(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [D]. I COMICI ITALIANI — article » pp. 774-779
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(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [D]. I COMICI ITALIANI — article » pp. 774-779

Domeniconi Luigi. Figlio di un fattor di campagnia, nacque presso Rimini il 1786. Appassionato dell’arte, entrò a venti anni in una compagnia d’infimo ordine, e dopo aver passato peripezie di ogni specie in altre compagnie mediocri, nelle quali però era già divenuto un buon artista, riuscì a entrar socio il 1811 con Elisabetta Marchionni, recitando al fianco della celebre Carlotta le parti di primo amoroso. Scioltosi dalla società, ma rimasto in compagnia come scritturato, ne uscì dopo undici anni per passare in quella di Belloni e Meraviglia, nella quale stette quattr’anni. Fu per un triennio primo attore con Romualdo Mascherpa ; formò con Ferdinando Pelzet una società che durò tre anni ; tornò col Mascherpa il 1835. Condusse poi un’ottima compagnia di cui era prima attrice la Carolina Internari ; fu il ’40-’41-’42 a Napoli colla Società di Alberti, Monti e Prepiani ; e formò per proprio conto e per un quadriennio due compagnie, che ridusse poi dopo due anni di mala fortuna a una sola. Fu due anni in Compagnia Reale Sarda ; ma questa pagina – dice il Regli – nella sua biografia va voltata di pianta, se però non vogliamo provare che ogni eroe ha le sue sconfitte. Ne uscì per formare una gran Compagnia, che durò quattr’anni (1847-’48-’49-’50) con grande fortuna, e della quale ecco l’elenco :

ATTRICI

Adelaide Ristori

Socia dell’ Accademia di

S. Cecilia di Roma

Anna Job

Carolina Santecchi

Annetta Ristori

Annunziata Glech

Virginia Santi

Regina Laboranti

Margherita Santi

Fanny Coltellini

Teresina Chiari

Geltrude Chiari

ATTORI

Luigi Domeniconi

Gaetano Coltellini

Amilcare Belotti

Gaspare Pieri

Achille Job

Ignazio Laboranti

Carlo Santi

Carlo Zannini

Tommaso Salvini

Lorenzo Piccinini

Giacomo Glech

Antonio Stacchini

Giovanni Chiari

Luigi Santecchi

Giorgio Zannini

Luigi Cavrara

I molti debiti lasciati colla malaugurata azienda delle due compagnie, saldò interamente in questo quadriennio ; e sostenuto dalla fama che s’era meritamente acquistata di galantuomo, continuò a condur compagnie, in cui militaron sempre i più forti artisti del momento, sino al triennio ’61-’62-’63 che fu per lui costantemente e fatalmente rovinoso. Còlto da apoplessia nella primavera del ’63 al Valle di Roma, poi nell’estate a Viterbo, e trovatosi inetto per mancanza di mezzi e di salute a continuar l’Impresa, si ritirò a Roma, ove morì nel ’67.

Di lui lasciò scritto il Colomberti :

Molta parte delle sue disgrazie, qual capocomico, venne da lui sofferta per l’immensa passione che nudriva per la sua arte, e nulla trascurò per accrescerne il decoro, dedicandole continuamente studio, veglie, sagrifizj d’ogni genere. Egli fu il primo ad innalzare il lusso della scena a tal punto che il solo Fabbrichesi potè paragonarsi a lui. Incoraggiò e premiò per il primo i Poeti drammatici, accrebbe gli onorarj degli artisti ; ammise nella sua Compagnia molti dilettanti, e, generoso e benefico, nessuno mai si presentò a lui per implorarne il soccorso che si partisse senza esserne beneficato. Fu sempre l’amico e il padre de’ suoi artisti, e ne fu con pari affetto retribuito. Fu il primo a esser decorato nella quaresima del ’63 Cavaliere di SS. Maurizio e Lazzaro.

Quanto a’ meriti artistici egli n’ebbe moltissimi. Nonostante una figura tozza, una fisionomia volgare, un collo sepolto nelle spalle, riuscì coll’occhio vivo e lampeggiante, colla voce forte e armoniosa, coll’intelligenza naturale accentatissima, a ottenere il plauso de’ pubblici i più varj, e nelle parti di ogni specie ; poichè egli mirabilmente passava dalla rappresentazione de’ più atroci personaggi, quali il Montalban nella Chiara di Rosemberg, e il Walter nell’ Orfanella della Svizzera, a quella de’ più gai, quali il Geraldino della Lusinghiera e il Cuoco del Cuoco e Segretario. Colla interpretazione particolareggiata, sminuzzata, egli incideva i pensieri più riposti di una parte. La sua recitazione era, si può dire, un commento in azione. E di questo commento sapeva così ben convincere con larghezza di parole e con evidenza di ragioni i suoi scritturati, che, se atti ad accoglierne l’intendimento artistico, non potevan che riuscir di onore alto al maestro. Così accadde, cito il maggiore esempio, di Tommaso Salvini, il quale se a Gustavo Modena dovè la ispirazione e la concezione e il metodo tutto moderno di esposizione, a Luigi Domeniconi dovè certo il metodo dello studio analitico. Questo non ebbe il Modena come il Domeniconi ; nè il Domeniconi ebbe come lui la modernità della dizione e del sentimento nella concezione sintetica di un personaggio…. Anzi da quel suo svisceramento di ogni frase, di ogni parola, di ogni sillaba, usciva naturalmente una dizione quasi direi faticosa, voluta, convenzionale, che fu detta al suo tempo antiquata, ma che probabilmente non era mai stata prima di lui.

Non molto noto forse è l’aneddoto che trovo ne’ricordi del Minghetti, al proposito del metodo e dell’ingegno del nostro artista. Egli riferisce come all’Arena del Sole il pubblico batteva le mani tanto più forte quanto maggiori erano le smancerie e le turbolenze della voce e del gesto del Domeniconi, attore allora in gran voga. Queste smancerie e turbolenze ispirarono allora a Paolo Costa dei versi di questa specie :

Mal abbia l’istrion che con orrendo
artificio sonar fa la parola
che il latrato dei cani, il rugghio, il fremito
dei rabidi leoni e delle strigi
le querimonie imita……

Per la qual cosa il Domeniconi, dolente, si recò dal Costa e gli disse che sua non era la colpa, ma del pubblico : e che glie lo avrebbe provato il domani. E infatti il Domeniconi recitando il dì dopo il Filippo di Alfieri fu sobrio, verecondo, semplice, attore veramente preclaro, ma non strappò neppure un applauso dal pubblico. Ma ciò non toglie – conchiude il Minghetti, saggiamente e pur troppo in vano, – che sia corruzione adulare il pubblico, lusingandone le inclinazioni men buone, o rifiutando di ritemprarlo a gusto migliore.

Questo intanto starebbe a provare come il Domeniconi sapesse anche essere, quando voleva, attore castigato : e sappiamo che Gio. Batta. Niccolini scrisse per lui il Giovanni da Procida e Ludovico il Moro ; e che Silvio Pellico, quando per la prima volta affidò alla Marchionni la sua Francesca, volle a ogni patto che il Domeniconi sostenesse la parte di Paolo.

Recitando egli a Pistoia l’estate del ’33 in società con Ferdinando Pelzet, fu pubblicato un opuscoletto di versi e prose, da cui trascelgo la seguente epigrafe, un po’ duretta se vogliamo, in onore di lui :

i circhi, i ludi, i teatri

in età feroci

l’abbondanza della forza

esaurivano

in tempi codardi

il sibaritico ozio

molcevano

in secoli emergenti dall’orror delle tenebre

vita di contradizione

mostravano

oggi sono riepilogo di tutti gli errori dei tempi

allora, ed ora

a quei che si porgeano spettacolo del popolo

plausi secondo natura de’tempi sinceri

ma come noi, l’età future

non danneranno dell’età volte

la manifestazione di falsa vita,

quando sapranno

che prorompevamo in solenni encomii

per te

O LUIGI DOMENICONI

che

coll’eloquente gesto, colla parola informata

da tutte gradazioni del sentimento

incomparabilmente a mostrarci l’uomo

emulo de’ più celebri scrittori

svolgevi l’idee eterne del vero

Lo spirito analitico, la coscienza ch’egli metteva in una parte, sapeva mettere anche nelle cose del capocomicato. Non una commedia era da lui restituita senza che l’accompagnasser le più chiare e minute ragioni che ne avean determinata la restituzione. E, uomo di poca coltura ma di senso pratico giustissimo, coglieva sempre nel segno. In un lungo carteggio col noto scrittore e commediografo Antonio Benci, egli si presenta il vero capocomico sereno, senza livori, gentile sempre. Il 5 gennaio 1830 scrive da Firenze : mi sono state date 10 commedie da leggere. Che roba ! Pure conviene leggerle per poter dare ragione del perchè si ricusano : e non è neppure permesso di parlare con libertà : è un bell’imbarazzo ! E interessantissima è la lettera del 29 aprile 1830 che egli scrive da Roma, ragguagliando il Benci e dell’Itinerario dell’anno e della Censura teatrale ecclesiastica…. Ne metto qui la parte più importante :

Terminato il carnovale del 1832 finiscono i nostri impegni con il Mascherpa. Noi recitiamo al Teatro Valle dove ci conviene alternare nella stessa sera le nostre recite con l’opera in musica ; uso barbaro che sente moltissimo della tarda civilizzazione, che apertamente si scorge negli atuali costumi Romani. Non si fanno di seguito che le commedie nuove, e le tragedie che poche se ne permettono. Abbiamo due censure ; l’ecclesiastica è in mano di certo abate Somaj, che è il più somaro ed il più incomodo di tutti i revisori. Quasi a tutte le parole egli dà una maliziosa interpretazione. Non si permette la Fiera di Nota, non la Locandiera, etc. Noi tardiamo a portargli le sue commedie, con la speranza che possa essere cambiato, cosa di cui si è sparsa voce ….

E dopo di avergli dato ragguaglio sull’esito delle due Pupille, della Bottega del libraio, dell’ Avaro, della Turca, commedie tutte dello stesso Benci, delle quali ebber le prime due le migliori accoglienze dovunque, dice :

…. Il Rosa corretto, a Roma piacque ; a Firenze si sostenne. Se Ella conserva le mie ultime lettere, ella potrà vedere ciò che più o meno produsse effetto. Io ho sempre seco lei fatto uso della verità, e non potrei mai ingannarla ; ciò che le ho sempre detto, lo replico. Non si dimentichi, quando scrive per il teatro, che l’interesse è indispensabile, che necessaria è la chiarezza, e che dal porre i personaggi in situazione ne deriva l’effetto.