga di un energumeno. Dall’altra parte non solo non è, come diceva il dotto Brumoy, la più stravagante di tutte (perchè quale più stravagante dell’Ercole Eteo che lo stesso critico attribuiva a colui che scrisse l’Agamennone?) ma possono in essa senza oltraggio del buon senno ammirarsi varii tratti veramente sublimi, e certa vivacità di colorito nelle passioni che difficilmente si rinviene altrove. Rechiamone qualche esempio. Dice la tenera Antigone al padre:

Pars summa patris optimi e regno mea est
Pater ipse…
… Prohibeas, genitor, licet,
Regam abnuentem; dirigam invitum gradum.
In plana tendis? vado. Praerupta expetis?
Non obsto, sed praecedo. Quo vis utere
Duce me: duobus omnis eligitur via.
Perire sine me non potes, mecum potes.

Le mostruose nozze con Giocasta sono bene espresse dal medesimo Edipo:

Avi gener, patrisque rivalis sui,
Frater suorum liberum, et fratrum parens.
Uno avia partu liberos peperit viro,
Ac sibi nepotes.

Ciò è stato nobilmente imitato da Metastasio nel Demofoonte, e forse migliorato per la facilità maggiore di rinvenirvi i rapporti de’ gradi di parentela:

…..Le chiome in fronte
Mi sento sollevar; Suocero e padre
M’è dunque il re! figlio, e nipote Olinto!
Dircea moglie e germana! Ah qual funesta
Confusion di opposti nomi è questa!

Antigone,

Quem genitor, fugis?

dice al padre agitato, il quale risponde,

Me fugio, fugio conscium scelerum omnium
Pectus, manumque hanc fugio, hoc coelum, et Deos,

che pur dal medesimo drammatico Romano, e forse con più energia, si trova espresso nel nominato dramma:

Dem.

Ma da chi fuggi?

Tim.

Io fuggo
Dagli uomini, da numi,
Da voi tutti e da me.

Vi è moto, affetto, robustezza senza veruna stravaganza in quest’altro squarcio:

Ant.

Perge, o parens…
Compesce tela, fratribus ferrum excute.

Joc.

Ibo, ibo, et armis obvium exponam caput.
Stabo inter arma etc.

Pregevole è pure quest’altro della medesima Giocasta:

… Misera, quem amplectar prius?
In utramque partem ducor affectu pari.
Hic abfuit. Sed pacta si fratrum valent,
Nunc alter aberit. Ergo non unquam duos,
Nisi sic videbo?

La nobile semplicità delle Trachinie di Sofocle non si rinviene nel piano e nella condotta dell’Ercole Eteo latino che ne deriva. L’atto primo ci mostra Ercole che si trattiene a ciarlare nel promontorio Ceneo in Eubea, ed il rimanente poi si rappresenta in Trachinia. Uno spirito declamatorio senza freno ne contamina i punti più tragici che si ammirano nella tragedia greca. Il Plautino Pirgopolinice che con un pugno spezza una coscia a un elefante, è un’ ombra a fronte di Alcide, il quale dice a Giove che si rincori, secure regna , mentre il suo braccio ha già fracassato quanto Giove avrebbe dovuto fulminare. Egli domanda in premio il cielo, cioè l’immortalità, poichè già la terra.

Timet concipere, nec monstra invenit.
Ferae negantur. Hercules monstri loco
Jam coepit esse.

Che se poi non avesse finora fatto abbastanza per meritarlo, egli farà di più, congiungerà Peloro all’Italia, caciando in fuga i mari che si frappongono, muterà tutto l’orbe, darà nuovo corso all’Istro e al Tanai ecc. Il carattere di Dejanira sì bello e naturale presso Sofocle, diviene grossolano nella tragedia latina, e stanca il leggitore nel l’atto II con mille discorsi che per far senno dovevano omettersi. Quanto poi eloquente è il silenzio di lei nella greca, allorchè ha risoluto di andarsi ad uccidere, tanto disadatte sono a commuovere le antitesi, le sentenze affettate, le riflessioni e la nojosa declamazione della Dejanira del tragico latinoa. Non per tanto in questo lunghissimo componimento di circa duemila versi, fra tanti concetti affettati e strani, trovansene alcuni giusti, bene espressi e spogliati di ogni gonfiezza. Tali sono,

Nunquam est ille miser, cui facile est mori.
Felices sequeris mors, miseros fugis,

che Metastasio imitò nell’Artaserse:

Perchè tarda è mai la morte,
Quando è termine al martir?
A chi vive in lieta sorte
È sollecito il morir!

Seneca dice ancora in questa tragedia:

Oh si pateant pectora ditum,
Quando intus sublimis agit
Fortuna metus!

E Metastasio sviluppando l’istesso concetto,

Se a ciascun l’interno affanno
Si vedesse in fronte scritto,
Quanti mai che invidia fanno,
Desterebbero pietà.

Notinsi pure i seguenti pensieri con sobrietà espressi:

… Tot feras vici horridas,
Reges, tyrannos; non tamen vultus meos
In astra torsi. Semper haec nobis manus
Votum spopondit. Nulla propter me sacro
Micuere coelo fulmina. Hic aliquid dies
Optare jussit. Primus audierit preces,
Idemque summus. Unicum fulmen peto.

Ed ancor questo è notabile e nobile:

Effare……
… Vultu quonam tulerit Alcides necem?

Ph.

Quo nemo vitam.

Seneca dà lieto fine a questa favola facendo comparire Ercole deificato a consolare e rallegrare Alcmena sua madre.

La snervata Ottavia sembra produzione di un rettorico novizio che mai non conobbe teatro, nè si curò di osservare l’artificio de’ Greci poeti. Gherardo Vossio la crede opera di Floro, e Giuseppe Scaligero sospetta che sia parto di Sceva Memore. Principia la prima scena con una declamazione o elegia generale di Ottavia, la quale esce e si ritira senza perchè. Le succede una Nutrice che si querela delle vicissitudini delle reggie. Ottavia senza cagione ancora comparisce di nuovo a lamentarsi della fortuna. La Nutrice ne ascolta la voce e facendo un’ apostofo alla propria vecchiaja ( cessas thalamis inferre gradum, tarda senectus) le va incontro, e cominciano le nenie a due. Apre l’atto II Seneca che purviene non si sa perchè, e si mette a moralizzare sulle diverse età del mondo, ravvisando in quella, in cui egli vive, i vizii di ciascheduna,

Collecta vitia per tot aetates diu
In nos redundant.

Ma ciò serve punto a fare avanzar l’azione? Al contrario; fin quì essa nè anche può dirsi incominciata. Sopraggiugne Nerone. Insorge una disputa generica tra il discepolo e il maestro; sostiene ciascuno la propria tesi con caparbieria scolastica; lancia l’una e l’altra parte un nembo di sentenze proposte e risposte a maniera di massime; e dopo una lunghissima tiritera di più di cento versi, si manifesta l’intento di Nerone di ripudiare Ottavia e sposar Poppea, che è la meschina azione della tragedia, sulla quale si favella appena in poco più di trenta versi. Ma diceva benissimo Boileau,

Le sujet n’est jamais assez tôt expliquè.

Scappa dall’inferno nell’atto III l’ombra di Agrippina per precedere le nozze di Poppea colla fiaccola accesa in Acheronte, declama a sua posta, indi accortasi forse ella stessa della sua nojosa cicalata, si determina a partire,

Quid tegere cesso tartaro vultus meos?

Chiude l’atto Ottavia rimandata alla casa paterna, ed il Coro la compiange. Nell’atto IV un’ altra Nutrice accompagna Poppea, intende i di lei timori cagionati da un sogno funesto, e sembra che vadano a cominciare una nuova favola. Il Coro loda la bellezza di Poppea, e un Messo enuncia il tumulto del popolo pel ripudio di Ottavia. Narrasi nel V che il tumulto è sedato. Nerone comanda che Ottavia sia relegata nell’isola Pandataria del golfo di Gaeta, che nel dialetto napoletano dicesi Vientotene; e in fatti ella viene fuori condotta da’ soldati per imbarcarsi. Che languidezza, che gelo, che noja! Qual differenza enorme tralla sublime terribile Medea, e questi dialoghi scolareschi senz’arte, senza interesse, senza moto, senza contrasti, senza tragiche situazioni!

Tale per mio avviso è Seneca, o per meglio dire ciascuno autore delle dieci tragedie latine che sotto il di lui nome ci sono rimastea. Non so se in questo giudizio i leggitori sereni troveranno parzialità, ingiustizia o difetto di lettura o d’intelligenza. So però che il Critico illuminato che ve ne scorgesse, dovrebbe avvertirne il pubblico con buone ragioni esposte con urbanità e moderazione, e non già con decisioni magistrali enfaticamente profferite in qualche prefazione destinata dall’autore ad esaltar se stesso ed abbassar altrui con oracoli che muovono a riso, perchè in essi sempre trovasi il mistero e di rado il gusto o la verità o la giustizia.