Job Anna, nata il 16 maggio del 1805 a Napoli dagli artisti Serafino Fonti e Matilde Ragazzini, romani, entrò giovanissima, dopo la morte del padre, in Compagnia di Francesco Taddei. Sposò nel ’19 Giacomo Job, austriaco, attore mediocre, poi mediocre capocomico, nato il 1787 a Codroipo nel Friuli, il quale, ritiratosi dall’arte dopo il ’40, e fermatosi a Firenze, a far l’affittacamere, chiedeva invano il settembre del ’54 al Ministero di grazia e giustizia la naturalizzazione toscana. Morì a Firenze il febbraio del 1877. Passò l’Anna Job da quella di Taddei, nelle Compagnie di Raftopulo e Velli-Mascherpa ; poi prima amorosa dal ’24 al ’31 in quella de’Fiorentini di Napoli, al fianco della Tessari. Restaurato a Roma il teatro Pallaccorda, oggi Metastasio, Giacomo Job vi tenne compagnia per due anni, con l’Anna prima donna, ruolo ch’ella non lasciò più sino al ’48. Fu con Giuseppe Moncalvo due anni, poi sette con Corrado Vergnano, poi con Luigi Domeniconi e con Luigi Taddei. Tornò pel triennio ’48-’49-’50 col Domeniconi, assumendo la prima volta il ruolo di madre nobile, al fianco di Adelaide Ristori, poi di Amalia Fumagalli, per altri quattr’anni e nella stessa compagnia. Fu dal’57 al’59 con Ernesto Rossi, e dal’61 al’75 con Alamanno Morelli, dal quale si allontanò per ritirarsi più che settantenne a Firenze, ove morì il 12 maggio del 1890. Dal suo matrimonio con Giacomo Job, nacque a Napoli il 25 marzo 1827 il figliuolo Achille, modesto attore e specchiatissimo amministratore delle Compagnie Morelli, Bellotti-Bon, e Marini, morto a Firenze il 22 giugno del ’98.

Dei meriti di Anna Job, prima donna, possono far fede le compagnie primarie nelle quali essa fu : e fors’anco maggiore ne sarebbe stata la riputazione artistica, se vissuta in età più vicina alla nostra, e se non avesse avuto da lottare con attrici gloriosissime quali la Internari, la Marchionni, la Polvaro, la Bettini, la Robotti, la Rosa, la Pelzet. Con questa pare vi fossero i soliti malumori che abbiam trovato nelle comiche di ogni tempo. In una lettera da Bologna della Pelzet a Niccolini del 27 luglio 1843, sono queste parole : « Poi è venuta la Job, la quale dopo aver rovinato Verniano colla sua pros…… (prosopopea), cerca d’insinuarsi verso Coltellini per farmi onta e spauracchio. » E più oltre : « Anche la Job prima donna comica, vil…… (vilissima) creatura, ha scelto una tragedia per sua beneficiata. » Ma non è da prestar troppa fede ai pettegoli risentimenti di una artista che si trova tra compagni inesorabili e crudelmente accaniti contro la sua poca abilità ; sono sue parole. Ernesto Rossi, Antonio Colomberti, Luigi Capuana, ne’loro ricordi di teatro e di critica ebber verso Anna Job parole di molta lode : e dei meriti suoi come caratterista e madre nobile posson far fede moltissimi anch’ oggi che poterono ammirarne la dizione spontanea e piana, il gesto sobrio, l’intelligenza fine, il contegno nobilissimo. A lei accennò il Belli in uno de’ suoi incomparabili sonetti ; e Luigi Bonazzi, letterato e artista egregio (V.), le dedicò del ’41 questi versi.
AD ANNA JOB
—Epistola sulla recitazione. —
Bella e quant’altra mai degna d’onore,O donna, è l’Arte tua. Per mute carteDi che pianto e che riso esser cagioneMelpomene e Talia potrebber mai,S’ella cinto al lor piè coturno e soccoNon le adducesse di vivente voceE di gesto possenti in pien teatroAlti affetti a destar, regger costumi ?Quindi primi calcar vide le sceneD’Edipo e Ifigenia Grecia gli Autori ;Vide Gallia Moliero, Anglia Sacspiro,Iberia Calderon : Geni che augustoFèr lo scenico suol. Ma a quei, che tantaA dipinger Natura ebber parola,Ricusava Natura e voce ed attiDi lor parola animatori. Ad altri,Compartendo i suoi doni, eletta tempraConformabil concesse a finger tutteNell’aspetto e nel suon de la favellaLe sembianze de l’alma ; e a lor commiseCrescer, non che mostrar, l’alta virtudeDi que’▶ famosi, ed in onor tornarli,Se non mertato li coprisse oblio.E oblio copriva de l’inglese drammaIl primo creator ; Garrico surseAlto interpetre anch’ei d’alto poeta ;E più ammirato a le britanne sceneTornò geloso ad adirarsi Otello,Tornò gli spettri a paventar Macbetto.Leggiadri in atto ed in galante foggiaSul francese teatro ivan gli eroiDe la Grecia e del Lazio in pria che grandeIn sua simplicità Talma apparisseCon la toga ed il pallio a offrir l’imagoDe’ signori del mondo ; e tale alloraDal labbro di quel fiero avvaloratiI carmi di Cornelio ebbero un suono,Che da la corte del maggior LuigiNon fu udito giammai. Di premio degniVita d’agi beata e regia tomba ;12De l’altro al merto guiderdon ben amploDel Cesare novel13 fu l’amistade.Ma qual degna mercè l’itala terraDiede al suo Roscio,14 che a l’ingenueDe la bella natura alfin rendendo [normeL’arte che dal clamor nome prendea,E le leggi cangiate onde costrettaAveala il vulgo letterato e i moltiAmpollosi istrioni15 a cui la sagraFiamma del genio non ardeva in petto,D’Adria il Terenzio e il Sofocle astigianoE quant’ altri ha poeti estrania scenaMultiforme abbellia ? Frementi plausiTratti da cor commossi entro il teatroEi raccogliea ; ma i nobili sudoriQuell’oro appena gli valean che alteroOggi rifiuta, o disdegnoso accettaCantor mezzano : chè a cantor valente,Non che tesori, si tributan oggiSerti, trionfi e monumenti eterni.Incantatrice d’ogni cor gentile,È ver, fu sempre l’armonia ; nè soloNell’italo terren pregiati tantoSono gl’itali Orfei. Oltre Oceàno,E fin d’ Europa ai gelidi confiniRecan la gioia de’concenti loro ;Obliando colà tra gli agi e il fastoIl cielo azzurro, i verdi colli e il soleDe le patrie contrade. E largo scorreL’oro britanno ad allegrar di cantiLa nebbia del Tamigi ; e Francia omaiConquistatrice d’itali cantoriPiù non s’adonta degli amari accentiOnde l’inane musicar franceseScherniva il Sofo ginevrin, rapitoA la beltà de l’itala armonia.Pur della Senna e del Tamigi in rivaRicchezze e onori si profondon’ancoA chi fa bella del natio suo risoLa classica Commedia,16 e a chi l’accentoChe immortale segnò tragica pennaFa possente suonar ;17 nè meno in follaA Riccardi, a Zaire, a PolïuttiChe a Silfidi e ad Orfei traggon le genti ;Ove d’Italia in le città più vasteAd armoniche gole e a piè danzantiSi posposero ognor Mirre e MedeeE Saulli ed Oresti ; e scema spesso,Benchè a men costo aperta e men capace,Vider l’arena lor Vestri e Taddei.Nè men sete di canto ebber da poiLe minori cittadi, ove talvoltaSu le scene evocato infin fu vistoL’ardito Imprenditor, che cento e centoTrarre sperò da l’arche cittadineAuree monete o comperar le noteD’una prode laringe. E fortunate,Se a ◀que’ cantori desiati tantoTutta la possa del valor canoroPiacque sempre spiegar ! chè dispettandoDel lor campo di gloria il breve cerchio,O repugnando a la servil fatica,Talvolta osaro a desiose orecchieNiegar superbi la vocal dolcezza.18Da l’arte intanto, a cui compagna andavaLa dispregiata povertà, fuggiaChi, l’anima temprata a bel sentire,Onorar la poteva ; e fior tra bronchiSi rimase l’egregio. Il sol desioD’andar vagando a sostentar la vita,O la mal tramandata arte degli aviGl’ istrioni creò, che più dispersiDi nomadi pastor mai non s’uniroA durevol tribù. Quindi una stranaE di voci e di modi e fin di foggeDiscordanza letale ; e scoloritoD’ogni grazia natia l’altisonanteMal infinto colloquio ; e de’gagliardiMoti de l’alma interpetre il clamore,Il vulgo concitar, che più sonantiA chi gridar più sa batte le palme.Quindi deserte, o mal calcate, ancoraLe domestiche scene, un di palestraD’egregia gioventù ; si che la grandeDel porger arte, che pur tanta un giornoParte si fu de l’eloquenza, e tanteA Demostene, a Tullio, a Eschine, a GraccoCure costava, abbandonò ben’ancoAccademie e Licei : se pur non vuolsiArte nomar e gl’ incomposti accentiEd i lezi e le fredde enfasi ingrate,O i noievoli modi onde un anticoPurissimo scrittor legge il pedante,Di come e punti osservator solerte.Così meco io pensava allor che a questeScene, o Donna, venisti ; e a te, per cuiDi quell’arte che avviva la parolaI bei pregi sentii, de’sensi mieiInculto spositor volava il verso.
