(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [C]. I COMICI ITALIANI — article » pp. 550-553
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(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [C]. I COMICI ITALIANI — article » pp. 550-553

Calmo Andrea. Dopo il poderoso studio col quale Vittorio Rossi prelude alla pubblicazione delle lettere di Messer Andrea Calmo (Torino, Loescher, 1888) non è difficile oggi ricostruire intero questo bizzarro tipo di comico e cantante e scrittore.

Andrea Calmo nacque a Venezia ne’ primi anni del secolo xvi (1509, o 1510) da povera famiglia di pescatori. Venuto a maturità, e spiegata una svegliatezza d’ingegno non comune e una singolar vena d’arguzia, si pensò a dargli una educazione che valesse a sviluppare e coltivare quelle doti che gli si eran manifestate in copia.

E con opere dialettali in verso e in prosa, ricche di giocondità e profondità insieme, si venne in breve acquistando tra’ letterati del suo tempo un tal posto che poi gli mosse contro l’invidia irosa e petulante dei parrucconi. Ma l’indole sua gaia e gioviale trovò modo di esplicarsi maggiormente dinanzi al gran pubblico, giudice immediato.

Solleticato dall’arte del Ruzzante, si diede a scriver commedie e a rappresentarle. E tanto riuscì come attore nella riproduzione ammodernata del Senex latino, che fu poi il Pantalone, o del Pedante, che fu poi il Dottore [se ci facciamo a ricordar le lettere sue, nelle quali è sparso in larga copia l’elemento di quella lingua a travestimenti che fu poi nella Commedia dell’arte detta Graziana (V. Bianchi Ludovico)], che Girolamo Parabosco ebbe un giorno a scrivergli :

E’ mi par vedervi sopra la scena farvi schiavi quanti vi veggono et odono. Io sento fin qui il rumore dello applauso che vi danno le genti : le quali montando le mura del loco dove sete, rompendo porte e passando canali et d’alto smontando, si pongono a periglio di mille morti per poter solamente godere una sol hora la dolcezza delle vostre parole.’

Per quanto le opere d’allora fossero scritte interamente, pure il soggetto doveva entrar per qualche cosa nell’umore spontaneo del Calmo, vivificato, afforzato forse dalla spontanea festività del pubblico.

Nullameno, dopo tanti allori mietuti, dopo di aver dato l’anima all’arte sua, egli, che trovandosi al cospetto del pubblico, sentiva il sangue fluirgli vivo nelle vene e una ricreazione immediata e nuova dello spirito ; dopo di avere impegnata assieme al Burchiella una lotta gagliarda e pur troppo infruttuosa contro l’avversione o apatia del pubblico, dovette piegarsi, e abbandonar la scena a cinquant’anni circa, per godersi il danaro che s’era guadagnato, in mezzo alle attestazioni di stima e di affetto che gli venivan certo da ogni parte, ma che non gl’impediron mai forse di menare una vita di rimpianto.

Andrea Calmo morì a Venezia a soli sessantun’ anni il 23 febbraio del 1570, e lasciò le seguenti opere :

La Rodiana. — Comedia stampata quasi sempre sotto ’l nome di Ruzzante (V.). (Venezia, Alessi, 1553).

Il Travaglia. — Comedia (Venezia, Alessi, 1556), per la quale fu dettato un proemio dal Padre Sisto Medici, domenicano, allora insegnante teologia nello studio di Padova.

Il Saltuzza. — Comedia (Venezia, Alessi, 1551).

Las Spagnolas. — Comedia, pubblicata sotto ’l nome di Scarpella Bergamasco (Venezia, appresso Stefano e Battista cognati, 1549).

La Pozione. — Comedia (Venezia, Alessi, 1552).

La Fiorina. — Comedia (Venezia, Alessi, 1552).

L’Egloghe pastorali. — (Venezia, Bertacagno, 1553).

Le Rime pescatorie. — Sonetti, Stanze, Capitoli, Madrigali, Epitaffi, Disperate e Canzoni, ed il Commento di due sonetti del Petrarca in antica materna lingua (Venezia, Bertacagno, 1553).

Le lettere. — Quattro libri (Venezia, 1547-48-52).

Nelle Commedie nelle quali andò allargando il concetto, non so dire se più proficuo che dannoso, de’ vari dialetti, egli restò di gran lunga inferiore al Ruzzante, di cui non aveva la maschia vigoria nel gettare i caratteri : forse qua e là migliori, nella semplicità della lor veste pastorale, le Egloghe.

Quanto alle rime, pescatorie e non pescatorie, a pena qualche sprazzo di luce, in mezzo al fosco di una poesia punto originale, sbrodolata, il più delle volte a travestimenti burleschi, ne’ quali non campeggia mai la efficacia della parodia.

L’opera massima del Calmo, scrittore, è senza dubbio la raccolta delle lettere, che è prova manifesta del suo ingegno pronto e vivace.

La questione della identità delle persone a cui son le lettere dirette, e dei fatti che in esse son descritti, non è risoluta. Io, anche di fronte a nomi di persone reali, le une ritengo non mai inviate, gli altri non mai accaduti. Comunque sia, tolto il valore storico-autobiografico, riman sempre un valore storico relativameute alla generalità delle descrizioni di persone e di cose, descrizioni fatte con sicurezza di tinte, con pennellate da vero maestro, talora di una soavità ineffabile, talora, il più sovente, di una sensualità nuda e cruda.

Dice bene il Rossi (pag. cxxi) :

Ora la forma è facile e piana, come si conviene a scrittura vernacola, ora assume atteggiamenti strani, contorcimenti inesplicabili, ora corre liscia e spontanea, ora si riveste dei riboboli più bizzarri, delle secentate più aride. In mezzo a tutto questo, scappano fuori periodi in latino sgrammaticato e senza senso, richiami a sproposito ad autori greci, latini, italiani, anche immaginari, citazioni monche ed erronee di passi latini, talora riferiti dove non hanno nulla che vedere…. etc. etc.

Di tutte le opere del Calmo, una lettera, quella scritta al padre domenicano Medici per avere un proemio al Travaglia, è scritta in italiano e senza sensi riposti ; a questa si aggiungon brani qua e là, specie nelle egloghe.

Dalla prima di esse appunto traggo parte della scena di introduzione, che è uno de’ soliti assalti amorosi, e non certo una meraviglia del genere.

Lucido. Deh, Ninfa, non fuggir, ti prego : ascoltami, ch’io non son drago, nè lupo che dèvora ; Anzi ’l tuo fedel servo, afflitto Lucido.
Lidia. Che vuoi da me ? Già te l’ho detto, insipido, che d’altra ninfa ti procacci. Intendimi, nè più sopra di me tua mente fermisi : Che più possibil fia gli monti altissimi veloci andar, che mai io mi dissepari da l’onesto pensier casto e immutabile.
Lucido. Non vuoi del mio servir, dolce mia Lidia, aver pietà ? Deh, non voler si rigida farti contro di me, Ninfa bellissima. Se cerchi con mia morte farti gloria, t’inganni. Anzi ti fia di maggior biasimo ; chè ognun dirà : Oh Lidia crudelissima !
Lidia. Ma s’avvien che di me resti vincibile, diran le sacre ninfe : Ahi, carne fetida, degna d’ogni castigo e gran supplizio ! Però statti con Dio, e ad altro pensati : nè sperar più di me, come de l’India farti signor, cosa fuor d’ogni termine.
Lucido. Ahimè, ch’io sento che mi manca ´l spirito !
Ajutate, pastori, cari socij.
Lidia. Resta ; ch’io non do fede a finte lagrime
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