Fiorilli-Pellandi Anna. Figlia del precedente e la più grande attrice del suo tempo nacque a Venezia il 26 dicembre del 1772. La Fiorillina, così la chiamarono i comici dalla sua infanzia, cominciò a percorrer la via della gloria a nove anni, in cui diè prova di gran valore artistico sì nelle parti scritte come nelle improvvise. A sedici anni, mentr’era l’amorosa ingenua della Compagnia Battaglia, fischiata al San Giovan Grisostomo di Venezia la prima attrice Tassani, fu essa chiamata a sostituirla ; e tanto piacque al pubblico, che fu confermata nella Compagnia col ruolo assoluto di prima donna.
Fu ancora, prima del matrimonio, con Luigi Perelli, con Gio. Batta. Merli, con Francesco Menichelli, e con Giuseppe Pellandi. A Padova, non è ben precisato nè in quale anno, nè con qual compagnia (secondo il Mazzoni nel ’90 con quella del Menichelli, ma forse più tardi col Pellandi), preluse a un corso di rappresentazioni, recitando i seguenti versi dettati per lei da Melchior Cesarotti. Essi furon trovati da Guido Mazzoni tra le carte di lui che venute in mano del Pieri, passarono alla Riccardiana di Firenze. Il Mazzoni li ha illustrati con un elaborato studio, edito il 1891 dal Randi di Padova, col titolo : Appunti per la Storia de’ teatri padovani nella seconda metà del secolo XVIII.
Chiari figli d’Euganea, eccovi innanzila Nina vostra (ah si permetta al gratoe sensibil mio cor si caro vanto !).Si, vostra io sono ; in questo suol nudrita,nei domestici esempi e più dai segnide’ vari effetti ch’ io leggeavi in volto,dell’ardua scola teatrale appresile prime norme, e andai crescendo all’ arteche all’atteggiar della pieghevol vocegesto loquace accorda, e fida esprimeopre, affetti, pensier, costumi e sensi.Dell’inesperte forze a far cimentoaltrove andai, ma sull’ Euganea scenaben tosto apparvi palpitante, incertasul mio destin. Chi non temer potriala dubbia inappellabile sentenzadi sì dotta città ? Quanto vi debbo,spirti bennati ! a me sereno il guardorivolgeste e rinacqui, i sforzi infermidi mia giovine età grazia clementeda voi trovaro, e gli error miei perdono.L’amabil raggio che brillommi a frontedel favor vostro, m’inspirò nel pettoalma novella, e quel vigor m’infuseche invan cercava in me ; supplì per l’artedi piacervi il desio : premio si grandequai prodigj non opra ? è vostro donoquel che posso o che son. Che son ? che posso ?Nol so, ma pur con tacita dolcezzaripenso ognor che accompagnar vi piacquecon pietosi sospir di Nina amantei soavi delirj, 9e sorridesteall’ ingenua Lucinda,10 a cui naturaparlava al cor con più efficace linguache non facea con le dottrine ingratee coi prestigi suoi la maga accorta.Nè Teresa11 insensibili vi scorseai strani casi suoi, vedova e sposa,di fortuna e d’amor misero scherno.Tal rimembranza, or che propizia sortemi rende a voi, ne’ miei timori infondeconforto sì, non però calma. E comesperar poss’ io di non tradir la spemeche m’onora e spaventa ? O generosopopolo d’Antenòr, tu sol tu puoila tua speme avverar : se tutti i frutti,quali ei si sian, dell’arte mia son opradel tuo favor, se un tal favore è figliod’ una felice illusïon cortesedel tuo bel cor, tu me la serba, e forsetal ti parrò qual mi fingesti. A voidunque mi volgo, abitatori elettidi questo suol diletto al ciel : tu pria,schiatta d’incliti padri, ordine illustreche hai per dritto di costume e sanguetitolo di gentile ; e tu pietososesso leggiadro, a cui fan doppio omaggioi cori e l’arti che dal bello han nome.Tu pur, di Febo e di Minerva amica,decente gioventù che accresci e spargidell’ Euganeo saper la fama e ’l vanto.E voi che d’alta riverenza in segnoultimi appello, o valorosi e chiarifigli di Marte, ver presidio e fregiod’Euganea mia, che di vostr’armi invittefate all’arti di pace e scudo ed ombra.Voi tutti imploro : del purgato orecchioritemprate il vigor, nè sia▶ chi sdegnigradir cortese ed animar gli sforzid’ uno stuolo divoto e che sè stessotutto al vostro diletto offre e consacra.Lo preghiam, lo speriam : se i nostri votivani non sono, un grazïoso assensoo il grato suon delle percosse palmedeh ce lo attesti ; e i vacillanti spirtiempia di forza, e di conforto i cori.
Nella Compagnia di Giuseppe Pellandi, sul finire del ’95, sposò il figlio di lui, Antonio. Da quel tempo e in quella Compagnia la fama di Anna Fiorilli si affermò per modo che fu proclamata un vero miracolo artistico. Grande nella commedia di Goldoni dialettale e italiana, grande nella tragedia, grande nel dramma. Ritirati dall’arte i Fiorilli e il vecchio Pellandi, ai quali subentrò nell’impresa il marito di lei, si recò al Teatro Nuovo di Firenze nel 1803, ov’ebbe il massimo de’trionfi, recitando per la prima volta la Mirra di Vittorio Alfieri alla presenza dell’Autore. Giunta alla frase : « Oh ! madre mia felice ! Almen concesso a lei sarà di morire al tuo fianco !… » il fanatismo si mutò in delirio, nè fu possibile proseguire la recitazione di quella scena. E terminata la tragedia, il pubblico affollato alla porta del Teatro, come l’attrice fu salita in carrozza, ne staccò i cavalli e l’accompagnò a casa con orchestra e fiaccole e urli di gioia non mai interrotti.
Stabilito il Vicerè di formare una gran compagnia drammatica, impose al capocomico Fabbrichesi la prima donna Pellandi, la quale fu scritturata per un triennio collo stipendio, allor favoloso, di lire 11,500. Ma se bene si rinnovassero per lei i trionfi di Firenze, dopo il triennio non volle accettare una riconferma, allegando in iscusa la sentenza del Camerino della Scala che le negava il diritto di pretender la parte di Rosmunda nella tragedia omonima di Alfieri, anzichè quella di Romilda. Formò poi società con Belli-Blanes per un altro triennio, sempre ammirata, festeggiata, acclamata. Ma alla metà dell’anno 1816 fu colpita da tale malattia che la toglieva per sempre alle scene, relegandola collo sposo nella sua villa di Avesa, presso Verona, che dovette pur troppo abbandonare, pei continui dissesti finanziari di cui fu causa il marito di sua figlia. E quella donna che aveva percorso la vita in mezzo ai trionfi e alle ricchezze, vedova sin dal 1828, indebitata fino ai capelli, finì miseramente la vita in una soffitta verso il 1840.
Non fu la Fiorilli bella veramente, ma di volto attraente. Fu di persona non grande, ma proporzionata. Le carni aveva bianchissime, gli occhi neri, grandi, vivaci, i capelli castani, la bocca breve, e una dentatura meravigliosa.
L’espressione del volto era tale, che poteva a voglia di lei mutarsi improvvisamente di
mesta in gioconda, di fiera in affettuosa. Pittori, scultori, incisori, ne ritrasser le
sembianze in vario costume. Andato il Colomberti a visitarla nella sua villa di Avesa,
riferisce ne’ suoi scritti inediti, come, alludendo alle memorie artistiche che
adornavano il suo salotto, ella dicesse : « Sono memorie di oltre tomba, e mi
ricorderanno a mia figlia e a’ miei nipoti. » E domandatole perchè non avesse in sua
figlia lasciata di lei una ricordanza sulla scena, rispose : « E perchè ? per ottenere,
forse, al pari di me, di esser dimenticata ventiquattr’ore dopo di aver lasciato il
teatro ? No ! no !
È molto meglio ch’ella ◀sia, com’ è
infatti, una modesta e buona madre di famiglia. Essa non è conosciuta, io lo fui troppo,
e non pertanto eccoci cadute nel medesimo obblio ! »
Molte son le testimonianze che abbiamo del valore di lei ; fra cui quella del Sografi, che nella prefazione alle sue Inconvenienze teatrali (Padova, Bettoni, 1816) scriveva :
Si distinsero nella esecuzione di questo non facile a rappresentarsi componimento moltissime attrici ed attori. Tra le prime, nella parte della Genovese Tatà, la prediletta mia Anna Fiorilli-Pellandi. Ed in che ella non fu prima, una volta sola ?
E nelle notizie che seguono l’Oracolo tradotto dal Cesarotti (Venezia, 1797) :
A quel meraviglioso accoppiamento di comici pregi, che forma nella signora Anna Fiorilli-Pellandi il prodigio della declamazione scenica, dee unicamente l’Italia la presente egregia traduzione che col nostro mezzo comparisce ora la prima volta alle stampe. L’entusiasmo che destò in Padova la detta valorosa attrice nelle varie recite della Nina, ossia la Pazza per amore, chiamò ad una di quelle il chiarissimo sig. ab. Cesarotti, che appena, per così dire, uscito dal teatro, prese la penna in mano per rendere italiano l’Oracolo del Saint-Foix ; in poche ore compi il suo lavoro, e mandollo tosto in dono a chi più d’ogni altro potea far conoscere il merito dell’ originale e quello insieme della versione.
In una raccolta di omaggi poetici (Firenze, Carli, 1813) alla Fiorilli e a Belli-Blanes, e dai quali tolgo la medaglia qui retro, son versi di Tommaso Sgricci, una iscrizione latina del Bernardini, la quale ci apprende come nel 1813 trascinasse per tre mesi all’entusiasmo il pubblico di ogni specie nel Teatro Nuovo di Firenze, e una anacreontica di Ligauro Megarense, pastore arcade, in cui abbiamo accennate alcune parti nelle quali essa primeggiò, quali Medea, Zaira, Vitellia, Cleonice, Mirra, Pamela, Lindane, Mirandolina.
Fu maestra di Carolina Internari : e della cura affettuosa ch’ella si prese di lei dal 1807 al 1810, abbiam testimonianza nelle biografie livornesi del Pera, nelle notizie biografiche del Calvi e del Consigli (V. Internari) ; ma più ancora in un libretto di poesie a Carolina Internari, impresso in Roma il 2 di maggio del 1818, la prima delle quali è del Ferretti, e diretta
Ad Anna Fiorilli Pellandi
Se ancor sovra le cento ali leggera
Dalle bionde del Tebro acque sonantiRemigando ver te Fama non giunseDa che il socco ridevole calzatoNel giovinetto piede, e il sanguinosoCoturno Sofocléo, novella apparveCarolina la tua figlia d’ amoreOrme a stampar su le Romulee scene,Arduo certame, che dal verde ElisoTornando a ber con vivi occhi la lueeTemerebbero ancor Roscio ed Esopo,Mentre su questi candidi papiriDella tua figlia a delibar le sacreNon vendevoli laudi impazïenteSi sbramerà la vivida pupilla ;Certo di vena in vena a poco a pocoScender ti sentirai soavementeIl tuo core a tentar gioia materna.Tal Metabo godea quando dall’arcoA lui davante la pennuta frecciaCon la vergine man sfrenò Camilla.Tal l’amante godea madre LatonaAl cader delle Belve allor che in DeloL’aurea faretra impoveri Diana ;E cosi si leggea fra ciglio e ciglioIl paterno esultar d’Egioco in voltoQuando Palla – Minerva Egid – armataSquassò l’asta Vulcania in val di Flegra,E il suol mordeano di Titano i figli.Oh ! Come lieto all’apparir di LeiSimile alla sorgente alba rosataFreme ed alzasi un grido ! oh ! Come poi,Se fuor discioglie dai purpurei labbriAccenti, che cercar le vie del coreSanno più arcane, ognun si tace, e taceFin dell’aure il sussurro ! È ver, che spessoStilla dagli occhi ’l cuor commosso in pianto,Ma si piange in silenzio, e gronda il piantoSu le intrecciate man, che si disnodanoAl tacersi di Lei rompendo in vivoSuon di applausi echeggiante. A Lei bambinaMelpomene e Talia segnava il FatoEducatrici ; ma così non volle,E al tuo cuore, al tuo senno la commiseIl Dio di Cirra, ed obbediva al Fato.