(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome II « CONTINUAZIONE DEL TEATRO GRECO E DEL LIBRO I — CAPO XIV. Commedia Nuova. » pp. 151-170
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome II « CONTINUAZIONE DEL TEATRO GRECO E DEL LIBRO I — CAPO XIV. Commedia Nuova. » pp. 151-170

CAPO XIV.

Commedia Nuova.

Niuna cosa pruova più pienamente ciò che sul bel principio ragionammo ne’ fatti generali della scenica poesia, quanto il nuovo rigore usato contro Anassandride ed il silenzio imposto al Coro, onde furono atterriti e incatenati i poeti della commedia mezzana. Questo rigore raccolse come in un centro tutte le forze del loro ingegno, e ne ingrandì l’attività. La necessità di schivarlo sugerì l’idea di una commedia che fu chiamata Nuova, senza dubbio più delioata e discreta, e meno acre delle precedenti. Di essa pare che avesse gettati i fondamenti il medesimo Aristofane col Pluto, dove abbiamo, sì, trovato un Coro, ma ben lontano dall’antica baldanza e mordacità. Anzi per ciò che si osserva nel parlarsi di una delle di lui commedie smarrite intitolata il Cocalo, da essa dee prendersi la vera sorgente ed il modello della commedia nuovaa. Ebbe Aristofane tra gli altri figliuoli Ararote, Nicostrato e Filetero, i quali e si valsero delle di lui fatiche per farsi luogo sulla scena, e composero essi pure alcune favole coltivando la commedia nuova; ed uno di essi spiccò singolarmente più nel rappresentare che nel comporreb.

Fiorì la nuova commedia nel secolo del grande Alessandro, quando la formidabile potenza Macedone dando nuovo aspetto agli affari de’ Greci, avea richiamato in Atene quell’utile timore che rintuzza l’orgoglio, rende men feroci i costumi, e induce a pensar giusto. Or perchè eccitato una volta in qualunque guisa lo spirito filosofico, rinasce l’ordine e tutto rientra nella propria classe; il gabinetto allora si separò dal teatro, nè più si agitarono quistioni politiche in uno spettacolo di puro divertimento. Si circoscrisse a dunque la commedia nuova a dilettare la moltitudine col ritrattare la vita commune, e a dirigerne le opinioni secondo le vedute del legislatore e gl’insegnamenti della morale. Rifiutò ogni dipintura particolare, perchè dalla filosofia apprese che i difetti di un solo privato sotto una potenza che tutto adegua, non chiamano la pubblica attenzione. Attese adunque ad osservare le debolezze più generali, ne raccolse i lineamenti più visibili, ne vestì un carattere poetico, e con mirabile sagacità in un preteso ritratto particolare espose alla derisione i difetti di un ceto intero. Gioconda, ingegnosa sapienza! A dispetto della magìa dell’amor proprio ha saputo astringere i viziosi e i ridicoli motteggiati ad accompagnare il riso universale e vituperar se stessi nella dipintura immaginaria. Ciascuno da se può discernere che queste idee della nuova commedia Greca passate da’ Latini a noi, in forza di governo e di costumi furono ed esser doveano posteriori alla commedia di Aristofane; e se tanti critici pedanti condannano i poeti comici allegorici chiamandoli marrani, maremmani, auzini, e notandone gli artificii come sconcezze; ciò avviene perchè non seppero nelle loro fantastiche Poetiche giammai distinguere tempi, generi e costituzioni, nè seguire con ordine la marcia, per così dire, dell’umano ingegno e delle diverse società civili nel loro nascere e progredire.

Contavansi tra’ principali coltivatori di quest’ultima delicata commedia gli Apollodori, Demofilo, Posidio, Difilo, i Filemoni e Menandro. Tanti sono stati gli Apollodori, che l’erudito Scipione Tetti (infelice letterato napoletano condannato al remo come reo d’impietà per avere della divinità parlato con troppa imprudenza) ne compose un dotto trattato impresso in Roma nel 1555 insieme colla Biblioteca di Apollodoro tradotta in latino da Benedetto Egioa. Degli Apollodori che coltivarono la poesia teatrale, se ne trovano tre, uno Siciliano di Gela, un altro Ateniese, e l’ultimo Carifio. Essi fiorirono nel tempo della commedia nuova. Non sono però gl’intelligenti sempre d’accordo circa le favole intitolate Galatae, Ephebi, Lacaena, Icetes, Hecyra latinizzata da Terenzio, non sapendo a qual di loro esse si appartengano. Il Meursio le attribuisce all’Ateniese il quale secondo Suida ne compose quarantasette, e fu cinque volte dichiarato vincitore. Si dubita se sieno dell’Apollodoro Carifio o del Geloo gli Adelphi, Dauli, i Pafu, Danae, Anfiarao, i Filadelfi, Sisifo, ed altre commedie mentovate da Polluce, Stobeo, Fozio, Suida, Ateneo, Festo e Plutarco. Al Carisio si attribuisce la favola detta Mactata, della quale Grozio reca questo frammento, τό γηρας εστιν αυτὸ νοσημα, la stessa vecchiaja è un morbo .

Del poeta Difilo che meritò il soprannome di κωμικωτατος, comicissimo, come ad Euripide si diede quello di tragicissimo, oltre a varii frammenti rapportati da Ertelio e da Grozio, è mentovata da Ateneoa la favola intitolata Saffo, alla quale dà per innamorati Archiloco e Ipponatte. Alcune delle di lui favole furono trasportate nel teatro latino da Marco Accio Plauto. Di Demofilo e Posidio incontriamo altresì alcuni frammenti; ma da una commedia del primo detta Onagos Plauto compose la sua Asinaria.

Due Filemoni vanta la Grecia tra poeti della nuova commedia. Filemone il maggiore nacque e visse in Siracusa secondo Suida; ma Strabone afferma che nascesse in Soli o Pompejopoli nella Cilicia. Egli fiorì regnando Alessandro Magno poco prima di Menandro, e di anni novantaquattro in circa mori sul teatro ridendo smoderatamente, dopo aver composte novanta favole, delle quali Giulio Polluce, Ateneo e Stobeo hanno conservati varii nomi, e Grozio ne ha raccolti i frammentia Il di lui figliuolo natogli in Siracusa portò il nome di Filemone il minore, e fu contemporaneo di Menandro, e più volte con lui contese per la corona scenica, e quasi sempre il vinse. Menandro riputavasi di gran lunga a lui superiore, e mal soffrendo di vedersi a Filemone posposto, il punse un dì con questo motto conservatoci da Aulo Gellio: Senza andare in collera, dimmi di grazia, Filemone, quando ti senti proclamar mio vincitore, non arrossisci? Filemone il giovane compose cinquantaquattro commedie. Non increscerà vederne qui tradotto un frammento conservatoci del suo Mercatante recatoci da Grozio:

A.

Questa legge fra noi regna in Corinto.
Se alcun veggiam che prodigo banchetti,
Gozzovigli alla grande, interroghiamo
Tosto chi sia, che ordisca, con quai fondi
Ei si sostenti. Se avvien che fornito
Sia di mezzi da spender senza modo,
Lasciam che a suo piacer tripudii e spenda.
Ma se troviam che oltre il poter profondi,
Bentosto gli si vieta, e se al divieto
Non obedisca, gli s’impon la multa.
Chè se nulla ei possegga, e così splendida
Vita pur meni, incontanente al boja
È consegnato, e posto alla tortura.

B.

Alla tortura!

A.

Senza dubbio. E parti
Che a quel modo colui senza delitti
Viver potrebbe? Intendimi tu bene?
Egli o di notte ruba, o fa la vita
De’ vagabondi, o di cotal genia
Complice è certo, o giuntatore, o vende.
L’opera sua per attastare il falso.

Ma Menandro Cefisio figliuolo del Capitano Diopete e discepolo di Teofrasto spiccò sopra tutti i contemporanei e successori. Egli nell’olimpiade CXV nobilitò la commedia nuova, e scrisse cento e otto, o cento e nove commedie; ma solo otto volte fu coronato nel certame. Egli fu il modello di Terenzio, il quale di quattro di lui favole si valse, cioè dell’Andria, della Perintia, dell’Eunuco, del Tormentatore di se stesso. Citansi ancora con molti elogii altre sue commedie, il Colace, il Fasma, la Taide, della quale si ha questo frammento,

Colloquia mores prava corrumpunt bonos,

i Fratelli, di cui si conservano questi versi

Communia amicos inter, non pecuniæ
Tantum, sed et mens pariter et prudentia,

l’Incensa, di cui Grozio traduce quest’altro squarcio,

Pereat male qui uxorem ducere
Instituit primus, tum secundus qui fuit,
Tum tertius, tum quartus, tum postumus,

e la commedia intitolata Plozietta (Plotium) imitata da Cecilio il più accreditato Comico Latino. Non lieve argomento del pregio di queste ed altre favole di Menandro si è L’uso ed il saccheggio fattone da’ poeti Latini. Oggi in essi se ne ammirano le invenzioni ma sfigurate come per lo più sogliono essere le copie. «Se leggiamo (dice Aulo. Gellioa) le commedie Greche di Menandro, Posidio, Apollodoro, Alesside ed altri nelle traduzioni latine, ci riempiono di diletto, e pajono scritte con grazia e venustà da non potersi migliorare. Quando poi si esaminano minutamente, e si confrontano le copie cogli originali, quando se ne alterna la lettura, comparisce la debolezza de’ Latini, i quali disperando di emularle con dignità, alle bellezze native sostituiscono le proprie immondizie.» In pruova di ciò Gellio adduce la nominata commedia Plotium recata in latino da Cecilio. Tutto quello che Menandro espresse con giudizio, nitidezza e piacevolezza, Cecilio si studiò inutilmente di voltare in latino con ugual leggiadria, per la qual cosa si appigliò al partito di saltarne alcune cose, riempiendo il voto con qualche cicalata meramente mimica. Eccone un esempio (prosegue Gellio) cui giova premettere L’argomento della favola. Una figliuola di un cittadino povero deflorata senza che nulla ne sapesse il padre e rimasta incinta, benchè passasse tuttavia per pulcella, a suo tempo partorisce. A questo punto disastroso giugne un servo dabbene, e stando già presso alla soglia, senza veruna prevenzione dell’accaduto, ode i gemiti e le grida della meschinella in procinto d’infantare, e come uomo di buon cuore e pieno di affetto per la famiglia prende parte nella di lei sventura, teme, si adira, sospetta, compassiona e si attrista. Tutte queste patetiche commozioni dipingonsi nella commedia greca, le quali nella latina divengono pesanti, pigre, snervate, disadatte alle circonstanze e spogliate di ogni grazia. Dopo ciò il servo a forza dì domandare viene in chiaro del succeduto, e presso Menandro così favella:

O quanto è sventurato il malaccorto
Che nulla possedendo a nozze corre,
E di figliuoli caricarsi brama!
Quanto mal si consiglia! Egli non pensa
Ciò che conviensi, pien del suo disegno
Che tristi giorni e lunghi guai gli appresta.
Ei dal bisogno oppresso, angusto tetto
Non ha per ricovrasi, e d’ogni cosa
Avendo inopia tra miserie geme;
E si difende mal dall’aspro inverno
Reso di povertà fido compagno.
Da ciò che ad un rinfaccio, ogni altro impari.

Cecilio non si altenne ad esprimere questi semplici concetti naturali e veri, ed altri ne sostituì, e troncò, stravolse e riempiè di tragica gonfiezza i sentimenti del Comico Greco:

Il povero pur troppo è sventurato
Carico di figliuoli e di miserie.
Nulla a lui si perdona: i suoi difetti
Manifesta ciascun senza ritegno.
Ma del ricco gli errori e le follie
Il folto stuoi de’ bassi adulatori
A gli occhi altrui, per suo guadagno, invola:

Fin quì Gellio. Un altro de’ più pregevoli frammenti di Menandro parmi quello recato da Plutarco nell’opuscolo de Consolatione ad Apollonium, che noi consultata la traduzione del Silandro così rechiamo in italiano:

Se quando al dì la madre tua ti espose
Con questa legge tu fra noi venisti,
Che a tuo piacer girar dovesse il mondo:
Se tal felicità propizio un nume
A te promise, a gran ragion ti sdegni:
Poichè la fe che ti giurò non serba.
Ma se alla stessa legge, a cui soggetto
Nasce ognun, tu nascesti; a parlar franco
Ti lagni a torto, e tollerar dovresti,
E più dritto pensare. Uomo alfin sei,
Ne dell’uom v’ha chi più repente ascenda,
O più repente giù piombar si vegga
E strisciar per lo suolo. E ben gli stà;
Chè infermo oltre ogni creder per natura,
Oltre ogni creder temerarie imprese
Tentar non cessa, e vi s’involve, e tutti
I beni suoi precipitando perde.
Tu poi ne di tant’alto al fin cadesti,
Ne de’ mali è il maggior quel che ti avvenne.
Or come saggio, se a’ capricci esposto
Di fortuna pur sei, t’acqueta e soffri.

In simili bellissime reliquie di Menandro ammirasi una locuzione nobile si che non eccede la comica mediocrità, e vi si sente quel grazioso sapore che stuzzica il gusto e non amareggia il palatoa Con perdita irreparabile della poesia rappresentativa niuna di tante sue favole potè salvarsi intera dal tempo distruttore e da’ preti Greci del Basso Impero. Ma perchè le mirabili sue dipinture della vita civile e le preziose sue riflessioni filosofiche riferivansi a gara nelle migliori opere de’ sacri scrittori Cristiani, non che de’ più illustri filosofi gentili, se ne sono conservati molti versi. Il più onorevole testimonio del merito di questo Comico filosofo, si è il verso di una sua commedia che leggesi nella I epistola dell’Apostolo san Paolo a’ Corintii. Or chiunque aspiri a riuscire nella commedia nobile, cerchi di approfittarsi delle incomparabili reliquie che ne abbiamo, e vi apprenderà L’arte di persuadere da oratore, d’ istruir da filosofo e di dilettar da poeta comicoa. Per norma ancora della gioventù rapita d’ ordinario dal proprio fuoco prima a scrivere che a pensare, si vuol ripetere quello che di sì gran Comico riferisce il Giraldi nel XII dialogo delle Storie de’ Poeti coll’autorità di Plutarco e di Acrone. Menandro non mai si applicava a verseggiar la favola prima di averne formato tutto il piano e ordinate le parti. E sì gran caso faceva di simil pratica, che ordita che avea la traccia dell’azione, tutto che non ne avesse composto un solo verso, diceva di aver terminata la commedia. Ora che si dirà di que’ commediografi, i quali ci avvertono nelle loro prefazioni di essersi essi trovati imbrogliati dopo di aver distesi due atti de’ tre di una loro commedia, non sapendo di che trattane nel terzo? Questo terzo doveva pensarsi interamente avanti di animar colla locuzione la prima scena. La natura non produce una per volta le parti di una pianta, ma tutte in picciolo le racchiude nel germe che prende poscia a disviluppare e nutrire. Bisogna imitarla:

                Ubbidienti
Fian le parole, ove la merce abbondia.

In questa guisa appunto L’intendeva Menandro, la delizia de’ filosofi, L’oggetto di tanti elogii, la misura de’ voti di tanti poeti drammatici, il modello di Terenzio.