(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [B] — Dato al castello di Versailles l’ 8 aprile. » pp. 364-378
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(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [B] — Dato al castello di Versailles l’ 8 aprile. » pp. 364-378

Berti Ettore ed Elisa. Figli di Carlo Berti e di Giovanna Mazzarelli, nacquero l’uno a Treviso il 17 gennaio del’ 1870, e l’altra a Trieste il 1 aprile del ’68. Gentile e singolar coppia di fratelli questa dei Berti, i quali, avendo cominciato a recitar da bimbi in compagniette di provincia, in cui peregrinarono sino all’ ’85, si scritturarono in quella italo-veneta di Benini-Sambo, lei come generica giovine, lui come amoroso e mammo, passando poi sempre uniti, modesti e perseveranti, rispettosi dell’arte e di sè, l’ ’87-88 con Marchetti, l’ ’88-89 con Maggi, dall’ ’89 al ’94 con Marini, e dal ’94 a tutt’oggi con Pasta, col quale resteran tutto il triennio, lei qual seconda donna di spalla, lui quale primo attor giovine. L’essere in poco tempo saliti da umili compagnie alle più reputate è prova certa dei loro pregi. Lei, sposa dal ’92 a Giuseppe Masi, è attrice corretta e gentile ; lui, attore moderno, studioso, educato alla scuola dello Zaccone, col quale fu per alcun tempo, è oggi uno de’ migliori amorosi del nostro teatro di prosa.

Bertinazzi Carlo, celebre Arlecchino, più noto col nome di Carlino. Dagli studi particolareggiati del Campardon e dello Jal (op. cit.), col soccorso del Casanova e del D’Origny (op. cit.), è dato oggi poter ricostruire intera la figura di questo artista che trascinava il pubblico all’entusiasmo con un gesto, con un movimento della persona, senza ricorrer mai allo spediente volgare di certi lazzi e certe cascate, che furon prerogativa del suo predecessore Antonio Costantini, figlio naturale del rinomato Costantino Costantini detto Gradelino. Lo stesso Grimm, che della Commedia Italiana si mostrò sì poco tenero, ebbe parole di calda ammirazione per lo spirito che il Bertinazzi sapeva mettere ne’suoi gesti, nella sua fisonomia, nelle inflessioni della sua voce. Non siam dunque dinanzi a un buffone volgare, ma dinanzi a un artista nel vero significato della parola. La flessibilità della persona era tale da non si dire : non camminava, scivolava ;… in ogni ripiegatura della vita, in ogni passo, in ogni torcimento di collo era una delicatezza di linee, una siffatta eleganza di contorni, da muover l’applauso del pubblico, senza che il suo labbro avesse profferito una sillaba. Lo Jal riporta la frase tradizionale de’ vecchi detta a’ giovani che andavano in visibilio alla ornata recitazione del Laporte, Arlecchino del Teatro del Vaudeville, che era : « Se aveste veduto Carlino ! » e il D’ Origny (op. cit.) dice al proposito del Bon Ménage di Florian : In molti punti Carlino ha fatto piangere. Queste poche parole devon bastare al suo elogio.

Carlo Bertinazzi nacque a Torino il 2 dicembre 1710 da Felice Bertinazzi, ufficiale nelle truppe del Re di Sardegna (nell’atto di nascita è Bertinassi ; e Bertinassi egli si firma nell’atto matrimoniale) e da Giovanna Maria Gti (?). All’età di tre anni gli morì il padre : e la madre volse alla educazione di lui ogni cura, non obliando nè la danza, nè la scherma. Fu a quattordici anni accettato come porta-bandiera in un reggimento ; ma venutagli a morte la madre, e non andandogli troppo a genio la carriera militare, si diede all’arte del comico, esercitandosi dapprima in qualche teatrino particolare, poi affrontando il gran pubblico sotto la maschera dell’Arlecchino, nella quale divenne in poco tempo attore senza rivali. Morto il famoso Tommasino del Teatro italiano a Parigi (Tommaso Antonio Visentini), che recitava appunto gli arlecchini, e tentatosi invano di surrogarlo degnamente (il Costantini, come abbiam detto, più acrobata che attore, finì coll’annoiare), fu chiamato Carlo Bertinazzi, il quale, non troppo signore della lingua francese, scelse per suo esordire l’Arlecchino muto per forza, scenario italiano del Riccoboni, in cui egli non aveva da dire che poche parole. La sera della rappresentazione (8 aprile 1741) fu anche quella della riapertura del teatro, che secondo il costume era stato chiuso durante la quindicina di Pasqua.

All’attore Carlo Raimondo Rochard de Bouillac toccò di fare la presentazione, avanti la recita, del camerata Bertinazzi, del quale mi piace riportare dal Campardon, come curiosità, l’ordine di debutto.

Noi, duca di Rochechouart, Pari di Francia, primo Gentiluomo di Camera del Re, Ordiniamo alla Compagnia dei comici italiani di Sua Maestà di fare esordire senza ritardo sul loro teatro Carlo Bertinazzi nel ruolo d’Arlecchino, e ciò affinchè possiamo giudicar de’ suoi talenti per la commedia.

Firmato : Il Duca di Rochechouart.

Carlino piacque a segno che il D’Origny (vol. II, 177) lasciò scritto : « Egli mostrò a un tempo tanta naturalezza e tanta verità, una precisione così esatta, una recitazione così corretta, un ingegno così pieghevole, che se ne affrettò l’ammissione » ; infatti l’anno di poi fu ricevuto nella Compagnia, in cui non cessò di farsi applaudire e come attore arguto e vivace, e come elegante ballerino. Le opere nelle quali egli palesò maggiormente il suo valore artistico furono la Corallina maga, commedia in tre atti del Veronese ; Corallina spirito folletto, commedia anonima in tre atti, con intermezzi ; Le Fate rivali, commedia in quattro atti di Veronese ; La gara d’Arlecchino e di Scapino, commedia anonima in un atto ; Il Principe di Salerno, commedia in cinque atti di Veronese ; Le ventisei disgrazie d’Arlecchino, commedia in cinque atti dello stesso, e più specialmente il Figlio d’ Arlecchino perduto e ritrovato, scenario in cinque atti di Goldoni. Recitò anche a viso scoperto, e sostenne con molto valore la parte di Gobe-Mouche nella Serata dei boulevards, commedia di Favart.

Avendo omai stabilito la Commedia-Italiana di non più rappresentare se non commedie francesi, licenziò tutti i suoi attori, ad eccezione del Bertinazzi, il quale, nonostante l’enorme pinguedine e l’età soverchia, recitò ancora il 1782 con molto successo ne’ Gemelli bergamaschi, commedia in un atto di Florian, per la quale gli furon dettati questi versi :

Dis-moi, Carlin, par quel avantage
ne vois-tu point s’affoiblir par les ans
Ni ton esprit ni tes talens ?
C’est que les grâces n’ont point d’âge.
Ton hiver reproduit les fleurs de ton printemps !
Tel que ce dieu qu’adore la jeunesse,
plus ancien que le monde il brave la vieillesse,
il est toujours le plus beau des enfans.

Una delle ultime creazioni di Carlino fu la parte di marito nel Bon Ménage, altra commedia in un atto di Florian, rappresentata il 17 gennaio 1783, per la quale si è già riportato il giudizio del D’Origny. Alla fine dello stesso anno l’apoplessia lo colse nel suo domicilio di Parigi, Via dei Petits-Champs, ove morì il 6 settembre 1783. Fu sotterrato il domani a S. Rocco sua parrocchia ; e il 28 dello stesso mese i comici italiani fecer celebrare in suffragio dell’anima sua un servizio funebre, nella Chiesa dei Petits-Pères della Piazza delle Vittorie, al quale intervennero l’Accademia Reale di musica e la Commedia Francese.

Carlo Bertinazzi godè, in grazia del suo nome e dell’indole sua, dell’affetto e del rispetto di ragguardevoli personaggi ; e vediamo i sei figliuoli avuti dal suo matrimonio con Susanna Foulquier di Nantes, attrice e più danzatrice della Commedia Italiana, sorella della celebre Catinon, tenuti a battesimo, chi dall’Intendente degli ordini del Re, chi dall’Intendente di Palazzo, chi dal Ricevitor generale delle Finanze, ecc. Gli furono amici provatissimi e non mai mutati il Papa Clemente XIV e l’Enciclopedista D’Alembert.

L’amicizia di quello, oltre all’aver formata una degna posizione al figlio Costantino, ispirò anche a un egregio uomo, il signor di Latouche, una specie di romanzo ingegnoso : Clemente XIV (Lorenzo Ganganelli) e Carlo Bertinazzi, corrispondenza inedita (Parigi, 1827). Quest’operetta, assai bene immaginata e meglio condotta, ha per base l’amicizia che il papa e l’artista si eran giurata, e sopratutto la promessa di scriversi o di vedersi ogni due anni, qualunque fosse il loro destino. Per quanto inventato il fondo dell’opera, benchè di una realità non improbabile, le lettere poggiano pressochè tutte su fatti accaduti, e hanno giudizi e notizie su uomini e cose di non poco interesse. La lettera diciottesima, per esempio, nella quale Carlino descrive al papa il suo debutto, e la ventesima, in cui parla della sua celebrità, e dell’esser diventato di moda, tanto che le belle signore davano il nome di Carlino a’ piccoli cani che tenevan sotto ’l braccio, o in tasca, sono veramente belle. Nella prima, per esempio, venuto Carlino a scoprire che il Curato di Saint-Méry avea ricusato di seppellire un parrocchiano, perchè comico, scrive argutamente al Ganganelli : io non mi so spiegare come possa conciliarsi la protezione della Corte con questa severità della Chiesa. Perchè i comici di Francia non fan mettere ogni mattina sui loro avvisi : Gli Scomunicati ordinarj del. Re avranno l’onore di, ecc., ecc…. ?

Nella seconda vi hanno giudizi importanti sull’arte di Préville, il grande attore francese, e sulla differenza tra il recitare colla maschera e a viso scoperto….

Alla fine dell’opera (Terza edizione, Paris, Canel, 1828) è fra le altre note istoriche la seguente :

Quanto a Carlino, il marmo non ha avuto cura sin qui di eternarne le sembianze : il suo volto sconosciuto quasi anche a’contemporanei, poichè celato costantemente sotto la maschera, non è conservato che in un pastello assai mediocre, di cui poche copie furon distribuite agli amatori. Qualche particolarità del suo carattere, qualche aneddoto appartenente alla fine della sua carriera, lo dipingeranno forse meglio di uno schizzo di Vanloo.

Oltre alla corrispondenza del Latouche, abbiamo anche varie commedie : Arlecchino e il Papa, commedia recitata nel 1831 all’Ambigu, e Carlino a Roma, o Gli amici di collegio, memoria storica in un atto di Rochefort e Lemoine recitata lo stesso anno alle Varietà. L’amicizia del D’Alembert, oltre alle cure morali e materiali prodigate ad una sua figliuola cieca, per sollevarlo di una perdita di 50,000 fr. per fallimento del depositario, gli procacciò, dopo morto, un elogio funebre, che resterà pur sempre il migliore attestato delle grandi qualità che il Bertinazzi possedeva e come artista e come uomo. D’Alembert morì il 29 ottobre dello stesso anno, nè men due mesi dopo la morte dell’amico suo ; e il Giornale di Parigi il 17 ottobre pubblicò il suo Elogio funebre di Carlino, del quale il Campardon riporta la fine, che io credo utile metter qui tradotta.

Carlino suonava tutti gl’istrumenti : dipingeva e incideva genialmente. Dotato di una prontezza non comune, riusciva meglio d’ogni altro in qualunque impresa. Propose al suo domestico di servirlo per ventiquattr’ ore, all’intento d’insegnargli il modo vero di servire convenientemente : e dettò a tal’uopo istruzioni, che formerebber, se osservate, de’servitori esemplari…. Se Carlino era il cucco del pubblico per l’arte sua, non l’era meno di quanti lo conobbero, per le sue qualità morali. La giovialità, la bonarietà piacevole e la sperimentata probità constituivano precipuamente la sua natura. Ottimo padre, ha dato a’figli suoi una educazione elevata, amico fedele ha serbato sino all’ultimo vecchi e sinceri amici, ne’quali egli lasciò un lungo e profondo rammarico. Amante sempre dell’ordine, avrebbe dovuto formarsi una onesta fortuna : ma la bontà del suo cuore gli procurò sciagure da parte di coloro cui diede intera la sua fiducia. D’allora in poi quest’ultimo sentimento s’andò in lui attenuando, e la sua felicità ne fu scossa. Talvolta, amareggiato nel fondo dell’anima, gli accadde di esclamare : Ho paura di non esserci che io solo al mondo di veramente onesto ! ! ! Mori a Parigi il 6 settembre dell’ ’83.

Ecco il suo epitaffio :

Ci-git Carlin, digne d’envie,
qui, bouffon, charmant sans effort,
nous fit rire toute sa vie,
et nous fit pleurer à sa mort.

Per dare un’idea della sua bontà, dirò che, rubatagli una vistosa somma di danaro da un uomo ch’egli aveva accolto in casa sua e per lungo tempo nutrito, sollecitò la protezione della regina per salvarlo, e sovente fu udito sclamare : Non è del danaro che mi accoro, ma…. della fiducia che mi aveva ispirato quel tristo…. Lo amavo ! !

Dalla quale sconfinata bontà anche si volle dedurre, e credo calunniosamente, ch’egli fosse marito compiacente a segno da tollerar certo intrigo di Madama Carlin con l’Ambasciatore d’Olanda.

Al proposito di questo modo di chiamare la signora Bertinazzi (e a questo modo soltanto è pervenuta fino a noi), Vittorio Malamani ne’suoi Nuovi Appunti Goldoniani (Venezia, 1887) fa le grandi maraviglie, leggendo come lo Spinelli aggiunga alle parole « madama Carlin »moglie di Carlin Bertinazzi. E domanda : ma da quando in qua si è usato che la moglie porti non il cognome, ma il nome, anzi il vezzeggiativo del nome del marito ? Dov’è che il signor Spinelli ha trovato questo ? La domanda è ingenua. Prima di tutto a dare un’occhiata al Campardon, si vedono riportati l’Augmentation d’appointements pour M.me Carlin in data 29 marzo 1763, che comincia : La dame Carlin en consideration etc., etc., e la Réception de M.me Carlin à demi-part, in data 16 settembre 1765, che comincia Recevoir la dame Carlin etc., etc. ; poi, anche senza tali documenti, è noto il costume francese di chiamar la moglie col nome del marito, specialmente nella società alta : serva come un esempio La Principessa Giorgio del figlio Dumas.

A Carlo Bertinazzi fu assegnata con decreto del 1 gennaio 1780 una pensione di 1000 lire (nette L. 837 e s. 10) sul Tesoro Reale, come gratificazione annuale in premio de’servizi resi in qualità di comico ordinario del Re, sotto nome di Carlino.

Altri documenti riporta il Campardon ; atto di decesso e d’inumazione, contratto di matrimonio, ecc. Fra gli oggetti, che in un ingente furto commesso in suo danno un giorno che egli era andato a desinar fuori di casa gli furon rubati, era anche un orologio antico portante incisa in un sigillo di pietra nera inglese la testa del celebre attore Garrick, amico e ammiratore profondo del nostro Arlecchino.

E all’ammirazione del grande attore inglese aggiungiamo quella di Carlo Goldoni, il quale, come abbiam visto, aveva con una sua commedia, offerto modo a Carlino di mostrar tutta la sua valentìa. Nè codesta del Figlio d’Arlecchino perduto e ritrovato fu la sola : sappiamo che anche nell’ Amor paterno la parte di Arlecchino fu sostenuta dal Bertinazzi.

Ecco una lettera che il Goldoni scrive da Parigi l’8 di novembre 1774 al marchese Francesco Albergati Capacelli, al proposito dell’Arlecchino Coralli, e che tolgo dai Fogli sparsi del Goldoni raccolti da A. G. Spinelli (Milano, Dumolard, 1885).

Eccellenza. Il signor Coralli mi ha recato il di Lei pregiatissimo foglio, e da quello, e dal precedente di cui V. E. mi aveva onorato, veggio la stima, ch’ella fa di tale soggetto, e l’interesse ch’ella prende per lui. Ciò basta presso di me per qualificarlo ed impegnarmi a far per lui tutto quello che da me potesse dipendere. Sono molti anni, che ho rinunciato del tutto a scrivere per gl’Italiani, ma lo farò volentieri per il signor Coralli, se però mi sarà permesso di farlo, e conviene ch’io glie ne spieghi il mistero. L’Arlecchino attuale che ha molto merito per la Francia, e ne avrebbe pochissimo per l’Italia, soffre in estremo grado la passione comune dei Commedianti : la gelosia. S’io faccio una commedia nuova, che convenga al signor Coralli, si crederà in istato di sostenerla meglio di lui, dirà che le cose nuove non appartengono ai debutanti, che gli attuali e provetti devono essere preferiti ; il fera une cabale du diable et ses camerades seront d’accord avec lui pour l’exemple. Ecco la condizione miserabile de tous ceux, qui viennent débuter à Paris. Il faut ch’ils jouent dans des pièces encienes, et ils courent toujours le risque de la comparaison, e ordinariamente si verifica il proverbio italiano : Beati i primi. Il signor Coralli ha dello spirito e lo credo abilissimo per il carattere che ha intrapreso di sostenere, ma per fargli del bene bisognerebbe che l’altro avesse la bontà di andarsene o di morire. La presenza dell’attuale deve far del torto al signor Coralli per delle ragioni, che non dipendono da lui, ma dalla natura, cioè pour la taille, et pour les graces naturelles de ses mouvemens. Enfin nous verrons, et je promet a V. E. que je ferai tous mon possible pour contribuer à son succès ; come mi propongo altresì di renderle conto esatto di quello che accadrà a suo tempo, giacchè è deciso che il signor Coralli non sarà esposto sulla scena che dopo Pasqua, per dargli tempo d’imparare il francese ed il gusto di questa nazione.

Sono col più profondo rispetto di Vostra Eccellenza….

E nelle Memorie (Tom. III, Cap. III) sul merito del nostro artista aggiunge :

Il signor Carlo Bertinazzi detto Carlino, era un uomo stimabile pe’suoi costumi, celebre nell’impiego di Arlecchino, e godeva una riputazione che mettevalo al pari di Domenico e Tommasino in Francia, e di Sacchi in Italia. La natura lo aveva dotato di grazie inimitabili : la sua figura, i suoi gesti, i suoi movimenti prevenivano in suo favore : le sue maniere ed il suo talento lo facevano ammirar su la scena, e prediligere nella società.

Carlino era il favorito del pubblico : aveva saputo così bene guadagnare la benevolenza del Parterre, che gli parlava con una libertà e famigliarità, di cui non poteva compromettersi alcun altro attore. Dovevasi parlare al pubblico, o con esso far qualche scusa ? A lui si addossava tal peso, e gli ordinari suoi avvisi erano altrettanti aggradevoli trattenimenti fra l’attore e gli spettatori.

Tuttavia anche a lui accadeva talvolta quel che accadde, e accade pur troppo, ad altri dei e semidei della scena : di recitare alle panche. La Commedia Italiana de’vecchi tempi non sapeva ancora che cosa volesse significare la frase far forno (chiudere il teatro per mancanza di pubblico) in uso oggidì con poco decoro dell’arte. Del Bertinazzi si racconta che recitò una sera davanti a due sole persone, conservando il suo buon umore, e non saltando nè una scena, nè un lazzo. A un dato punto Colombina doveva dirgli alcune parole sottovoce, ed egli : Parlate pur forte – le disse – nessuno ci sente. Finita la commedia e dovendo egli annunziare al pubblico lo spettacolo del domani, fe’segno ad uno degli spettatori, l’altro aveva già preso la porta, di accostarsi alla ribalta ; e famigliarmente e sottovoce con un garbo tutto suo gli disse : Signore, l’altra metà del pubblico se n’è andata : se incontrate qualcuno uscendo di qui, fatemi il piacere di dirgli che noi rappresenteremo domani Arlecchino eremita.

Io credo ora di far cosa grata ai lettori, mettendo qui lo scenario di Carlo Goldoni Il figlio d’ Arlecchino perduto e ritrovato che il Bertinazzi rappresentò a Parigi il 13 giugno 1758, e che io traduco dall’ Histoire anecdotique et raisonnée du Théâtre italien, par Des Boulmiers (Paris, Lacombe, m.dcc.lxix).

Il teatro rappresenta la montagna sulla quale è situata la casa d’Arlecchino ; gl’ingressi sono illuminati rusticamente ; i vicini ballano e cantano per festeggiare la sua sposa che ha lasciato il letto dopo il parto. Non lontana da Arlecchino è un’altra capanna, dove Rosaura e Celio, d’accordo con Scapino, hanno fatto nascondere un loro bimbo, dell’età di quello d’ Arlecchino, e ch’essi quivi custodiscono, nell’aspettazione di aver trovato cui confidarlo, o di aver palesato il loro matrimonio. Rosaura viene con Scapino per vedere questo caro fanciullo, e mentre lo accarezza, giunge Pantalone. Ella tenta nasconderlo ; ma egli lo vede e vedutolo, domanda a chi appartenga. Scapino afferrando l’idea di potersi servire della conformità delle circostanze e delle età, dice a Pantalone che il bambino che tien Rosaura è il figlio di Arlecchino. Pantalone gli ordina di prenderlo e restituirlo a suo padre. Scapino vorrebbe portarlo in qualche luogo ove fosse sicuro ; ma s’imbatte nuovamente in Pantalone, il quale va a consegnarlo colle sue mani ad Arlecchino. Scapino, ancor più imbrogliato, teme che Arlecchino tornato a casa e trovatovi un altro bambino, scopra l’intrico. Che fare ? Mentre Arlecchino si diverte a scherzar con suo figlio, seduto per terra poco lnnge dalla sua casa, Scapino vi entra senz’esser visto, e ne invola il suo vero figliuolo. Camilla trova suo marito occupato a far carezze a suo figlio, e ne gioisce, e mostra ad Arlecchino la sua gran contentezza. Celio, marito di Rosaura, che sa dell’accaduto, sopravviene, e cerca pretesti per chiedere a quella brava gente di affidargli il loro figliuolo. Arlecchino si schermisce, dicendo che gli appartiene ; Celio replica ch’ei potrebbe ingannarsi, e che il bambino non è suo. Nascono in Arlecchino sospetti sulla virtù della moglie ; ella si difende, ed infierisce contro Celio. Pantalone sopravviene, e Arlecchino che l’ha in conto di sapiente, lo prega a trar l’oroscopo di suo figlio per vedere s’egli sia veramente suo. Pantalone glie ne dà promessa.

Al secondo atto, Scapino svela a Celio che Rosaura non è altrimenti figlia di Pantalone. Questi vuol darla in moglie a Fileno, amato alla sua volta da Dorinda ; noi sorvoleremo questo episodio, che fu aggiunto per la Cantatrice che esordi quella sera. Arlecchino viene con Pantalone, per conoscer l’oroscopo di suo figlio ; eccolo :

Ce fils que d’Arlequin on avait toujours cru,
est un fruit de l’amour qui n’est pas bien connu.

I suoi sospetti raddoppiano ; egli s’adira contro Camilla ; ella si dispera ; scoppiano liti, e restano adirati.

Al terzo atto, egli studia il modo di vendicarsi di sua moglie ; risolve di abbandonarla ; ma per lasciarle un segno dell’ira sua, e punirla dell’oltraggio fattogli, appicca l’incendio alla capanna ; nè pur pensa a salvare suo figlio, volendo sterminar tutto quanto possa attestare del suo disonore. Celio giunge ; e vedendo le fiamme, esclama : « Oh mio povero figlio !… » Ha trovato il padre, dice Arlecchino andandosene. Celio entra nella capanna, prende il fanciullo e parte. Sopravviene Scapino, vede l’incendio, e crede che il figlio di Celio sia abbruciato ; e per toglier dalla disperazione Rosaura, immagina di sostituirgli il figlio d’Arlecchino ch’egli ha tra le braccia, e di farle credere che quello sia il suo. Camilla desolata dello sdegno di suo marito, giunge dolendosi del suo destino. Volge mestamente gli occhi verso la capanna, rimpiangendo la pace che vi godeva ; la vede, preda delle fiamme, inabissarsi d’un tratto. L’orrore e il terrore la vincono così che va a traverso le ruine per salvare il suo piccino, e non trovatolo, esce, abbandonandosi ad alte grida di disperazione e di dolore. Giunge Rosaura, e chiede a Camilla la ragione delle sue lagrime e de’suoi singhiozzi. La vista degli spaventevoli avanzi dell’incendio colpisce lei pure. Camilla, meravigliata dell’interesse ch’ella prende alla sua sciagura, ne cerca la causa. Scapino giunge col figlio d’ Arlecchino sotto il suo mantello. Rosaura gli si accosta per muovergli rimprovero ; Scapino la placa, dandole il bimbo che le dice esser suo figlio. Camilla vuol rapirglielo, dicendo ch’egli è suo ; ed eccoti arriva Pantalone che obbliga Rosaura a cederlo ; ella sviene, e Fileno accorre in suo soccorso ; Celio che la vede nelle sue braccia, è preso da gelosia.

Il quarto atto comincia con una scena di dispetti, fra Celio e Rosaura ; Scapino li riconcilia. Arlecchino che ha trovato il figlio di Celio nelle mani di un contadino, ha creduto che fosse il suo, e s’avanza accarezzandolo. Camilla giunge da un altro lato col suo vero figlio, che Pantalone le ha fatto restituire. Essi sono entrambi stupefatti dell’incontro : entrambi pretendono di aver tra le braccia il figlio legittimo, e pretende ciascuno che quello dell’altro sia un figlio supposto ; il che dà luogo ad una scena fra i due attori (lazzi). In quella viene Celio, avvisato dal contadino del rapimento di suo figlio, e avvicinatosi ad Arlecchino, gli strappa con destrezza, e strappa anche a Camilla il bimbo che hanno tra le braccia, e fugge inseguito da entrambi. Rosaura s’imbatte in Fileno, che le parla ancora. Scapino loro svela che son fratello e sorella ; s’abbracciano ; Celio arriva ed ha nuova fonte di gelosia. Arlecchino appare, mentre questi si lascia andare al furore, e gli chiede suo figlio, e tanto l’importuna, che Celio, al colmo dell’ira, vuol batterlo ; Arlecchino lo respinge a colpi di testa. « Io ti ferirò – egli dice – colle armi che tu m’hai fatto. »

Al quinto atto, Pantalone vedendo che tutto è scoperto, permette di render conto a Rosaura del suo bene, e le permette di sposar Celio. In questo mentre, Arlecchino viene a richieder suo figlio a Celio, e Camilla muove la stessa domanda a Scapino. Entrambi sen vanno senza risponder parola, e tornan poco dopo co’due fanciulli. Tutto sta nel sapere qual sia il vero figlio di Arlecchino. Scapino che è al giorno dell’intrico, scioglie il bandolo della matassa, dicendo che quello che ha Celio è suo, e ridà a Camilla e ad Arlecchino quello ch’egli ha loro involato. Tutti sono al colmo della gioja, e la commedia finisce.

E qui il signor Des Boulmiers aggiunge :

Questa eccellente commedia è del signor Goldoni, ed è stata messa in iscena dal signor Zanuzzi con molta intelligenza ; si può ben metterla assieme alle migliori commedie d’intrigo antiche e moderne : il celebre Autore, cui dobbiamo esserne grati, è senza dubbio quello che ha seguito più da vicino le orme di Plauto e degli antichi autori comici.

La commedia, che io non oserei chiamare eccellente, e nella quale trovo a stento il grande maestro, fu poi ridata all’arrivo del Goldoni in Francia (1762) a Fontainebleau dinanzi alla Corte, e non piacque, a cagione di certe libertà che gli artisti s’aveano prese, mescolando alle scene tracciate alcune lepidezze del Cocu imaginaire. Della qual cosa molto si dolse il Goldoni, che trovò modo di rincarar la dose de’rimproveri agli attori, i quali, recitando a braccia, o a soggetto, parlano qualche volta stortamente e a rovescio, guastando scene e facendo andar commedie intere a rotoli. Nè tale indignazione gli venne da speciale amore ch’egli portasse a quell’imbrogliato romanzo : chè anzi non ebbe per esso mai una benevola parola, nonostante il suo successo ottimo e schietto, chiamandolo piccola bagattella, composizione avventurosa, che, lui vivo, non avrebbe mai visto la luce pubblica, nè mai sarebbe entrata nel suo teatro italiano. « Vi saranno forse stati diamanti – dice Goldoni stesso – ma erano incastonati nel rame. Si conosceva che qualche scena era stata fatta da un autore, ma l’insieme dell’opera da uno scolaro…… Il suo errore principale, per esempio, era quello dell’inverisimiglianza : questa vi si ravvisa in tutti i punti. Ne ho dato sempre il giudizio a mente fredda, nè mi son mai lasciato sedurre dagli applausi. E tanti furon davvero gli applausi, che ad essa dovette il Goldoni la sua andata a Parigi, e a Parigi assistè a nuove rappresentazioni di quella fortunata bagattella, che ’sta volta, con suo grande stupore, fu innalzata alle stelle sul teatro della Commedia italiana. Figurarsi se aveva dovuto dolersi, dopo sì gran successo, di vederla cadere davanti alla Corte per la ignoranza e petulanza e arroganza de’comici ! Tanto se ne dolse che non volle più saperne di commedie a braccia, e pensò subito di riabilitarsi, oserei dire, in faccia a sè stesso, coll’intendere a tutt’uomo alla composizione di una commedia dialogata in tre atti in prosa, che fu appunto l’Amor Paterno (V. Tomo XII, dell’ Ediz. dello Zatta, Venezia, 1788), data a Parigi la prima volta il 4 febbraio 1763, e che se segnò un nuovo grande trionfo per l’Arlecchino Bertinazzi, non pare ne segnasse uno per l’autore. Il Des Boulmiers (ivi, pag. 498) che dell’opere goldoniane si mostra sincero e profondo ammiratore, dopo avere esposto l’argomento della favola, conchiude :

Questa commedia è la prima data dal signor Goldoni sul Teatro italiano, dopo il suo arrivo a Parigi, ove i comici, sempre intesi a procacciarsi la benevolenza del pubblico, l’avean chiamato, per ridar vita alla lor Scena Italiana, che cominciava a essere negletta. Questo illustre autore parve averci ricondotto per alcun tempo gli spettatori, con molte opere che i conoscitori hanno a buon diritto avuto in conto di capolavori ; ma il pubblico, guastato da certe frivolezze, le abbandonò ben presto ; il che non scema certo il merito del signor Goldoni, come non scema quello dei capolavori di Molière e di Corneille, non meno abbandonati. Mi bisognerebbe avere una maggior conoscenza della lingua italiana e più larghe cognizioni per poter dare all’ingegno suo tutta la giustizia che gli è dovuta. Adunque non potendo apprezzar come si conviene l’opere sue, non mi resta che far conoscere la sua rara modestia, pubblicando la lettera seguente ch’egli ha indirizzata al signor di Meslé.

Se l’è cavata, come chi dicesse, pe ’l rotto della cuffia. Se l’ Amor paterno avesse avuto un successo buono schiettamente, il Des Boulmiers che aveva alzato alle stelle il Figlio d’ Arlecchino, non l’avrebbe taciuto. Dopo il successo entusiastico di questa, è ben naturale che si ascoltasse con rispetto un nuovo lavoro e magari con buon volere si applaudisse più qua più là nelle parti buone, tanto da fare scrivere dal Goldoni al Paradisi che la commedia fortunatamente era riuscita bene ; e far mettere nella prefazione di essa (Ediz. Pasquali, Venezia,mdcclxi, Tomo V), che la fortuna avea voluto fargli del bene, che la commedia era stata ben ricevuta, e che il pubblico lo aveva incoraggito. È lecito dunque a chi specialmente legga tra le linee, più che dal Malamani (op. cit.) tenere dal Masi (Lettere di Carlo Goldoni, Bologna, Zanichelli, 1880) e dal Galanti (Carlo Goldoni e Venezia nel Secolo xviii , Padova, Fratelli Salmin, 1882) che ne confermarono il fiasco ; e dal Goldoni stesso che nelle Memorie (V. Tomo III, Cap. IV) colla solita ingenuità, dice secco secco al proposito : questa non ebbe fuor che quattro rappresentazioni !

Quanto alla lettera indirizzata al signor Di Meslé per aver da lui una traduzione francese dell’estratto dell’ Amor paterno, puoi vederla nella citata opera del Masi : è la xxxiv della raccolta.

Abbiamo visto come il Bertinazzi recitasse anche a viso scoperto : e questa importante notizia che trovo nell’opera non comune di Luigi Riccoboni : Reflexions historiques et critiques sur les différens théâtres de l’Europe. Paris, Guerin, m.dcc.xxx.viii, farebbe supporre ch’egli, oltre alle parti di Arlecchino, altre ne sostenesse, fors’anche in tragedia, sebbene le mie ricerche non me ne abbian fornito alcuna prova.

Mai una compagnia italiana conta più di undici attori o attrici, fra’quali cinque, compreso Scaramuccia, non parlano che bolognese, veneziano, lombardo, napoletano : e quando s’abbia a recitare una tragedia, dov’entrin molte persone, tutti vi prendon parte, non escluso l’ Arlecchino, che toglie la sua maschera ; e tutti declamano de’ versi in buon italiano (il testo ha : en bon romain….). Tale esercizio li fa capaci di rendere le idee più alte de’poeti drammatici, e d’imitar le più straordinariamente ridicole della natura. Ecco un pregio che può dirsi unico nella classe de’comici, poichè nelle compagnie delle altre nazioni, gli attori, che sono almeno una trentina, non recitan che le parti che per natura o per arte loro si attagliano ; ed è raro che uno, o due al più, possano rappresentare differenti caratteri.

Dalle quali parole, più che di vergogna, pare che il Riccoboni traesse una conseguenza di orgoglio per la pieghevolezza dell’indole e dell’ingegno de’comici italiani. E aveva ragione : e le sue parole potrebber benissimo esser ripetute oggi se guardiamo alla costituzione delle nostre compagnie di prosa. Non è qui il caso di analizzare se dal rappresentar le sole parti che meglio si addicono al tale o alla tale attrice, ne verrebbe gran vantaggio all’arte…. Al pubblico certo uno grandissimo ; chè la varietà delle Compagnie produrrebbe naturalmente la varietà del repertorio…. In ogni modo, data l’indole dei nostri artisti, e date le condizioni del nostro paese, io credo si potrà sempre affermare, che se per rispetto di sè, dell’arte, del pubblico, le nostre Compagnie dovran cedere di fronte alle Compagnie forestiere, gli artisti forestieri debbono tutti per natural senso d’arte, per ingegno, per islancio, pel così detto fuoco sacro, insomma, cedere di fronte agli artisti nostri.