Cotta Pietro, romano, assai noto in teatro col nome di Celio. Luigi Riccoboni (op. cit., Cap. VII) ci apprende come il Cotta, risolto di farsi commediante, avesse la ventura di capitar nelle mani di Francesco e Agata Calderoni che lo guidarono nella diritta via dell’arte. E tanto quegli collo studio e l’amore in essa progredì, che divenne capocomico a sua volta e il primo artista del suo tempo. Nemico acerrimo di ogni volgarità, dei doppi sensi, di quelle licenze in somma, tanto vive in iscena su lo scorcio del secolo xvii, si diede con molto acume a purgare il teatro, arricchendolo delle opere migliori. Recitò più volte il Pastor fido del Guarini, tentò l’ Aminta del Tasso, e a Venezia volle cimentarsi per la prima volta con una tragedia in versi, l’ Aristodemo del Dottori, per la quale dovè predispor l’animo degli spettatori, che di tragedia avean fin perduta l’idea, per avvertirli che Arlecchino non vi prendeva parte, che il soggetto era pieno d’interesse e che li avrebbe commossi alle lagrime.
Il successo ne fu clamoroso ; e, naturalmente, vi fu anche una invasione di tragedia ; all’ Aristodemo del Dottori tenner dietro le traduzioni di tragedie dei due Corneille e di alcune di Racine nei collegi, specialmente per sollazzo di carnevale. Ma se una piccola parte di buongustai applaudiva alla novazione, l’altra che formava pur troppo il grosso del pubblico, vi si ribellò, chiamando noiose quelle interminabili scene ove non eran che parole.
Tenne fronte per alcun tempo il Cotta alla opinione allor prevalente, sperando di condurre un po’alla volta il pubblico dalla sua ; e recitò Rodogona, Ifigenia in Aulide e altre opere tragiche : ma si trovò solo nella lotta. Nessuna delle compagnie volle seguire l’esempio di lui ; chè, tentatolo appena, vista la mala parata e l’assottigliarsi del pubblico, tornò subito all’antico…. Quindi gran confusione ; quindi lo scoraggiamento del Cotta, la sua sconfitta, il suo abbandono del teatro per sempre.
Compose due opere sceniche : Il Romolo (Bologna, 1679) e Le peripezie di Aleramo e di Adelasia ovvero La discendenza degli Eroi del Monferrato (Bologna e Venezia, 1697), dedicata la seconda al Duca di Mantova col seguente sonetto :
Queste peripezie d’ Alme Reali,che ad illustrar la fedeltà d’ Amorecompariscono in Scena, a voi Signorecorrono ad implorar glorie immortali.Voi dar potete al vostro nome, egualiloro il merto, la fama e lo splendore,sol che accolte da voi, traggon l’onored’ir coll’aquile vostre alzando l’ali.Io, che fra l’ombre osai trarle alla luce,gran Ferdinando, le consacro a voi,e in voi più bello il fasto lor riluce.Che se in queste costanza ha i pregi suoi,son vostri vanti, e siete voi quel Duce,per cui splende Virtù negli altri Eroi.
Io ho veduto soltanto il Romolo, opera scenica di Pietro Cotta detto Celio accademico Costante, che è dedicato all’abate Vincenzo Grimani.
In uno stile gonfio e reboante, con mescolanza di prosa e versi rimati, son le solite scene vuote, retoriche, in cui si passa dal furore all’amore colla maggior tranquillità del mondo, senza ombra di gradi. I soliti giocherelli di battute a principio determinato, come :
Ersilia. Da così dolci lusinghe già è posto il freno al mio sdegno.
Ostilio. Da così vago sembiante già fu piagato il mio seno.
Romolo. Da così altera bellezza già affascinato mi sento.
Oppure :
Romolo Caro invito.
Ersilia. Dolci nodi.
Romolo. Graditi legami.
Ersilia. Ersilia, or che più vuoi ?
Romolo. Romolo, or che più brami ?
Ersilia. Che più speri, alma mia.
Romolo. Che più paventi, o core.
a 2. Fra catene d’amore.
Romolo. In sen de la mia Diva.
Ersilia. In braccio del mio bene.
Romolo. Cada il Regno.
Ersilia. Pera il mondo, ecc., ecc., ecc.
Pur talora t’imbatti più qua più là in scene di una tal qual finezza e di effetto teatrale sicuro, qual è questa tra Ersilia e Ostilio, la sesta dell’atto primo :
………………………..
Ers. Narrami in cortesia, o Cavaliere, ciò che s’intende in questa Reggia ?
Ost. Altra guerra io non provo, se non quella che, nuova in vero, tu mi recasti in petto.
Ers. Ippolita non son io, che in furioso sembiante accolga furie virili per atterrire sul Termodonte i nemici.
Ost. E pur da Scite saette mi sento l’alma piagata.
Ers. Arco non vidi mai.
Ost. Ben io lo provo nel tuo ciglio sereno,
se ognor, che il guardo giriun strale avventi a saettarmi il core.
Ers. Eh, parliamo di guerra e non d’amore.
Ost. Ma che brami sapere ?
Ers. Chi è ’l nemico al Quirino ?
Ost. Estero Sole.
Ers. Aspra guerra intraprende.
Ost. Perchè ?
Ers. Perchè solo coi raggi puote acciecar chi lo mira.
Ost. E pur cieco io non fui nel vagheggiare il tuo bello,
se penetrò per entro gli occhi al core.
Ers. Eh, parliamo di guerra e non d’amore.
Ost. Ma che intender t’aggrada ?
Ers. Per qual causa si pugna ?
Ost. Per l’acquisto d’un Cielo.
Ers. Impresa da Titani, ma perigliosa.
Ost. Non è sì empio ne’ suoi costumi il guerriero.
Ers. Ma è però folle.
Ost. In che modo ?
Ers. Sai che a poggiare nel cielo vi è di bisogno aver l’ali.
Ost. E ben alato n’andrò, mentre risiede nella mia mente Cupido.
che dà l’ali al pensier, la fiamma al core.
Ers. Eh, parliamo di guerra e non d’amore.
Ost. Ma che deggio spiegarti ?
Ers. L’apparecchio dell’armi.
Ost. Son preghiere e sospiri.
Ers. Dunque è il timor che guerreggia ?
Ost. È vero.
Ers. Sarà vinta al sicuro.
Ost. Tale già si confessa
vinto da tua beltà questo mio core.
Ers. Eh, parliamo di guerra e non d’amore.
Ost. Ma se vinto già fui.
Ers. Tu fosti vinto ?
Ost. Si, o bella.
Ers. E che dunque farai ?
Ost. Vinto già in guerra, chiede
pace ottener da tua pietade il core.
Ers. Eh, parliamo di guerra e non d’amore.
Ost. Eh, parliamo d’amor, parliam di pace.
Ers. Oh Dio non posso !
Ost. Ah che non vuoi, cor mio !
Ers. Non so, non deggio !
Ost. Cruda, perchè ?
Ers. Altri guerra mi fa : parlar di pace
non può colei
ch’ ha acceso il cor dell’amorosa face (via).