(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome I « LIBRO PRIMO — CAPO PRIMO. Origine della Poesia Drammatica. » pp. 2-11
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome I « LIBRO PRIMO — CAPO PRIMO. Origine della Poesia Drammatica. » pp. 2-11

CAPO PRIMO.

Origine della Poesia Drammatica.

Infuse la Provvidenza nel cuore umano un affetto indagatore che mosso dal bisogno o dal comodo o dal piacere dovea condurre l’uomo a formarsi un mondo civile, a investigar le maraviglie e il magistero del naturale, e a tentare d’internarsi ne’ segreti della divinità. Questa natural pendenza e viva brama di sapere, dalla cura e dallo studio d’indagare, chiamossi da’ Latini e poi da noi Curiosità, come quella che dalla stupida inazione dell’ignoranza ci guida al l’attività laboriosa della scienza. Scortato l’uomo da un affetto sì vivace e per indole osservatore non potè non avvedersi di alcuni barlumi e di certe faville mal distinte che nel giro delle cose vanno scappando fuori, e vengono a lui quasi spontaneamente dalla natura presentate. Le vide egli, se ne approfittò, e più oltre spingendo lo sguardo esaminò con maggior diligenza la natura, la quale essendo solita per lo più di corrispondere con una spezie di gratitudine a chi la contempla, si compiacque di premiarne le cure con manifestargli una parte de’ suoi misteri, e con alzare, per così dire, alcun poco quel velo di cui si ammanta. Nacquero da ciò le tante moltiplici osservazioni che col tratto del tempo ridotte a metodo si denominarono Arti.

Or perchè questa spinta industriosa è comune a tutti gli uomini, e la natura da per tutto risponde a colui che ben l’interroga, è chiaro a chi dritto mira, che pochissime sono le arti che da un primo popolo inventore passarono ad altri, ed al l’incontro moltissime quelle che la sola natura, madre e maestra universale, va communicando a’ varii abitatori della terra. In effetto la maggior parte delle arti di prima e seconda necessità, le quali nascono da bisogni comuni, per lo più si acquista senza esempio. Trittolemo e Cerere in Europa, Manco-Capac e Mama-Oela Huaco nel Nuovo Continente, non ostante che gli uni nulla sapessero degli altri, insegnarono a seminar le biade e a raccorle e a valersene per sostentarsi. Scorrendo per diversi climi ben si vedrà che dove la terra non si smuove co’ vomeri di ferro, si lavora co’ legni adusti: dove non si cuce cogli aghi, si adoperano le spine: dove non si taglia col l’acciajo, si usano le selci. Ma la coltivazione per obbligar la terra ad alimentarci, e le arti di accozzare e tagliar lane e cuoja per coprirci, si sono trovate in paesi lontanissimi colla scorta del solo bisogno. E forse che moltissime arti di lusso parimente non s’incontrano in varii luoghi senza esservi state traspiantate? Da sì gran tempo si dipigne, si scolpisce, si canta, si suona, si tesse, si ricama, si edifica da Pekin al Messico, ancorchè i popoli non abbiansi partecipate le loro scoperte. É noto dalla storia che le nazioni in se stesse ristrette esistono e fioriscono, e per molti secoli si guardano dal comunicare insieme, perchè quel timore che raccoglie gli uomini in società regna lungamente, e si conserva presso di esse, e le rende inospitali e inaccessibili, siccome furono per gran tempo gli Ebrei, gli Egizzi, gli Sciti, i Cinesi, i Messicani, i Moscoviti.

Ma una vanità comune a tutte le nazioni culte inspira loro l’ambizione di credersi le più antiche e le maestre del rimanente del genere umano. E un’ altra vanità forse non meno generale conduce i dotti ad attribuire alla propria nazione, o a quella da essi più studiata tutte le arti e invenzioni quà e là disseminate. Dal che è avvenuto che per una forte accensione di fantasia fondata per lo più in una radice etimologicà, in un monumento ambiguo, in un paralogismo erudito, ciascuno ha creduto di vedere prima che altrove nelle antichità predilette Fenicie, Egizie, Greche, o Etrusche, le origini di tante cose che col soccorso della sola natura l’umana ragione disviluppata ha mostrate a tanti popoli.

Finchè si studiò con pedantesca superstizione la sola Grecia, senza volgersi un solo sguardo al rimanente della terra, la storia del teatro Greco si prese per la sorgente di tutti gli altri. Ma fu un inganno che si dissipò tosto che apparve a rischiarar le menti una sapienza più sana, più sobria, più vasta, la quale insegnò con maggior fondamento a rintracciar tale origine nella natura del l’uomo ch’è da per tutto la stessa, e vi produce effetti simili. In Grecia (giusta la luce di tal sapienza) non si vuol cercare se non l’origine del teatro Greco. L’uomo (essa insegna) nasce in tutti i climi irritabile per organizzazione alla presenza delle forme esterne. Da queste, comunque avvenga, passano nella fantasìa le immagini che la rendono istruita del mondo. L’intelletto che in essa si spazia, nel vederle, separarle, combinarle, acquista la conoscenza de’ segni distintivi delle cose. Queste più o meno remotamente hanno un rapporto proporzionato alla sensazione che ne ricevè la macchina nella quale esso signoreggia e discorre, di modo che se l’urto fu piacevole, cioè se scosse con soavità la tela de’ nervi, l’intelletto apprende per bene le forme che la cagionarono: se la scossa fu dolorifica, cioè se con maggiore asprezza esse incresparono quella tela, le contempla come male. L’uomo adunque si avvezza dalla prima età per senso più che per raziocinio a suggir quel dolore e quel male, e ad appetir quel piacere e quel bene. Or che ne segue? che egli ne acquista un abito di rappresentarsene le immagini. Al sovvenirsi di quel bene, per lo piacere che gliene ridondò, cerca di tornarlo a gustare formandosene esattamente l’idoletto, e allora che l’imitazione sembragli corrispondente agli oggetti da prima conceputi, si compiace della rassomiglianza e si rallegra. E perchè non se ne ripeterebbe il diletto? Si rammenta pure, benchè da prima con certo ribrezzo, del male, cioè delle forme che gli apportarono dolore; ma a poco a poco si avvede che tale rimembranza non gli rinnova il dispiacere, e più. non ischiva di rappresentarsele, anzi si accostuma alla dipintura che se ne forma, e della verità del ritratto si compiace ancora; e quindi nasce quel diletto chè si pruova nel ripetere a se stesso o ad altri con tutte le circostanze i già passati disastri. Ora se l’uomo per natura si occupa continuamente a dipingersi le cose che lo circondano, in lui stesso si rinviene il principio di ogni imitazione, che è il perno, su cui volgesi la poesia; per la qual cosa Aristotile nella Poetica chiamava l’uomo animale attissimo ad imitare che impara per rassomiglianza.

Di tutte le imitazioni però la più naturale è quella de’ simili, ed assai vi contribuisce l’uniformità de’ sensi e dell’organizzazione e la vivacità degli oggetti. Cantano gli augelli, latrano i cani, perchè gli organi che servono al l’espulsione della voce facilitano loro l’imitazione di quelli della propria specie, i quali prima di ogni altro si avvezzarono a vedere. l’oggetto di cui l’uomo riceve da’ sensi le prime e le più frequenti notizie, è l’uomo stesso. I bambini tratti dal natural bisogno di nutrirsi si assuefanno alla vista della balia e della madre prima che si avveggano di ogni altra cosa. Fanciulli ci formiamo sugli uomini, e principalmente su quelli che ci sono più dappresso, e quindi diventiamo Don Chisciotti, o damerini, o bacchettoni, o spiriti-forti, secondochè il secolo avrà formati quelli che ne circondano, puntigliosi, effeminati, ipocriti, o filosofi orgogliosi. Veggiamo e facciamo. Perchè ungonsi di grasso i Cafri? perchè i loro padri se ne ungevano. Perchè fumano ancor tenere le fanciulle del l’Andalusia e di Lima? perchè imitano le loro madri. Se furono molli i Sibariti nella loro corruzione, magnifici e ghiottoni i Colofonii, trafficanti i Fenici, ospitali i Lucani, e i Romani superstiziosi: e se sono bellicosi e antropofagi gl’Irochesi, e i Tapui, cerimoniosi i Cinesi, pirati gli Algerini, seguono tutti l’occulta forza del l’esempio domestico che più di ogni altro è loro vicino.

A chi attribuiremo la prima invenzione del l’arte drammatica? Alla maggior parte delle nazioni. Essa s’ingegna di copiar gli uomini che parlano ed operano; è adunque di tutte le invenzioni quella che più naturalmente deriva dalla natura imitatrice del l’uomo; e non è meraviglia, ch’essa germogli e alligni in tante regioni come produzione naturale di ogni terreno.

Per natura la trovarono i Greci, e da veruno non ne presero l’esempio, siccome è chiaro a chi passo passo la vada seguitando dall’informe suo nascere per tutti i gradi de’ suoi avanzamenti. l’ebbero varj antichissimi popoli Italiani, come gli Etrusci e gli Osci, prima della fondazione di Roma, e certamente non la ricavarono da’ Greci che conobbero più tardi. Come poi sarebbe dal l’Attica passata la scenica in Italia, quando varj monumenti istorici ci assicurano, che ancora dopo molte età, per la solita primitiva gelosìa nazionale, neppure tutti i piccioli continenti Italiani si conoscevano tra loro? Il nome (non che altra cosa de’ Greci) il nome del famoso Pitagora, che secondo Ovidio visse a’ tempi di Numa Pompilio, secondo Tito Livio a quelli di Servio Tullio, e secondo Cicerone di Lucio Tarquinio Superbo, non era da Crotone penetrato sino a Roma. I Tarantini quando alla peggio oltraggiarono l’armata Romana che navigava a forza di remi avanti la loro città, non aveano, al dir di Floro a, piena notizia de’ Romani, ignorando anzi fin anche donde venissero, e pure già quegli aveano non picciolo impero in Italia. Possiamo dire che gli stessi Romani, i quali senza contrasto riceverono la Drammatica dagli altri Italiani e da’ Greci, ne trovarono nulladimeno da se stessi i primi semi benchè rozzissimi. Fuori poi dell’Europa si trovano gli spettacoli teatrali da un lato nel l’Oriente fra’ Cinesi fin da’ più remoti tempi, e dall’altro nel l’Occidente fra’ Peruviani ignoti a’ Greci, agli Etrusci, e a tutto il resto del vecchio continente.

L’uomo adunque attivo da per tutto e imitatore osserva gli uomini, si avvezza a copiarli, e passa in seguito a farsene un giuoco. Ecco l’origine de’ giuochi scenici.