(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome I « LIBRO PRIMO — CAPO IX. Teatro di Euripide. » pp. 134-207
/ 1560
(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome I « LIBRO PRIMO — CAPO IX. Teatro di Euripide. » pp. 134-207

CAPO IX.

Teatro di Euripide.

Era Sofocle già vecchio, quando Euripide lasciata la palestra degli Atleti, tutto si dedicò alla poesia tragica, e di anni diciotto osò metter fuori la prima sua tragedia. Ardua impresa per sì pochi anni gareggiare colla rinomanza di un Sofocle. Pure quali ostacoli non vince l’attività, l’ingegno e lo studio? Egli vi si accinse con alacrità e coraggio, vi si accinse con tutti i soccorsi onde i frutti poetici si stagionano per l’immortalità, avendo appresa da Prodico l’eloquenza, e da Anassagora le scienze fisiche, e vi si accinse con quella indefessa attenzione indispensabile per disviluppar l’ingegno e rintracciar le vere bellezze di ogni genere. Egli per natura malinconico ed avverso alla mollezza cercò negli orrori e nel silenzio di una caverna nel l’isola di Salaminaa tutto l’agio per insinuarsi negli avvolgimenti segreti del cuore umano, e per istudiare a dipignere al vivo le passioni. Con tali mezzi pervenne a saper meglio di ogni altro l’arte di parlare al cuore, e di rapire gli animi maneggiando un patetico sommamente dilicato nè più usato sulle scene Ateniesi, per cui Aristotile davagli il titolo di Τραγικωτατος, tragico in supremo grado . Certo il suo stile si distingue da quello de’ predecessori per l’arte mirabile di animare col più vivace colorito tutti gli affetti e quelli spezialmente che appartengono alla compassione. Euripide (dice Longino) è veramente assai industrioso in esprimere tragicamente il furore e l’amore, nelle quali passiani riesce felicissimo. La frequenza e la gravità delle sentenze, e una ricchezza filosofica ne caratterizzano lo stile; di modo che i Greci l’appellavano filosofo tragico, e davano alla sua filosofia l’aggiunto di coturnata. Si appressa, secondo Quintiliano, al genere oratorio con tale riuscita che a niuno de’ più eloquenti rimane inferiore. É perciò che non meno Demostene che Cicerone, grandissimi oratori del l’antichità, col l’esercitarsi nello studio delle tragedie di Euripide, pervennero al colmo nel l’arte loro; per la qual cosa Gian Vincenzo Gravina nella Ragion Poetica chiama le tragedie di Euripide vera scuola di eloquenza . Egli è non per tanto per questa medesima ragione che si allontana talvolta dal vero dialogo drammatico. Gli s’imputa altresì, nè senza fondamento, da Aristotile nella Poetica, un poco di negligenza nel condurre e disporre le sue favole; ciocchè pruova ch’egli poneva più cura a ritrarre la natura che a consigliarsi col l’arte. Secondo alcuni egli scrisse settantacinque tragedie; ma contando le diciannove intere che ne rimangono e i frammenti di molte altre raccolti nella bella edizione del Barnes, si può con altri asserire con più ragione che ne componesse fino a novantadue, otto delle quali erano favole satiriche. Gli Ateniesi le accolsero sempre con avidità ed applauso, e la posterità più sagace le ha successivamente ammirate; ma nel certame drammatico cinque sole di esse riportarono la corona, e nelle altre egli soggiacque alla sventura de’ valentuomini per lo più posposti a’ competitori ignoranti ma raggiratori. Tale era Senocle (figlio del tragico Carcino anteriore ad Euripide) che più di una volta venne a lui preferito da’ giudici, al dir di Eliano, sciocchi o subornati.

Le tragedie che ne abbiamo intere sono: Elettra, Oreste, Ifigenia in Aulide, Ifigenia in Tauri, Elena, Alcestide, Ippolito coronato, Ecuba, Andromaca, le Trojane, Reso, Medea, le Fenisse, le Supplici, gli Eraclidi, Ercole furioso, Jone, le Baccanti, il Ciclope. Per mettere con chiarezza sotto gli occhi quanto stimava necessario per intelligenza della favolà, egli fece uso del prologo, là dove Sofocle con miglior consiglio senza prologo esponeva a meraviglia lo stato del l’azione.

Nel l’Elettra appunto per l’introduzione rimane Euripide a Sofocle inferiore. Egli nella riconoscenza di Oreste e della sorella perderebbe anche al confronto di Eschito per cagione della vivacità che in questo è maggiore; ma quella immaginata da Euripide la supera in verisimiglianza, avvenendo con molta proprietà per mezzo del l’ajo di Oreste e per una cicatrice che questi avea sulla fronte sin dalla fanciullezza. Sofocle però vince in tal riconoscenza e l’uno e l’altro per l’effetto che produce in teatro; perocchè Oreste creduto morto che si trova inaspettatamente vivo, apporta la rivoluzione della fortuna di Elettra, e la fa passare da un sommo dolore ad una somma gioja. Il carattere di Elettra da Euripide vedesi dipinto molto più feroce e veemente che dagli altri due tragici. Elettra si prende da se stessa la cura di uccidere la madre, e manifesta l’artifizio con cui pensa di trarla nella rete, disegno e fierezza atroce in una figlia, che nè anche è mitigato dalle savie prevenzioni che osservammo in Eschilo. Maqual è mai l’artifizio di Elettra? Chiamar Clitennestra nella propria casa perchè l’assista nel finto parto imminente. Era però verisimile che una madre la quale lasciavala perire nel l’indigenza, volesse appunto in quella occasione ripigliare la materna tenerezza? Tuttavolta il poeta fa che Clitennestra vada per tal menzogna a trovar la figliuola; ma quando? quando già era stato da Oreste ucciso Egisto in un solenne sacrifizio. Un fatto di tanta importanza avvenuto pubblicamente poteva ignorarsi con verisimilitudine dalla regina? Malgrado però di simili negligenze, che noi schiettamente rileviamo, ma senza il fiele de’ nemici del l’antichità, la tragedia di Euripide ci sembra piena di moto e di calore; i costumi vi si veggono vivacemente coloriti, e le passioni vi sono espresse con grande energia.

L’Oreste, una delle di lui tragedie coronate, seguita la materia del l’ Elettra. Egli non solo è perseguitato dalle Furie vendicatrici, ma è vicino ad esser punito per l’uccisione della madre. Si legge nel l’atto primo un breve dialogo di Elena e di Elettra sua nipote, le quali si motteggiano in una maniera poco conveniente al tragico decoro. Nel terzo si dipinge l’Assemblea Argiva, la quale par che alluda al l’Areopago di Atene, e vi si satireggiano di passaggio alcuni oratori contemporanei del poeta, circostanza per noi perduta ma importante per chi allora ascoltava. Vi si osservano da per tutto tratti assai popolari, quasi comici, e lontani di molto dal gusto moderno. Ma la scena di Elettra con Oreste nel l’atto quarto sommamente tenera merita di essere ammirata come degna di sì gran tragico. Vaga parimente è l’amichevole contesa di Pilade e di Oreste.

Ifigenia in Aulide è uno degli argomenti da Euripide maneggiati con forza e bellezza particolare. Vi trionfa per ogni parte la meravigliosa sua maestria nel trattar gli affetti che destano compassione. Chi ha giudizio gusto e sensibilità noterà il dilicato contrasto che fanno nel l’atto terzo le innocenti naturali domande d’Ifigenia, e le risposte equivoche e patetiche di Agamennone, la di lei sincera gioja nel l’abbracciare il padre, ed il profondo dolore di costui nascosto sotto l’esteriore serenità e allegrezza forzataa. Voglionsi appunto osservar negli antichi questi bei tratti per ravvisarne l’alto ingegno e la maestria, e non già le macchiette d’irregolarità e qualche accidentale espressione poco pensata. È questo il fuoco elettrico rinchiuso nelle loro opere, il quale non iscintilla perchi non lo cura o non sa l’arte di farlo scappar fuori. Lo compiango coloro che ne giudicano con questo entimema: le nostre principesse non fanno così, dunque gli antichi offendono il decoro . l’azione di questa tragedia acquista dal principio del l’atto quarto gran calore e movimento per l’avviso dato dallo schiavo a Clitennestra e ad Achille. Vigorosa è qui la declamazione della regina, ed il discorso d’Ifigenia tenero e patetico è sostenuto da un vivo continuo interesse, benchè cominci con una specie di rettorico esordio, augurandosi ella l’ eloquenza di Orfeo e l’arte ond’egli seppe costringere i sassi a seguitarlo . Lodovico Dolce ha mitigato in parte quel cominciamento: ma la sua versione, benchè per più riguardi degna di lode, riesce quasi sempre languida e snervata, perchè al traduttore mancava molto del calore che riscaldava l’immaginazione del tragico Greco. Se Agamennone dovea piegarsi e cangiar consiglio, per questo bellissimo discerso il dovea, nel quale la figliuola gli mette innanzi le più tenere memorie. Eccone una parte adombrata comunque siesi dalla seguente mia traduzione, che gli studiosi s’ingegneranno confrontare coll’originale:

Poichè altro non poss’io, vedi il mio pianto,
Vedimi a’ piedi tuoi. Deh padre amato
Non far che acerba senza colpa io pera.
Dolce è la vita, i rai del dì son dolci.
Guardami, caro padre, io quella sono,
Che a profferir di padre il dolce nome
Primiera appresi, quella a cui tu prima
Figlia dicesti; guardami, son io.
Me nel tuo grembo pria d’ogni altro assisa
Scherzar vedesti, e a me dicesti allora:
Deh quando fia che a nobile consorte
E di me degno e di fortuna amico
Ti vegga unita trarre i dì felici?
No, caro padre (io ti dicea pendendo
Da le tue guance ch’oggi ancora io tocco)
Non fia mai ver che in vecchia età ti lasci.
No, no, teco io vivrò: tu mi nutristi,
Io curerò di te finchè avrò fiato,
Oimè! de’ nostri detti io mi sovvengo,
Tu l’obbliasti, e vuoi ch’estinta io cada?

Segue ella sempre con egual vigore a pregare il padre, ricercandogli in mille guise le vie del cuore; ma nulla ottiene. Alfine Agamennone benchè addolorato risolutamente le dice, κάν θέλω, κάν μη θέλω, voglia io o non voglia , non per Menelao, ma per la Grecia tutta son costretto a sacrificarti. Partito il re, l’espressione d’Ifigenia è degna di notarsi. La madre ha detto, ah figlia, ah madre sventurata per cagione della tua morte ; ed ella ripiglia, la medesima misura di versi conviene allo stato mio , ovvero, come traduce il p. Carmeli,

Ahi sventurata anch’io,
Poichè lo stesso carme
Per la sciagura d’ambe
A noi convien.

Soggiugne a ciò l’erudito Brumoy: l’autore dee mai mostrarsi inteso di parlare in versi? Ma l’espressione greca è figurata, e ve ne ha delle simili altrove. Euripide stesso dice nel l’Ecuba, incomincio il canto delle baccanti , cioè prorompo in querele da forsennata. Non debbesi adunque l’espressione d’Ifigenia tradurre letteralmente per la stessa misura di versi, ma sì bene per Io medesimo lamento, come ben fece il Dolce,

Madre, misera madre.
Poscia che questa voce.
Di misero e infelice
Ad ambedue conviene.

Nuovo movimento acquista l’azione nella scena delle donne con Achille, ed il patetico delle preghiere di Clitennestra, e la pietà che ne mostra quel l’eroe, si converte in ammirazione per lo cangiamento d’Ifigenia. Ella durando il loro dialogo dovette mostrarsi sospesa e agitata da varii pensieri sulle conseguenze della difesa che di lei vuol prendere Achille. Una muta rappresentazione sommamente eloquente non veduta da’ semplici gramatici, e da freddi traduttori o critici, a’ quali fa uopo che sieno materialmente siffatte cose accennate in note marginali, dovette allora far comparire nel volto d’Ifigenia la riflessione del pubblico interesse, che a lei sopravvenne e si contrappose al primo terror della morte. Or questo salva il poeta dalla pedantesca censura del l’ineguaglianza di carattere d’Ifigenia, la quale alla prima piange e prega per sottrarsi alla morte, e poi si offre vittima volontaria del pubblico bene per acquistare, giusta la traduzione del Dolce,

Ne’ secoli futuri onore e gloria.

Un’ altra apparente opposizione sogliono fare i poco esperti al carattere di Achille, per essersi prima mostrato tutto fervoroso a difenderla, e per soffrirne poi pacificamente il sacrifizio senza nulla tentare in di lei prò. Achille avea promesso di salvarla dalla violenza; ma quando ella si offre di buon grado alla morte, secondo i principii della religione pagana, non gli era lecito più di liberarnela senza esser sacrilego, e quindi desiste dalla promessa difesa. Segue a ciò una scena assai patetica, in cui Ifigenia rassegnata a morire prende congedo dalla madre che le và rammentando i suoi più cari. Finalmente con somma perizia de’ moti del cuore umano questo grande ingegno mostra l’immenso dolore del padre più eloquente di quello che avrebbero fatto i moderni declamatori teatrali. Il Dolce così l’espresse:

Poichè fu l’innocente al loco giunta,
Dove i Greci facean larga corona
Al nostro re, come venir la vide,
Benchè fuori di tempo e troppo tardi,
Da paterna pietà gelossi il sangue,
E la pallida faccia addietro volse,
Indi col manto si coperse il volto.

Timante quel Greco pittore tanto vantato da Cicerone trasportò nel suo famoso quadro questa felice situazione. Volle ancora il celebre Racine conservarla nella sua Ifigenia. Ma egli rappresenta un’ armata divisa in due partiti pronti ad azzuffarsi, uno de’ quali è retto dal l’iracondo Achille. Ora in tal congiontura la situazione dì Agamennone che si copre il volto, è perduta, e parer debbe men bella e men propria. Essa ci fa vedere un Generale pieno del suo privato dolore, che si ricorda di esser padre e s’ indebolisce in sì pericolosa occasione. Sembra anche una contraddizione del di lui carattere, perchè da per tutto si è dimostrato più ambizioso che tenero, e per ritenere il comando ed il titolo di re de’ re era condisceso a sacrificar la figliuola. Si osservi come in varie scene e ne’ cori Euripide si vale di una misura di versi più corta come più idonea ad esprimere il dolore; e Lodovico Dolce ha seguitato in ciò l’originale, come pur ha fatto il p. Carmeli. Non è improbabile che gli atti di questa tragedia sieno sei, e che il quinto termini dopo la tenera scena del l’ultimo addio della madre e d’Ifigenia, colle parole che questa dice alle fanciulle perchè cantino in onore di Diana nella sua disgrazia. Non si vede però allora eseguito questo canto, e pare che vi manchi il coro. In tal caso l’atto sesto comincerebbe dalla nuova uscita d’Ifigenia Ἆγετε με, conducetemi ; o pure terminerebbe il quinto col coro Ἰώ Ἰώ ιδεστε, ahi! ahi! vedete , ed il sesto conterebbe il racconto che fa il Nunzio a Clitennestra e la venuta d’Agamennone che lo conferma. Il Carmeli conservando la divisione in cinque atti non solo racchiude nel quinto soverchie cose, ma lascia pochissimi versi cantati dal coro fral l’incamminarsi d’Ifigenia al sacrifizio e la venuta del Nunzio che racconta l’avventura già seguita, per la quale manca il tempo che dovea correre verisimilmente per tante cose narratea.

Ifigenia in Tauride rappresenta la riconoscenza di Oreste colla sorella sul punto di esser da lei come sacerdotessa sacrificato, e la fuga che eseguiscono secoloro menandone la statua di Diana Taurica. È da notarsi in tal tragedia la tenera scena di amicizia tra Pilade ed Oreste, colla quale termina l’atto terzo senza Coro. Maneggiata poi con gran delicatezza e giudizio è la bellissima riconoscenza per mezzo della lettera che Ifigenia pensa di mandare in Grecia ad Oreste. Fra quante agnizioni si sono esposte sulla scena, questa ad Aristotile parve una delle eccellenti, ed a noi parimente pare la più verisimile, la più vivace e la più acconcia a chiamare l’attenzione del l’uditorio, e a tenerlo sospeso. Osserviamo in questa favola che dopo la scena d’Ifigenia e Toante, il Coro canta solo nella scena quarta del l’atto quinto, Celebriamo le lodi di Febo e di Diana . Or non sarebbe questo il finale di un atto? Allora potrebbe la tragedia dividersi in quattro atti così: il primo composto del primo e del secondo della prima divisione terminerebbe col canto del Coro, O rupi Cianee che congiungete i mari ; il secondo conterrebbe il terzo, ed il quarto terminando col Coro che incomincia, Tenero augelletto che errando vai ; il terzo terminerebbe col Coro sopraccennato della quarta scena del l’atto quinto; ed il quarto comincerebbe dalla scena quinta. Ma la divisione degli atti non mi sembra la cosa più essenziale per conoscere l’eccellenza degli antichi tragici. E che importa che una situazione ben dipinta si collochi più in uno che in altro atto, purchè sia ben preparata, e se ne comprenda tutta l’arte e la vaghezza? Egli è vero che il traduttor de’ Salmi il degno autor delle Probole, il sig. Mattei stima tal divisione così importante che al suo dire niuno Europeo ha capito ancora che cosa sieno le tragedie greche , perchè niuno, a suo credere, le ha ancora ben divise . Ma questo enfatico cicaleccio oggi fa poca fortuna, e suol compararsi alle precauzioni che prendevano i sacerdoti gentili per accreditare i loro responsi e venderli per oracoli celesti.

Nella tragedia intitolata Elena si tratta di Elena virtuosa in Egitto, secondo ciò che nel secondo libro delle sue istorie ne racconta Erodoto. Vi si maneggia la fuga di Menelao con quest’ Elena ingannando astutamente Teoclimene che n’era innamorato. Per la disposizione sembra questo dramma gettato nella stampa del l’Ifigenia in Tauride; ma a mio giudizio cede a questa assai in patetico, in moto, in nobiltà e in interesse.

Nel l’Alcestide che si offre vittima volontaria alla morte in cambio di Admeto suo marito, desidererei che gli stupidi biasimatori degli antichi leggessero attentamente l’atto secondo per impararvi a dipignere la natura con forza e vivacità. Alcestide moribonda, e poi senza vita, i suoi figli, il marito, il Coro, formano un quadro così compassionevole che farà cader la penna dalla mano a chi oggi voglia esercitarsi nella poesia tragica. Il contrasto però di Admeto col padre, e i rimproveri ch’egli fa a quel povero vecchio, cui non è bastato l’animo di morire in vece del figlio, potevano forse tollerarsi presso i Greci; ma fra noi sembreranno sempre ingiusti, inurbani, e in niun modo tragici. Non per tanto si dee riflettere che Euripide era un gran maestro, nè avrà egli presentato a’ suoi compatriotti una cosa che potesse contradire ai loro costumi e alle passioni dominanti di que’ tempi. Certo è che la ripugnanza di morir per un altro, che mostra l’istesso padre di Admeto, fa trionfare sempre più l’amor conjugale di Alcestide.

Ippolito coronato produsse al poeta la corona tragica sotto l’Arconte Epamenone nel terzo anno della guerra del Peloponneso, avendo Euripide trentacinque anni. Contiene la morte d’Ippolito per la falsa accusa di Fedra sua madrigna ed amante. S’ inganna però chi crede che si dicesse coronato (Στεφανηφορος) dalla corona riportata dal poeta. Altre favole conseguirono la corona teatrale ne’ giuochi Olimpici o in Atene, e niuna si vede che ne avesse tratto il nome di coronata. Ippolito dopo il prologo viene in teatro con una corona in testa che indi offerisce a Diana, e per questa corona che egli porta, ricevè quel l’aggiunto; della stessa maniera che l’Ajace di Sofocle s’intitolò Μαστιγοφορος per la sferza ch’egli portava in iscena. Nel l’atto primo partito Ippolito resta solo il Coro e si trattiene sullo stato di Fedra; or non potrebbe esser questa la fine di un atto? Ma vi è attaccata anche la scena di Fedra la quale naturalmente par congiunta colla prima del l’atto secondo. Quella felice distrazione di Fedra egregiamente dipinta da Giovanni Racine, Dieu que ne puis-je assise , è una bellezza originale di Euripide. Fedra in mezzo alle donne del Coro, assistita dalla nutrice, piena della propria passione, distratta, fuori di se, secondo la mia versione, favella in Euripide in tal guisa:

Fedra

Ah perchè non poss’io spegner la sete
Nel l’onda pura di solingo rio?
Perchè sul verde prato al rezzo assisa
I miei mali ingannar non mi è concesso?

Nutrice

Che mai ragioni, o mia Regina? Ah pensa
Chi t’ascolta, ove sei. Scopron que’ detti
Le tempeste del cuore,
Della mente i delirj.

Fedra

Al monte al monte.
Seguiam la traccia de’ fugaci cervi.
Giova aizzare il cacciatore alano
Col grido eccitator. Tessalo dardo
Brandir, lanciar ver la tremante preda.

Nutrice

Deh ritorna in te stessa: in quai ti perdi
Vani pensieri! Oimè, cacce, foreste,
Ombre, ruscelli… A queste torri appresso
Limpidi fonti non vi sono e piante?

Fedra

Dive di Linna, a presedere elette
A l’esercizio de’ corsieri ardenti,
Deh perchè non poss’io con questa mano
Generoso destrier domare al corso?

Nutrice

Ma, Principessa, ancor vaneggi? I cervi
Ora inseguivi per le alpestri rupi,
Or domi al piano un corridore? Un dio

Fedra

Misera me! Che parlo? Ove son io?
La ragion m’abbandona, è vero! Un nume
Avverso e crudo me la toglie! Ah sono
Pur sventurata! Ti avvicina, amica,
Ricomponi i miei veli onde mi avvolga.
Di me stessa ho rossor; coprimi, dico,
Nascondi agli occhi altrui questo che il volto
M’inonda e bagna involontario pianto.
Sento che avvampo di vergogna. O cruda
E pur cara follia! L’error mi piace,
La ragion mi contrista. Ah cedi al fato,
Cedi, meschina, al tuo delirio, e mori.

La scena del l’atto secondo, in cui Fedra manifesta alla Nutrice la cagione del suo male, fu ancora trasportata quasi interamente dal Racine nella sua tragedia, a riserba di uno squarcio molto delicato, in cui Fedra risponde alle istanze della Nutrice:

Ah prevenirmi perchè mai non puoi?
Perchè non dir tu stessa
Ciò che forza è scoprire?

Per altro l’illustre tragico francese score più rapido e con maggior nerbo, nè si ferma come fa Euripide a far dire da Fedra alla Nutrice, sai tu che mai sia una certa cosa che si chiama amore? e giudiziosamente si appiglia subito a quelle parole, conosci tu il figlio del l’Amazone? Anche la scena di Teseo ed Ippolito del l’atto quarto è stata dal Racine copiata maestrevolmente; ma la greca riesce più tragica e importante per lo spettacolo di Fedra morta. Racine in somma si è approfittato da grande ingegno ch’egli era, della tragedia greca; ma avendo preso un cammino alquanto differente, ne ha dovuto perdere non poche bellezze, come il dolore di Teseo per la morte di Fedra, e la tragica scena d’Ippolito moribondo. Il racconto della di lui morte è vagamente ornato ma con sobrietà e naturalezza nel Greco, e soverchio pomposo e poetico nel tragico Francese. Osserva il lodato Brumoy che al l’incontro del mostro il poeta Greco pieno del terrore che ne presero i cavalli, non presta ad Ippolito altro pensiero se non se quello di governarli. Seneca gli diede maggior coraggio facendolo disporre ad assalire il mostro. Racine passa più oltre, e fa che arrivi a lanciare un dardo che lo ferisce. Nel che (soggiugne quel l’erudito) si scorge il progresso della mente umana che tende sempre alla perfezione. Lo ardisco dissentire dal di lui avviso. Ognuno de’ tre potrebbe trovare qualche partigiano che ne approvi l’immagine che rappresenta; ma il Greco a me sembra assai più internato nella verità del l’orribil caso. E questo ne addita lo spirito de’ Greci ognora intento a copiare con esattezza la natura e lo spirito de’ moderni propenso a spingerla oltre, a manierarla, a preferire al vero lo specioso. Questo confronto degli autori antichi e moderni in un medesimo argomento è il vero modo di pesarne il merito rispettivo, e di studiare nel tempo stesso l’arte drammatica con fondamento. In simil guisa si rileva l’artificio usato da diversi scrittori nel maneggiare le passioni, materia essenziale della poesia drammatica che non varia per tempo nè per luogo. Il tacciar quelli o questi per le maniere, per un decoro locale, variabile e incostante, al pari della moda (siccome fanno certi critici moderni) è un far la guerra agli accidenti e sfuggire la sostanza della contesa, è un volere allucinar volontariamente se stessi e chi loro crede. Di grazia quando anche accorderemo a Udeno Nisieli, a Pietro da Calepio e ad ogni altro che Ippolito trafitto dalla sventura che soffre immeritamente, sia trascorso in una espressione che sente alcun poco d’irreligione verso gli dei, che cosa avremo appreso de’ pregi inimitabili di questa bella tragedia? I giovani non ne sapranno se non che un neo forse in parte scusabile per la veemenza della passione che rare volte lascia al l’uomo tutto l’uso della sua ragione. E forse da queste critiche esagerate su i difetti più che su i pregi degli antichi proviene la moderna non curanza delle favole greche, e l’idolatria per le romanzesche degli ultimi tempi.

Con altro disegno leggeva i Greci il saggio Racine, e ne ritrasse il vantaggio di rendersi superiore a tanti e tanti tragici. Con altra ammirazione e imparzialità giudicano de’ Greci i veri dotti e i critici profondi. Rechiamo l’eccellente parallelo fatto dal l’ab. Le Batteux del l’Ippolito di Euripide e della Fedra del Racine. Egli osserva in generale che la tragedia francese è più complicata, più involta in vicende, in intrecci, in episodii, che la greca. Essa ha più parti, e queste hanno bisogno di maggior arte per conciliarsi insieme, e quindi riesce più difficile il formarne un tutto naturale. Vi entra maggior numero di passioni, alcune delle quali punto non sono tragiche. L’anima di chi si trattiene negli spettacoli moderni è così sovente sollevata dall’ammirazione e dal l’entusiasmo che abbattuta dal terrore e dalla pietà; sente in somma la sua forza mentre indi a poco si accorge della sua debolezza. Non è così della tragedia greca, la quale sembra odiare tutto ciò che può distrarre dal dolore. Dessa è perfettamente semplice. Una sola azione incominciata dal punto che può interessare si estende dal principio al fine, si avanza, s’imbarazza, scoppia finalmente, diremo così, pel fermento di certe cagioni interne, dalle quali gli effetti si disviluppano con diverse scosse sino alla catastrofe. Bellissima graduazione! Essa addita alla gioventù l’arte vera di tessere un dramma, che consiste in porre sotto gli occhi un’ azione che vada sempre crescendo per gradi, finchè per necessità scoppi con vigore; e non già in ordinare una catena di elegie e declamazioni; perchè queste in vece di avvivare le passioni per renderle atte a commuovere, seguendone il trasporto progressivo, le fanno divenir pesanti e fuor di proposito loquaci; e quindi stancando la mente senza mai parlare al cuore, diminuiscono l’interesse, ed in conseguenza l’attenzione di chi ascolta. «Tutto (prosegue Le Batteux) vi si trova disposto come nella natura. Non dee lo spettatore affaticarsi, non esercitare il suo ingegno. Il dolore nella natura si abbandona a se stesso e non ha più forza; e lo stesso dee seguire nelle opere del l’arte emule di quelle della natura.» Entra poscia l’erudito autore nel confronto delle due eccellenti tragedie. Rende egli i dovuti encomii alla Fedra, ma conviene ancora che l’azione del l’Ippolito sia una ed unica, e che tutto vi avvenga con maggiore verisimiglianza «Racine congiunge al l’azione principale l’azione episodica d’Ippolito e di Aricia che comprende più di quattrocento versi.» «Due amori, due confidenze, due dichiarazioni d’amore l’una accanto al l’altra.» «Nel l’Ippolito non si ragiona della morte di Teseo.» «Questa morte non è in verun modo preparata nella Fedra, nè produce altro effetto che d’incoraggire la regina a dichiarare ad Ippolito il suo incestuoso amore.» «Più decenza in Euripide che in Racine. «Fedra appresso il Greco confessa il suo amore non come una passione ma come un delitto; ed il secreto è svelato ad Ippolito dalla Nutrice non ostante il divieto di Fedra.» «Presso il Francese la stessa Fedra confessa una passione sì vergognosa, la confessa innauzi a tutti gli spettatori, sposa del padre al figliuolo, e nel primo istante che si crede morto il marito.» «Euripide ha saputo conservare il pudore del poeta e degli attori. «In Racine l’interesse dominante si divide tra Fedra, Ippolito e Teseo: in Euripide è tutto per Ippolito dal principio al fine.» «Tutto è lagrime in Euripide: lagrime di Fedra, lagrime d’Ippolito, lagrime di Teseo, lagrime del Coro e della Nutrice; tutto spira dolore e tristezza, tutto è veramente tragico.» «Il dramma di Racine è una serie di quadri grandi di amore: amor timido chegeme, amore ardito e determinato; amor furioso che calunnia, amor geloso che spira sangue e vendetta, amor tenero che vuol perdonare, amor disperato che si vendica sopra se stesso; ecco la tragedia di Racine «Altrettanti quadri si trovano nel l’Ippolito; ma quanto più sostenuti, quanto più austeri! I caratteri quanto non sono più virtuosi e più nobili nella tragedia greca!»  «Niun tratto, niun movimento, niun dialogo che raffreddi la pietà degli spettatori.».  «Giovane, ornato di nobili costumi, sofferente nella calunnia senza accusare il calunniatore, rispettoso e tenero col padre benchè ingiusto, Ippolito non lascia un sol momento di agitare e tirare a se tutti i cuori sensibili.»  «Fedra in Racine per varie ingiustizie e violenze intepidisce la compassione, ed il poeta con arte somma si affanna per coprirne e discolparne i difetti.» «Teseo attrae a se tutto l’interesse dell’atto terzo.» «L’amore d’Ippolito per Aricia vietato dal padre quanto non toglie al carattere del giovane eroe, virtuoso sempre, sempre degno di compassione in Euripide, debole qualche volta, qualche volta ozioso nel poeta Francese!» Termina Le Batteux questo giudizioso eccellente parallelo con attribuire alle nazioni il diverso carattere del l’uno e del l’altro poeta. «L’amico di Socrate non sarebbe stato mai cosi mal accorto di presentare ai vincitori di Maratone e di Salamina un Ippolito amoroso ed avido d’intrighi.» «Il poeta Francese ha dovuto lusingare la debole delicatezza della sua nazione; ed Euripide nelle stesse circostanze non si sarebbe altrimente comportato, ed avrebbe avuta la stessa indulgenza per un popolo che dovea essere il suo giudice.»

Questo esame degno della dottrina, del discernimento e del gusto del l’autore riputato delle Belle arti ridotte a un principio, compensa solo tutte le fanfaluche affastellate lungo la Senna contro gli antichi dal Perrault, La-Mothe, Terrasson, e dal marchese d’Argens, il quale colla solita sua superficialità e baldanza asseriva che i poeti tragici francesi tanto sovrastano agli antichi, quanto la Repubblica Romana del tempo di Giulio Cesare superava in potenza quella che era sotto il consolato di Papirio Cursore. Aggiugniamo qualche sentenza sparsa nel Saggio sul Gusto di Cartaud de la Vilade, affinchè il leggitore, dopo avere ammirato nel surriferito bel parallelo un prezioso monumento del buon gusto e del giudizio degli ottimi critici della Senna, possa divertirsi con un piacevole contrasto del gusto vero col fantastico, di una scelta crudizione colla leggerezza, e del dotto Le Batteux col bello-spirito La Vilade. Questo moderno derisore degli antichi si mostra nauseato di quel l’Ippolito che Euripide ci dipinse, sembrandogli un Cavaliere fort peu galant ; e per maggior trastullo di chi ciò legge, dice (pag. 48) colla solita sua sicura lettura e martellata erudizione, che questa tragedia è di Sofocle. Avventuratamente però per Ippolito La Vilade non ragiona con più fondamento e dottrina sul l’Achille del l’Ifigenia, supponendolo un innamorato, e trovando nella di lui passione un accento soprammodo grossolano. Si consolino intanto questi Greci Principi, c con essi Omero tacciato di non aver saputo descrivere i giardini di Alcinoo secondo il gusto di quelli di Versailles, perchè questo formidabile Gradasso non tratta con maggior gentilezza il resto de’ Greci, de’ Latini, degl’Italiani, degli Spagnuoli e degl’Inglesi. Per lui Erodoto narra da uomo ubbriaco ; Tucidide è pieno di difetti essenziali e di racconti fuor di proposito , senza piano e senza verisimilitudine nelle aringhe; Polibio non è uno storico, ma bensì una specie di parlatore che fa riflessioni sulla storia; gli Oratori Greci, senza eccettuarne Demostene, sono spogliati di ogni savia economia necessaria a condurre gli animi allo scopo prefisso; Pindaro è un poeta volgare e senza entusiasmo ; Pitagora ed Archimede fanciulli in matematica incantati per la novità ad ogni picciolissimo oggetto. Questo Saggio che ben può chiamarsi del mal gusto, e del l’imperizia di Cartaud si accompagni colle sessanta pagine del Cavaliere di Saint-Mars sopra la letteratura degli antichi. Per quest’originale de’ Marchesini della scena francese le ode di Orazio Flacco sono più oscure della notte, cattive, insoffribili, le di lui satire e l’arte poetica un ammasso di nojosità, mostruosità e disordini. Egli ammirava la pazienza de’ Romani nel l’ascoltare Cicerone chiacchiarone che non la finisce mai; essi doveano (aggiugne) aver la testa d’une furieuse trempe per resistere a un torrente di loquacità che nulla dice… Ma è dunque una fatalità che gli antichi e chi li ammira, abbiano ad esser perseguitati dai più ridicoli e dai più sciocchi delle moderne nazioni!a

Varii argomenti ha somministrato ad Euripide la Guerra Trojana e gli eventi che ne dipendono. Oltre alle Ifigenie ed Elena, egli scrisse Ecuba, Andromaca, le Trojane e Reso che ci sono pervenute intere, e Palamede, Filottete, i Trojani, delle quali rimangono pochissimi frammenti.

L’Ecuba si aggira sulla morte di Polissena e sulla vendetta del l’assassinamento di Polidoro. Parmi in essa singolarmente eccellente la scena di Ulisse con Ecuba e Polissena nel l’atto primo, dove coloro che intendono ed amano le dipinture naturali, si sentiranno scoppiare il cuore per la pietà. Nel patetico racconto della morte di Polissena nel l’atto secondo si ammirano varii tratti pittoreschi e tragici, come il nobile contegno di Polissena, che non vuole esser toccata nel l’attendere il colpo; il coraggio che mostra nel lacerar la veste ed esporre il petto nudo alle ferite,

Ella poichè si vide in libertate
Volgendo gli occhi in certo atto pietoso,
Che alcun non fu che i suoi tenesse asciutti,
La sottil vesta con le bianche mani
Squarciò dal petto insino al l’ombilico,
E il suo candido seno mostrò fuori;

e finalmente il nobile atto di cadere con decenza dopo il colpo così espresso dal Dolce, cui appartengono anche i versi precedenti:

Cadd’ ella e nel cader mirabilmente
Serbò degna onestà di real donna.

Le riflessioni morali di Ecuba su i buoni e i cattivi, sul l’educazione e la nascita, dopo tale funesto racconto, sembrano per altro intempestive. Serpeggia per tutto il dramma una forza tragica terribile; ma nel l’atto terzo si tratta della morte di Polidoro, per la quale l’azione è manifestamente doppia, benchè tutta si rapporti ad Ecuba. Nella scena in cui le si enuncia la morte di Polidoro, osserva Pietro Brumoy che vi sono sparse alcune strofette, alle quali forse si congiungeva una musica più patetica. Le comprese il Dolce, e seguì l’originale, traducendole in versi più piccioli; la qual cosa, con pace del calabrese Mattei, fa vedere che gl’interpreti de’ tragici Greci compresero il loro artificio per ciò che la musica riguarda. Egli stesso non fece di più nel tradurre questa medesima scena in maniera, com’egli dice, diversa dalla Salviniana. Non saprei però dissimulare che il Terzetto preteso vi si è formato a piacere nella guisa che potrebbe formarsi, volendosi, anche nelle tragedie Inglesi o Russe, non che nelle Greche. Tale terzetto poi sì capricciosó, secondo me, rallenta l’impeto della passione espressa con veemenza dopo le parole καταρχομαι νὸμων Βακκειον, incipio numeros Bacchicos , o, come traduce Erasmo, cantionem Maenadum ingredior , e dal Mattei amplificate con poca precisione. Egli dice:

            Son io? vaneggio?
Qual furor mi trasporta? È cruda furia
Questa che il cor, la mente, infiamma, accende,
Lacera e squarcia? Io fuor di me già sono,
Comincio a delirar.

Dopo ciò mi sembrano ben freddi i versi, da’ quali comincia il terzetto,

Dunque è ver? o questo è inganno?

A un furore da baccante che trasporta Ecuba fuori di se, far succedere un dubbio sul fatto? Ma questo dubbio corrisponde al senso ed alla lettera del l’originale? Ecuba con tutta sicurezza del suo infortunio e con enfasi afferma che vede una strage inopinata, incredibile, tutta nuova. Or perchè cambiar questo pensiero in peggio? Non crederei che il signor Saverio peritissimo nella greca lingua, e nel modo d’interpretarla, si fosse fatto ingannare dalla voce απιστα, quasi che Ecuba non credesse vero quel che avea sotto gli occhi. Sa egli bene che questa voce qui manifesta l’enorme, atroce, stupenda serie di disgrazie che l’opprime. Osserviamo in oltre che ne’ Greci i cantici per l’ordinario non hanno luogo se non conosciuta perfettamente la sventura. Ma in questo squarcio che si è voluto convertire in un terzetto moderno si va cercando ancora l’autor della morte di Polidoro. Ecco come traduce il citato Erasmo poco allontanandosi dagli altri interpreti:

            Quo jaces
Fato? peremit te quis?

Fam.

Me latet; at hunc in littore offendi maris.

Hec.

Ejectum ab undis, an trucidatum manu?

Fam.

In littus arenosum
Marinus illum fluctus aestu ejecerat.

Hec.

Hei mihi ec.

Tutto ciò nel l’originale è parlante, e (secondochè oggidì si maneggia in teatro la musica, e si maneggerà finchè il sistema non ne divenga più vero) sarebbe anche ora contrario al l’economia musicale il chiudere simili particolarità in un duetto o terzetto serio, perchè essi, a giudizio del celebre Gluck, abbisognano di passioni forti per dar motivo al l’espressione della musica. I cori di questa tragedia sono tratti dal soggetto e pieni di passione non meno che di bellezze poetiche. Veggasi quello del l’atto primo, in cui le schiave Trojane sollecite del loro destino vanno immaginando in qual parte toccherà loro in sorte di essere trasportatea. Quello del l’atto terzo mi sembra il più patetico, ed il Dolce ne ha fatto una troppo libera imitazione. A noi piacque di tradurlo ancora; ed affinchè i giovani avessero una competente idea de’ Cori di Euripide, c’ingegnammo di ritenere un poco più le immagini e lo spirito del l’originale senza violentare il genio’ della nostra lingua:

Patria (ahi duol che n’anchide!) Ilio superbo,
Or più non fia che a le nemiche genti
Inaccessibil rocca Asia ti appelli,
Che già di Greche squadre un nuvol denso
Ti copre e cinge, e desolata e doma
E vinta giaci, e de le altere torri
Già la corona in cenere conversa
Nereggiano de’ muri i sassi informi
D’orride strisce di fuligin tinti.
Ahi più non ti vedrò! Mai più le vaghe
Tue spaziose vie,
Non calcherà il mio piè! Memorie amare!
Avea mezzo il cammin la notte scorso,
Quando fin posto a le solenni danze
E a’ lieti canti un placido sopore
Aggrava le pupille. Inerme ingombra
Già il mio consorte le sicure piume
Nè a’ liti intorno pei Trojani campi
Sorgon le Argive tende. Io che raccolte
Le sparse trecce e in vago giro avvinte
Entro bende notturne, il mar mirando,
Al geniale talamo mi appresso,
Arme arme, ascolto in marzial tumulto
Per la Frigia città gridar repente:
Cessate, o Greci? Ah se veder v’è caro
Le native contrade, ite, abbattete,
Cada il forte Ilione… Il dolce letto
Lascio allor sbigottita in lieve avvolta
Semplice gonna: di Diana al l’ara
Mi prostro e piango, oh vani prieghi e pianti!
Tratta per l’onde io son, misera! e veggio
Trucidato il consorte, acceso il cielo
Di funeste faville, Ilio distrutto,
E le vele nemiche ai patrii liti
Pronte a tornar, e da l’Iliaco suolo
A svellermi per sempre! Il duol m’oppresse,
Caddi abbattuta, mille volte e mille
Elena detestando e il suo rattore,
E le adultere nozze, e di un avverso
Genio persecutor l’odio potente,
Che l’avito terren m’invidia e fura.
Deh la femmina rea sempre raminga
Erri in balia de’ minacciosi flutti,
Nè i patrii tetti a riveder mai giunga!

L’Andromaca di Euripide non contiene l’azione del l’Andromaca di Racine, perchè questa è la vedova di Ettore che teme per la vita di Astianatte, e nella tragedia Greca è la stessa Andromaca, ma già moglie di Pirro, che teme per la vita di Molosso avuto da questo secondo matrimonio. Oggi desta più compassione il nobile dolore di Andromaca vedova di Ettore, che la semplicità del l’azione di Andromaca moglie di Pirro. È notabile nella tragedia di Euripide il carattere di Ermione renduto poi senza dubbio dal Racine più delicato, e diventato ognor più vero, attivo e vigoroso nel l’ambiziosa Vitellia del Metastasio. Non sono più tollerabili sulle nostre scene le ingiurie scambievoli di Andromaca ed Ermione presso Euripide. Osservisi ancora che nel l’atto quarto Ermione ed Oreste fuggono da Ftia per andare a Delfo ad uccider Pirro, e nel quinto si narra in Ftia questa uccisione già avvenuta in sì poco tempo, e vien portato il cadavere di Pirro, la qual cosa sembra sconcezza che offende ogni verisimilitudine.

Nella tragedia intitolata le Trojane si tratta la morte di Astianatte insieme col destino delle prigioniere fatte in Troja. Le profezie di Cassandra nel l’atto secondo, e l’addio che ella dà alla madre e alla patria, sono degne di osservarsi, e rassomigliano in parte a quelle di Eschilo nel l’Agamennone. Squarcia poi i cuori ancor meno sensibili il dolore di Andromaca nel l’atto terzo al vedersi strappar dalle braccia Astianatte. Ma le traduzioni non giungono a darne a conoscere tutto il patetico, e molto meno questa nostra che si ristrigne a un solo passo spogliato della situazione della scena:

Figlio, viscere mie, da queste braccia
Ti svelgono i crudeli. Ah tu morrai,
E di tuo padre il nome,
Che tanti ne salvò, ti fia funesto.
A che sei tu d’Ettore figlio, io sposa?
Per dominar sul l’Asia
Non per morir tra’ barbari sì tosto
Credei produrti, o figlio….
Oh dio! Tu piangi?
Prevedi il tuo destin. Perchè mai stringi
L’imbelle madre tua e ti raccogli
Nel seno mio, quale augellin rifugge
Sotto l’ali materne? Ahi non è questo
Più un asilo per te. Mori già Ettorre,
Nè dal l’avello, per serbarti in vita,
Fia che risorga. Di sostegno privo,
In man del crudo inesorabil Greco
Chi piò rapirti al precipizio orrendo?
Ahi dolce oggetto de’ timor materni,
A ciò ti porsi il seno e del mio sangue
Io ti nutrii?.. Vieni, ben mio, ricevi
Gli ultimi amplessi, i tuoi sospiri estremi
Fa ch’io raccolga… Oh barbari, spietati,
Inumani, tiranni e che vi fece
Un misero fanciullo? Il furor vostro
A disarmar non giunge
Quella tenera età, quel l’innocenza?
Oh al vinto e al vincitor fatale ognora
Elena, furia a’ Greci e a’ Frigii infesta.

Reso è una tragedia senza prologo, e senza que’ tratti patetici proprii di Euripide; ma in contracambio ha molta arte nel dialogo e aggiustatezza nella distribuzione del l’azione, particolar pregio di Sofocle, per la qual cosa pretende alcuno che ad esso, e non ad Euripide, appartenga; benchè altri, come Samuele Petito, la tolga ad ambedue, attribuendola a un tragico del loro tempo chiamato Aristarco; e Scaligero ne faccia autore un altro ancor più anticoa. Non à però il parere men sicuro quello del Barnes e del Carmeli che la stimano di Euripide, se si attenda tanto al l’antico consentimento di moltissimi critici che sempre l’annoverarono tralle di lui tragedie, quanto alle molte espressioni del Reso famigliari a questo tragico. N’ è l’argomento lo stratagemma di Ulisse che con Diomede ammazza questo re di Grecia nel campo Trojano. Nel l’atto quarto comparisce Minerva ad Ulisse e a Diomede, la quale vedendo sopraggiugnere Paride, per salvarli fa che il Duce Trojano travegga, e la prenda per Venere, mentre i suoi favoriti non lasciano di ravvisarla per Minerva. Tali cose allora convenivano ai principii e alle opinioni de’ Greci, nè parevano assurde e stravaganti. Lo scioglimento avviene per macchina (come in gran parte delle tragedie antiche) per mezzo della Musa Tersicore madre di Reso, la quale apparisce in aria sopra di un carro, tenendo il di lui cadavere sanguinoso sulle braccia.

Medea è una delle più terribili tragedie del l’antichità, donde trassero la materia tante altre che ne portano il titolo. Contiene l’atroce vendetta presa da Medea contro Giasone, Creonte e la di lui figliuola. Degno singolarmente dì osservarsi è lo squarcio del l’atto quarto, dove Medea intenerita co’ suoi figliuolini li abbraccia e li rimanda, gli compiange e gli destina alla morte, ascolta i moti della natura e la tenerezza di madre, e sente risvegliare i suoi furori alla rimembranza del l’infedeltà di Giasone. Il racconto della morte della nuova sposa di Giasone e di Creonte padre di lei è terribile. I figli che cercano scampar dalla madre che barbaramente l’inseguisce e li riconduce dentro e li trucida, formano un movimento teatrale sommamente tragico. Quello che mai non piacerà in questa favola, è il personaggio di Egeo introdottovi senza veruna ragione per preparare un asilo a Medea della cui salvezza lo spettatore è ben poco sollecito dopo l’orrenda esecuzione della spietata sua vendetta. Ma il poeta diligentissimo in ogni incontro in dar risalto a tutte le remote tradizioni e antichità patrie, non ha voluto omettere il ricetto che trovò Medea presso Egeo. Notisi però che la vendetta da lei presa contro Giasone ne’ proprii figli avuti da lui, non è istorica ma immaginata dal poeta. Medea lungi dal l’ammazzare quegl’innocenti nell’accingersi alla fuga, li depositò in Corinto in un tempio supponendolo asilo inviolabile. Ma i Corintii che odiavano quella straniera, li uccisero, siccome narrano Parmenisco, Didimo e Creofilo presso lo Scoliaste di Euripide sulla Medea. E per ischivar l’infamìa che ad essi ne ridondava, si avvisarono probabilmente di guadagnar qualche poeta per attribuirne l’assassinamento alla stessa madre. Carcino poeta anteriore ad Euripide introdusse Medea che si discolpava di tale imputazionea. Ma Carcino non ebbe credito tale da distruggere una tradizione istorica sostituendovi una sua invenzione; e perciò non sembra inverisimile che i Corintii avessero ricorso ad Euripide poeta esimio il quale, sia per dare, a cagione del l’idio naturale che avea contro del sesso donnesco, un carattere odiosissimo a una donna, sia per essersi fatto corrompere con cinque talenti, come asserisce il nominato Parmenisco, compose la sua tragedia facendo rea la madre stessa del l’uccisione di que’ fanciulli, e la menzogna per l’eccellenza del poeta passò alla posterità come storia. Certo è che Elianoa afferma esser fama anche ai suoi tempi (fiorendo egli dopo Adriano) che i Corintii solevano offerire quasi in perpetuo tributo alle ombre di que’ pargoletti certi sacrfizii espiatorii.

Le Fenisse (altra tragedia coronata di Euripide) contiene la morte di Eteocle e Polinice figli di Edipo e Giocasta avvenuta nell’assedio di Tebe. Lodovico Dolce che ne fece una libera imitazione, ne tolse il prologo, e fe che Giocasta narrasse a un servo tutti gli evenimenti passati di Edipo. E perchè narrare al servo ciò che era pubblico e noto a ogni Tebano? Scarsezza d’arte. Havvi poi in Euripide una scena fra un vecchio ed Antigone che da un luogo elevato osservano l’armata Argiva, e ne vanno descrivendo i capi, che è una imitazione felice di un passo del III libro del l’Iliade pure dal Tasso trasportato nella Gerusalemme. Il Dolce non si curò di questa bellezza, e la sua scena rimane sterile. Nè anche l’ebbe in pregio il signor di Calepio, cui sembrò inverisimile che Antigone stando sulle mura di Tebe assediata potesse vedere e distinguere i personaggi del campo Argivo e le loro armature. È da credersi che prima di avventurar questa censura quel dotto Critico si sarà assicurato della distanza del campo e del l’altezza delle mura, per convincere di inverisimiglianza Omero, Euripide e Torquato. La scena vigorosa di Giocasta co’ figli è degna di particolar riflessione per la maestrevole dipintura de’ due fratelli ugualmente fieri ed accaniti nel l’odio reciproco, ma di carattere diversi, e per lo dolore della madre che s’interpone e cerca di contenerli e disarmarli.

Le Supplici si aggirano sule conseguenze del l’assedio di Tebe, e sulla sepoltura negata da’ Tebani ai Capi Argivi, là dove le Supplici di Eschilo parlano delle Danaidi. Pur queste due tragedie hanno tra loro qualche relazione nella condotta. Lo spettacolo della prima scena delle Supplici di Euripide dovea produrre un pieno effetto. Etra madre di Teseo sta col l’offerta in mano a piè del l’altare in mezzo a’ Sacerdoti: il tempio è pieno di donne che portano rami di olivo: Adrasto red’ Argo resta nel vestibolo colla testa velata circondato da’ figliuolini delle Argive in atto supplichevole. Oltre a molti altri tratti patetici, vi si trovano varie allusioni alle Greche antichità e tradizioni, la qual cosa, come altrove accennammo, di rado si trascurò dai Greci tragici per mostrare l’antichità remota delle loro leggi ed origini e de’ loro costumi a gloria della nazione.. Nel l’atto II però Teseo risolve di portar la guerra a Tebe, ed appena incominciato l’atto III la guerra è fatta, e Teseo torna vincitore. È ciò avvenuto per miracolo? Vi è corso un tempo verisimile? Può censurarsi come difetto di verisimiglianza osservato anche nell’Andromaca.

Ercole furioso sino al l’atto III tratta della giusta vendetta presa da Ercole contro il tiranno Lico oppressore degli Eraclidi: negli ultimi due atti cambia di oggetto, ed una Furia chiamata da Iride viene a turbare la ragione di Ercole a segno che questi di propria mano saetta i figliuoli. Nulla di più tragico, di più vivacemente dipinto di questa deplorabile strage, in cui eccitano ugual compassione il saettatore e i saettati.

Euristeo fatal nemico di Ercole ne perseguitò la posterità, minacciando guerra a chiunque osasse ricoverarne i figliuoli. Iolao nipote di quell’eroe e la vecchia Alcmena di lui madre insieme co’ piccioli figliuoli cacciati di città in città fuggono in Atene all’ara della Misericordia sotto il governo di Demofonte e Acamantea. Copreo araldo di Euristeo viene a domandarli, Demofonte ricusa di concederli, e si accende aspra guerra tra gli Ateniesi e gli Argivi, per cagione degli Eraclidi, cioè de’ figliuoli di Ercole, onde prende il titolo questa tragedia. L’erudito Udeno Nisieli ossia Benedetto Fioretti ne’ suoi Proginnasmi intento tratto tratto a mettere in vista i più lievi difetti degli antichi, ed ora ad ingrandirli ora ad immaginarseli, in tal guisa parla di questo dramma: Negli Eraclidi l’ambasciador di Euristeo si parte da Atene protestata la guerra a Demofonte, ritorna a Micene, si congrega l’oste e viensi contra Atene; fassi la guerra, nascene la vittoria, con altri successi da riempiere storie più che da formare una tragedia. La favola cominciata e condotta in simil guisa subito sveglierà ne’ leggitori l’idea di un dramma Cinese o Inglese o Spagnuolo, che comprenda più azioni seguite in molti anni. E pure la tragedia degli Eraclidi ne contiene una sola, cioè la vittoria riportata sopra Euristeo a favor degli Eraclidi, e ristretta dentro un discreto periodo di tempo. Ecco quello che vi si legge. Gli Argivi armati alla rovina degli Eraclidi, stando a’ confini di Atene mandano un araldo a richiederli a Demofonte, e nel caso di negativa ad intimargli la guerra. L’araldo Copreo per eseguirne l’ordine viene in Atene, e la tragedia principia colla sua ambasciata, colla quale nulla ottenendo, protesta la guerra e ritorna, non già a Micene, come affermò il Fioretti, ma ad Alcatoe, dove trovasi Euristeo alla testa di un esercito congregato prima d’incominciare il dramma, e non già che si congrega dopo il ritorno di Copreo, come pur disse il censore. L’esercito muove da Alcatoe città de’ Megaresi posta fra Atene e Corinto, siccome accennò l’araldo stesso: Mi aspettano le migliaja di guerrieri comandati da Euristeo medesimo (μυριοι δε με μενουσιν ασπιστῆσις Ευριστευς τʹ αναξ αὐτός στρατηγον) negli ultimi confini d’Alcatoe (Αλκαθοε δʹ ἐπʹ εσχὰτοις). Non sono dunque tante le azioni in poco tempo accumulate, quante non so per quale utilità, volle numerarne il critico Fiorentino. Una bella aringa di Iolao per determinar gli Ateniesi a proteggere gli Eraclidi, leggesi nell’auto I. L’oracolo che comanda un sacrifizio di una vergine illustre, perchè gli Ateniesi possano trionfar degli Argivi, apporta una rivoluzione interessante, facendo ricadere gli Eraclidi in una penosissima incertezza, non essendo nè onesto nè sperabile che qualche illustre Ateniese s’induca in favore di persone straniere a versare il sangue di una propria figlia. Ode nel l’atto II questo nuovo sconcerto la vergine Macaria figliuola di Ercole, e piena di eroismo e di pietà verso i fratelli si offre vittima volontaria. Interessante e tenero n’è l’ultimo congedo ch’ella prende da essi e da Iolao. Nel l’auto III un messo riferisce la venuta d’Illo figlio di Ercole con un esercito a favore de’ congiunti. Se ne rallegra Alcmena; ma e da notarsi che verun motto ella non fa sul destino di Macaria degna di tutto il suo dolore, e per esser figliuola del proprio figliuolo, e per l’eroica azione della vergine in pro di tutta la famiglia. Nel l’atto IV riceve la notizia della vittoria d’Illo e di Iolao e degli Ateniesi, avvelenata però da quella della fanciulla immolata, ma Alcmena neppure si mostra in alcun modo sensibile alla morte di Macaria. Si racconta ancora il miracolo di Iolao ringiovenito che ha imprigionato Euristeo, bene alieno dalle nostre idee; ma gli Ateniesi udivano siffatti prodigii in teatro senza restarne ma ravigliati, per tal modo era la religione congiunta allo spettacolo. Nel l’atto V Euristeo prigioniero usa ogni viltà per ottener la vita; ma Alcmena inesorabile, contro il parere degli Ateniesi stessi, lo manda a morire. In questa tragedia ancora Euripide nulla omette che possa ridondare in onore di Atene sua patria. Sul medesimo soggetto degli Eraclidi, espresso mirabilmente da Panfilo celebre pittore maestro di Apelle, compose anche una tragedia lodata il poeta Cherefonte.

Ione, nato di Apollo e di Creusa figlia di Eretteo Re di Atene, fondatore della Ionia, è l’eroe della tragedia così intitolata. Questo Ione a se stesso ignoto e alla madre, che dipoi si congiunse in matrimonio con Suto, è allevato in Delfo tra’ ministri del tempio. Dopo il prologo fatto da Mercurio, mentre Ione attende alla cura delle cose sacre, il Coro composto di donne Ateniesi va osservando curiosamente e con molta naturalezza il vestibolo. Ione si appressa a queste straniere e fa loro osservare i quadri e i bassi rilievi, diciferandone le storie:

Ion.

Vedete quì il figlio di Giove che colla dorata falce ammazza l’idra di Lerna.

Cor.

Ben lo vedo.

Ion.

E quest’altro che gli è appresso e porta una fiaccola accesa?

Cor.

Chi è mai egli? Sembra una figura che si suole rappresentare ne’ nostri ricami.

Ion.

È Iola scudiere di Ercole Vedete quest’altra figura su di un cavallo alato in atto di ferire quel mostro di tre corpi ec.

Così è condotta tutta la scena. Virgilio in simil guisa descrive Enea che osserva le dipinture del tempio di Cartagine; ma Virgilio le anima colla passione e col l’interesse del l’eroe Trojano, perchè esse tutte rappresentano la distruzione di Troja. L’immortale Metastasio, fino discernitore delle bellezze degli antichi, si vale di questa scena di Euripide nel l’Achille in Sciro, ma sulle tracce di Virgilio rende le immagini utili al l’azione alludendo vivacemente alla situazione di Achille ozioso in quella reggia. Notabile nel medesimo atto I è la scena di Creusa e Ione che non si conoscono. Il ragionamento di Ione a Suto nel l’atto II è ben vago e naturale, e dal Racine è stato imitato nel l’Atalia e dal Metastasio nel Gioas. Così non v’ ha bellezza in Euripide che questi due grandi maestri della poesia rappresentativa eroica non abbiano saputo incastrare ne’ loro componimenti. l’altra scena di Ione e Creusa che termina l’atto IV e che dovrebbe essere la prima del V, è una di quelle che meritano maggiore attenzione. Interessa ancora per la vivacità il riconoscimento che avviene nel V; ma le domande di Ione intorno al suo nascere mettono in angustia la madre, ed il poeta è costretto a far discendere Minerva per giustificarla. Questa tragedia è assai teatrale, benchè non lasci di abbondar d’incoerenze e difetti. La situazione di una madre e di un figlio che non conoscendosi per errore si tramano la morte, è molto vaga, e Metastasio ha saputo approfittarsene nel Ciro riconosciuto, dandole nuovo interesse e forse più patetica energia.

L’argomento delle Baccanti è l’avventura di Penteo fatto in pezzi dalla madre e dalle di lei sorelle descritta da Ovidio nel III delle Metamorfosi, e forse trattata anche da Stazio nella sua tragedia Agave. Nel componimento di Euripide si osserva un carattere differente dalle altre sue tragedie. Questa si avvicina allo spettacolo satirico, e alle antiche tragedie che trattavano soltanto di Bacco. Havvi nel l’atto IV una scena totalmente comica trall’infelice Penteo già fuor di senno vestito come una baccante, e Bacco che gli va rassettando la veste e l’acconciatura. Molti tratti allusivi agli effetti del vino si veggono ne’ cori e nel rito delle Orgie di Bacco. È terribile il racconto del l’ammazzamento del disgraziato re preso per un cinghiale. Assai tragica è la scena in cui Agave riviene dal suo furore e riconosce nella pretesa fiera il figliuolo dilaniato.

Il Ciclope è un dramma satirico, ed il solo che di simil genere a noi sia pervenuto; ma di esso favelleremo nel trattar de’ Satiri.

Della Danae, del Cresfonte, dell’Auge, della Menalippe, del Meleagro, dell’Alcmena, del Telefo, della Penelope, dell’Archelao, e di molte altre tragedie di Euripide, sono a noi pervenuti appena alquanti frammenti, i quali talvolta a stento bastano per conoscerne il soggetto. Famosa tralle tragedie perdute fu la sua Andromeda per la strana malattia degli Abderiti avvenuta a’ tempi di Lisimaco. Era questa una febbre che di ordinario durava sette giorni, e riscaldava di modo l’immaginazione degl’infermi che diventavano rappresentatori. In tal periodo essi non cessavano di recitar versi tragici, e specialmente quelli del l’Andromeda come se si trovassero sul teatro. Vedevansi per le strade questi deplorabili attori pallidi e sparuti andar follemente declamando. Durò quel l’epidemico delirio finchè non sopravvenne l’inverno. Luciano nell’opuscolo intitolato In qual modo debba comporsi l’istoria, così ne racconta l’origine. Archelao buon commediante rappresentò in Abdera l’Andromeda in una state sommamente calda, e non pochi spettatori uscirono dal teatro febbricitanti. Ora avendo essi l’immaginazione piena della mentovata tragedia, altro non vedevano se non Perseo, Andromeda, Medusa, e ne recitavano i versi, imitando il modo di rappresentare del l’attore Archelao. Il morbo fu contagioso, e potè contribuirvi tanto la vivacità e l’energia di quel l’attore quanto l’azione del Sole e la natural debolezza delle teste Abderite. In fatti quella città marittima della Tracia era popolata di gente stupida e grossolana per testimonianza di Cicerone, Giovenale e Marziale, sebbene di tempo in tempo non avesse mancato di produrre diversi uomini illustri, quali senza dubbio furono Protagora, Democrito, Anassagora, Ecateo storico, Niceneto poeta ed altri mentovati da Stefano Bizantino alla voce Άβδηρα e da Pietro Bayle nel Dizionario Critico.

L’autore di tante belle tragedie, filosofo sì grande, conoscitore sì savio del cuore umano, e ragionatore così eloquente, dimorando in Macedonia per compiacere al re Archelao amatore delle lettere e di chi le coltivava, dopo di aver secolui cenato, nel ritornarsene a casa venne assalito e lacerato da mastini scatenatigli contro da Arideo Macedone e da Crateva Tessalo maligni invidiosi vesseggiatori che l’odiavano meno per la gloria poetica di cui era egli in possesso che pel favore onde il regnante l’onorava. Morì Euripide delle ferite nel l’olimpiade XCIIIa. Archelao sentì tale intenso dolore della sua perdita, che al riferir di Solino, volle recidersi i capegli, ed ordinò che in di lui onore s’inalzasse un magnifico avello nella città di Pelia. I Macedoni gloriavansi per tal modo di possederne le ossa, che unanimi negarono determinatamente di concederle agli ambasciadori di Atene che le chiedevano per seppellirle nella patria terraa; per la qual cosa gli Ateniesi, altro non potendo, gli eressero secondo Pausania un cenotafio lungo la via che conduceva da Atene al Pireo. Sofocle che ad Euripide sopravvisse, avea mentre vivea quel suo grand’ emulo, composto contro di lui qualche epigramma; ma poichè fu morto senti un dolore sì vivo e sì vero, che non meno per ciò si rendè meritevole degli applausi della posterità che per aver prodotto l’Edipo ed il Filottete. l’onorò col suo pianto, ed impose a’ suoi attori di presentarsi sulla scena senza corone, senza ornamenti ed in abiti lugubri. Con questi due rari ingegni finì la gloria della poesia tragica de’ Greci.

Discordarono gli antichi nel dar la preferenza ad uno de’ tre lodati gran tragici, Eschilo, Sofocle, ed Euripide. Aristofane nelle Rane, ed il filosofo Menedemo presso Diogene Laerzio antepongono Eschilo agli altri due. Socrate amico di Euripide sembra averlo preferito a tutti, giacchè ben di rado o non mai vedevasi in teatro, se non quando Euripide vi esponeva qualche nuova tragedia, e l’amava e per la bontà e bellezza de’ versi e per la filosofia onde gli nobilitava. Quintiliano nel libro X c. i posponeva Eschilo di lunga mano agli altri due, e fra questi affermava non potersi di leggieri decidere qual di essi fosse meglio riescito ne’ due differenti sentieri che corsero. Plutarco tuttavolta presso Stanley nelle Note ad Eschilo senza preferirne veruno sostiene che ciascuno de’ tre possedeva alcun pregio particolare, nel quale non venne dagli altri superato.

Prima di passar oltre mi si permetta qui un’ osservazione su di ciò che di questi grandi ingegni della Grecia hanno pensato sino agli ultimi tempi i loro posteri. Le nazioni moderne a misura che si sono innoltrate nella coltura hanno ravvisato nelle produzioni di questi tre gran tragici l’epoca del maggior lustro della tragedia. Si avverta però che ciò dicendo non si stima che i moderni abbiano a disperare di potere in verun tempo produrre tragedie da soffrir delle indicate della Grecia il confronto senza svantaggio. Imperocchè siamo noi di avviso che l’arte non avrà mai occasione di lagnarsi della poca fecondità della natura, celandosi in ogni genere specie varie ugualmente degne di trattarsi benchè dissimili. Dando a que’ sommi Greci l’onor dovuto, credo che voglia intendersi che la tragedia greca fondata sul sistema della fatalità appoggiata alla religione, fu da que’ tragici maravigliosi condotta al l’apice della perfezione; giudizio che senza degradare gli antichi conserva a’ moderni il dritto di aspirare a pareggiarli ed a gire più oltre ancora. Trattanto il sig. Casthilon moderno scrittore francese in un libro, nel quale si propose d’investigare le cagioni fisiche e morali della diversità del genio delle nazioni, oltre di ostentare certo barbaro disprezzo per le lingue, le lettere e le maniere aliene dalle francesi, asseri magistralmente che nelle mani di Sofocle e di Euripide la tragedia était à son berceau . Ma le ragioni che ne adduce mostrano di non essersi egli curato molto di provvedersi di lumi sufficienti per distinguere la tragedia maneggiata da’ Greci dalle specie di essa adottate da i loro posteri. La tragedia antica appoggiata al fatalismo non è stata in forma diversa trattata da’ buoni moderni, ma solo ne hanno per lo più escluso il Coro stabile. Le più belle tragedie dell’immortale Giovanni Racine sono l’Ifigenia e la Fedra; e pure si riconoscono per geniali traduzioni quasi in tutto, o almeno per imitazioni di quelle di Euripide di cui pur si desiderano fin anco da’ suoi nazionali alcune bellezze tralasciate. Quando poi i moderni partendo da altri principii e accomodandosi al gusto ed ai costumi correnti fanno uso di nuovi ordigni per cattarsi l’attenzione de’ contemporanei, essi meritano tutta la Iode. Conveniamo adunque che sono anch’essi ben riesciti: conveniamo ancora che qualche volta hanno uguagliati gli antichi nel colorire egregiamente le passioni, e che spessissimo gli hanno superati nel l’esporre, nel preparare i caratteri, nel legar le scene, nell’introdurre e far partire con giusta ragione i personaggi: conveniamo in somma del merito degli antichi e de’ moderni nel proprio genere. Ma lasciamo oramai le puerili questioni che sui soggetti geniali facevansi un secolo indietro posponendo ai moderni gli antichi. Di grazia a ragionar dritto chi ardirà sentenziare su i generi stessi senza aver ragione di tempi, di luoghi e di costumi? Chi oserà preferire il moderno sistema al l’antico senza avere in testa un guazzabuglio di fosche idee? Il fatto compruova che da più migliaja di anni nella culta Europa veggonsi sulle scene, si rìpetono, si ammirano incessantemente Edipo, Filottete, Ippolito, Ifigenia ed altri pregevoli componimenti greci. Quando il fatto deponesse con pari asseveranza in prò delle tragedie moderne: quando potesse dimostrarsi che pari evento felice avrebbero esse sortito sulle scene di Atene; pur dovremmo esser cauti nel pronunziare sulla preferenza. E decideremo ora? O savio Usbeck avrai tu in Francia parlato invano?