(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « I comici italiani — article » pp. 724-729
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(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « I comici italiani — article » pp. 724-729

Zanarini-Bianchi Antonia. Figlia del precedente, fu dal patrigno Bacelli ammaestrata nella musica, e cantò, fanciulla, l’ultima parte in comici intermezzi a Bologna e altrove. Passata colla madre a Parigi, esordì il 21 luglio 1766 come amorosa alla Comedia Italiana negli Amori d’Arlecchino e di Camilla di Goldoni. Morta la servetta Veronesi (V.), ella ne prese il posto nel 1768, e si fece chiamare in teatro Argentina. Fu ricevuta il '69 per una piccola parte, il 10 aprile '72 a tre quarti, e poco dopo a parte intera. Nel '79, quando alla Comedia Italiana si cominciò a modificare il repertorio, e a rappresentare il più spesso opere francesi, ella diè gran prova di zelo e di intelligenza, recitando egregiamente le parti di servetta nelle commedie di Marivaux. Soppresso poi totalmente l’anno dopo il genere italiano, ella fu congedata con una pensione di mille lire annue e un indennizzo di cinquemila lire da pagarsi in due anni e in due volte, e se ne tornò in Italia con la madre e un bambino, frutto del suo matrimonio con un Bianchi, dal quale viveva separata. « I suoi meriti personali – dice Fr. Bartoli – i suoi modi graziosi e la di lei teatrale abilità forse non del tutto al teatro saranno tolti, essendo sparse alcune voci, che ci fanno sperare di rivederla ben presto sulle scene d’Italia. »

Ma dal 1781 in poi non mi fu dato rivederne il nome in alcun elenco. Quanto ai meriti personali e ai modi graziosi, il Campardon riferisce, colla scorta del Grimm, come l’inglese Tommaso Hales, chiamato comunemente d’Hèle in Francia, ove si fece conoscere come autore drammatico e fece rappresentare alla Comedia Italiana Le jugement de Midas, L'Amant jaloux, e Les événements imprevus, opere tutt’e tre musicate dal Grétry, si fosse pazzamente invaghito della Bianchi, a segno da morirne il 27 dicembre 1780, non avendo potuto indurla a rimanere a Parigi.

D'una magrezza eccessiva, stordita e senza cuore, ispirò il seguente ritratto pubblicato in un libello verso il '79 : « Si può vedere presso la signora Bianchi, detta Argentina, via dell’Amante geloso (titolo d’una delle commedie del d’Hèle), uno scheletro che cammina, mangia, digerisce e dorme come una persona naturale. Non v' ha che la testa e il cuore che non funzionano. Parla italiano, balbetta il francese, mastica l’inglese e non scortica alcuno ».

Zanarini Petronio. Fratello minore di Giuseppe e di Carlo (di cui non ho trovato notizie, ma già comico, e al tempo del’ Bartoli (1781) maestro di ballo in una città della Lombardia), nacque a Bologna ; e dopo di avere fatto qualche studio, si diede all’arte dell’intagliare in legno, nella quale riuscì un fine lavoratore. Appassionato del teatro, recitò commedie tra' dilettanti della città, mostrando subito le più chiare attitudini alla scena, tanto che, occorrendo ad Antonio Sacco un Innamorato, egli ne assunse il ruolo col mezzo del soprintendente i teatri di Bologna, la primavera del 1767. Esordì a Torino e subito fu riconosciuto attore di rari pregi ; talchè, addentratosi ognor più nello studio, riuscì in breve il più valoroso artista del suo tempo a giudizio d’uomini competenti, quali Francesco Gritti, che afferma « nelle parti dignitose e gravi, e ne' caratteri spiranti grandezza e pieni di fuoco, lui rendersi certamente impareggiabile » e Carlo Gozzi che lo chiama « il miglior comico che abbia oggi l’Italia, » e Francesco Bartoli che gli dedica nelle sue Notizie più pagine dell’usata iperbolica magniloquenza. « Una magistrale intelligenza – dice – una bella voce sonora, un personale nobile e grandioso, un’ anima sensibile ed una espressiva naturale ma sostenuta, formano in lui que'tratti armonici e varj, co'quali sa egli così ben piacere e dilettare a segno di strappare dalle mani e dalle labbra degli uditori i più sonori applausi. » Nel Padre di famiglia di Diderot, nel Gustavo Wasa di Piron, nella Principessa filosofa e nel Moro dal corpo bianco di Carlo Gozzi, nel Radamisto di Crebillon, nel Filottete (di De la Harpe ?) e in altre moltissime opere di ogni genere egli spiegava tutta la forza della sua intelligenza sia per altezza d’interpretazione, sia per forbitezza di dizione, e sia anche per esattezza scrupolosa di costumi ; al cui proposito ci avverte il Bartoli ch'egli stesso ne inventava, disegnava e coloriva i modelli, facendo poi ad altri colla sua assistenza ultimarne l’esecuzione. Nè solo del recitare si occupò, che la musica e il ballo conobbe a segno da poter cantare e danzare in commedia con garbo, quando il bisogno lo richiedeva. Amantissimo di scienze naturali, si diede all’esame del microscopio ; fu gran conoscitore di Storia civile, e si dilettò di poesia, nella quale, specie in quella del dialetto bolognese riuscì con lode. Il Bartoli annunzia il suo futuro ufficio di conduttore e direttore di una compagnia, « atta forse ad emulare le andate glorie de' prelodati Gelosi e Confidenti », ed augura possa con lui rifiorire « sulle italiche scene l’antica virtù della famiglia Andreini ».

Fu infatti lo Zanarini capocomico dal 1782, cioè dall’uscita dalla Compagnia Sacco, del cui tempo il Gozzi ci ha lasciato la seguente notizia, nell’Amore assottiglia il cervello, al 1790.

Adunque egli racconta che Amore assottiglia il cervello, commedia in verso sciolto, doveva essere, contro ogni sua volontà, recitata l’estate del 1781 a Verona. Petronio Zanarini, il migliore de'comici serj, s’era scelta la parte del protagonista, che necessariamente doveva pendere alle goffaggini facete. Egli non bilanciò nè la sproporzione dell’età sua con quella del personaggio, il giovane scimunito Don Berto, « nè la immagine, che il pubblico s’era formata del suo carattere, da cui attendeva soltanto un comico serio naturale, o un tragico maestoso declamatore di sentenziosa armonica gravità, nè la dissuasione del Gozzi stesso ». L'autore insistè su l’opinione che la parte del protagonista non conveniva al comico Zanarini, mostrando ogni timore sulla buona riuscita dell’opera, anche per la mancanza d’intreccio, e la lunghezza soverchia ; ma, per questo, i comici a cui premeva di fare un bel teatro, rispondevano col dargli del modesto e dell’umile affettato. La commedia non fu più data a Verona, nè Gozzi potè saper mai con precisione il perchè, sibbene a Venezia al teatro di San Luca la sera dell’11 dicembre 1781, dove, dopo i primi tre atti, fu accolta, secondo le previsioni dell’autore, a rumori di fischi e di urla.

Creò lo Zanarini al Valle di Roma la parte di Aristodemo nella tragedia di tal nome di Vincenzo Monti il 16 gennajo 1787 ; e pochi giorni appresso Volfango Goethe ne' Ricordi dell’ Italia scriveva : « L'attore principale in cui si concentra tutta la tragedia, si rivelò nella parola e nell’azione artista egregio. Parea di veder su la scena uno degli antichi Imperatori romani. Vestiva il costume imponente che ammiriamo nelle antiche scolture, ridotto con arte alle esigenze della scena : insomma si vedeva che aveva studiato gli antichi ». Vincenzo Monti nell’esame critico dell’Aristodemo chiama Zanarini incomparabile comico, che gli stessi francesi paragonano e molti antepongono ai più famosi della loro nazione.

E nove anni più tardi, nel 5° volume del Teatro applaudito, ove sono le Notizie storico-critiche sull’ Aristodemo, si conferma il giudizio con queste parole : « Ivi il valore del celebre Petronio Zanarini si manifestò eminentemente, sostenendo con tragica dignità il carattere di Aristodemo ».

Il carnovale dell’anno dopo allo stesso Valle, andò in iscena colla stessa compagnia la seconda tragedia di Vincenzo Monti Galeotto Manfredi, nella quale col solito grande successo lo Zanarini sostenne la parte di Ubaldo degli Accarisi (Galeotto era Giuseppe Orsetti).

Cessato di essere capocomico, si scritturò con Antonio Goldoni, primo attore con scelta di parti e direttore ; e con lui stette fino al '95, anno in cui passò con Luigi Perelli, col quale lo vediamo quell’ autunno al San Luca di Venezia sostenere per la prima volta le parti di padre. Nel 3° volume del Teatro applaudito sono per quella stagione e su quell’attore le seguenti parole : « Fu sempre eguale a sè stesso, e sempre grande tanto nel tragico, quanto nel comico, specialmente colla parte del Re nell’Adelasia in Italia, con quella di Benetto nello Sposo veneziano rapito, e coll’altra di protagonista nel Ladislao ».

Dopo quell’anno, desideroso di abbandonare le scene, si ritirò nella sua Bologna ov'era ancora la madre più che settantenne, vivente con un figlio, maggiore di Petronio, parroco di un villaggio non molto lungi da Bologna. Il Colomberti (le notizie gli furon date da vecchi attori, alcuni de' quali compagni d’arte dello Zanarini, come Nicola Vedova, Federico Lombardi e Lorenzo Pani) ci fa sapere la tragica fine di Don Pietro, prete intransigente, e della povera madre. Correva il 1797, e l’Armata Repubblicana, impadronitasi delle Legazioni, aveva fatto, pur ne' più piccoli e remoti paeselli, innalzare l’albero della libertà con in cima il simbolico berretto. Anche Don Pietro, avutone ordine, l’innalzò nella piazzetta del villaggio ; ma nel cuor della notte. Levato poi di buon mattino, lo fe' tosto atterrare da contadini al par di lui intolleranti, e lieto dell’opera sua se n’andò nella vicina chiesetta a celebrar la messa. Ahimè ! Compiuto il sacro ufficio, non avea messo ancora il piede nella piazza, che fu arrestato, e lì per lì, alzata accanto all’albero della libertà una forca, impiccato. Poche ore dopo, colpita da sincope, anche la vecchia madre morì ; e Petronio, avutane l’orribile nuova in Bologna, fuggì tosto al colmo della disperazione a Venezia, dov'era la Compagnia Goldoni, che gli fece, ma sempre indarno, le più vive premure perchè trovasse nel ritorno alle scene la distrazione indispensabile al suo dolore. Egli si ricoverò in un’isola della laguna, confortato dalla moglie, dai figli e dagli amici di Venezia ; e dopo un anno, ceduto finalmente alle nuove istanze di Goldoni, si unì con lui pel triennio 1800-01-02, trascorso il quale si ritirò per sempre dalle scene, passati appena i sessantacinque anni di età.

Come saggio dello stile poetico dello Zanarini, metto qui un sonetto riferito dal Bartoli, diretto alla madre di un novello celebrante :

Donna, deh ! perchè piangi ? Il tuo dolore
da qual sorgente mai, dimmi, sen viene ?
Qual è l’affanno che ti stringe il core,
qual sventura a te fia cagion di pene ?
Non è affanno o dolor. È un mar di bene,
è una gioja, un piacere, un dolce ardore,
prodotto non da frali aure terrene,
ma dall’Eterno Iddio, dal mio Signore.
Non vedi tu colui curvato all’Ara,
che col suon de'suoi carmi il ciel disserra ?
Mia prole egli è, prole diletta e cara.
Disse : ed il volto suo tergendo alquanto,
tregua con lei formò la dolce guerra,
mentr'io piansi di gioja al suo bel pianto.

E chiudo con quest’altro, pur riferito dal Bartoli, « parto elegante – egli dice – di dottissima penna genovese, » dedicato

Al merito singolare del signor Petronio Zanarini attore impareggiabile al Teatro di Sant’Agostino, nella Primavera dell’anno 1775 :

Cingati omai de'suoi più verdi allori
Apollo il crin, e con dorate piume
spieghi la fama i tuoi veraci onori,
della comica scena inclito lume.
Col nobil gesto e colla lingua i cuori
di lusingar ognor hai per costume ;
se pianti adombri, ire, sospiri, amori,
il ver nel finto espresso ognun presume.
Pien di leggiadre doti e vivi affetti,
offri, Petronio, col variar l’imago
come Proteo novel, nuovi diletti ;
quindi nell’ammirarti in varj aspetti,
e saggio e amante, ed or faceto e vago,
tu insegni, infiammi e dolcemente alletti.