(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome III « STORIA DE’ TEATRI. LIBRO SECONDO — CAPO III. Teatro Latino intorno alla seconda Guerra Punica. » pp. 129-244
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome III « STORIA DE’ TEATRI. LIBRO SECONDO — CAPO III. Teatro Latino intorno alla seconda Guerra Punica. » pp. 129-244

CAPO III.

Teatro Latino intorno alla seconda Guerra Punica.

Nè presti furono nè grandi i progressi del Teatro Latino. Roma dedita alle armi favoriva poco le arti che potevano ammollire il valore, e trascurò la drammatica. Benchè non molto amandola ne tollerasse lo spettacolo, non permise però che vi si mettessero sedilia Davansi da prima nel Foro i giuochi scenici ornandone lo spazio con statue e pitture prese dalla Grecia o dagli amici in prestanza, perchè non vi erano teatrib Nell’anno di Roma 558 il Senato tuttavia assisteva allo spettacolo misto e confuso tra il popolo. Nel 599 essendo Consoli M. Valerio Messala e C. Cassio Longino, vollero costruire nella città un teatro, ma il Console P. Cornelio Scipione Nasica vietò che si terminasse, e fece vendere all’incanto tutti i materiali a tale oggetto da essi accumulatiaCresciuta poi la potenza Romana, le ricchezze apportatrici di ozio e di riposo rendettero più necessarie le arti di pace. Allora gli spettacoli scenici si riguardarono più favorevolmente, e si cerco l’agio degli spettatori col difenderli dal Sole colle tende, si assegnò al Senato un luogo distinto dalla plebe, e si rimunerarono e protessero i poeti teatrali.

I.

Tragici di quest’epoca.

Quando l’onore le alimenta, le arti prendono il volo, e si elevano sino all’altezza che può comportare un clima. Ciò avvenne al teatro Latino, intorno alla seconda guerra Punica, allorchè la lingua trovavasi nel colmo dello splendore. Piena come è di gravità e maestà, servi felicemente coloro che impresero con coraggio a coltivar la tragica poesia. Galzarono allora con particolar lode il coturno Marco Pacuvio, Lucio Accio ovvero Azzio, Cajo Tizio, e secondo alcuni anche il satirico di Sessa Cajo Lucilio.

Marco Pacuvio nato in Brindisi secondo Plinio da una sorella del prelodato Quinto Ennio, per concorde attestato de’ Latini scrittori conservò la riputazione acquistata di dotto anche nell’età di Augustoa Marziale motteggia sull’uso ch’ei faceva delle parole antiche; ma Varrone il più dotto de’ Romani e giudice più di Marziale competente in fatto di lingua latina, ne esalta l’ubertà della locuzione, nè si atterrisce de i di lui arcaismi. Cicerone tolse da lui l’esempio di un ottimo tragicob; e nel dialogo dell’Amicizia rammenta gli encomii dati a una di lui tragedia ove introdusse Pilade ed Oreste. Dalla Medea di Pacuvio e da qualche altra sua favola non isdegnò Virgilio di trarre alcun versoc. Quintiliano lo commenta per la degnità e pel decoro de’ personaggi, per la forza dell’espressione e per la gravità de’ pensieri. Si riconobbe in lui qualche rozzezza nello stile; ma ai suoi di non si fecero vorsi più colti. Nella raccolta de’ Frammenti degli antichi Tragici Latini fatta dallo Scriverio colle note del Vossio si nominano le seguenti tragedie di Pacuvio: Anchise, Antiope, Atalanta, Crise, Duloreste, Ermione, Finide, il Giudizio delle armi, Ilione, Medea, Medo, Niptra, Paolo, Peribea, Pseudone, Tantalo, Teucro, Tieste. Vi si leggono altri di lui frammenti di favole incerte; ma non quello del sagacissimo imitatore degli antichi poeti Antonio Moreto che fu da lui stesso compostoa. Pacuvio al pari di Ennio coltivò anche la poesia satirica prima di Lucilio, benchè non ne rimangano frammenti. Fu altresi pittore non ignobile, e dagli antichi si trova commentata la pittura che fece pel tempio di Ercole nel Foro Boarioa. Egli mori quasi nonagenario in Taranto, come attesta san Girolamo nel Chronico di Eusebiob. Si è conservato l’epitafio che Pacuvio fece a se stesso come sommamente puro, e degno della sua elegantissima gravità , oltre al pregio della verecondia che manca a quello di Nevio e di Plautoc:

Adolescens, tametsi properas, hoc te saxum rogat,
Ut se ad picias: deinde quod scriptum est legas.
Hic sunt Poetae Pacuvii Marci sita
Ossa. Hoc volebam, nescius ne esses: vale.

Mentre ritirato in Taranto Pacuvio menava traquillamente gli ultimi suoi giorni, capitovvi Lucio Azzio altro famoso tragico che passava in Asia. Pacuvio l’aveva conosciuto in Roma, perchè essendo egli di ottant’anni avea data una sua favola ai medesimi Edili, a’ quali Azzio ne aveva presentata un’altra non contandone più che trentaa. Azzio almeno cinquant’anni più giovine di Pacuvio, secondo la Cronica Eusebiana, avea avuto il padre schiavo in Roma. Nell’andare in Asia non mancò di visitare il vecchio tragico che cortesemente l’albergo per molti giorni. Trattenendosi un dì di cose teatrali Pacuvio mostrò desiderio di ascoltar l’Atreo di Azzio, e fu compiaciuto. Grande e sublime ne parve lo stile al vecchio tragico, benché alquanto duro ed acerbo. Lo veggo anch’io, ripigliò il giovine, nè me ne incresce; i pomi duri ed acerbi stagionandosi diventano dolci; quelli che da principio nascono teneri e quasi vizzi, crescendo, in vece di maturare imputridiscono. Così sono gl’ingegni: bisogna che si lasci al tempo l’agio di ridurli a una maturità perfettaa. Niuno degli antichi tragici Latini giunse a superar la fama e il merito di Azzio. Era talmente rispettato, che per avere ardito un istrione soltanto nominarlo in teatro, ne fu severamente castigato. Decimo Bruto che nel 615 fu console e nel 623 trionfò per molte vittorie riportate in Ispagna, fu l’amico ed il protettore di Lucio Azzio. Volle egli de’ di lui versi che sommamente pregiava, ornar l’ingresso de’ tempj e de’ monumenti che delle spoglie nemiche fece costruireb. Lo stesso Azzio conosceva la propria superiorità su i contemporanei, e la sosteneva con dignità, se Valerio Massimo di questo poeta favella nel libro III, c. 7. Venendo (egli narra) nel consiglio de’ poeti Giulio Cesare personaggio decorato nella repubblica non meno che di lettere adorno, Azzio non mai si levò in piedi, non giù per non curanza della di lui maestà, ma perchè a lui sovrastava ne’ communi studii letterarii, gareggiandosi colà co’ libri non colle immagini degli antenatia. Gli antichi certamente di Azzio favellarono tutti con sommo onore. Cicerone l’esalta molte volte, e solo nel I delle Leggi parla con disprezzo di un poeta nominato Accio, dove per avventura intende di qualche altro. L’elevazione, la grandezza, la forza formano il carattere dello stile di questo Tragico. Orazio distinse Pacuvio per la dottrina, Azzio per la sublimità:

                        aufert
Pacuvius docti famam senis, Accius alti.

Quintiliano riconosce nell’uno e nell’altro due chiarissimi scrittori di tragedie. La nitidezza però (aggiugne) e l’ultima mano nel limare i loro parti sembra di esser loro mancata nè tanto per propria colpa, quanto pel tempo in cui fiorirono. Da coloro che vogliono parere eruditi si attribuisce ad Azzio maggior forza, a Pacuvio maggior dottrinaa. Acrone interprete di Orazio passò più oltre, e antepose Accio allo stesso Euripide. Columella nomina come i più grandi poeti Latini Accio e Virgilio. Le tragedie di Accio sono: Clitennestra, Andromaca, Filottete, Andromeda, Atreo, Meleagro, la Tebaide, le Troadi, Tereo, la Medea. A quest’ultima appartengono i versi citati da Ciceronea, ne’ quali si descrive la meraviglia di un pastore, che non avendo, mai veduto un vascello, scoperse dall alto di una montagna quello che portava gli argonauti, siccome apparisce da’Frammenti de’ Tragici Latini. Oltre a questi argomenti che Accio trasse da’ Greci, compose una tragedia interamente Romana intitolata Bruto. Paolo Manuzio pretende che questa fesse rappresentata celebrandosi i giuochi Apollinari, a’ quali presedè il fratello di Marco Antonio in vece di Bruto che si era allontanato da Romab. Ma Pietro Bayle colla II e IV epistola del XVI libro di Cicerone ad Attico dimostra che la tragedia di Azzio allora rappresentata fu Tereo; e aggiugne essersi ciò ignorato da tutti gli altri commentatori, perchè Maturanzio credeva che vi fosse stato rappresentato Atreo, e Beroaldo e Hagendorphin Bruto. Ma la poesia scenica guadagna cosa alcuna in discutere siffatte cose gravemente e lungamente? Altro vantaggio non se ne ricava se non che il generale che sempre diletta, di porre alla vista per quanto si può senza errori un fatto istorico. Delle tragedie di Azzio fanno menzione Nonnio Marcello, Varrone, Aulo Gellio e Macrobio. Il Vossio trattando de’Poeti Latini afferma che Azzio scrisse ancora qualche commedia, e ne cita due le Nozze c il Mercatante.

Cajo Tizio Cavaliere Romane oratore e poeta tragico visse intorno all’anno di Roma 590. Erano, dice Ciceronea, così piene di esempli, di arguzie e di piacevolezze le sue aringhe, che sembravano quasi scritte in istile Attico, benchè ignorasse il Greco. Ma queste arguzie che ei volle trasportare con molta acutezza nelle tragedie, nocevano alla gravità del coturno. Tizio fu contemporaneo di Lucio, ed aringo al popolo a favore della legge proposta dal Console Fannio contra i festini. Macrobio ne ha conservato un frammento, nel quale rigorosamente dipingonsi gli eccessi dell’ubbriachezza de’ giudici Romania.

Di un altro nobile oratore sa menzione Cicerone nel medesimo dialogo del Bruto, il quale sorpassò nell’eloquenza i predecessori e i contemporanei. Fu questi Cajo Giulio figlio di Lucio e contemporaneo di Publio Cetego. Non era la veemenza il carattere del suo aringare, ma bensì l’urbanità, la grazia e la dolcezza. Egli scrisse alcune tragedie del medesimo gusto: grazia somma di stile privo di forza.

Attilio che fiori verso il comincia del settimo secolo di Roma, scrisse pel teatro tragedie e commedie. La sua tragedia Electra non si reputò del tutto immeritevole di esser letta da Cicerone medesimo che lo chiama poeta durissimo a. Ma egli prevalse nel genere comico, e Volcazio Sedigito l’anteponeva a Terenzio.

Uno de’ rinomati poeti di quest’epoca fu Cajo Lucilio Cavaliere Romano, avolo materno di Pompeo Magno, o bisavolo per parte di Lucilia di lui madre, o secondo Antonio Agostinob, di lui prozio materno, essendo stata la madre di Pompeo figlia di un fratello di Lucilio. Egli nacque nella città di Suessa degli Auruncic posta nella Campagna di la dal Liria, nel primo anno dell’olimpiade CLVIII secondo Eusebio, e morì in Napoli nel secondo anno dell’olimpiade CLXIX, che cade nell’anno di Roma 651. Osserva però Pietro Bayle che Lucilio mentova la legge Licinia stabilita l’anno 656; dunque egli visse cinque o sei anni di più. Egli militò nella guerra di Numanzia sotto Publio Scipione Numantinob. Secondo Francesco Patrizio nella Poetica Lucilio compose epodi, inni, tragedie, ed una commedia intitolata Nummularia, di cui pur si conserva qualche frammento. Ma celebre singolarmente si rendè per trenta libri di Satire, nelle quali, allontanandosi da Ennio e da Pacuvio, usò l’esametro senza mescolanza di altri versi nel medesimo componimento, benchè altre ne avesse scritte in versi ora giambici ora trocaici. Morse egli senza verun riguardo Rutilio, Lupo, Carbone, L. Turbolo ed altri Romani, e punse e motteggiò eziandio i poeti drammatici del suo tempo. Verso l’età di Quintiliano ebbe Lucilio molti ammiratori, quali, non che a tutti i satirici, ad ogni altro poeta lo preferivanoa. Orazio intanto affermava scorrere la di lui poesia limacciosa e mista di varie cose degne di sopprimersib. Non convengo con quei suoi lodatori, diceva Quintiliano, ma discordo ancora da Orazio, perchè scorgo in Lucilio una maravigliosa erudizione, una libertà intrepida, acerbità vivace e copia di sale. I frammenti Luciliani si raccolsero dagli Stefani, e dal Dousa furono illustrati con alcuni scolii è impressi in Lione nel 1597. Bayle però avverte che oltre alla diligenza del Dousa essi avevano bisogno di essere rischiarati da qualche altro dotto commentatore.

II.

Comici del medesimo periodo.

Fiorirono intanto nel genere comico oltre al poc’anzi nomato Attilio, Quinto Trabea del quale Nonnio Marcello cita la commedia intitolata Ergastulum, Turpilio, di cui Varrone pregia assai la commedia detta i Fugitivi, C. Licinio Imbrice collocato dal Sedigito dopo di Nevio, cioè nel quarto luogo, e Luscio che presso lo stesso critico occupa il nono essendo preferito a Quinto Ennio. Ma oltre a questi e a Titinio, Aquilio, Ostilio, Pomponio e Dorsenno, de’ quali si conserva alcun frammento, la poesia comica Latina si gloriava di un Cecilio, di un Terenzio e di un Afranio.

Cecilio il quale dalla condizione di servo, come afferma Aulo Gellio, acquistò il cognome di Stazio che presso i Romani antichi era nome di schiavo, per consenso di tutti gli antichi fu acclamato come il primo e il più eccellente di tutti i comici Latini per la felicità della scelta e per l’ottima disposizione degli argomenti. Ciò rende ben rincrescevole la perdita delle favole da lui composte. Nato però e allevato fuori dell’Italia nella regione Gallica inseri sovente ne’ suoi drammi voci non latine, e per tal mescolanza fu da Cicerone chiamato malus latinitatis author a Tullio stesso nel libro de Senectute cità i di lui Sinefebi, e Aulo Gellio la commedia intitolata Plotium, favole di Menandro da Cecilio imitate. Egli è vero che Gellio, come dicemmo, pruova che egli fosse inferiore al suo modello, ma l’essere stato concordemente preferito, non che a Nevio e ad altri comici, a Plauto ed a Terenzio, ad onta della sua poco pura latinità; ci sveglia de’ di lui talenti ben vantaggiosa idea. Due suoi versi dal medesimo Gellio recati potrebbero dar motivo a’ fisici di rinnovare l’antica ricerca se il parto, senza essere abortivo, possa anticipare ovvero differire l’uscita dal seno materno oltre a i soliti nove mesi. Menandro nella commedia detta Plozio o Monile a affermò che il parto perfetto viene dopo il decimo mese, la qual cosa ripete Plauto nella Cistellaria. Cecilio nella sua Plotium penso diversamente:

Insoletne mulier decimo mense parere?
Pol nono, etiam septimo, atque octavo a.

Cecilio molto amico di Ennio godette una riputazione sì grande e sì bene stabilita, che quando Terenzio presentò agli Edili l’Andria, gli s’impose di leggerla prima a Cecilio. Si dice ancora che il novello autore male in arnese arrivò in tempo che Cecilio giaceva per cenare, e sul principio si fece sedere in una panca accanto al letto; ma dopo alquanti versi maravigliato Cecilio e dall’eleganza e proprietà dello stile rapito, l’invitò a cenar con lui, e dopo la cena si prosegui l’intiera lettura della commedia consomma continuata ammirazione del vecchio poeta. Questo abboccamento di Cecilio e Terenzio viene riferito da Elio Donato o da Suetonio autore della Vita di Terenzio. Dall’altra parte secondo la Cronaca Eusebiana Cecilio morì un anno dopo di Ennio, cioè l’anno di Roma 585, e la commedia dell’Andria fu rappresentata ne’ Ludi Megalesi l’anno 587, essendo Consoli M. Claudio Marcello e C. Sulpizio Gallo. Adunque non poteva essere stata letta prima a Cecilio già morto da un anno e più ancora. Il celebre Tiraboschia con prudente ambiguità propone che quanto narrasi avvenuto con Cecilio debba intendersi di qualche altro rinomato poela che allora vivesse. Non pertanto lo scrittore della vita di Terenzio a chiare note parla di Cecilio e non di altri. L’abate Arnaud eccellente letterato francese nella Gazzetta Letteraria di Europe nel mese di Luglio del 1765 ricorre a un Edile nomato Acilio, al quale pretende che Terenzio andasse a leggere l’Andria, e non a Cecilio; insinuando che il passo di Donato o Suetonio sia guasto e vi si debba leggere Acilio per Cecilio. Ma le parole del biografo son queste: Andriam cum Ædilibus daret jussus ante Caecilio recitare , nelle quali sono ben distinti e gli Edili, a’ quali la commedia si presentò e il poeta a cui per ordine di essi Edili si lesse. Che se Cecilio si converte in Acilio, il quale era nel numero di quegli Edili, si attribuisce al precitato biografo un modo di esprimersi alquanto fosco e poco felice, facendogli dire, cum Ædilibus, jussus ante Acilio recitare, non apparendovi la relazione che dovrebbe naturalmente vedervisi della persona di Acilio col numero degli Edili. Oltre a ciò tutto il racconto e della non curanza di prima avuta del nuovo poeta, a cagione dell’abito, da colui che stava cenando, e dell’attenzione che in lui cagionarono i primi versi, e della giustizia subito renduta al merito, e dell’ammettersi il giovane poeta a cenare confidentemente, e dell’ammirazione colla quale dopo la cena fu ascoltata la commedia, tutto ciò, dico, sembra meglio adattarsi a un veterano conoscitore di poesia comica di pari condizione col novello scrittore, che ad un Edile di classe assai più elevata. Finalmente noi sappiamo per un prologo dello stesso Terenzio che a’ suoi tempi destinavasi dal magistrato un poeta di nome per ascoltare i drammi prima di rappresentarsi; ed in fatti egli dovè leggere al poeta Luscio la migliore delle sue commedie; ma non parmi che gli Edili si assumessero mai la carica di giudici letterarii delle poesie teatrali, carica che in appresso, come diremo, si vide addossata a cinque censori. Ora tutto questo c’induce a rifiutare la correzione dell’erudito abate Arnaud adottata pure da m. Millet, ed a credere che Cecilio ben due volte nominato nel passo del biografo fosse stato l’ascoltatore dell’Andria. E se quando mancano le storiche testimonianze, lecito fia congetturare, seguendo l’ordine naturale delle cose, piuttosto che cangiare il poeta revisore o sostituirgli un Edile, potrebbe dirsi che l’Andria per ordine degli Edili fosse stata anticipatamente letta al poeta Cecilio, e che questi, dopo averla approvata, si morisse, prima che nel 587 si rappresentasse. È per avventura improbabile che passassero varii mesi ed anche un anno dal pensare e disporre lo spettacolo che solea farsi con tanta spesa, all’esecuzione di esso, e che intanto Cecilio si morisse? È improbabile che il giovane Cartaginese senza credito avesse bisogno di raccomandarsi a più d’uno prima di venire a capo del suo intento?a.

III.

Teatro di Terenzio.

Quindi si scorge quale alta impressione facessero nell’animo di Cecilio pochi soli versi di Terenzio. Ma poteva mancar d’incantare un dotto e consumato conoscitore quella venustà di stile che indi rapi dalla scena gli animi tutti de’ più volgari spettatori? quell’eleganza che dopo tanti secoli conserva la medesima imperiosa forza su i posteri più remoti? quella proprietà e purezza di locuzione approvata e imitata, non che da altri, da un Tullio e da un Orazio? quello stile che fluido corre

Liquidus, puroque simillimus amni a,

che tutta l’anima ci riempie delle sue grazie si che ci fa dimenticare, come diceva Michele di Montaigne b, delle bellezze della favola? quell’arte, quel giudizio, quelle sentenze tratte dalla più profonda filosofia e rendute proprie del teatro comico? quella prodigiosa maniera di rendersi originale traducendo ed imitando? quella vezzosa urbanità nel motteggiare? quella delicatezza e matronal decenza che trionfa nelle dipinture che fa de’ costumi? Le sei commedie che ne abbiamo leggonsi da fanciulli (o da quei che sono tali a dispetto degli anni) con una specie d’indifferenza propria di quell’età: dagli uomini maturi con istupore e diletto: e con entusiasmo da’ vecchi istruiti che conservano le tracce del gusto. I letterati più accreditati, gli Erasmi, gli Scaligeri, gli Einsii, terminano la vita con Terenzio alla mano. Sembra inutile dar pieni estratti delle sue commedie per essere troppo note, e temerità tradurne alcuni squarci per la difficoltà di conservarne le bellezze. Non pertanto faremo su di esse alcune riflessioni passeggerea.

L’Andria. Fu questa la prima sua commedia rappresentata nell’additato anno di Roma 587 dalla compagnia comica di L. Ambivio Turpione e di Attilio Prenestino colla musica di un certo Flacco figlio di Claudio o di lui liberto, come vuole Madame Dacier, benchè non apparisca donde l’abbia ricavato. Menandro scrisse su di un medesimo argomento due commedie, l’una intitolata Andria dall’isola di Andro, l’altra Perinthia da Perinto città della Tracia. Terenzio si prevalse di entrambe nell’accozzar la sua favola, e ritenne il titolo della prima. L’argomento si aggira intorno agli amori della fanciulla Gliceria venuta da Andro e del giovine Panfilo disturbati per le nozze che Simone padre di costui gli prepara con una figlia di Cremete, prima per finzione, indi da buon senno. Lo scioglimento avviene col conoscersi Gliceria per un’altra figlia del medesimo Cremete chiamata Pasibola. I giovani studiosi debbono ammirare nella prima scena dell’atto I il modo di raccontare con grazia, eleganza, precisione, e, quel che monta più, con passione:

                                 Funus interim
Procedit: sequimur: ad sepulchrum venimus:
In ignem posita est: fletur. Interea haec soror,
Quam dixi, ad flammam accessit imprudentius
Satis cum periculo. Ibi tum exanimatus Pamphilus
Bene dissimulatum amorem et celatum indicat.
Accurrit, mediam mulierem amplictiture,
Mea Glycerium, inquit, quid agis? cur te is perditum?
Tum illa, ut consuetum facile amorem cerneres,
Rejecit se in eum flens quam familiariter.

Tutto è qui animato dall’affetto, tutte le parole sono scelte e naturali, senza affettazione, senza superfluità. Osservisi ancora con quanta grazia e verità nell’atto stesso incontrandosi Panfilo colla serva Miside, le dice, quid agit? senza esprimere il nome di Gliceria; e di qual altra cercherebbe Panfilo con premura? Sommamente patetica ivi ancora è la preghiera di Criside moribonda narrata da Panfilo, che io ardisco di tradurre in simil guisa:

Mis.

Merita, io questo so, la poverina,
Panfilo, che di lei tu ti sovvenga.

Pan.

Che io di lei mi sovvenga? Ah in mezzo al cuore
Impresse io porto le preghiere estreme
Che per Gliceria Criside mi porse.
Presso a morir mi chiama, io m’avvicino,
Voi gite, noi restiamo, ella mi dice
Panfilo, amato Panfilo, tu vedi
La beltà di costei, la giovinezza,
E non ignori che a guardar l’onore,
A conservar la roba entrambe sono
Armi assai frali. Deh per questa destra,
Per l’indole gentil, per quel bel cuore,
Per la tua fe, per questa istessa, Panfilo,
Derelitta fanciulla, io ti scongiuro;
Deh non l’abbandonar, se qual fratello
Sempre io ti amai, s’ella te solo apprezza,
Per te respira, a’ cenni tuoi s’acqueta,
Prendila, a te la dò, tu a lei sarai
Amico, protettor, marito, e padre.
Si a me l’affida, e spira. Io l’accettai,
Io serberò la fede.

Bella e ingegnosa è parimente la scena quinta dell’atto IV, nella quale Miside dopo avere esposto il bambino sulla porta di Simone per consiglio di Davo, è sorpresa da Cremete, e non sa come contenersi nelle risposte non vedendo più Davo. Ma l’astuto finge di sopraggiungere, e maravigliarsi del fanciullo, e colle sue pressanti richieste aumenta l’imbarazzo di Miside. Ella vorrebbe riconvenirlo sottovoce: ma Davo all’incontro vuol che risponda apertamente confessando la verità. Ognuno vede quanto sale contenga questo comico artificio. Ella gli dice avoce bassa, non tute ipse … Ma Davo con alta voce e con volto che esclude ogni sospetto d’intelligenza, l’interrompe dicendo, concede ad dexteram . E perchè? Per quel ch’io ne penso, per farla avvicinare a Cremete, affinchè nulla egli perda di quanto ella dica. Ma l’annotatore Farnabio interpre all’opposte, che Dave a lei parli sommessamente, e la faccia nassare a destra per allontanarla da Cremete che si trova alla sinistra. Non si accorse quel l’erudito ch’egli distruggeva il disegno del poeta. Più volte e Plauto e Terenzio hanno in una scena usato questo colore di dire alcuna cosa a voce alta, ed altra con voce bassa, e furtivamente. Ma in questa Terenzio lavora con maggior delicatezza. Egli vuole che Miside senza veruna prevenzione manifesti in presenza di Cremete la verità del parto, affinchè ciò scoprendosi vada in fummo il contratto nuziale. Il fargliene Davo qualche motto sottovoce scemerebbe il pregio del ritrovato, e la grazia della scena. Davo nella precedente alla prima si accinge a scoprire a Miside la trama. Move ocius te, ut quid agam, porro intelligas , di poi vede venir Cremete e cancia consiglio, Repudio consilium quod primum intenderam… tu ut subservias orationi, utcumque opu’ sit verbis, vide . Miside rimanendo nell’ incertezza gli dice, Ego quid agas, nihil intelligo . Ma perchè mai Davo si appiglia al partito di esporre la serva senza prevenirla? Perchè pensa con ragione che costretta a rispondere quel che il caso esige, la verità senza il belletto dell’arte più vivace si presenterà agli occhi di Cremete. E così avviene. Il vecchio ne rimane sì persuaso, che pensa di rompere il contratto, e a tal fine va in traccia del padre di Panfilo. Partito Cremete, Davo in segno di allegrezza vuole accarezzar Miside, che sdegnata lo ributta, dicendo, non mi toccare, furfante. Davo per giustificarsi le dice:

Hic socer est, alio pacto haud poterat fieri,
Ut sciret haec quae volumus.

Ma replica Miside, perchè non avvisarmene, hem praediceres , e Davo ripiglia egregiamente,

Paullum interesse censes, ex animo omnia,
Ut fert natura, facias, an de industria?

Ecco il bellissimo pensiero del Poeta di far parlar la natura, ed accennarle qualche cosa di soppiatto, come pretendeva Farnabio, avrebbe ripugnalo a sì bel disegno. Alcuni critici hanno ancor detto che questa favola conteneva due azioni, una degli amori di Pamfilo, l’altra di quelli di Carino. Strana critica: perchè da un’ azione seguono due matrimonii, si dirà che sia doppia? Se si rappresentasse il ratto delle Sabine, sarebbero tante le azioni quanti i matrimonii che produrrebbe? L’azione dell’Andria è quest’una, l’esito felice degli amori di Gliceria collo scoprirsi cittadina Ateniese, e figliuola di Cremete; e se quindi nasce ancora la prosperità di Carino, questo non è narrare o rappresentare un’ altra azione, ma sì bene accennar della vera e sola azione della favola una fortunata natural conseguenza. Fece di sì vaga commedia una libera imitazione in prosa il Capuano Marco Mondo, l’ultimo de’ Segretarii della Città di Napoli che illustrarono la loro carica colla dottrina e colle lettere, giacchè quelli che lo seguirono mancarono di simil corredo. Egli fe imprimerla verso il 1704 da Giuseppe Sellitto, con altri poetici componimenti, col titolo le Nozze. La divise in tre atti, diede a’ personaggi nomi e costumi moderni, e trasportò l’azione a’ tempi correnti, e alla città di Livornoa

La Suocera. Questa commedia di, Apollodoro prende il titolo di Ἐκυρα, socrus secondo Donato, dalla gran parte che hanno le suocere nell’azione. Apparentemente l’umore di Sostrata suocera di Filomena sembra aver dato motivo alla discordia e alla separazione. Ma non è così. Filomena che aveva avuta la sventura di essere una notte violentata da un giovane sconosciuto, va alle nozze di Pamfilo già incinta di due mesi, colla speranza di attribuir poscia al marito la gonfiezza del suo ventre. Sventuratamente Pamfilo distratto negli amori di Bacchide, punto non le si appressa, comecchè pel di lei bel costume prenda ad amarla; indi per impossessarsi di una eredità parte dalla patria, e dimora lontano dalla moglie sino al giorno in cui Filomena partorisce. Si avvicina il parto, e Filomena col pretesto di stare inferma abbandona la casa del marito, torna alla paterna, e nè anche vuole ammettere la visita della buona ed innocente suocera. Torna Pamfilo tutto acceso dell’amor della moglie nel punto che questa partorisce, nè di lui al suo credere. Mirrina madre di Filomena gli narra la disgrazia accaduta alla figlia prima di maritarsi, e lo prega a tacere il caso, quando non voglia ritener la moglie. Pamfilo si obbliga al silenzio, ma ricusa di ripigliarla; e per non esservi astretto dal padre si vale del pretesto della madre che non è d’accordo colla moglie. Al l’incontro il padre di Filomena crede che l’amore di Bacchide tenga Pamfilo avvolto negli antichi lacci, e il renda avverso al contratto nodo conjugale. Se ne querela con Lachete padre di Pamfilo, il quale ne va a far romore con Bacchide. Costei co’ più solenni giuramenti si giustifica, e Lachete le insinua di persuaderne le donne. Ella che non è delle piggiori del suo mestiere, condiscende. Visita le donne portando in dito un anello a lei donato da Pamfilo. Questo anello aveva egli tolto a una fanciulla una notte che la sforzò senza conoscerla; e questa fanciulla è per l’appunto la stessa Filomena. Pamfilo adunque è il padre del nato fanciullo. Le donne riconoscono l’anello, e Pamfilo venuto in chiaro del successo con estremo piacere ripiglia la moglie. Si osservi che il Poeta nell’atto V fa che Bacchide entri in casa di Mirrina, e narri ed ascolti più cose, e ne avvenga la felice riconoscenza del l’anello, e che indi n’esca; ma intanto si sono recitati soli dodici versi, ne’ quali dee supporsi trascorso il tempo richiesto al congresso di Bacchide in quella casa.

Le bellezze di questa favola si presentano in folla, e noi ne accenneremo alcuna colla speranza di eccitar la gioventù a leggere gli antichi con maggior riflessione, se vogliono ritrarre dalla drammatica quel diletto che ben di rado si prova nella lettura delle moderne favole. Mirabile nella 2 scena dell’atto I è il ritratto della buona moglie che giugne a cancellare dal cuore di un marito l’amor di una cortigiana:

    Atque ea res multo maxume
Disjunxit illum ab illa, postquam et ipse se,
Et illam et hanc, quae domi erat, cognovit satis.
Ad exemplum ambarum mores earum aestimans.
Haec, ita ut liberali esse ingenio decet,
Pudens, modesta, incomoda atque injurias
Viri omneis ferre, et tegere contumelias.
Hic animus partim uxoris misericordia
Devictus, partim victus hujus injuriis,
Paulatim elapsu’ st Bacchidi, atque huic transtulit
Amorem, postquam par ingenium nactus est.

L’atto III riesce sommamente interessante e dilettevole. Pamfilo mesto nella I scena per la discordia della madre e della moglie, riflette alla sua miseria:

Matrem ex ea re me aut uxorem in culpa inventurum arbitror:
Quae cum ita esse invenero, quid restat, nisi porro ut fiam miser?
Nam matris ferre injurias me, Parmeno, pietas jubet.
Tum uxori obnoxius sum: ita olim suo me ingenio pertulit
Tot meas injurias, quae nunquam in ullo patefecit loco.

Mentre Parmenone si studia di consolarlo, ecco sentesi in casa della moglie un mormorio, un movimento, un andare avanti e indietro, onde essi pongonsi in curiosità e apprensione. Si avvicinano per ascoltare, odono alcun clamore; Mirrina esorta la figliuola, a tacere, tace, obsecro, mea gnata . Questa è la voce di Mirrina, dice Pamfilo; nullus sum… perii . Parmenone diee di avere udito, Philumenam pavitare nescio quid . Egli ha frainteso; le donne dovevano aver detto paritare. Paventa bene Pamfilo di qualche grande sciagura, e corre su dalla moglie. Nella seconda scena la buona Sostrata vorrebbe andar di nuovo a visitar la nuora inferma. Parmenone ne la distoglie, e le dà notizia del ritorno di Pamfilo. Esce egli dalla casa della moglie pieno di tristezza; e al veder la madre si sforza di dissimular la sua pena, benchè i segni ne scappino fuori ad onta della sua industria. Il loro dialogo non può essere più vago. Se ne ammiri l’eleganza, la verità, il patetico:

Sost.

                    O mi gnate.

Pam.

Mea mater, salve.

Sost.

Gaudeo venisse salvum; salvan’
Philumena est?

Pam.

Meliuscula est.

Sost.

Utinam istuc Dii faxint.
Quid igitur lacrumas? aut quid es tam tristis?

Pam.

Recte mater.

Sost.

Quid fuit tumulti? dic mihi an dolor repente invasit?

Pam.

Ita factum est.

Sost.

Quid morbi est?

Pam.

Febris.

Sost.

Quotidiana?

Pam.

Ita ajunt.
I, sodes, intro; consequar jam te, mater mea.

Sost.

Fiat.

Così tormentato dalle innocenti richieste materne rimanendo solo riflette con libertà sul l’avventura della moglie e sul proprio stato. Egli si trova di lei innamorato, e pensa intanto che non può palesare il vero, per la parola datane a Mirrina. Tale angustia è ben maneggiata in questa 3 scena, e l’espressioni sono tutte dettate dalla passione che vi domina. Egli ripete a se stesso il fatto animandolo colle più patetiche immagini. Entra improviso; le serve si rallegrano alla prima, indi si turbano, si scompigliano. Comprende da qual morbo la moglie sia oppressa, e piangendo vuol tornare indietro. Lo segue Mirrina sciolta in lacrime, gli si butta a piedi, e palesa la disgrazia. Tutte le circostanze di questa scena presentano quadri vivacissimi, pieni di affetto, e non già semplici parole, o concettuzzi mendicati, o tratti di spirito leccati. Egli in fine che ha promesso di tacere, cosi conchiude:

Pollicitus sum, et servare in eo certum est, quod dixi, fidem:
Nam de reducenda, id vero neutiquam honestum esse arbitror.
Nec faciam: etsi amor me graviter, consuetudoque ejus tenet.
Lacrumo, quae posthac futura est vita, cum in mentem venit,
Solitudoque. O fortuna, ut nunquam perpetuo es bona!

Del pari interessante è la scena 5 di Pamfilo col padre e col suocero, nella quale egli si trova in angustia per voler serbare la fede a Mirrina, e per addurre alcuna onesta ragione di ricusar la moglie. Degna è pure di notarsi la 2 scena dell’atto IV di Pamfilo con Sostrata. La madre il prega perchè ripigli in casa la moglie, proponendo di ritirarsi ella in campagna. La proposta di una madre sì buona aumenta il dolore del figlio. Lo stato di Pamfilio va poi piggiorando a momenti. Fidippo ha saputo che Filomena ha partorito, e nella 4 scena viene a dire a Pamfilo, che se vuole rompere il contratto, il faccia pure, purchè si prenda il bambino. Lachete si rallegra del nipotino che gli è nato. Pamfilo sempre più si attrista, che se prima di esser nato il bambino poteva esitare intorno a riprendersi la moglie, e nel caso di riprenderla poteva esporre il bambino, e seppellire nell’obblio l’accaduto, oggi però che è palese che ella abbia partorito, non dee riceverla, o nel riceverla dee riconoscere per suo un bambino che di lui non nacque:

Etsi jamdudum fuerat ambiguum hoc mihi,
Nunc non est, cum eam consequitur alienus puer.

Ma dall’altra parte che cosa risponderà egli a Lachete, che fa premura che accetti il bambino? Con qual pretesto il rifiuterà? Questo nuovo aumento al di lui dolore egregiamente si maneggia in questa scena. Lachete ascrive la di lui ritrosia agli antichi amori, Pamfilo replica, Dabo jusjurandum, nihil esse istorum, tibi . E Lachete adirato ripiglia:

Reduc uxorem, aut quamobrem non opus sit, cedo.

Pam.

Non est nunc tempus.

Lac.

Puerum accipias: nam is quidem
In culpa non est: post de matre videro,

Pam.

Omnibus modis miser sum, nec, quid agam, scio.

Questa bella favola ha un patetico proprio della commedia nobile. Vi si piange, ma un pianto conveniente alle domestiche discordie delle famiglie cittadinesche, e non già quel pianto corrispondente agli atroci delitti o inventati da una fantasia alterata per disonorare l’umanità o ricevuti da’ più famosi e rari processi criminali secondo la pratica degli ultimi strani drammi Inglesi, Francesi e Alemanni. Debbe nell’Ecira ravvisarsi un ottimo modello della commedia, tenera, la quale richiede un poeta di cuore assai sensibile e delicato; genere che presso gli accennati oltramontani è degenerato in una non plausibile e ben difettosa commedia larmoyante. Può sì vaga favola Terenziana tenersi per una delle più interessanti del l’antichità, ed anche dirsi potrebbe la prima e la migliore, se vi si trovasse moto e vivacità maggiore, cosi felicemente n’è scelto il punto onde incomincia l’azione, e sì maestrevolmente vi si maneggiano le passioni. Non ha garbugli, non furberie servili, non buffonerie; ma ciò appunto manifesta che in tutt’altro può consistere la vera piacevolezza scenica. I personaggi sono tutti buoni; non di quella bontà immaginaria delle scuole morali, nè dell’eroica che ha luogo nelle tragedie, ma di quella civile bontà, che ci allontana dalle colpe senza preservarci dalle debolezze. Essa fu rappresentata più volte in Roma. La prima volta essendo Edili Curuli Sesto Giulio Cesare e Cn. Cornelio Dolabella, e per quel che dicesi nel prologo che ora la precede, il popolo impaziente per lo spettacolo de’ ballerini da corda e de pugili, non si curò di vederla o di comprenderla. Alluse Orazio all’evento dell’Ecira, quando attribui all’ardore che inspiravano simili spettacoli, lo scoraggimento de’ poeti:

                     media inter carmina poscunt
Aut ursum aut pugiles, his nam plebecula gaudet.

La seconda volta si rappresentò anche imperfettamente ne’ giuochi funebri di L. Emilio Paolo, essendo Consoli Cn. Octavio e T. Manlio, e neppur piacque, o per meglio dire neppure si ascolto, perchè recitato appena l’atto primo che fu hene accolto, si levò un romore, che davansi i giuochi gladiatorii, ed ecco che il popolo abbandona il teatro e si affolla a prender luogo nell’anfiteatro. La terza volta si rappresentò, essendo Edili Q. Fulvio e L. Marzio, dal famoso istrione L. Ambivio Turpione, il quale tolse sopra di se il carico di recitare il prologo per raccomandarla al popoloa. L’istrione accreditato, colle parole dell’incomparabile autore, nel bellissimo prologo mette in vista gli antichi suoi meriti; e siccome per opera sua alcune favole di Cecilio alla prima rigettate si riprodussero e con meglio conoscersi riceverono migliore accoglimento; così si lusinga che abbia in questa di Terenzio a rinnovarsi il passato esempio, fidando nella benignità e nel silenzio degli ascoltatori. Piacque questa terza volta, e ciò avvenne nell’anno di Roma 588, e si replicò poi nel 589.

Il Tormentatore di se stesso. Non cambio Terenzio il titolo di Heautontimorumenos a questa commedia di Menandro trasportandola interamente nell’idioma latino. Ma come dice di averla fatta doppia di semplice ch’essa era?

Duplex quae ex argumento facta est simplici.

Giulio Scaligero dice che il poeta la chiamò doppia, perchè una mettà se ne rappresentò la sera, e scorsa la notte ne’ giuochi si terminò all’apparir dell’albaa. Passi che una commedia di giusta mole siesi recitata in Roma in due giorni, cioè la sera dell’uno i primi due atti, e il rimanente all’albeggiar dell’altro, cosa, per quanto si sa, mai più non avvenuta, e di cui non potrà rendersi veruna adeguata ragione, siccome è stato anche da altri avvertitoa Ma questa cosa potrebbe fare che un poeta assennato chiamasse doppia una favola di argomento semplice? Tommaso Farnabio rigettando l’opinione di Scaligero giudica che il poeta dica di averla fatta doppia, perchè nella commedia di Menandro essendo uno il vecchio, uno il figliuolo, una la giovane, uno il servo, Terenzio raddoppiò nella sua tutti questi personaggi, introducendo due vecchi, due figliuoli ec. Ma un comico di tanto valore e sì amico della proprietà delle voci, avrebbe senza sconcezza chiamata doppia una favola per averne raddoppiati i personaggi? E qual grazia avvebbe prodotto questo inutile raddoppiamento? Provisi poi chiunque ad eseguirlo in qualche favola, e vedrà di quali freddi oziosi personaggi riempirà la scena. Scorge da ciò ognuno, non essere stata più felice l’interpretazione del Farnabio. Secondo me Terenzio, nel servirsi del semplice argomento greco, v’inserì al suo solito la traccia di un’ altra azione forse di sua invenzione, per fare la favola più ravviluppata, accomodandosi al piacere del popolo, cui già increscevano gli spettacoli troppo semplici, come suole avvenire allorchè il buon gusto comincia a vacillare. E quindi con tutta ragione la chiamò doppia, perchè in fatti doppia la favola ne divenne. L’argomento greco consisteva negli amori di Clinia per Antifila, nello scoprimento della vera condizione di questa fanciulla, e nel carattere del vecchio Menedemo che si punisce della severità usata col figliuolo; mettendosi come un povero contadino a lavorar la terra colle proprie mani. Terenzio a questo aggiunse gli amori di Clitifone con Bacchide, e l’artifizio del servo nel cavar danaro dalle mani del vecchio Cremete. Si vede che questi sono due argomenti del poeta connessi con molta arte i quali formano una commedia ravviluppata e doppia, che sarebbe semplice senza il secondo. A qualche preteso veterano del Parnaso incresceranno simili osservazioni forse opposte a quanto egli avra pensato delle opere teatrali; e quindi di se sicuro magistralmente, senza consultare l’urbanità, affermerà di non averle io ben lette e bene intese . Ma chi sa (dicasi ciò con buona pace di certe pretese divinità dell’orbe letterario) che il male non consista, anzicchè ne miei giudizii, in quel che da tanti anni pose nelle loro teste salde radici? Chi sa che a tali campioni emeriti di Elicona non debbano riferirsi le parole di Petronio Arbitro, quod quisque perperam discit, in senectute confiteri non vult?

Questa favola è scritta con particolare eleganza e purezza di lingua, e se ne vanta lo stesso autore nel prologo. Ma i Critici vi desidereranno le famose unità di tempo e di luogo. Si offende quella di tempo, perchè l’atto I con qualche scena del II esige il giorno, viene poi la notte nella quale si celebrano le Feste Dionisie, e nell’atto III fa giorno. Un periodo però di 24 ore o poco più potrebbe contenere l’azione che vi si dipigne. Nuoce all’unità del luogo la comparsa di Menedemo che zappa, la qual cosa suppone un campo; e la necessità di una strada pubblica con varie case che richiede il rimanente della commediaa. Ma questa opposizione non avrebbe luogo in chi sapesse concepire un teatro alla maniera di Domenico Barone marchese di Liveri.

Possono in tal commedia notarsi diverse bellezze; ma ci contenteremo soltanto di fermarci in alcuna cosa della 3 scena dell’atto II, la quale contiene venustà di più di un genere. Clinia attende la sua Antifila che egli lasciò povera con una sola fante. Vengono i servi che sono iti a prenderla, e dicono fra loro di aver lasciato indietro le donne con tutta la folla delle serve che la precedono e la seguono, e cariche di oro e di vesti di valore inestimabile. Antifila con oro e vesti e calca di fantesche! Quali palpiti a tal novella per un innamorato che è stato assente! Egli esclama: vae misero mihi quanta de spe decidi! Ma è questo un equivoco condotto artificiosamente dal poeta, che all’apparenza giustifica le querele di Clinia. Siro però non soffre ch’egli più lungamente si attristi per un falso sospetto. Antifila è la stessa che era prima; ed eccone l’elegantissimo racconto che rasserena l’amante. Spiega in esso il poeta tutta la maestria nel dipignere i costumi, e c’insegna l’arte di sviluppare i caratteri:

Ubi ventum ad aedes est, Dromo pultat fores:
Anus quaedam prodit, haec ubi aperuit ostium,
Continuo hic se confert intro, ego consequor:
Anus foris obdit pessulum, ad lanam redit.
Hic sciri potuit, aut nusquam alibi, Clinia,
Quo studio vitam suam te absente exegerit:
Ubi de improviso est interventum mulieri.
Nam ea res dedit tum existimandi copiam
Quotidianae vitae consuetudinem,
Quae cujusque ingenium ut sit, declarat maxume.
Texentem telam studiose ipsam offendimus,
Mediocriter vestitam veste lugubri,
Ejus anuis causa, opinor, quae erat mortua;
Sine auro tum ornatam, ita uti quae ornantur sibi,
Nulla mala re esse expolitam muliebri.
Capillus passus, prolixus, circum caput
Rejectus negligenter; pax!a.

Si rappresento la prima volta questa favola dal soprallodato L. Ambivio Turpione e da L. Attilio Prenestino, essendo Edili L. Cornelio Lentulo e L. Valerio Flacco colla musica di Flacco figlio o liberto di Claudio. Dipoi si replicò cambiandovisi le tibie; e finalmente sotto il consolato di M. Giuvenzio e T. Sempronio si recitò la terza volta nell’anno di Roma 591.

Il Formione. Apollodoro cui appartiene questa favola, scrisse una commedia intitolata Epidicazomenos, e un’altra detta Epidicazomene dal nome della fanciulla di cui in essa si tratta. Il Formione deriva da quest’ultima; e Donato, il più utile forse di tutti i commentatori antichi e moderni delle commedie Terenziane, osserva che l’autore Latino errò nel dire che la sua nasceva dall’Epidicazomenos, avendo dovuto dire dall’Epidicazomene. Formione è il nome di un parassito che maneggia il più importante dell’azione. Egli dà ad Antifone il consiglio di farsi citare in giudizio come se fosse prossimo parente della fanciulla Fannia rimasa povera, ad oggetto di essere in virtù di una legge astretto a sposarla; ed egli difende la pretesa parentela altercando con Demifone padre di Antifone. Finge poi di accordarsi a prender Fannia egli stesso per moglie, per uccellare il vecchio e per trarne trenta mine ovvero trecento scudi da dare a Fannia per liberare dalle mani del ruffiano la sua diletta sonatrice di cetera. Egli anche sapendo il secreto di Cremete che in Lenno sposò un’altra moglie, essendo già marito di Nausistrata, e divenne padre di Fannia, fa tremare questo vecchio, e al fine scopre il tutto alla stessa Nausistrata; onde avviene che Antifone rimane sposo della sua Fannia riconosciuta dal zio per figlia.

È questa una delle commedie Terenziano possimamente divisa nel l’edizioni di Einsio e di Farnabio. L’atto l a patto veruno non può terminare colla scena 4, e col verso Succenturiatus si quis deficiet. Ph. Age. Per comprenderlo basta saperne l’azione. Geta annunzia a Fedria e ad Antifone il ritorno di Demifone. Antifone lo vede egli stesso da lontano nella piazza, e si ritira non avendo coraggio di presentarglisi. Rimane Geta e Fedria, ed il servo dice, io mi occulto in questo luogo per soccorrere a tempo , e spinge Fedria ad incontrare il vecchio. Geta dunque rimane in iscena ma nascoto, e Fedria sotto gli occhi dello spettatore attende l’arrivo di Demifone suo zio. Or come può qui terminar l’atto? Come la dissonanza musica non risoluta, finchè non cada in tono, sembra un errore nemico dell’armonia, così l’azione quì disposta non soffre sospensione, ed è forza che si risolva; e la venuta di Demifone è la risoluzione della scena. Ed avendo Fedria e Geta con Demifone conchiuso che si chiami Antifone e Formione, que’ due partono per eseguirlo, e Demifone s’incamina verso la sua casa Deos penates salutatum . Quì sì che termina l’azione incominciata, e può essere acconciamente la fine dell’atto. I codici della Vaticana giustificano questa osservazione, e contraddicono alla divisione delle edizioni comunali. Altro inconveniente nasce ancora dal collocarsi per prima dell’atto II la scena che incomincia, Itane tandem uxorem duxit Antipho injussu meo? Geta va in traccia di Formione, Demifone parte dopo aver recitati quattro soli versi, e Geta ha eseguito già l’incarico, ha trovato Formione, e gli ha narrato l’accaduto. Ma se l’atto II incomincerà dalla scena di Formione con Geta, tutto procederà con ogni verisimiglianza, lo spazio che corre da un atto all’altro darà luogo alla ricerca di Formione fatta da Geta, e al racconto del fatto. Tutta volta nel dividersi in tal guisa pare che non regga il rimanente, nè possa terminar l’atto II colla scena 4, e col verso, Sed eccum ipsum video in tempore huc se recipere , inconveniente nè anche sfuggito ne’ codici della Vaticana. Che se Geta cercando Antifone il vede venire sì opportunamente, e l’attende, come mai può quì terminar l’atto II, e cominciare il III Enim vero Antipho? E che hanno fatto frattanto Geta e Antifone che si è enunciato? Hanno dormito mentre i Ludii o altri pantomimi saltavano? Converrà dunque congiungere le tre scene che ora fermano l’atto III con quelle del II, le quali non permettono veruno interrompimento. Ma ciò facendo sparirà l’atto II, ed il Formione sarà composto di quattro soli atti. Quanto a me io non vi troverei veruno sconcerto; ma i Latini furono più scrupolosi de’ Greci, come apparisce dal noto verso di Orazio,

Neve minor quinto, neu sit productior actu
Fabula,

e allora leverebbonsi a romore i spedanti tutti. Madama Dacier comprese la difficoltà, e per evitare che gli atti diventassèro quattro, e per lasciare il teatro voto ragionevolmente nella fine dell’atto, pensò di sopprimere il verso sed eccum ipsum . Così scioglie il nodo alla foggia marziale di Alessandro Havvene un’altra più giusta che consiste in ben dividere gli atti senza mutilar la favola. Ed a me sembra potersi ciò fare in due sole maniere ragionevoli. Ecco la prima.

Atto I, incominci col verso Amicus summus meus ecc., e termini con questo, Puer, heus, nemon’ huc prodit? Cape, da haec Dorcio.

Atto II, incominci da Adeon’ rem rediisse, ut qui mihi ecc., e termini, Ut ne imparatus sim, si adveniat Phormio.

Atto III, incominci Itane patris ais conspectum veritus, e termini Ph. Qua via istuc facies? Get. Dicam in itinere; modo te hinc amove.

Atto IV, incominci Dem. Quid qua profectus causa, e termini Dem. Rogabo. Ch. Ubi illas ego nunc reperire possim, cogito.

Atto V. Quid agam ecc.

L’altra divisione che regge ugualmente, e lascia i giusti intervalli all’azione senza veruna violenza, è questa:

Atto I, incominci Amicus summus, e termini Ut ne imparatus sim, si adveniat Phormio.

Atto II, incominci Itane patris ais conspectum veritus, e termini Qua via istuc facies? Get. Dicam in itinere, modo te hinc amove.

Atto III, incominci Quid qua profectus causa? e termini Rogabo. Gh. Ubi illas ego nunc reperire possim, cogito.

Atto IV, incominci Sos. Quid agam? quem amicum inveniam, e termini De. At tu intro abi. Ch. Heus ne filii nostri quidem hoc resciscant, volo.

Atto V Laetus sum ut ut meae res se se habent.

Questa divisione è stata avvertita ancora dall’autore delle Note alla mentovata edizione di Terenzio fatta in Roma nel 1767a.

Molti passi assai vaghi possono notarsi in tal commedia. Leggiadra è la descrizione della bellezza senza artificii nella persona di Fannia nella scena 2 dell’atto I; ed è preceduta da un patetico racconto fatto con ammirabile naturalezza, In quo haec discebat ludo, ex adverso ei loco ecc. , che quì riferiremo con’ gli eleganti versi del lodato Fortiguerra:

Si stava dirimpetto a questa scuola
Ove andava ella, certa barberia,
Ivi lei solevamo quasi sempre
Aspettar, mentre sen tornava a casa.
Ora quivi sedendo, ecco ad un tratto
Che in noi si abbatte un giovan che piangeva.
Abbiam di ciò stupore, e lui preghiamo
A dirci la cagione: Egli non mai
Mi è paruto, come or, misero e grave
Peso la povertade; ho visto adesso
In questo vicinato una donzella
Misera, che facea tristo lamento
Per la sua madre morta, che giaceva
Ad essa dirimpetto, e niuno amico
Aveva, o conoscente, o di suo sangue,
Che desse mano al funerale, in fuora
Di una sol vecchierella: io mi sentii
Muovere a compassione. Avea la stessa
Fanciulla il volto bello a maraviglia.
Ma che più dico? Eravam noi già tutti
Commossi, quando subito Antifone
Comincia: vogliam noi colà portarci
Per lei vedere? Un altro: andiamci pure,
E tu ne mena adesso. Andiam, torniamo,
Veggiamo. La fanciulla è bella molto.
E tanto bella più tu la diresti,
Quanto nulla ha che sua bellezza aiti.
Scarmigliati i capelli, i piedi nudi,
Incolta, rozza, e col pianto sul viso,
Vestita malamente: alla per fine,
Se in essa il fior della beltà non era,
Avrian tai cose ogni bellezza estinta.

Bella è la 4 scena dell’atto I, in cui Geta e Fedria cercano di animare Antifone abbattuto dalla venuta del padre. Non sum apud me , e Geta:

… atqui opus est nunc cum maxume, ut sis, Antipho.
Nam si senserit te timidum pater esse, arbitrabitur
Commeruisse culpam.

E perchè, per quanto gli si dice, egli rimane sempre più costernato, que’ duo fingono di voler partire e lasciarlo; alla qual cosa Antifone si scuote, s’incoraggia, e si sforza di far buon viso. Le parole non ricevono soccorso da veruna prosa marginale (pretesa dal fu Saverio Mattei) che ne dichiari l’azione, e pure essa chiarissimamento si comprende; il che convince d’ignoranza qualche mal istruito pedante, che stimò essere state le antiche tragedie e commedie mutilate da’ gramatici di quella ideata prosa marginale che dinotava le azioni de’ personaggi. E chi di grazia ha rivelato a colui si bel secreto, che gli autori nel pubblicar le loro favole le colmavano di noterelle, come fanno oggidì molti moderni? Gli autori Greci, ed alcuni de’ Latini no erano per lo più gli attori, nè abbisognavano di tali soccorsi marginali. Esei di più erano persuasi, che un poeta dovesse talmente nel dramma manifestare i proprii concetti, che facesse comprendere, di quale azione dovesse animarla e abbellirla il rappresentatore. Quelli che leggono con intelligenza e riflessione, non ne abbisognano; e sono le desiderate noterelle del pari inutili per le teste leggere di taluni che leggono pettinandosi o amoreggiando. Osservinsi le parole che seguono:

Quid si assimulo? satin’ est?

Get.

Garris.

Ant.

Voltum contemplamini, hem
Satine sic est?

Get.

Non.

Ant.

Quid si sic?

Get.

Sat est.
Hem istuc serva.

È chiaro che Antifone avrà accompagnato l’azione e il volto ad ogni espressione, cangiandosi sempre per soddisfare al servo. E che avrebbero espresso quì alcune meschine note marginali? Senza dubbio foscamente avrebbero accennato quel che con più vantaggio si lascia all’abilità dell’attore, e al discernimento di chi legge. Questa scena è tanto più vaga, quanto le cose umili sembrano meno capaci di grazia e bellezza. Per buona ventura nel fermarmi la state del 1779 in Parma vidi manoscritta la versione italiana del Formione fatta dall’elegantissimo traduttor di Teocrito, Mosco e Bione, il chiarissimo p. m. Giuseppe Maria Pagnini Pistojese già Carmelitano professore di eloquenza in quella universitàa, il quale si compiacque di permettermi di fregiare la mia nuova Storia de’ Teatri con qualche frammento della sua versione, e del suo nome sì caro alle Muse Italiane. Egli me ne trasmise in Madrid qualche scena. L’anno 1784 poi, mentre io già mi trovava in Napoli, si rappresentò nel Collegio ducale de’ Nobili da’ giovani studiosi della nomata università, e dalla stamperia Reale si pubblicò col testo di Terenzio corredato di un nuovo prologo latino del medesimo eccellente traduttore. Ecco intanto la versione della scena indicata:

Geta.

Geta, per te è finita se non trovi
Qualche pronto ripiego. Ora mi veggo
Cento trappole intorno all’improviso,
Ne so come schivarle, o come uscirne!
La nostra furberia non può più a lungo,
Tenersi ascosa.

Ant.

Oh come è mai turbato!

Get.

Ne mi resta a pensar più che un momento.
Il padron m’è a ridosso.

Ant.

Che ha costui?

Get.

Quando il saprà, come farò a calmare
Il suo furor? Se parlo, si riscalda;
Se taccio, imbestialisce; se mi scolpo,
E un gettar voci al vento. Oh me tapino!
Per me ho paura, e’ il povero Antifone
Mi strazia il cuor; mi fa pietà; per lui
Sono in travaglio. In grazia sua non svigno.
Se non fusse per lui, l’avrei sbrigata.
Avrei ben provveduto a’ casi miei.
L’ira del vecchio mi daria di barba.
Avrei fatto fardello, e preso il trotto.

Ant.

Qual fuga o latrocinio in testa ordisce
Costui?

Get.

Ma dove treverè Antifone?
Per quale strada mi farò a cercarlo?

Fed.

V’ha nominato.

Ant.

Ah sì, che me l’aspetto
Di sentirmi annunziar qualche gran male.

Fed.

Siete impazzito?

Get.

Orsù torniamo a casa.
Ei vi stà per lo più.

Fed.

Chiamiamlo indietro.

Ant.

Fermati lì.

Get.

Poffare, un grande impero,
Sia chi vuol.

Ant.

Geta?

Get.

È quel cui cerco appunto.

Ant.

Di per pietà che nuove porti, e sbrigati,
Se puoi, ’n una parola.

Get.

V’ubbidisco.

Ant.

Su parla

Get.

È al porto.

Ant.

Il mio?

Get.

Ci avete colto.

Ant.

Son morto.

Fed.

Eh via.

Ant.

Che dovrò far?

Fed.

Che dici?

Get.

Ho veduto suo padre, vostro zio.

Ant.

Qual riparo porrò quì su due piedi
Alla rovina mia? S’io sono astretto
A dovermi da te, Fannia, staccare,
Non so che far della mia vita.

Get.

O via,
Antifon, s’è così, vie più dovete
Star bene all’erta. La fortuna ai forti
Ajuto dà.

Ant.

Non sono in me.

Get.

Bisogna
Or più che mai che siate in voi. Se il padre
S’avvedrà che voi siate spaurito,
Farà giudizio, che voi siate in frodo.

Fed.

È ver.

Ant.

Non so cambiarmi.

Get.

E se doveste
Qualche altra cosa far più faticosa?

Ant.

Non posso questa, men potrei far quella.

Get.

Questa e nulla è tutt’un. Fedria, è finita.
Perchè gettiamo il tempo? Io voglio andarmene.

Fed.

Anch’io.

Ant.

Per poco in grazia. E s’io mostrassi
Questo sussiego? È assai?

Get.

Ciance.

Ant.

Guardatemi
In volto. Ehi, così basta?

Get.

No.

Ant.

E così?

Get.

Quasi quasi

Ant.

E così?

Get.

Così va bene.
Tenete. su le carte, e rimbeccate
Ogni suo detto, ogni purola, ond’ egli
Incollorito colle sue bravate
Non v’abbia a sopraffar.

Ant.

Capisco.

Get.

A forza
La Legge, la Sentenza v’obbligò.
Avete inteso? Ma chi è quel vecchio,
Che veggo là nel fondo della piazza?

Ant.

È desso? Non ho cuor di rimanere.

Get.

Ehi, che fate, Antifon? Quì quì restate.

Ant.

Il mio debol conosco, e il mal ch’ho fatto.
Raccomando a voi Fannia e la mia vita ecc.

Artificiosa finalmente è la scena di Geta e Formione, ascoltando da parte Demifone, che nelle communi edizioni è la 3 dell’atto II, e nella lodata edizione del p. Pagnini è la seconda del medesimo atto, ed incomincia, En unquam cuiquam contumeliosius . Eccone la di lui traduzione:

Dem.

Avete inteso mai che altr’ uomo al monde
Abbia sofferto un più villano oltraggio?
Ajutatemi in grazia.

Get.

È forte in collera.

Fon.

Bada a te: zitto. Io leverogli il ruzzo.
Poter del mondo! E Demifon sostiene,
Che questa Fannia non è sua parente?
Sostiene che costei non gli è parente?

Get.

Sì certo.

Dem.

A quel ch’io penso, ecco quel furbo.
Venite meco.

For.

Ed ei non sa chi fosse
Il genitor della fanciulla?

Get.

No.

For.

Egli non sa chi fu Stilfon?

Get.

No certo.

For.

Perchè è rimasta povera e mendica.
Non si vuol più conoscere suo padre;
Di lei non si fa conto. Osserva un poco.
Quel che fa l’avarizia.

Get.

Se tu ardisci
D’avarizia tacciare il mio padrone,
Ti darò ben risposta.

Dem.

Oh che sfrontato!
Ei fin s’innoltra a querelarsi il primo.

For.

Io già non ho motivo di lagnarmi
Del giovin, se contezza non ne aveva;
Perchè quel poveretto già attempato,
Guadagnandosi il vitto colle braccia,
Per lo più se ne stava alla campagna,
Ore egli aveva preso un poderetto
Di mio padre in affitto. E quel buon vecchio
A me più e più volte ha raccontato,
Che questo suo parente a lui voltate
Avea le spalle. E che buon uomo! Io certo
A miei giorni il miglior non ho veduto.

Get.

Vedi bel paragon di te e di lui.

For.

Che ti venga la rabbia. E s’io per tale
Tenuto non l’avessi, espor vorreimi
Con questa vostra casa a nimicizie
Sì fiere per sua figlia, che in un modo
Tanto villano tuo padron disprezza?

Get.

E continui ancora, a lingua fracida
A strapazzare il mio padrone assente?

For.

Ben gli stà.

Get.

Vuoi chetarti, galeotto?

Dem.

Geta.

Get.

Furfante, storcileggi.

Dem.

Geta.

For.

Rispondi.

Get.

Chi mi chiama? Oh!…

Dem.

Bada a te.

Get.

Costui non ha fatto altro in vostra assenza
Che affibbiarvi tutt’oggidelle ingiurie
Da voi non meritate, a lui dovute.

Dem.

Finiamla. In prima vi domando in grazia,
Quel giovine, se pur non v’è d’incomodo,
Che mi diate risposta, e mi spieghiate
Chi è quel vostro amico, e in qual maniera
Si dichiarava d’essermi parente.

For.

Lo cercate da me, come se a voi
Non fosse noto.

Dem.

Noto a me?

For.

Di certo.

Dem.

Io vi dico di no. Voi, che volete
Che mi sia noto, fate che mi torni
Alla memoria.

For.

Eh via. Com’è possibile
Che quel vostro cugin non conosceste?

Dem.

Voi mi fate crepar. Ditemi il nome.

For.

Il nome? Volentier…

Dem.

Perchè nol dite?

For.

Oh me tapino! M’è sfuggito il nome!

Dem.

E così?

For.

Geta, il nome suggeriscimi,
Se ti sovviene, che abbiam detto or ora)
Eh eh, non lo vo’ dir. Voi vi volete
Pigliar gioco di me, come se voi
Nol sapeste.

Dem.

Io pigliarmi di voi gioco?

Get.

Stilfone.

For.

Alfin, che importa a me? Stilfone.

Dem.

Chi?

For.

Stilfone, vi dico, era a voi noto.

Dem.

Nè io costui giammai conobbi, e alcuno
Parente di tal nome io mai non ebbi.

For.

Possibile? Oh vergogna! Ah s’egli avesse
Lasciato mai qualche migliar di scudi.

Dem.

Che ti colga il malanno.

For.

Allor saresti
Primo a dir su a memoria il vostro stipite,
Facendovi dal nonno e dal bisnonno.

Fu questa commedia rappresentata, essendo Edili L. Postumio Albino e L. Cornelio Merola, dalla compagnia comica di L. Ambivio Turpione e L. Attilio Prenestino colla musica di Flacco. La quarta volta si recitò nel consolato di Gn. Fannio Strabone e M. Valerio Messala l’anno di Roma 593. Il poeta memore della disgrazia dell’Ecira implora nel prologo il silenzio degli spettatori, dicendo:

Ne simili utamur fortuna atque usi sumus,
Cum per tumultum noster Grex motus loco est,
Quem actoris virtus nobis restituit locum,
Bonitasque vestra adjutans atque aequanimitas.

Potrebbe aggiugnersi che la quinta volta fu nella stessa Roma nel secolo XIII dell’era Cristiana fatta rappresentare da nobili attori per ordine del Cardinale Ippolito da Este il giovine, e vi premise il prologo il celebre Antonio Mureto. La sesta volta sarebbe questa che si è rappresentata in Parma da’ giovani studenti di quel l’Università l’anno 1784. Non vo privare i nostri leggitori del nuovo prologo appostovi dal p. Pagnini:

Ætate nostra pol nihil frequentius
Ubique locorum, quam qui faciant comicam
Extra theatra. Nonne in hemycyclis,
In officinis, in tabernis, in foro,
In aedibus potentium, ac, si diis placet,
Ipsis in aulis principum quamplurimi
Suis relictis non suas partes agunt,
Ut sapientes, ut nobiles, ut divites,
Ut docti appareant incautis, non sine
Rei qua privatae incommodo qua publicae?
Nec ipsi turpiora officia despuunt,
Notos, ignotos fallere, assentarier
Supremis, imis, plenos fidei perdere,
Supponere acta, scripta, sycophantias
Moliri, ac si quid hisce est impudentius,
Modo id sua cum re sit. Heu scelus! heu nefas!
At nemo jure crimini aut probro duit
Huic nostro adolescentum ingenuorum coetui
Sine pretio prodire ornatu scenico,
Moresque vitae deteriores fingere,
Non ut cuiquam incommodet, sed ut simul
Spectatorum delectet animos et juvet,
Terentiana agetur ergo fabula,
Cui Phormio nomen ecc.

L’Eunuco. Questa commedia che Terenzio trasse da Menandro, fu dagli Edili comprata al prezzo esorbitante di ottomila nummi, cui verun’ altra mai non pervenne e si rappresentò dalla solita compagnia di Turpione ed Attilio colla musica di Flacco. La seconda volta si recitò nel consolato di M. Valerio Messala e Gn. Fannio Strabone l’anno di Roma 593. Nonpertanto dalla Dacier e dal Fabro si vuole che non si fosse rappresentata la seconda volta nel suddetto consolato, ma bensì due volte in un medesimo giorno, cosi interpretando essi quell’acta II. Convengo in non credere improbabile che sì bella commedia per tal modo a’ Romani piacesse che in un medesimo giorno ripeter se ne volessero il diletto, come suole avvenire all’udirsi qualche aria eccellente ne’ teatri musicali moderni. Ma la nota romana II è molto frequente nelle iscrizioni, Consul II, Consul  III, Pontifex  VII, e s’interpreta la seconda volta, la terza, la settima volta; or perchè solo in questa favola vuolsi che significhi bis, puntellandola consupplirvi la parola die? Bis acta est , dice lo scrittore della di lui vita; e perchè ciò direbbe (argomenta il Fabro) se non s’intendesse nel medesimo giorno? L’Eunuco si sarà rappresentata diverse volte; e perchè far menzione di due sole? Potrebbe però rispondersi in prima, che siesi rappresentata due volte in poco spazio di tempo (non già in un giorno, cosa che sarebbe stata avvenimento ben raro in Roma e tale che richiesto avrebbe un racconto speciale) senza poi tenersi più ragione di altre ripetizioni, la qual cosa sarà avvenuta altresì ad altre commedie di Cecilio, di Plauto ecc. E tale breve spazio di tempo non potrebbe ristringersi all’anno del riferito consolato, non essendovi maggior verisimiglianza nell’interpretazione del Fabro II die che in questa  II anno. L’analogia poi esige che s’interpreti la seconda volta, e non già due volte. Nel Tormentatore di se stesso si dice acta III nel consolato di Sempronio e Giuvenzio, e si spiega la terza volta, e non tre volte in un giorno; nel Formione dicesi facta IV sotto Fannio e Valerio, e s’interpreta la quarta volta, e non quattro volte in un giorno; nell’Ecira troviamo relata  III, e s’intende la terza volta, tanto più che in vece di recitarsi trevolte in un giorno, la prima e la seconda rappresentazione non potè compiersi, e perchè si terminasse, vi bisognò la preghiera dell’accreditato Turpione. Or perchè mai solo l’acta  II dell’Eunuco ha da ricevere l’insolita spiegazione di due volte in un di?

Che che sia però di questo, dobbiamo osservare che Terenzio in tutte le sue favole, e con ispecialità in questa, si scaglia contro il poeta Luscio Lavinio suo detrattore. Egli ne riprende due commedie tratte dalla Fantasima e dal Tesoro di Menandro; e ci racconta come dopo che gli Edili ebbero comperata la commedia dell’Eunuco, Luscio si adoperò per modo che ottenne la facoltà di esaminarla (inspiciendi) e che si cominciò a recitare, forse dallo stesso Terenzio, in presenza del magistrato. Allora l’invidioso maledico Luscio chiamò Terenzio ladro e plagiario, gridando ridicolamente, come pur fassi a’ nostri di, quando altro non si sa dire che la sua sostanza è tutta tolta dal Colace, favola scritta da Nevio e da Plauto. Terenzio nel prologo si discolpa, negando di aver mai saputo che Nevio e Plauto l’avessero posta in iscena; ma confessa ancora colla ingenuità che accompagna sempre gli uomini che non iscarseggiano di merito, che dal Colace di Menandro egli ha tratto i personaggi del parassito e del soldato.

L’azione dell’Eunuco consiste in un dono fatto da un suo amante a Taide di una fanciulla ch’ella sa esser cittadina Ateniese, e in un altro dono, fattole da un altro suo innammorato, di un Eunuco, in vece di cui vi è menato un vivace giovanetto preso repentinamente della bellezza di quella fanciulla, la quale di poi gli diviene moglie. La favola è condotta con buona economia e con ispecial grazia e vaghezza. Ma sopra ogni altra cosa le pitture degl’innamorati Fedria e Cherea sono così vere e leggiadre, che diventano una tacita satira di quasi tutti gl’innamorati scenici moderni, i quali o sogliono essere sofistici e ghiribizzosi metafisici, come nelle commedie spagnuole, o manierati belli-spiriti, come nelle francesi, o fantastici trovatori di ardite metafore, di studiati epigrammi e di strani rettorici pensamenti, come nelle italiane, specialmente di una gran parte del  XVII secolo. Si sgomenta ogni scrittor di buon gusto nel voler prestare i concetti a un innamorato rammentandosi di Fedria sulla soglia di Taide. Quattro versi che danno principio a questa favola, sono la disperazione degli scrittori teatrali intelligenti. Trascriverei di buon grado l’intera prima scena originale; ma per compiacere qualche volta a chi si conforma più volentieri all’uso francese di addurre delle lingue morte i frammenti tradotti in volgar lingua, ne recherò una mia versione qualunque essa siesi, sempre inculcando di leggersi i versi stessi di Terenzio:

Fed.

Che farò dunque? Non vi andrò? Nemmeno
Or che di suo volere a se mi chiama?
O mi armerò piuttosto di costanza
Per non soffrir mai più d’esser trastullo
Di femminacce Lusinghiere e false?
Mi scacciò… mi rappella…
Tornerò ? … No, per Dio, no, se venisse
A mani giunte a domandar mercede.

Par.

Purchè il possa tu far, non v’ha di questa
Nè più gloriosa, nè più forte impresa:
Ma pensa ben, che se cominei e cessi
A mezza strada, se da lei lontano
E senza esser chiamato, e nel più forte
Del cruccio, da te stesso ti presenti
Alla sua soglia, e l’amor tuo palesi,
E quanto in odio a lei, te stesso abberri,
Tu sei perduto. Si aviedrà che schiavo,
Che in lacci sei, che ti dibatti invano,
E del suo fasto diverrai lo scherno.
Pensaci ben, padrone, or che vi è tempo.
Ciò che in se non ha modo nè consiglio,
Guidar colla prudenza invan presumi.
Queste vicende e questi vizii tutti
Accompagnan l’amor: sospetti, ingiurie,
Inimicizie e tregue, e guerre e paci.
Tu se tai cose instabili conferma
Norma regger vorrai, sarà lo stesso
Che volere impazzir colla ragione.
E quel che irato or nel tuo cuor rivolgi:
Io lei? che quel..? che me..? che non..? Vedrai..
Oh pria morrò; saprà qual uom mi sia.
Tutto questo apparecchio di disdegno
In fede mia ammorzerà repente
Solo una insidiosa lagrimuccia
Che dopo lungo strofinarsi d’occhi,
In essi a stento imbambolar vedrai.
E tu anzi reo di meritato sdegno
Ti chiamerai, chiedendo in grazia ancora
Un supplicio che lavi ogni tua colpa.

Fed.

Ribalda, indegna! Or sì conosco bene
La sua nequizia e la miseria mia,
E me ne incresce, e di amor muojo, e il veggo,
E il sò, ne mi trattengo, e ad occhi aperti
Corro a morir, nè so che farmi debba.

Par.

Non sai che far? La libertà perduta
Al minor prezzo che possibil fia
Cerca di riscattar; e se non puoi
Con poco, abbi l’intento ancor con molto,
E con quanto possiedi, e ti consola.

Fed.

Così tu pensi?

Par.

E così far tu devi,
Se saggio sei, nè rendere maggiori
I mali e le molestie dell’amore,
E alla meglio soffrir quelle che ha seco.
Ma la tempesta de’ poderi nostri
Ecco fuori sen vien, che i dolci frutti
Che noi coglier dobbiam, via se ne porta.

Della bellissima scena seconda di Taide con Fedria e Parmenone potrebbero addursi varii squarci pregevoli; ma basti il seguente che sempre più può ammaestrare gli scrittori teatrali ad esprimere col vero linguaggio il pensare d’un innamorato. Addio, mia bella Taide (dice Fedria) sino a che passino questi due giorni. Addio, mio caro Fedria; vuoi tu da me qualche altra cosa? Ed egli :

……… Egone quid velim?
Cum milite isto praesens, absens ut sies:
Dies, noctesque me ames, me desideres,
Me somnies, me expectes, de me cogites,
Me speres, me te oblectes, mecum tota sis.
Meus fac sis postremo animus, quando ego sum tuus.

I quali pensieri ha così felicemente espressi il Fortiguerra:

……… Quel che vogl’io?
Vo’ che presente a codesto soldato
Tu stia come lontana: e notte e giorno
Me ami, me desii, me sogni, e aspetti,
A me pensi, in me speri, e in me ti allegri;
In somma che di me tutta tu sii,
Quando io son tutto tuo.

Grande, forte, difficile ad esser raffrenata o a soggiogarsi è la passione di Fedria; ma infocata, vivida, impetuosa è quella del giovinetto Cherea. Che maestrevole varietà nel maneggiare un medesimo affetto! Odasi in qual maniera egli favelli nel volgare idioma per mezzo del medesimo Fortiguerra, e dalla bellezza della copia si argomenti la vivacità del colorito originale, e si confrontino:

Son morto: mi è sparita la fanciulla:
Ed io che fino a quì le tenni d’occhio,
Più non la vedo. E dove or cercherolla?
Ove rintraccerolla? E a qual persona
Domanderonne? E qual terrò camino?
Non sollo. Ma quest’unica speranza
Mi resta, che dovunque ella si sia,
Non potrà lungo tempo star celata.
O bellissimo volto! In questo punto.
Cancello dal mio cuor tutte le donne,
Che mi fan noja i visi del paese.

Leggansi in quest’altro passo tradotto dalla medesima mano le di lui esprescioni dopo essere stato in casa di Taide, donde esce pieno di giubilo e dolcezza:

Evvi alcun quì dappresso? Non vi è alcuno.
Evvi alcun che mi seguiti? Nessuno.
Or dunque potrò io liberamente
Tutta sfogar l’interna mia allegrezza.
O Giove, adesso è il tempo certamente
Che soffro in pace, se mi fai morire,
Acciochè a lungo andare alcuno affanno
Non contamini questo mio piacere.
Ma vorrei pure abbattermi in taluno
Che curioso mi venisse appresso,
E mi animazzasse con cento domande,
Dove io vada? dende esca? e che pretenda?
Perchè tanta allegrezza e tanto brio?
Da chi preso abbia questo vestimento?
Se stò in cervello, o se sono impazzito?

Non ne rechiamo queste poche bellezze se non per eccitare gli studiosi giovani alla lettura ragionata delle commedie di Terenzio, nella quale si abbatteranno in moltissime altre che lasciansi alla loro diligenza, abbondandone questa bella favola forse la migliore delle latine. Non vediamo però su qual fondamento ragionevole abbia l’autore delle Note della sopranominata edizione Romana di Terenzio del 1767 voluto opporsi alla solita divisione degli atti dell’Eunuco. A suo credere l’atto I non dee terminare colle parole di Taide, Concedam hinc intro, atque expectabo dum venit . Dice quell’erudito: Probari qui potest eorum sententia, qui finem huic actui imponunt (quod coeteroquin in omnibus fere Terentii comoediarum editionibus fieri animadverti) quum adhuc Phaedria et Parmeno scenam occupent. Suppone l’annotatore che Fedria e Parmenone, mentre Taide favella, stiano ancora in iscena; e quando quella n’è partita, proseguono il discorso tenuto dell’ancella e dell’eunuco da condursi nella di lei casa. Ma l’azione parmi che avvenga diversamente da quello che egli pensa. Fedria parte dal proscenio dopo il verso, Meus fac sis postremo animus, quando ego sum tuus , e con Parmenone entra nella propria casa per accingersi al picciolo viaggio che vuol fare in villa per passarvi il biduo penoso. Taide rimane affliggendosi di non esser creduta da Fedria ch’ella ama di buon senno; accenna di volere col dono della fanciulla che attende dal soldato, rendersi benevolo il di lei fratello; entra in sua casa; e così termina benissimo l’atto I. Nel II esce Fedria con Parmenone, e come a tutti gli uomini avviene, e specialmente agl’innamorati, in procinto di andar via ripete al servo che eseguisca i suoi ordini intorno al menare l’ancella, e l’eunuco a Taide. In tale azione così condotta, e distribuita nulla havvi d’irregolare onde abbiasi a rifiutare la comune divisione. L’unico motivo che ebbe l’annotatore di censurarla, è che Fedria parla della medesima cosa accennata da Taide. Ma sarebbe strano che in due parole la ripetesse nel momento di partire? Lascio poi da parte che la divisione da quel letterato proposta senza verun bisogno, mi sembri sproporzionata nelle parti, perchè egli vorrebbe che i due primi atti ne formassero un solo, ed il II delle solite edizioni si dividesse in due ben piccioli.

Gli Adelfi. Non so come mai i gramatici che da varii passi degli antichi raccolsero le notizie appartenenti alla vita di Terenzio, abbiano francamente asserito che questa favola fosse, tratta da una di Menandro. Niun critico, per quanto io sappia, ha considerato che Terenzio stesso a chiarissime note ha detto di doverla al comicissimo Difilo, e intitolarsi in greco Synapothnescontes, che i comentatori interpretarono devoti, consecrati a correre la stessa sorte col loro sovrano. Ci dice in oltre che Plauto dalla favola di Difilo trasse la sua intitolata Commorientes; ma che avendo in essa lasciata intatta l’avventura del giovane che tolse a viva forza una meretrice a un ruffiano, egli ha voluto approfittarsi di questa parte non toccata, per tessere questa sua commedia. L’intitolo Adelphi per avervi introdotti due bellissimi caratteri di due fratelli di umore e di costumi opposti, i quali formano un piacevolissimo contrasto comico. Mizione e Demea sono gli originali di moltissime copie moderne di caratteri che graziosamente si combattono sulle scene. Mizione senza moglie, senza figli, pieno di comodi e di ricchezze, urbano, indulgente, piacevole, benefico: Demea ammogliato, con due figliuoli, pieno di cure, laborioso, severo, burbero, tenace. Quegli sempre tranquillo e lieto, questi sempre agitato e colerico. Mizione per sollevare alquanto il fratello adolta Eschino il primo de’ di lui figliuoli, e con una educazione dolce e indulgente, sebbene gli dà la facilità di soddisfare a’ suoi capricci giovanili, almeno l’incamina al l’ingenuità, e farselo amico. Demea rigido e molesto coll’educazione aspra, zotica e nojosa data a Ctesifone, senza correggerne i vizii della giovanezza, l’obbliga a ricorrere alla dissimulazione e all’ipocrisia, e da se lo aliena. Demea ignorando le passioni, il modo di pensare e la vita del figlio da lui educato, lo erede dedito interamente alle cose rusticali e lontano dalle solite debolezze giovanili, e si occupa solo nel pensiero della vita menata da Eschino, e ne censura e riprende suo fratello Mizione. Egli ha saputo che Eschino ha violentata la casa di un ruffiano, l’ha bastonato e gli ha tolto una meretrice. Ma egli ignora che questa donna è l’amata da Ctesifone, cui Eschino ha preteso favorire col torla al ruffiano. Crede egli che Ctesifone sia in villa, mentre si trova con la donna con Eschino in casa di Mizione. Ognuno vede qual fonte di piacevolezze contenga il carattere di questo vecchio severo che s’immagina di essere abbastanza vigilante, e di sapere gli sconcerti di sua casa prima di ogni altro; quando egli è il solo che n’è sempre all’oscuro:

Primus sentio mala nostra, primus rescisco omnia,
Primus porrò obnuncio. Ægrè solus, si quid fit, fero.

Egli sel crede, e n’è deriso da Siro:

Rideo hunc, primum ait se scire, is solus nescit omnia.

Ne’ casi di Panfila fatta madre da Eschino gli avviene lo stesso. Tardi n’è istruito da Egione e più tardi ancora e fuor di tempo, ne viene a schiamazzare col fratello allorchè tutto è quieto, e si sono conchiuse le nozze di Eschino e Panfila. Eccita parimente il riso quando accorgendosi che l’indulgenza di Mizione lo rende a tutti caro ed accetto, pensa d’imitarlo, benchè a spese del fratello; e sforzando il proprio naturale lo consiglia ad usare varie liberalità ed a congiungersi in matrimonio con Sostrata. Tralle bellezze più degne di notarsi in questa commedia si vogliono collocare le ottime regole di educazione che si ricavano dalla prima scena, le quali usate colla dovuta moderazione incaminerebbero i giovani alla sincerità e alla candidezza, là dove l’educazione rigida e indiscreta gli scorge all’ipocrisia e alla doppiezza. Dice Mizione:

……… Quae fert adolescentia,
Ea ne me celet, consuefeci filium;
Nam qui mentiri, aut fallere insuevit patrem, aut
Audebit, tanto magis audebit caeteros.
Pudore et liberalitate liberos
Retinere satius esse credo, quam metu.

Demea mio fratello (soggiugne Mizione) oltre al dovere è duro e severo:

Et errat longe, mea quidem sententia,
Qui imperium credat gravius esse aut stabilius,
Vi quod fit, quam illud quod amicitia adjungitur.
Mea sic est ratio, et sic animum induco meum;
Malo coactus qui suum officium facit,
Dum id rescitum iri credit, tantisper cavet,
Si sperat fore clam, rursum ad ingenium redit.
Ille quem beneficio adjungas, ex animo facit,
Studet par referre, praesens absensque idem erit.
Hoc patrium est, potius censuescere filium,
Sua sponte recte facere, quam alieno metu.
Hoc pater ac dominus interest, hoc qui nequit,
Fateatur se nescire imperare liberis.

Io son di avviso che questi aurei versi ben ponderati risparmierebbero a molti la fatica di accumular volumi sull’educazione domestica.

Per ciò che riguarda la comica piacevolezza merita di osservarsi la scena 3 dell’atto III di Demea con Siro. Applaudesi il vecchio della propria maniera di pensare, e censura quella del fratello, coll’occasione del trascorso di Eschino; ed il servo con graziosa ironia loda la di lui saviezza, il prudente antivedere, le massime assennate. Il vecchio entrato a far l’elogio di se stesso non la finisce mai, ed il servo fa una parodia delle di lui sentenze applicandole alla sua cucina. Veggasi questo passo nella versione del Fortiguerra:

Dem.

Oh in questo ci stò tutto, e non mai lascio
Passargliene veruna, e in guisa tale
A bene oprar l’avvezzo. Finalmente
Gli comando, che come in uno specchio
Egli contempli di ciascun la vita,
E quindi apprenda dalle azioni altrui
A farsi esempio e regola a se stesso.
Questo, dico, è da farsi.

Sir.

Bene al certo.

Dem.

Quest’altro è da fuggirsi.

Sir.

Con giudizio.

Dem.

Questo degno è di lode.

Sir.

Util consiglio.

Dem.

Questo di biasmo.

Sir.

Insegnamento raro.

Dem.

Ma per meglio spiegarmi.

Sir.

Non ho tempo
Or di ascoltarti, che mi son comprati
Quei pesci a gusto mio, e a me si aspetta
Lo stare attento, onde non vadan male;
Che tanto a noi si ascriverebbe a colpa
Una tal negligenza, quanto a voi
Quelle cose non far che avete detto.
Però nel modo stesso a’ miei conservi
Che al figlio tu comandi, io pur comando.
Questo è troppo salato: arsiccio troppo
È questo e lavato han poco quest’altro;
Quello è squisito, raro: un’ altra volta
Che tu lo debba cuocer, ti rammenta
Di non mutare intingoli; ed a tutti,
Per quanto sò, dò regole, e precetti.
Infin comando lor che fissin gli occhi
Nelle stoviglie, come in uno specchio,
E mostro lor come hansi a contenere.

Siro stesso nella 2 scena dell’atto IV, per allontanarlo da quelle vicinanze e dalla casa del fratello dove si trova Ctesifone, lo manda a cercar Mizione altrove insegnandogli un camino lungo e intralciato, sì che non n’esca in tutto il giorno. Ciò è stato imitato da qualche commediografo Italiano, e specialmente dal Porta. Nella 5 scena del medesimo atto IV è notabile la riprensione moderata e savia che fa ad Eschino il buon Mizione, e che recheremo parimente colle parole del più volte lodato elegante traduttore:

                   Or dimmi un poco
In qual città ti credi tu di stare?
Facesti oltraggio ad una verginella,
Cui di toccar nessun diritto avevi.
Già questa ella è gran colpa,
Ma pure umana, e che commiser molti,
E delle volte ancor quei che fur buoni.
Ma perchè, dimmi, dopo fatto il male
Tu non pensasti a dargli alcun rimedio?
Forse da te cercasti a provvederci?
O già che ti prendea di me vergogna,
Ne da te stesso mel volesti dire,
Di alcun cercasti acciochè mel dicesse?
E in mezzo a queste tue tante incertezze
Eccoti dieci mesi già passati!
Così te stesso e quella sventurata
Hai rovinato, ed anche il tuo figliuolo,
Per quel che ti appartiene. Ti credevi,
Che a te, dormendo colla pancia all’aria,
Dovessero gli Dei porgere aita?
E menarti la sposa insino al letto?
Non ti vorrei nel resto delle cose
Negligente, conforme fosti in questa.
Ma stammi allegro; avrai costei per moglie.

Non è da omettersi la grazia della escandescenza di Demea, e l’epilogo delle disgrazie e de’ delirii della sua famiglia che egli fa nella scena ultima del medesimo atto IV coll’impeto consueto del suo carattere:

                   O Jupiter!
Hancine vitam? hoscine mores? hanc dementiam?
Uxor sine dote veniet: intus psaltria est:
Domu’ sumptuosà, adolescens luxi perditus:
Senex delirans: ipsa si cupiat Salus
Servare, prorsus non potest hanc familiam.

L’ultima favola fu questa che Terenzio espose sulle scene Romane. Ciò avvenne, secondo l’epigrafe apposta alle comuni edizioni, ne’ giuochi funebri di L. Emilio Paolo fatti da Q. Fabio Massimo e P. Cornelio Affricano sotto il consolato di L. Anicio Gallo e. M. Cornelio Cetego l’anno di Roma 593, secondo il Fabro de aetate Terentii, essendo rappresentata dalla compagnia di Attilio Prenestino e da Minuzio Protimo colla musica di Flacco. Anche questa commedia fu nel nativo linguaggio recitata nell’Italia moderna nel secolo XVI, allorchè si recò a Ferrara il pontefice Paolo III da i più nobili attori della corte del duca Ercole II, cioè da’ medesimi di lui figliuoli.

Questo Comico elegantissimo si vuole nato in Cartagine circa l’anno di Roma 560 nove anni prima della morte di Plauto. Fenestella afferma esser egli nato e morto tra’ il fornire della seconda guerra Punica e l’incominciar della terza, cioè al terminar del sesto secolo. Dunque dopo non molto della recita degli Adelfi morì Terenzio, o per meglio dire, sparì, nè altro se ne seppe dal consolato di Cn. Cornelio Dolabella e M. Fulvio Nobiliore in poi, che cade nell’anno 594. Vuolsi che di anni trentaquattro in circa s’imbarcasse per la Grecia e per l’Asia. Alcuno asserisce ch’ei morisse povero in Stinfalo di Arcadia, altri ch’egli naufragasse di ritorno dalla Grecia, e perissero con lui cento e otto commedie greche da lui tradotte. Ma chi leggerà attentamente le sei da lui con tanta eleganza e delicatezza composte in Roma, crederà con somma difficoltà che avesse potuto scriver commedie a centinaja senza supporre che vivuto fosse sino all’ultima vecchiaja fra’ Greci, è che avesse trascurato di tornare in Roma, dove le sue fatiche erano così bene premiate ed onorate, ed a qual altro oggetto avrebbe egli recate nella latina lingua tante greche ricchezze?

Afranio compose pel teatro comico dopo Terenzio, ma cercò d’imitarlo, e il tenne per incomparabile, siccome attestò nella sua commedia intitolata Compitalia,

Terentio similem non dices quempiam.

Egli studiossi ancora d’imitar l’oratore e tragico soprallodato Cajo Tizio; e Cicerone che ce ne istruisce, esalta l’ingegno, l’argutezza e l’eleganza di Afranioa. Anche Quintilianob lo commenda assai senza lasciar però di riprenderlo per l’oscenità degli amori da lui recati in iscena. Suetonio mentova una di lui commedia togata detta l’Incendio, nella quale, quando si ripetè ne’ Giuochi Massimi celebrati da Nerone, quest’imperadore permise per magnificenza che gli attori saccheggiassero la suppellettile della casa che ardeva. Orazio ne dice che appo i Romani Afranio si considerava come il Comico che più si avvicinava a Menandro,

Dicitur Afrani toga convenisse Menandro.

Senza dubbio lo studio che posero tali scrittori, e singolarmente Nevio, Plauto, Cecilio, Terenzio ed Afranio, in imitare i Greci, portò in Roma l’arte comica a certo lustro notabile. Ma forse per non avere essi ad altra gloria aspirato che a quella di traduttori ingegnosi, si rimasero indietro mostrando nell’ordinar le cose tolte a’ Greci una immaginazione più testo temperata e giudiziosa che originale ed atta ad inventare. Quindi è che Quintiliano ingenuamente confessava esser la commedia la parte più debole de’ Romania; e Giulio Cesare nel l’urbana censura fatta a Terenzio riconosceva in lui Menandro ma dimezzato ; e Aulo Gellioa nel paragonar Cecilio con Menandro, Posidio, Apollodoro ed Alesside, vedeva ad occhi le latine favole al confronto de’ greci originali onde traevansi, indebolirsi e scemar di pregio.

IV.

Splendidezza della scena Latina, e Censori teatrali.

MA già era cessata in gran parte la disistima in cui i Romani tennero per lungo tempo i poeti teatrali, secondochè affermò Ciceroneb. I grandi personaggi della Repubblica già pregiavansi di esser detti amici di un Terenzio tuttochè straniero e servo. Già la scena spiegava tutto il lusso, il fasto e la magnificenza conveniente a un popolo arrichito delle spoglie di tanto mondo. Cajo Pulcro l’abbellì colla varietà de’ colori; Cajo Antonio la coprì tutta di argento, Pretejo di oro, Catulo di avorio; i Luculli la renderono versatile; Pompeo il grande, cui si attribuisce il primo teatro stabile fabbricato in Roma, colla frescura delle acque che fecevi serpeggiare, vi temperò gli ardori estivi; e Marco Scauro v’introdusse una sontuosità straordinaria ne’ vestiti e nelle decorazioni, e fe costruire il suo magnifico teatro ricco di marmi e di cristalli, e pomposamente ornato di trecentosessanta colonne, il quale era capace di più di ottantamila spettatoria. Finalmente non istimarono i bellicosi Romani sconvenevole alla lor grandezza stabilire una deputazione di cinque Censori destinati a rivedere i drammi da rappresentarsi, per contenere i poeti ne’ limiti dovuti. Senza l’approvazione di alcuno di essi non compariva sulla scena componimento veruno. I loro congressi facevansi nel tempio di Apollo e delle Muse, ove i poeti recavansi a recitar le loro favole. Spurio, Mecio o Mezio Tarpa era il più assiduo e diligente de’ cinque Censori. Cicerone parla di lui nella prima epistola del VII libro delle Famigliari, ed Orazio ne fa menzione nella satira X del I libro:

                        haec ego ludo,
Quae nec in aede sonent certantia, judice Tarpaa.