CAPO XVI.
Dell’uso delle Antiche Maschere.
Tanti rappresentatori e ballerini non mai comparvero sulla scena greca a volto nudo, ma si coprirono di una maschera, la quale nè sempre fu la stessa, nè si usò sempre pel medesimo oggotto, nè sì presto servì per eccitare il riso.
Un poco di feccia alterò da principio il volto dell’attore. E perchè questo? Forse per far ridere? Non possiamo sapere se il primo che volle introdurla, avesse avuto tal disegno, perchè l’inventore della maschera s’ignorava anche ai tempi di Aristotilea. Per indagare a qual fine essa si adoperasse, gioverà qui recare ciò che leggesi nel trattato de Theatro del Bulengerob Ecco quello che riferisce coll’autorità dello Scoliaste di Aristofane. « I Villani oltraggiati da’ cittadini anticamente venivano di notte nel villaggio ove dimorava l’offensore e pubblicavano la propria ingiuria ed il di lui nome. Al ritorno del dì il cittadino offensore veniva riconvenuto del fatto, e ne rimaneva scornato, ed indi per non soggiacere a tale affronto, si asteneva dall’usar prepotenza. Conoscendo adunque i cittadini tale espediente utilissimo ne’ villaggi, vollero che gli offesi venissero di giorno in mezzo della piazza a narrare le oppressioni sofferte. Ma per timore dei potenti essi comparivano tinti di feccia per non essere ravvisati ». Adunque il timore e la necessità di occultarsi sugerirono il pensiere di alterar colla feccia il sembiante; e gli attori conformaronsi a questa usanza per celare il proprio volto e dare a credere di esser quello del personaggio rappresentato.
Potrebbe dirsi che negl’informi cori de’ Villani dell’Attica, i quali nelle vendemmie cantando saltarono su per gli otri e s’imbrattarono di feccia, si rinvenga l’origine di una maschera ridicola. Ma quei cori non erano tuttavia ciò che poscia si disse poesia drammatica, e quando questa cominciò a pullulare da que’ semi, l’attore fece uso della feccia, delle capigliature ed indi delle scorze, delle foglie e di simili cose, per imitare il personaggio rappresentato, e non già quell’antica buffoneria villesca. Ed in fatti Tespi che purgò la tragedia da ogni mescolanza comica, tingendosi di feccia, poteva mai farlo con intento di eccitare il riso? Alla feccia succedette la maschera decente trovata da Eschilo. Ora chi direbbe che l’autore dell’Eumenidi avesse inventata una maschera per far ridere ? Essa allora ben lontana dal servire alla buffoneria, accoppiò al modo di trasformar l’attore una diligente imitazione de’ volti, de’ vestimenti e delle divise usate da’ personaggi tratti dalla storia, dalle poesie Omeriche, e dalla teologia. Che se con Suida voglia attribuirsi l’invenzione della vera maschera, non ad Eschilo tragico, ma a Cherilo l’Ateniese ch’egli chiama comico; non perciò potrà negarsi, che la maschera allora si ammettesse ugualmente nella tragedia e nella commedia; e i tragici con somma sciocchezza avrebbero ne’ loro drammi adottata una invenzione destinata a far ridere. Questo Cherilo però, per quello che si è veduto, fiori nell’Olimpiade LXV, e Tespi che rappresentava tragedie, e si era alla meglio trasformato, l’aveva preceduto di quattro olimpiadi almeno.
Del resto nulla dimostra con maggiore evidenza che la maschera si usò per bene imitare i
personaggi, quanto
la commedia. Questa che alla prima satireggiava
i personaggi viventi, come Cleone, Lamaco, Demostene, Nicia, Socrate, per
farli riconoscere dall’uditorio, oltre al nominarli, ne imitava esattamente i volti e gli
abbigliamenti, marcandoli, per così dire, con ferro rovente alla presenza di un popolo fiero e
geloso della propria libertà. Aureo in tal proposito è il passaggio della commedia degli Equiti di Aristofane, in cui si scorge la diligenza posta dal poeta per
contraffare il sembiante di Cleone e supplire alla maschera che gli artefici ricusarono di
formare per timore di quel potente cittadino. Confermasi pure tal verità istorica con un passo
di Eliano, il quale nel ragionare della commedia delle Nuvole in cui
compariva il personaggio di Socrate, scrive cosìa. «Essendo Socrate mostrato sulla scena
e nominato tratto tratto (della qual cosa
non è da stupirsi perchè
egli era ancora raffigurato nelle maschere degl’istrioni
per essere stato spesse volte ritratto fin da’ Vasai) i forestieri andavano nel teatro
domandando chi mai fosse quel Socrate.»
Anche allora che si mordevano gli estinti, la maschera rappresentava le persone nominate, come quando Aristofane pose in iscena Eschilo ed Euripide già morti, mal grado che vi fosse una antica legge di Solone che vietava di dir male de’ morti. I Romani stessi usarono la maschera ne’ funerali de’ principi per imitarne esattamente il volto; e Suetonio racconta, che nel funerale di Vespasiano l’archimimo Favore rappresentò colla maschera e coll’imitazione, giusta il costume, la persona dell’imperadore rinnovandone le azioni e le parole.
Cessò di poi nella commedia nuova il fine di rassomigliare i personnagi satireggiati, e restò solo quello di coprire gli attori, trovandosi già il popolo assuefatto a vederli sempre coperti. Furono in quest’epoca tutte le maschere stravaganti, mostruose, deformi, aliene dall’essere umano. Ed a questo tempo si rapportano i personaggi descritti da Lucianoa mostruosamente lunghi con una grandissima pancia, colla hoccaccia spalancata, e che camminavano con certe scarpe altissime come se andassero a cavallo. Allora s’inventarono i Manduci ridicoli che davano terrore a’ fanciulli, accennati da Festo e da Plauto nella Corda, i quali aprivano un’ampia bocca e facevano co’ denti un grande strepito. I Batavi, gli Etiopi, i Germani, rappresentati allora stranamente in aspetti spaventevoli, e tutte le altre maschere deformi e buffonesche ricordate da Giovenale e da Giulio Polluce, appartengono ancora a’ tempi della Nuova commedia. Nè anche queste medesime maschere mostruose nacquero tutte per istudio di far ridere, ma sì bene per quel medesimo timore che anticamente mosse i villani a tingersi di feccia. La libertà della Grecia aveva ceduto alla potenza de’ principi Macedoni, e Menandro e gli altri comici ebbero paura di soggiacere al fato di Eupoli e di Anassandride. Per sicurezza adunque della propria vita sacrificarono la verità dell’imitazione, facendo dagli artefici formar le maschere capricciose e stravaganti per fuggire il pericolo che alcuna per disgrazia riescisse simile al volto di qualche principea.
Svanì poscia questo timore ancora a poco a poco coll’essersi i comici avezzati al rispetto verso i principi, e questi renduti certi della totale sommissione de’ poeti teatrali alla loro autorità. E allora continuando la commedia a rappresentare finte azioni di finte persone private, la maschera nata solo a mostrare il vero, benchè più non rassomigliasse a’ personaggi conosciuti, copiò al naturale i volti umani seguendo l’età, lo stato, e fino le fisonomie che esprimevano i costumi. Così il teatro si empì di maschere tragiche e comiche naturalissime, rimanendo le altre stravaganti per uso di diverse specie di mimi. Quindi vi furono maschere naturali di vecchi di più di un carattere, cioè del curioso, del burbero, del barbuto, e fin anche di un padre che aveva un ciglio eccessivamente inarcato, ed un altro naturale e compostoa; di giovani diversi, del bruno, del ricciuto, dell’appassionato, del gioviale, del rustico, del minaccevole, del ben costumato; di donne diverse, di matrone, di più di una ruffiana, di due false vergini, della meretrice magnifica, della nobile, della coronata, di quella che portava l’acconciatura de’ capelli che terminava in una punta; in fine di varii servi, soldati, mercatanti, eroi, numi, e di altre mentovate nell’Onomastico di Giulio Polluce nel libro IV, capo 20. E di questa naturale imitazione della maschera approfittandosi Nerone, si compiacque, allorchè cantava, di fare nelle maschere ritrarre il proprio volto e quello di Sabina e di altre dame, come leggesi nelle opere di Suetonio e di Sifilino.
Finalmente, oltre all’imitare e coprire L’attore, erano le antiche maschere necessarie per altro uso. Lungo tempo in Grecia e in Italia si diedero gli spettacoli scenici in teatri aperti e senza tetto in piazze spaziosissime, dove la voce naturale degli attori dissipata per l’aria aperta male avrebbe soddisfatto al gran concorso senza un mezzo artificiale di communicarla e distenderla. Per la qual cosa al tempo stesso che colla maschera copiavansi gli altrui sembianti, si cercò di farla servire per una specie di tromba da spingere oltre la voce, e perciò la facevano capace di coprire il capo tutto, non già il solo volto, affinchè raccolto ne uscisse il siato, e producesse un’articolazione piena chiara e sonoraa. Nè poi questa maschera di tutto il capo rimase inutile allorchè si costruirono i teatri chiusi, come quelli di Corinto e di Atene fatti a spese di Erode Attico, e gli altri de’ Romani; poichè in quel tempo ancora l’uditorio rimaneva allo scoperto, e que’ teatri erano così vasti e magnifici che potevano agiatamente contenere quale venti, quale trenta e quale quarantamila persone; per non parlare di quello di M. Scauro capace di ottantamila. Fu perciò necessario che quella grande maschera di tutto il capo che portava la voce in gran distanza, fosse accompagnata dal rimanente del vestito in guisa che ingrossando l’attore e facendone una figura gigantesca lo rendesse visibile agli ultimi spettatori. Nè questa figura colossale noceva all’illusione; perchè se da vicino appariva mostruosa, veduta in lontananza riducevasi alla giusta proporzione di uomo regolare, appunto come avviene alle grandi figure del Correggio nella cupola del Duomo di Parma.
La maschera dunque presso gli antichi servì per occultare il volto dell’attore, per imitare quello del personaggio rappresentato e per ajutar la voce; nè mai nelle tragedie e commedie si adoperò per eccitare il riso colla stravaganza, come s’intonò parecchi anni sono dalle scene, e per le stampe dall’abate Pietro Chiari in Venezia, ed in altre città Italiane.