(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [E-F]. I COMICI ITALIANI — article » pp. 915-921
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(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [E-F]. I COMICI ITALIANI — article » pp. 915-921

Fiorilli-Pellandi Anna. Figlia del precedente e la più grande attrice del suo tempo nacque a Venezia il 26 dicembre del 1772. La Fiorillina, così la chiamarono i comici dalla sua infanzia, cominciò a percorrer la via della gloria a nove anni, in cui diè prova di gran valore artistico sì nelle parti scritte come nelle improvvise. A sedici anni, mentr’era l’amorosa ingenua della Compagnia Battaglia, fischiata al San Giovan Grisostomo di Venezia la prima attrice Tassani, fu essa chiamata a sostituirla ; e tanto piacque al pubblico, che fu confermata nella Compagnia col ruolo assoluto di prima donna.

Fu ancora, prima del matrimonio, con Luigi Perelli, con Gio. Batta. Merli, con Francesco Menichelli, e con Giuseppe Pellandi. A Padova, non è ben precisato nè in quale anno, nè con qual compagnia (secondo il Mazzoni nel ’90 con quella del Menichelli, ma forse più tardi col Pellandi), preluse a un corso di rappresentazioni, recitando i seguenti versi dettati per lei da Melchior Cesarotti. Essi furon trovati da Guido Mazzoni tra le carte di lui che venute in mano del Pieri, passarono alla Riccardiana di Firenze. Il Mazzoni li ha illustrati con un elaborato studio, edito il 1891 dal Randi di Padova, col titolo : Appunti per la Storia de’ teatri padovani nella seconda metà del secolo XVIII.

Chiari figli d’Euganea, eccovi innanzi
la Nina vostra (ah si permetta al grato
e sensibil mio cor si caro vanto !).
Si, vostra io sono ; in questo suol nudrita,
nei domestici esempi e più dai segni
de’ vari effetti ch’ io leggeavi in volto,
dell’ardua scola teatrale appresi
le prime norme, e andai crescendo all’ arte
che all’atteggiar della pieghevol voce
gesto loquace accorda, e fida esprime
opre, affetti, pensier, costumi e sensi.
Dell’inesperte forze a far cimento
altrove andai, ma sull’ Euganea scena
ben tosto apparvi palpitante, incerta
sul mio destin. Chi non temer potria
la dubbia inappellabile sentenza
di sì dotta città ? Quanto vi debbo,
spirti bennati ! a me sereno il guardo
rivolgeste e rinacqui, i sforzi infermi
di mia giovine età grazia clemente
da voi trovaro, e gli error miei perdono.
L’amabil raggio che brillommi a fronte
del favor vostro, m’inspirò nel petto
alma novella, e quel vigor m’infuse
che invan cercava in me ; supplì per l’arte
di piacervi il desio : premio si grande
quai prodigj non opra ? è vostro dono
quel che posso o che son. Che son ? che posso ?
Nol so, ma pur con tacita dolcezza
ripenso ognor che accompagnar vi piacque
con pietosi sospir di Nina amante
i soavi delirj, 9e sorrideste
all’ ingenua Lucinda,10 a cui natura
parlava al cor con più efficace lingua
che non facea con le dottrine ingrate
e coi prestigi suoi la maga accorta.
Nè Teresa11 insensibili vi scorse
ai strani casi suoi, vedova e sposa,
di fortuna e d’amor misero scherno.
Tal rimembranza, or che propizia sorte
mi rende a voi, ne’ miei timori infonde
conforto sì, non però calma. E come
sperar poss’ io di non tradir la speme
che m’onora e spaventa ? O generoso
popolo d’Antenòr, tu sol tu puoi
la tua speme avverar : se tutti i frutti,
quali ei si sian, dell’arte mia son opra
del tuo favor, se un tal favore è figlio
d’ una felice illusïon cortese
del tuo bel cor, tu me la serba, e forse
tal ti parrò qual mi fingesti. A voi
dunque mi volgo, abitatori eletti
di questo suol diletto al ciel : tu pria,
schiatta d’incliti padri, ordine illustre
che hai per dritto di costume e sangue
titolo di gentile ; e tu pietoso
sesso leggiadro, a cui fan doppio omaggio
i cori e l’arti che dal bello han nome.
Tu pur, di Febo e di Minerva amica,
decente gioventù che accresci e spargi
dell’ Euganeo saper la fama e ’l vanto.
E voi che d’alta riverenza in segno
ultimi appello, o valorosi e chiari
figli di Marte, ver presidio e fregio
d’Euganea mia, che di vostr’armi invitte
fate all’arti di pace e scudo ed ombra.
Voi tutti imploro : del purgato orecchio
ritemprate il vigor, nè sia chi sdegni
gradir cortese ed animar gli sforzi
d’ uno stuolo divoto e che sè stesso
tutto al vostro diletto offre e consacra.
Lo preghiam, lo speriam : se i nostri voti
vani non sono, un grazïoso assenso
o il grato suon delle percosse palme
deh ce lo attesti ; e i vacillanti spirti
empia di forza, e di conforto i cori.

Nella Compagnia di Giuseppe Pellandi, sul finire del ’95, sposò il figlio di lui, Antonio. Da quel tempo e in quella Compagnia la fama di Anna Fiorilli si affermò per modo che fu proclamata un vero miracolo artistico. Grande nella commedia di Goldoni dialettale e italiana, grande nella tragedia, grande nel dramma. Ritirati dall’arte i Fiorilli e il vecchio Pellandi, ai quali subentrò nell’impresa il marito di lei, si recò al Teatro Nuovo di Firenze nel 1803, ov’ebbe il massimo de’trionfi, recitando per la prima volta la Mirra di Vittorio Alfieri alla presenza dell’Autore. Giunta alla frase : « Oh ! madre mia felice ! Almen concesso a lei sarà di morire al tuo fianco !… » il fanatismo si mutò in delirio, nè fu possibile proseguire la recitazione di quella scena. E terminata la tragedia, il pubblico affollato alla porta del Teatro, come l’attrice fu salita in carrozza, ne staccò i cavalli e l’accompagnò a casa con orchestra e fiaccole e urli di gioia non mai interrotti.

Stabilito il Vicerè di formare una gran compagnia drammatica, impose al capocomico Fabbrichesi la prima donna Pellandi, la quale fu scritturata per un triennio collo stipendio, allor favoloso, di lire 11,500. Ma se bene si rinnovassero per lei i trionfi di Firenze, dopo il triennio non volle accettare una riconferma, allegando in iscusa la sentenza del Camerino della Scala che le negava il diritto di pretender la parte di Rosmunda nella tragedia omonima di Alfieri, anzichè quella di Romilda. Formò poi società con Belli-Blanes per un altro triennio, sempre ammirata, festeggiata, acclamata. Ma alla metà dell’anno 1816 fu colpita da tale malattia che la toglieva per sempre alle scene, relegandola collo sposo nella sua villa di Avesa, presso Verona, che dovette pur troppo abbandonare, pei continui dissesti finanziari di cui fu causa il marito di sua figlia. E quella donna che aveva percorso la vita in mezzo ai trionfi e alle ricchezze, vedova sin dal 1828, indebitata fino ai capelli, finì miseramente la vita in una soffitta verso il 1840.

Non fu la Fiorilli bella veramente, ma di volto attraente. Fu di persona non grande, ma proporzionata. Le carni aveva bianchissime, gli occhi neri, grandi, vivaci, i capelli castani, la bocca breve, e una dentatura meravigliosa.

L’espressione del volto era tale, che poteva a voglia di lei mutarsi improvvisamente di mesta in gioconda, di fiera in affettuosa. Pittori, scultori, incisori, ne ritrasser le sembianze in vario costume. Andato il Colomberti a visitarla nella sua villa di Avesa, riferisce ne’ suoi scritti inediti, come, alludendo alle memorie artistiche che adornavano il suo salotto, ella dicesse : « Sono memorie di oltre tomba, e mi ricorderanno a mia figlia e a’ miei nipoti. » E domandatole perchè non avesse in sua figlia lasciata di lei una ricordanza sulla scena, rispose : « E perchè ? per ottenere, forse, al pari di me, di esser dimenticata ventiquattr’ore dopo di aver lasciato il teatro ? No ! no ! È molto meglio ch’ella sia, com’ è infatti, una modesta e buona madre di famiglia. Essa non è conosciuta, io lo fui troppo, e non pertanto eccoci cadute nel medesimo obblio ! »

Molte son le testimonianze che abbiamo del valore di lei ; fra cui quella del Sografi, che nella prefazione alle sue Inconvenienze teatrali (Padova, Bettoni, 1816) scriveva :

Si distinsero nella esecuzione di questo non facile a rappresentarsi componimento moltissime attrici ed attori. Tra le prime, nella parte della Genovese Tatà, la prediletta mia Anna Fiorilli-Pellandi. Ed in che ella non fu prima, una volta sola ?

E nelle notizie che seguono l’Oracolo tradotto dal Cesarotti (Venezia, 1797) :

A quel meraviglioso accoppiamento di comici pregi, che forma nella signora Anna Fiorilli-Pellandi il prodigio della declamazione scenica, dee unicamente l’Italia la presente egregia traduzione che col nostro mezzo comparisce ora la prima volta alle stampe. L’entusiasmo che destò in Padova la detta valorosa attrice nelle varie recite della Nina, ossia la Pazza per amore, chiamò ad una di quelle il chiarissimo sig. ab. Cesarotti, che appena, per così dire, uscito dal teatro, prese la penna in mano per rendere italiano l’Oracolo del Saint-Foix ; in poche ore compi il suo lavoro, e mandollo tosto in dono a chi più d’ogni altro potea far conoscere il merito dell’ originale e quello insieme della versione.

In una raccolta di omaggi poetici (Firenze, Carli, 1813) alla Fiorilli e a Belli-Blanes, e dai quali tolgo la medaglia qui retro, son versi di Tommaso Sgricci, una iscrizione latina del Bernardini, la quale ci apprende come nel 1813 trascinasse per tre mesi all’entusiasmo il pubblico di ogni specie nel Teatro Nuovo di Firenze, e una anacreontica di Ligauro Megarense, pastore arcade, in cui abbiamo accennate alcune parti nelle quali essa primeggiò, quali Medea, Zaira, Vitellia, Cleonice, Mirra, Pamela, Lindane, Mirandolina.

Fu maestra di Carolina Internari : e della cura affettuosa ch’ella si prese di lei dal 1807 al 1810, abbiam testimonianza nelle biografie livornesi del Pera, nelle notizie biografiche del Calvi e del Consigli (V. Internari) ; ma più ancora in un libretto di poesie a Carolina Internari, impresso in Roma il 2 di maggio del 1818, la prima delle quali è del Ferretti, e diretta

Ad Anna Fiorilli Pellandi

Se ancor sovra le cento ali leggera

Dalle bionde del Tebro acque sonanti
Remigando ver te Fama non giunse
Da che il socco ridevole calzato
Nel giovinetto piede, e il sanguinoso
Coturno Sofocléo, novella apparve
Carolina la tua figlia d’ amore
Orme a stampar su le Romulee scene,
Arduo certame, che dal verde Eliso
Tornando a ber con vivi occhi la luee
Temerebbero ancor Roscio ed Esopo,
Mentre su questi candidi papiri
Della tua figlia a delibar le sacre
Non vendevoli laudi impazïente
Si sbramerà la vivida pupilla ;
Certo di vena in vena a poco a poco
Scender ti sentirai soavemente
Il tuo core a tentar gioia materna.
Tal Metabo godea quando dall’arco
A lui davante la pennuta freccia
Con la vergine man sfrenò Camilla.
Tal l’amante godea madre Latona
Al cader delle Belve allor che in Delo
L’aurea faretra impoveri Diana ;
E cosi si leggea fra ciglio e ciglio
Il paterno esultar d’Egioco in volto
Quando Palla – Minerva Egid – armata
Squassò l’asta Vulcania in val di Flegra,
E il suol mordeano di Titano i figli.
Oh ! Come lieto all’apparir di Lei
Simile alla sorgente alba rosata
Freme ed alzasi un grido ! oh ! Come poi,
Se fuor discioglie dai purpurei labbri
Accenti, che cercar le vie del core
Sanno più arcane, ognun si tace, e tace
Fin dell’aure il sussurro ! È ver, che spesso
Stilla dagli occhi ’l cuor commosso in pianto,
Ma si piange in silenzio, e gronda il pianto
Su le intrecciate man, che si disnodano
Al tacersi di Lei rompendo in vivo
Suon di applausi echeggiante. A Lei bambina
Melpomene e Talia segnava il Fato
Educatrici ; ma così non volle,
E al tuo cuore, al tuo senno la commise
Il Dio di Cirra, ed obbediva al Fato.