CAPO XV.
Satiri: Ilarodie: Magodie: Parodie: Mimi: Pantomimi.
Oltre alle favole tragiche e comiche coltivarono i Greci altre specie di drammi che nomaronsi diversamente. I Satiri, L’Ilarodia, la Magodia, la Parodia, i Mimi, i Pantomimi, i Neurospasti, appartengono alla scena.
I.
Satiri.
Chiare tracce dell’antica origine della poesia drammatica osservansi in quel dramma che da’ Satiri trasse il nome. Sileno e i Satiri che formavano il corteggio di Bacco, erano i naturali interlocutori della poesia satiresca che partecipava del tragico, del boffonesco e del pastorale. I poeti tragici più illustri in essa dovettero esercitarsi, perchè la Tetralogia colla quale si aspirava alla corona teatrale, conteneva, come si è detto, tre componimenti tragici ed un satirico. Tralle favole di Euripide citansi otto drammi satirici; ma il solo Ciclope ci è pervenuto intero. A chi non potesse consultar L’originale, o increscessero le versioni latine letterali, o non avesse alla mano L’italiana del dottissimo Anton Maria Salvini, presentiamo L’annessa analisi di questa favola, di cui Omero fornì l’ argomento nel IX libro dell’Odissea. Spinto Ulisse da una tempesta in Sicilia non lungi dalla spelonca del Ciclope Polifemo, per salvarsi dalle di lui mani, dopo che ha perduti alcuni compagni, lo sbalordisce e L’addormenta con dargli a bere del vino generoso, L’accieca, e fugge con tutto il Coro de’ Satiri, i quali intervengono nella favola con Sileno, Ulisse e Polifemo.
Atto I. Sileno vecchio si trattiene seco stesso delle giovanili sue imprese e de’ travagli che stà soffrendo in vecchiaja, per aver voluto per affetto verso Bacco seguir le tracce de’ pirati Tirreni, i quali favoriti da Giunone aveano rapito questo nume a se caro. Senza ciò egli non avrebbe corso il mare e patita la fiera tempesta che lo gitto fra’ sassi dell’Etna in cui signoreggiano ì Ciclopi che pasconsi di carne umana; non servirebbe in quelle caverne attendendo a preparar la cena a Polifemo; nè i suoi figliuoli menerebbero i di lui armenti a pascolare su quelle terre. Gli vede scendere dal monte cantando, e mesto dice:
E’ questa, oimè! L’antica illustre danza,Questi quei cori son che al nostro BaccoSi cantavano un tempo? In tal TimeleCanterà il nostro Coro?
Si avanzano i Satiri lamentandosi della loro vita laboriosa e piena di pericoli, e cantano un Coro, il quale naturalmente adduce un giuoco di teatro che risulta dal guardar le capre e richiamar quelle che si scostano dalla greggia, e dà a conoscere il carattere del dramma misto di pitture patetiche campestri e comuni.
Atto II. Sileno interrompe il coro additandogli un legno di greca costruzione approdato al lido, dal quale son discesi alcuni uomini che portano vasi per provvedersi di acqua. Compiange gl’infelici che sono quì capitati ignorando i costumi de’ Ciclopi. Ulisse viene fuori coll’intento di fornirsi d’acqua e di viveri, e si maraviglia al vedere i Satiri in tal luogo. Il dialogo di Sileno e di Ulisse nel darsi vicendevolmente contezza de’ proprii casi e di quanto importa al secondo per propria istruzione, è giusto, naturale, preciso, degno di Euripide. Nè L’uno nè L’altro prende a parlare per mezza ora almeno senza dar luogo al compagno come suol farsi da non pochi drammatici moderni. Quì ogni proposizione non eccede un giambico, e le domande, e le risposte sono così acconce che il lettore tratto tratto è obbligato a confessare a se stesso che non si poteva nè chiedere, nè rispondere più a proposito. Di questa precisione e aggiustatezza abbiamo pochi esempli tra’ moderni, i quali per lo più fanno rispondere a’ personaggi quel che comanda la rima o L’armonia de’ versi.
Ulisse si rende benevolo Sileno dandogli del vino.
Morde questo
licoro
(dice Ulisse)
? ti sollecita dolcemente la gola? Per Bacco
(risponde)
mi è giunto fino a’ piedi.
Il vecchio si mette in allegria, bee,
ribee; domanda notizie di Troja, di Elena.
Voi L’aveste
, dice,
pur tralle mani quella bagascia perfida e carnajuola. E che ne faceste? Passò
ella di mano in mano? Oh avesse avuto a far meco questa sorella di Polluce! avrebbe trovato
calzare pel suo piede! Affè che le avrei dato il premio delle sue belle opere.
Ulisse L’interrompe per L’arrivo del Ciclope, e Sileno lo fa nascondere. Il dialogo di
Polifemo che chiede il solito latte per cenare, e di Sileno che ha bevuto, è
grossolano ed assai conveniente a’ tali personaggi. Si avvede Polifemo de’
capretti legati e del latto portato fuori da Sileno per Ulisse nella scena precedente, cose
che indicano un furto. Osserva ancora che Sileno è rubicondo fuor dell’usato.
Chi ha legato questi capretti? Chi ti ha dato de’ pugni sul viso?
Parla.
Sileno sbigottito accusa Ulisse, dicendo che voleva rubarli, e per
essersi egli opposto, n’era stato così mal concio. Ulisse si discolpa narrando il vero e
accusando Sileno, ma il Coro favorendo il padre lo smentisce. Patetiche ed eloquenti sono le
preghiere di Ulisse, e se un Ciclope poteva intenerirsi, L’avrebbe conseguito. Ma questi
gonfio della propria robustezza e potenza prende il linguaggio di uno spirito-forte, e beffeggia gli Dei nominati da Ulisse. Descrive poi la propria
felicità e le ricchezze pastorali di cui abbonda.
Per me solo pasce
questa greggia immensa; per me si scanna, per questo ventre, e non già per alcuni di
questi tuoi Numi. Il ventre è più vicino di Giove, trescare,
ingollare, empiere la pancia, ecco la mia religione.
A queste empietà aggiugne
il comando funesto di entrare nella spelonca per esser pasto gradito del suo gran ventre.
Alle querele e preghiere che Ulisse indirizza a Pallade, succede il canto del Coro, il quale
sospetta di cio che dentro farà il Ciclope. Egli senza dubbio taglia le membra di
quegl’infelici sulle mense; altre ne destina ad esser bollite, altre in arrosto; L’odore
scellerato già ne va insino al cielo, e Giove ancora nol fulmina?
Atto III. Narra Ulisse al Coro pateticamente la strage de’ suoi compagni divorati da Polifemo, indi il pensiere sugeritogli per avventura da qualche nume di dargli del vino in copia, per cui mezzo potrà vendicarsene. Il Coro vuol concorrere al disegno, e fuggir seco. Ulisse manifesta il pensiere di accecare il Ciclope con un legno bruciato nella punta per renderlo più duro e penetrante. Il Coro lo seconda, e per dissimulare canta in lode del Ciclope.
Atto IV. Polifemo pieno di vino esce brancolando, e secondato dal Coro canta una specie di
ecloga invitando la sua Galatea. Dice poi di voler far parte del vino ai Ciclopi suoi
fratelli, dal che Ulisse ed il Coro il dissuadono. Polifemo rimane persuaso, e si fa porre
accanto il vaso del vino. È buffonesco L’artifizio di Sileno che tenta di berne di nascosto,
e vi si pruova più volte, e sorpreso nel fatto si scusa con varii ridicoli pretesti. Il
Ciclope bee senza veruna misura e perde totalmente la ragione.
Io
veggo
(dice già ubbriaco)
girar la terra, il mare e il cielo; veggo il trono di Giove e
seco tutta la folla degli Dei. Oh ve’ si alza Ciprigna per venire ad
abbracciarmi.
Si animano i congiurati a compiere l’opera; poichè entrato
Polifemo nella spelonca si mette a giacer supino e fortemente russa. Parte del Coro entra per
eseguire
L’impresa, e parte rimane al cospetto degli
spettatori.
Atto V. Esce Polifemo acciecato urlando e gemendo. Ulisse allorchè fu domandato del suo
nome, rispose di chiamarsi
Niuno
; ed ora il Ciclope fremendo
si querela di
Niuno
che l’ha acciecato. Il Coro domanda chi
abbia in lui commesso quest’eccesso?
Niuno
, ei risponde.
Di chi dunqne ti lagni
, ripiglia il
Coro, se niuno colpa al tuo male? Oimè!
(dice il
Ciclope)
il forestiere mi ha fatto bere, egli è quel perfidoNiuno,che
mi ha privato del lume dell’occhio.
Si mette poscia all’entrata della caverna,
perchè non n’esca alcuno. Ma il Coro L’avverte che vanno uscendo:
Da qual
parte?… Volgi a man destra… no no, corri alla sinistra… di qua… di là, di nuovo alla
destra… più su, ora più giu.
Il Ciclope si volge a seconda delle parole del
Coro brancolando; ed essendo in tal guisa aggirato Ulisse ha luogo di uscire, e con tutti i
compagni, col Coro e con Sileno si salva sulla nave, deridendo il
Ciclope che inutilmente freme e minaccia.
II.
Ilarodia.
Non molto diversa dalla tragedia era il dramma detto Ilarodia o Ilarotragedia. Per l’idea lasciatane da Ateneo era una favola festevole di lieto fine, nella quale intervenivano personaggi grandi ed eroici, ma vi si dipingevano i fatti che ad essi accadevano come uomini, e non come eroi. Il Tarantino Rintone che visse sotto Tolommeo Lago, sembra che avesse accresciuto il numero degli spettacoli teatrali de’ Greci con queste nuove favole, che dal suo nome chiamaronsi ancora Rintoniche. Ateneo cita il di lui Anfitrione e l’Ercole recandone un frammento. Giulio Polluce nomina tre altre favole di Rintone, cioè due Ifigenie, in Aulide e in Tauri, ed il Telefo. In qual guisa egli maneggiasse questi argomenti tragici scostandosi dalla tragedia senza cadere nella commedia, non si divisa da que’ pochi frammenti che se ne adducono. Un altro elegante scrittore d’ilarodie fu Simo Magnesio, del quale favella Aristotile presso Ateneo, e da questo Simo gli attori ilarodi chiamaronsi altresì Simiodi. Coltivò parimente questo genere Scira nativo di Taranto, di cui Ateneo stesso dice che fu uno de’ poeti Italici, e si sa che Italiche si dissero ancora le favole del di lui compatriotta Rintone. Il Meleagro è una favola di Scira di cui recammo un frammento nel tomo I delle Vicende della Coltura delle Sicilie.
III.
Magodia.
Approssimavasi l’ilarodia alla tragedia, e la magodia non molto si
allontanava dalla commedia. Aristosseno
affermò che l’ilarodia era
il dramma più importante dopo della tragedia, e la magodia dopo della commedia. Da principio
questa farsa limitavasi a rappresentare gli artificii e le imposture de’ maghi, e de’ salsi
medici. Secondo Ateneoa
essa non esigeva nè molta fatica nè molta spesa, e gli Spartani se ne compiacevano come di
uno spettacolo assai proprio per la loro frugalità. Essi v’introducevano ladroni che rubavano
frutta e cose simili, e medici specialmente forestieri. Dicelisti
chiamaronsi fra gli Spartani gli attori Magodi: Fallofori presso i Siciliani: Voloni o Volontarii fra’ Tebani: Autocabdali si
dissero dagli altri Greci orientali: e Fliaci nella Magna Grecia. È intanto
cosa degna di nolarsi come in tante regioni abitate da’ Greci si fossero congiunte verso i
medesimi soggetti le stesse idee d’imposture mediche e magiche. Ma i
Greci non furono soli ad accoppiarle. Vedremo appresso che gli Arabi aveano
dialoghi, ne’ quali satireggiavano gl’impostori medici, maghi ed astrologhia. Nel
Nuovo Mondo tra’ selvaggi medico e mago erano quasi sinonimi.
Uno de’
primi e più intendenti Storici dell’America
(dice Robertsonb)
restò sommamente colpito in vedere questa connessione fra la magia e la
medicina in mezzo a i popoli dell’Ispaniola. Ciò però non era particolare ad essi soltanto.
L’Alexis, il Piayas, l’Autmoins, e
qualunque fosse il nome che distingueva i loro indovini, o ciurmatori in altre parti
d’America, erano tutti medici delle loro rispettive tribù nella stessa maniera che i Bulistos nell’Isola Ispaniola.
IV.
Parodia.
>La Parodia, di cui credesi inventore Ipponatte, non fu in Grecia soltanto un artifizio usato di passaggio nelle loro favole da Epicarmo, Carcino, Eupoli, Ermippo, Aristofane ed altri comici, i quali, come dicemmo, convertivano in ridicole le più energiche espressioni tragiche con lievi cambiamenti; ma formò eziandio uno spettacolo e una farsa particolare così chiamata. Nel secolo di Filippo il Macedone il più celebre parodista fu Eubeo Pario sommamente ammirato da’ Siciliani. Caro però oltre ogni credere fu agli Ateniesi certo Egemone Tasio soprannominato Lenticola scrittore e attore di parodie citato da Camaleone Ponticoa Rappresentava un giorno nel teatro di Atene quest’industrioso attore una sua parodia, quando dalla Sicilia vennero le amare novelle di una disfatta luttuosa, e quantunque la maggior parte degli spettatori piangesse coprendosi il capo per avervi perduto qualche parente, tutti però si trattennero nel teatro; sia per occultare agli altri Greci la loro perdita, sia per certa spezie di riguardo avuto per questo favorito parodo. Fu egli una volta chiamato in giudizio come reo; ma Alcibiade di propria mano cancellò gli atti formati contro di lui.
V.
Mimi.
Dal verbo μιμὲομαι imitor, ricavasi la voce Mimo; e
quello che appartiene a tutte le arti d’immaginazione, non che alla poesia drammatica,
siccome bene avvertì Giulio Cesare Scaligeroa,
divenne poi nome
particolare di un picciol dramma, e quindi di una specie di attori. Erano da prima i Greci
mimi un’azione morale in dialogo, e nulla aveano di osceno e buffonesco. Sofrone Siracusano
figlio di Agatocle e di Dannasillide contemporaneo di Euripide si esercitò felicemente in
questi piccioli onesti mimi, che si chiamavano ηθολογοι, morali. Secondo le
dipinture che vi si facevano appartenenti ad uomini o a donne, i suoi mimi scritti in
dialetto Dorico si dissero Virili o Femminili. Suida,
Esichio e Aristotile col Castelvetro e Riccoboni e Robortelli e Minturno pretesero che
Sofrone scrivesse in prosa. Francesco Patrizio coll’autorità di Demetrio Falereo e di Ateneo
dimostra di aver Sifrone composto in versi; e versi in fatti sono i frammenti che si
conservano de’ suoi Trofei Femminili e Virili. Il Mazzoni, il Vettori, il
Beni, il Nisieli sono dell’avviso del Patrizio. Niccolò Calliachio vorrebbe conciliare tali
dispareri, dicendo esser probabile che
i Mimi di Sofrone fossero
scritti parte in versi e parte in prosa come la Satira Menippea di Terenzio Varrone ed il
libro che porta il nome di Petronio Arbitroa. Simili questioni in altri tempi
accendevano vive guerre tra’ Critici; ed oggi si ascoltano, nè senza ragione, come ciance
pedantesche e pascolo di una curiosità passeggiera. Platone che dalla sua repubblica
escludeva i poeti, pregiava altamente i Mimi di Sofrone. Diogene Laerzio afferma che egli se
ne valeva per ammaestrare e perfezionare gli Ateniesi; e Quintiliano dice che egli si
addormentava tenendo il di lui libro sotto il guancialeb. Stazio dà a Sofrone
l’aggiunto d’implicito
(Sophronaque implicitum
) dovendo parere il di lui stile
astruso e difficile, benchè
condito d’ingegnosa socratica ironia.
Figliuolo di Sofrone fu Senarco parimente mimografo commendato dagli antichi. Suida lo chiama
comico, assicurando che egli ad insinuazione del tiranno Dionigi tacciò i Regini di
codardiaa. Gli antichi rammentano ancora un mimografo nomato Filistione; ma
Suida pretende che fosse stato contemporaneo di Socrate; ed Eusebio di Cesarea afferma che
viveva trecento anni dopo, cioè a’ tempi di Augusto. Non sarebbe (dice m. Le
Fevre) strana cosa che Eusebio si fosse ingannato; ma potrebbero parimente due diversi
scrittori di mimi, l’uno coetaneo di Socrate, l’altro di Augusto, aver portato lo stesso
nome. Certo è però che il meno antico di essi, se furon due, non inventò i mimi, come
erroneamente asserì Cassiodoro che ne
fu ripreso dal
Calliachioa.
Appresso degenerarono i Mimi in rappresentazioni buffonesche e basse, e gl’Itifalli, specie
di attori Mimici, rappresentavano ubbriachi, adulteri, ruffiani e meretrici. Erano da prima
attaccati alla commedia, e si recitavano o nel principio formando una introduzione, o’ nel
mezzo come per tramezzo, o nel fine come conchiusione dello spettacolo; ma a poco a poco
vennero a separarsene. Ecco come ne favella Diomede coll’autorità di un frammento di
Suetonio:
Ne’ primi tempi tutto ciò che introducevasi nella scena
s’incorporava alla commedia. Pantomimi, Pitauli e Corauli tutti in essa cantavano e
consabulavano. Ma questi rappresentatori non potevano mostrar sempre la loro eccellenza,
perchè quando i Comedi rendevansi celebri nell’arte pretendevano passar per capi e
regolatori di tutto lo spettacolo. Di quì nacque che non volendo
gli attori mimici esser tenuti da meno nell’arte di rappresentare, si divisero dalla
commedia e l’esempio eccitò altri rappresentatori ancora a separarsene, lasciando ai Comedi
la nuda commedia, e così ciascana specie di attori diessi a rappresentar separatamente le
proprie farse.
Si confuse intanto la voce Mimo, e dinotava ora un dramma così detto, ora un attore buffonesco. Nell’ultimo significato la prese Diodoro Siculo parlando dell’indole di Agatocle portato a buffoneggiare. Per basso attore ridicolo l’usò ancora Polibio presso Ateneo, allorchè scrisse del re Antioco Epifane che si avviliva tra’ Mimi, e con esso loro gettavasi nel suolo, gestiva e ballava.
VI.
Pantomimi.
Tra tanti attori mimici che separaronsi da’ Comedi, spiccarono in seguito i Pantomimi istrioni ballerini che presero il nome dal contraffare con
atteggiamenti senza parlare tutte le cose. Lasciando a parte la riferita
ambizione di tanti diversi rappresentatori, ciascuno de’ quali cercò di distinguersi da se,
vuolsi riflettere all’osservazione che soggiugniamo. La rappresentazione e la danza composero
sempre un corpo solo con la musica e la poesia. Versi non potevano cantarsi dal Coro che non si animassero con misurati atteggiamenti. Ma la poesia rappresentativa
meglio sviluppata negli episodii, si appropriò certi attori più esperti nel
declamare, cioè nel recitar versi con azione naturale e con un canto parlante il quale
sebbene accompagnato dagli stromenti non lasciava di appressarsi più al favellare che al
canto del Coro.
Allora questa classe ad altro non attese che ad
animare con vivace energica rappresentazione la poesia, usando di una musica semplice
moderata, la quale contenendo la voce nell’armonico sistema de’ toni produceva una melodia regolata nel salir dal grave all’acuto o nel calar dall’acuto al
grave, che artificiosamente imitava il parlar naturale. Rimase al Coro il pensiero
d’intrecciar carole cantando; ed in questo il canto fu più artificiale e la melodia più
espressiva spiegandovi la musica tutte le sue forze e gli artificii armonici con sempre nuove
combinazioni di tempi e di movimenti; la poesia per accomodarsi al canto fu più lirica ed
ornata; e la rappresentazione per servire al ballo fu meno naturale. Ma i movimenti
ginnastici del saltatore, il quale era nel tempo stesso cantorea, bentosto ingrossavano il fiato, e ne
rendevano debole la voce; per la qual
cosa convenne dividere tutti
gl’individui del Coro in istrioni musici dediti al solo canto e in istrioni ballerini
destinati alla danza. La rappresentazione continuò a serpeggiare per entrambi gli esercizii,
perchè tutto richiedeva espressione; ma nel canto animato dalle parole con alcuni movimenti
regolati, quale è quella de’ cori tragici o comici, ebbe minor parte che nel ballo figurato
così propriamente detto, il quale privo delle parole tutto cercò dall’azione. A misura che le
arti imitatrici si perfezzionavano, il ballo si prestava alle leggi del buon senso, e da una
capricciosa saltazione senza perchè, si volse ad imitare azioni vivaci e più simili al vero,
e lo spettacolo ne fu più desiderato. Quindi uscì l’arte pantomimica portata dagli antichi
all’eccellenza. Avanti di quest’epoca, cioè avanti che la rappresentazione indirizzasse il
ballo ad imitar favole compiute o comiche o tragiche o satiresche, e a dire in tal guisa per
mezzo de’ sensi qualche cosa allo spirito, altro non era
la danza
che una saltazione quasi senza oggetto, come il piroettave dei Dervisi
Turchi. Presso gli antichi Coribanti e Cureti essa era un rito strepitoso e bellico più che
un ballo leggiadro. I Traci spiccarono nella saltazione bellica, della
quale facevano uso ne’ gran conviti. Senofontea ci dice che
i Traci
saltarono armati scuotendo e vibrando le spade nel convito di Seute; e che in fine un
ballerino finse di essere percosso, e fu creduto morto e compianto dagli
astanti
, constanta verità si espresse la finta pugnane l’ammazzamento. Si vuole
che Androne di Catania sia stato il primoche sonando la tibia vi accompagnasse i passi e il
movimento del corpo in cadenza; e perciò presso gli antichi σικελιζειν significò saltare
b. Del
rimanente la saltazione è un esercizio che trovasi presso tutti i popoli ancor
barbari e selvaggi; e Frigii e Cretesi e Indiani ed Etiopi ed Egizii e Traci
ed Arabi ed Americani, tutti hanno avuto il loro Androne, cioè uno che prima di ogni altro si
avvisò di saltare e di muoversi a seconda del suono. Il graziosissimo Luciano dopo di avere
ironicamente commendata la saltazione fino a lodare come esperto ballerino l’eroe Merione
celebrato da Omero per l’agilità e destrezza onde scansava i colpi de’ nemici, passa a
nominare le tre principali specie di danze introdotte nella scena, la Cordace, la Scinnide e l’Emmelia. Apparteneva la
Cordace alle commedie ed era a tal segno ridicola e lasciva che da essa venne la parola
oscena cordacizo, e il cordacismo nominato da Demostene
nelle Filippiche
a. La Scinnide conviene propriamente ai Satiri, i quali
ne furono indi chiamati Scinnidi; e se ne crede autore
Sicinnone barbaro o Cretese, benchè altri l’attribuisca a Tersippo. Pare che la Scinnide
fosse anche saltazione comica usata anticamente da’ Frigii nella festa di Dionisio Sabazio.
L’Emmelia era saltazione tragica. Di tali cose possono consultarsi le opere di Giulio
Polluce, Dionisio Alicarnasseo, Ateneo e Suida, i quali alla distesa ne favellano.
I Pantomimi del Mitileneo Lesbonace presso il medesimo Luciano si chiamavano χειρισοφοι,
manu sapientes. Fino a cinque maschere soleva cangiare un solo Pantomimo
per contraffare tutti i personaggi di una favola; la qual cosa avendo osservata uno
straniere,
quest’abile danzatore c’inganna
,
esclamò, poicchè avendo un sol corpo, mostra di aver più
anime
. Il cinico Demetrio disprezzava i Pantomimi parendogli inutile e
irragionevol cosa imitare col solo gestire quello che ottimamente esprimeva la poesia e la
musica, senza che la favola ne divenisse
più perfetta. Della quale
osservazione poco contento un ballerino assai celebre a’ tempi di Nerone, pregò quel filosofo
a compiacersi di vederlo danzare senza soccorso delle parole e della musica, e quindi, ove
giusto gli sembrasse, dispreggiasse pure la danza e il danzatore. Condiscese il filosofo, ed
il pantomimo prese ad esprimere l’avventura di Venere e di Marte scoperti dal Sole e accusati
da Vulcano, le insidie di questo zoppo assumicato marito, la rete che annodava gli amanti, i
numi presenti allo spettacolo, il rossore di Venere che si raccomandava a Marte, e quanto
altro apparteneva a questa favola; ma con tale perspicuità, con tanta leggiadria, che
Demetrio attonito e rapito proruppe in queste voci:
Io ti ascolto, attore
insigne, non che ti veggo.
VII.
Neurospasti
Quali ordigni, quante molle non mette in opera il bisogno di riposare e divertirsi! Fra tanti magnifici ingegnosi spettacoli de’ Greci ne troviamo uno assai puerile. Non mancava la Grecia di ciurmatori, e tra questi alcuni che portavano il nome di Neurospasti. Essi lo prendevano da quelle immaginette, eui per mezzo di nervi e di cordicelle occulte davano movimento, facendole gestire, muovere e camminare come se fossero animate. Tali fantocci da’ volgari d’Italia nominati pupi, dagli Spagnuoli titeres e da’ Francesi marionnettes, dicevansi da’ Greci neurospasti a. Potino neurospasto soleva colle sue figurine (benchè con rincrescimento de’ buoni che vuol dire de’ pochi) rappresentare alcune burlette o spezie di mimi in Atene, e in quel medesimo teatro dove declamavansi le immortali produzioni di Euripidea. Or che perciò? Volgo, idioti, fanciulli di dieci, di trenta e di settantacinque anni, trovansi in ogni popolo. N’ebbe Atene, n’ebbe: Roma, ne hanno le patrie de’ Newton, dei Leibnitz, dei Des-Cartes, de’ Galilei e da’ Borrelli. Criticastri infelici, che non meritando neppure per la vostra superficialità di essere ascritti tra più volgari eruditi vi vantate orgogliosamente sacri ministri della filosofia, che nominate sempre, e non conosceste mai; oserete voi gonfiando la bocca rinfacciare i Potini ad Atene, gli orsi e i funamboli a Roma, i duelli de’ galli, e il teatro della teste di parrucche di Fout a Londra, gli spettacoli delle fiere e de’ baluardi a Parigi e l’arlecchino all’Italia? Scrivete pure, cianciate, stampate a vostra posta; voi sarete sempre una dimostrazione evidente del volgo e de’ fanciulli canuti della vostra nazione.