(1787) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome II « LIBRO II — CAPO IV. Ultima epoca della Drammatica nel finir della Repubblica, e sotto i primi Imperadori. » pp. 172-221
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(1787) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome II « LIBRO II — CAPO IV. Ultima epoca della Drammatica nel finir della Repubblica, e sotto i primi Imperadori. » pp. 172-221

CAPO IV.
Ultima epoca della Drammatica nel finir della Repubblica, e sotto i primi Imperadori.

I.
Drammatici illustri di quest’epoca.

Nel rimanente della Repubblica e sotto i primi Imperadori applicaronsi alla poesia rappresentativa, non che i liberti e gli stranieri eruditi, i più cospicui personaggi di Roma. Lasciando da banda il romore che correva nella città, che nelle commedie di Terenzio avessero avuto parte Lelio e Scipione, Plutarco ci fa sapere che il Dittatore L. Cornelio Silla compose varie commedie satiriche (Nota VIII). Il fondatore dell’Impero Romano Giulio Cesare scrisse una tragedia intitolata Edipo, oltre ad alcune altre chiamate Giulie, delle quali il di lui successore proibì di poi la pubblicazione. Sotto Augusto, il quale pure incominciò un Ajace, Aristio Fusco scrisse commedie togate: un altro Cajo Tizio (diverso dall’oratore soprannomato) secondo Orazio fu buon poeta lirico e scrisse ancora tragedie: Ovidio fece una Medea, della quale abbiamo un frammento in Quintiliano: e il famoso Mecenate, oltre a’ varii poemi, compose alcune tragedie, come il Prometeo citato da Seneca, e l’Ottavia mentovata da Prisciano. Tutto è perito quel che scrisse questo celebre favorito di Augusto, a riserba di qualche verso, come questo

Nec tumulum curo, sepelit natura relictos.

Sotto il medesimo Augusto fu composta l’eccellente tragedia intitolata Tieste tanto esaltata nel dialogo intorno agli oratori attribuito a Tacito, la quale, a giudizio di Quintiliano, poteva degnamente compararsi colle migliori tragedie Greche; e pure, come abbiamo accennato, egli riconobbe sinceramente la debolezza de’ comici Latini al confronto de’ Greci. Questo Tieste comunemente stimavasi produzione di Quinto Varo o Vario, che con Tucca e Plozio fu deputato da Augusto alla correzione dell’Eneide. Ma Elio Donato e Servio credettero che il Tieste fosse stato scritto da Virgilio, e dato alla moglie di Vario, la quale coltivava le lettere, e che di poi da costui si fosse pubblicata come propria. V’è chi sospettò che fosse opera di Cassio Severo Parmigiano, del quale parla Orazio nell’epistola ad Albio Tibullo115. Chiaro sotto il medesimo Augusto fu Cajo Asinio Pollione pe’ talenti tragici e per altri meriti letterarii, per la presa di Salona in Dalmazia, per l’onor del trionfo e pel consolato, e celebrato da i due maggiori ingegni onde si vanti la poesia Latina, Virgilio ed Orazio. Se di tragedie intenda di favellare quest’ultimo nell’ode che a lui indirizza116, Pollione ebbe anche il merito di uscire da’ soliti argomenti tratti da Omero e dalle favole Greche, ed esporre con nobile intrepidezza sul teatro di Roma la civile querela di Cesare, e Pompeo, ed il giogo imposto dal vincitore a tutta la terra, fuorchè al gran cuore di Catone,

Et cuncta terrarum subacta
Præter atrocem animum Catonis 117.

Parve però il di lui stile così duro e secco, come quello di Pacuvio e di Accio, all’autore del dialogo De causis corruptæ eloquentiæ 118.

Germanico figliuolo di Druso e di Antonia minore, insigne capitano, vero eroe ancor dopo estinta la Repubblica, e che colla posterità non ebbe altro demerito se non di aver prodotto Cajo Caligola, fu parimente orator grande e poeta esimio, e tralle altre sue fatiche letterarie compose alcune commedie Greche119. Mamerco Scauro sotto Tiberio scrisse anche una tragedia, la quale cagionò la morte dell’autore, senzachè gli giovasse l’amicizia di Sejano, essendo stato accusato occultamente da Macrone di averla scritta espressamente per mordere la condotta dell’Imperadore120. Per quel che narra Suetonio l’Imperador Claudio fe recitare nel certame Napolitano una sua commedia Greca per onorare il soprallodato Germanico suo fratello. Troviamo indi nel precitato autore del dialogo sulla corruzione dell’eloquenza sommamente esaltate le tragedie la Medea, il Tieste, il Catone, il Domizio del celebre poeta e giure-consulto Curiazio Materno. Oltre al nominato autore di quel dialogo, Tacito più di una volta negli Annali fa menzione di Pomponio Secondo di cui Plinio il naturalista avea composta la vita. Le tragedie di questo Pomponio, dal Marchese Maffei nella Verona illustrata tenuto per Veronese, furono sopra ogni altra pregiate per l’erudizione e per l’ eleganza, benchè i vecchi l’accusavano di non essere abbastanza tragico121 (Nota IX). Plinio il giovane, che, come egli stesso ci attesta122, nell’età di quattordici anni scrisse in Greca favella una tragedia, rammenta con grandi encomii le commedie togate di Virgilio Romano degne di aver luogo, secondo lui, fra quelle di Plauto e di Terenzio123. Un’ altra Medea prese anche a scrivere M. Anneo Lucano che lasciò imperfetta. Della tanto applaudita Agave di Stazio ci ha conservata la memoria Giovenale, come altresì dell’Atreo di Rubreno Lappa. Persio ci parla di alcuni suoi contemporanei che avendo composta una tragedia d’Issipile montarono essi medesimi sul pulpito a recitarla.

II.
Tragedie attribuite a Seneca.

Di tante produzioni drammatiche scritte a un di presso sotto i primi Imperadori da personaggi ragguardevoli, non sono a noi pervenute se non le dieci tragedie attribuite a Seneca, le quali (che che ne dica Martin Del Rio e qualche altro) appartengono fuor di dubbio almeno a quattro scrittori, se la differenza del gusto e dello stile può servirci di scorta a conoscerne l’autore. Danno i critici più scorti124 a Lucio Anneo Seneca il filosofo, la Medea, l’Ippolito e la Troade: a Marco Anneo Seneca il tragico, l’Edipo, l’Ercole furioso, l’Agamennone, il Tieste, e v’ha chi vi unisce anche l’Ercole Eteo: a qualche sofista imitatore di Marco la Tebaide, benchè Giusto Lipsio vorrebbe riferirla al felice secolo di Augusto: e ad alcun novizio declamatore l’Ottavia.

Se vogliansi queste tragedie paragonare in generale colle Greche, si troveranno assai inferiori, scorgendosi in tutte poco o molto la gonfiezza e lo spirito di declamazione sostituito alla vera sublimità e alla passione. Ma si tradirebbe la verità, se si trascurasse, come di ordinario avviene, di rilevarne colla serenità di storico critico alcune bellezze che in esse si trovano.

La Medea. Se v’ha tralle tragedie Latine conservate alcuna che possa sostenere il confronto delle Greche, è questa Medea. L’autore manifesta di avere abbastanza conosciuto il carattere del sublime tragico e sentenzioso. Il piano semplice è lavorato sulla Greca di Euripide; ma in alcune parti è alterato, e talvolta con qualche miglioramento. Tutto va senza intoppi al suo scopo, tutto è animato dalla passione, e pochi sono que’ passi, ne’ quali possa dirsi di aver più parte la mente che il cuore. Il soliloquio di Medea che forma l’atto primo e serve d’introduzione, è vigoroso. Invocati gli dei che presiedono alle nozze funeste, come furono le sue, e il caos e le furie (che può risentirsi alcun poco della declamazione che s’imputa all’autore) si determina a una vendetta orrenda. In parole altiere, e quali dall’acuto critico Boileau vengono accordate allo sdegno e all’indignazione125, dà ad intendere i delitti e la strage che medita:

Quodcumque vidit Phasis aut Pontus nefas,
Videbit Isthmos. Effera, ignota, horrida,
Tremenda cælo pariter ac terris mala
Mens intus agitat, vulnera, & cædem, & vagum
Funus per artus. Levia memoravi nimis:
Hæc virgo feci, gravior exsurgat dolor;
Majora jam me scelera post partus decent.

Nell’epitalamio cantato dal coro per le nozze di Giasone con Creusa vedesi il progresso dell’azione; e Medea dice nel cominciar l’atto II:

Occidimus, aures pepulit hymenæus meas.
Hoc facere Jason potuit?

Cresce il suo furore; numera i passati delitti da lei commessi per amore, e soggiugne,

. . . . . . nullum scelus
Irata feci.

Sommamente energica è la risposta che dà alla Nutrice, quando questa le rappresenta che si trova priva di ogni soccorso. Ecco le parole di entrambe:

Tut.

Abiere Colchi, Conjugis nulla est fides,
Nihilque superest opibus tantis tibi.

Med.

Medea superest.

Questa sublime risposta è seguita da un dialogo enfatico e rapido:

Nut.

Rex est timendus.

Med.

Rex meus fuerat pater.

Nut.

Non metuis arma?

Med.

Sint licet terra edita.

Nut.

Moriere.

Med.

Cupio.

Nut.

Profuge.

Met.

Pœnituit fugæ.
Medea fugiam?

Nut.

Mater es.

Med.

Cui sim, vides.

Nella scena con Creonte scernesi il medesimo artificio della tragedia Greca; ma si vuol notare in questa Latina che Medea in mezzo alle preghiere serba certo nobile contegno che tira l’attenzione. Di più l’ interesse in questa par maggiore, perchè Seneca ingegnosamente suppone esser Giasone astretto a sposar Creusa per evitar la morte, perchè Acasto figliuolo di Pelia minaccia di saccheggiar Corinto, se Creonte non rende i colpevoli al castigo che gli attende. Or Giasone provvede alla sua salvezza promettendo di sposar la figlia di Creonte, e Medea rimane sola la vittima dello Stato, e quindi obbligata ad abbandonar tosto Corinto ottiene a stento la dilazione di un solo giorno. Nell’atto terzo è una scena piena di bellezze l’incontro di Giasone e Medea. Vi si mostra alla prima meno odiosa l’infedeltà di Giasone e in certo modo scusabile, trovandosi egli nella dura necessità di morire insieme con i figliuoli, o di tradir Medea:

. . . . . . . . . Si vellem fidem
Præstare meritis conjugis, letho fuit
Caput offerendum: si mori nolimus, fide
Misero carendum est. Non timor vincit virum,
Sed trepida pietas . . . . . . .
Nati patrem vicere.

L’indignazione, l’impeto, l’orgoglio, tutta in somma ad ogni tratto Medea si manifesta. Avvedutasi di Giasone gli va incontro con questa amara ironìa:

Fugimus, Jason, fugimus: hoc non est novum.

Ma dove andrà?

. . . . . . . Phasim & Colchos petam,
Patriumque regnum?

la qual cosa è tratta dalla Medea di Euripide. Giasone le domanda,

Objicere crimen quod potes tandem mihi?

ed ella, quodcumque feci, risponde con enfasi, disdegno e calore. La stessa sublimità spicca nella risposta data all’altra di lui domanda:

Jaf.

Quid facere possim, eloquere.

Med.

Pro me vel scelus.

Si scusa lo sposo infedele col timore de’ due re Creonte ed Acasto, hinc rex & illinc; e Medea minaccevole gli ricorda quanto sia più da temersi la sola Medea,

. . . . . . . Est & his major metus Medea.

Alta extimesco sceptra, soggiugne Giasone; e Medea rinfacciandogli le di lui mire ambiziose replica, ne cupias vide. Giasone vuol troncare il discorso, ed ella freme, invoca Giove, ne implora i fulmini sopra qualunque di loro due. Tenta egli in fine di moderarne le furie ad ogni costo, insinuandole di chiedere qualche conforto; al che ella domanda i figliuoli per condurli seco. Ma il padre risolutamente si oppone, manifestando la somma tenerezza che ha per essi,

Spiritu citius queam
Carere, membris, luce.

Come? tanto trasporto? Sic gnatos amat? dice Medea maravigliata: Bene est; tenetur; vulneri patuit locus. Questa bellezza, questa giudiziosa catena di pensieri, questa origine dell’ultimo gran delitto di Medea così scortamente disviluppata, è pure sfuggita ad Euripide. Ma le studiate bellezze poetiche profuse nell’ atto quarto, allorchè la Nutrice novera i veleni raccolti e gl’ incantesimi soverchiamente particolareggiati con descrizioni mitologiche e geografiche, appartengono a tutt’altro genere che al drammatico; benchè l’azione onde venivano accompagnati, dovea forse produrre sulla scena Romana un vago effetto. Bella in Euripide è la narrazione dell’ incendio e della morte di Creonte e della figliuola, che serve a far trionfare Medea per la ben riuscita vendetta; ma forse non men bellamente Seneca se ne disbriga in quattro o sei versi, scorrendo più rapidamente alla tremenda strage de’ figliuoli per trafiggere nella più tenera parte il cuor del padre. La Nutrice atterrita esorta Medea a fuggirsi. Egon’ ut recedam? risponde ella colla solita energìa e ferocia: Si profugissem prius, ad hoc redirem. E si accende, e si dà moto per eseguire ciò che le rimane a fare. Fas omne cedat . . . . Quidquid admissum est adhuc, Pietas vocetur . . . . Prolusit dolor Per ista noster . . . . Nescio quid ferox decrevit animus intus . . . . Ex pellice utinam liberos hostis meus Aliquot haberet! Quidquid ex illo tuum est, Creusa peperit. Tratti grandi ed espressi gravemente, che manifestano la serie de’ pensieri che la conducono al gran misfatto. E’ parimente maneggiata con vigore l’ esitazione ed il contrasto di Medea madre con Medea consorte oltraggiata:

. . . . . . . . Liberi quondam mei,
Vos pro paternis sceleribus pœnas date . . . .
Cor pepulit horror, membra torpescunt gelu,
Pectusque tremuit; ira discessit loco,
Materque tota, Conjuge expulsa, redit.
Egon’ ut meorum liberum ac prolis meæ
Fundam cruorem? . . . . . .
. . . . . . . Quod scelus miseri luent?
Scelus est Jason genitor, & majus scelus
Medea mater. Occidant: non sunt mei.
Pereant, mei sunt &c.

Ucciso un figlio giugne Giasone e porge a Medea lo spietato piacere di trucidar l’altro sotto gli occhi del padre:

. . . . . . Deerat hoc unum mihi,
Spectator ipse: nihil adhuc factum reor,
Quidquid sine isto fecimus sceleris, periit.

Nuovo interesse, nuova situazione estremamente tragica, quadro fuor di modo orribile. Un figlio svenato, una madre in attodi trapassare il cuore all’altro, un padre trafitto dallo spettacolo del primo e spaventato dall’irreparabil morte imminente dell’altro. Egli prega, piagne, smania, vuol morire in vece del figlio, e la madre disumanata insultandolo risponde:

Hac quà recusas, quà doles, ferrum exigam.
In matre si quod pignus etiamnum latet,
Scrutabor ense viscera, & ferro extraham.

Che idee! che terribili pennellate! Esse risvegliano il fremito dell’ umanità, e giustificano il gusto di chi detestando il fatto ne ammira la dipintura. Non avea torto Orazio allorchè del latino linguaggio affermava che

. . . . spirat tragicum satis, & feliciter audet.

Da alcuni questa Medea latina è antiposta alla greca. Noi non osiamo giudicare del patetico che in entrambe si trova espresso con tanta verità che giugne al cuore. Ma la condotta della latina sembra più rapida e più regolare, e vi si eccita il terrore con tratti così forti e vivaci che farebbero nobile comparsa in qualunque tragedia di Eschilo e di Euripide126. Notava M. de Voltaire in tal tragedia come un principal difetto che essa, al suo dire, non produce interesse in pro di veruna persona. Medée (diceva) est une méchante femme qui se venge d’un malhonnête homme. La maniere dont Corneille a traité ce sujet, nous révolte aujourd’hui; celle d’Euripide & de Séneque nous révolterait encor davantage (Nota X). Affermava ancora che essa presso i Romani non ebbe felice incontro. Se quest’ultima notizia è vera (di che non mi si è presentato sinora verun documento), non sarà avvenuto perchè Medea è malvagia e Giasone un perfido. Medea tuttochè feroce alla prima ha dritto di lagnarsi dell’indegna incostanza di Giasone, ed allora ha per se i voti dell’uditorio; Medea indi eccede nel vendicarsi sino ad una inaudita spietatezza, e n’è detestata, ed eccita l’orrore dello spettatore. L’ un movimento e l’altro è naturale effetto delle ben dipinte gran passioni che perturbano ed interessano, se non per uno o per un altro personaggio, per tutta l’azione. L’essersi conservato quest’atroce argomento per tanti secoli, l’aver trattenute tante diverse nazioni ed acceso l’entusiasmo di tante penne e di tanti pennelli, c’induce a dubitare della giustezza dell’osservazione del Signor di Voltaire.

La stessa mano della Medea sembraci che abbia colorito l’Ippolito, benchè lo stile ne sia più ornato e talvolta più del bisogno verboso specialmente nell’atto primo. Molte ciarle in assai bei versi contiene la scena d’Ippolito e della Nutrice dell’atto secondo, dove poeticamente espongonsi le lodi della vita semplice rusticale, e vi si ammirano varie belle imitazioni di alcuni passi di Esiodo e di Ovidio. Il solo squarcio che convenga direttamente all’argomento si racchiude ne’ sei ultimi versi del ragionamento d’ Ippolito, Sed dux malorum fœmina; e quel che veramente caratterizza questo personaggio è la risposta data con impeto e vivacità a ciò che dice la Nutrice:

Nut.

Cur omnium fit culpa paucorum scelus?

Ip.

Detestor omnes, horreo, fugio, execror: Sit ratio, sit natura, sit dirus furor, Odisse placuit.

Eccellente è la scena della dichiarazione di amore fatta da Fedra ad Ippolito; e M. Racine che l’ha presso che interamente copiata nella sua Fedra, ne ha renduta meno vivace l’introduzione. L’autor latino mostra lo stato compassionevole della regina, e la fa cadere tramortita nelle braccia d’Ippolito. Rinvenuta esita ancora, non sa risolversi a parlare; al fine fassi animo alle parole d’Ippolito, Committe curas auribus, mater, meis. Questo nome di madre che pure la molesta, le somministra l’introduzione:

Matris superbum est nomen, & nimium potens;
Nostros humilius nomen affectus decet,
Me vel sororem, Hyppolite, vel famulam voca,
Famulamque potius.
Mandata recipe sceptra; me famulam accipe,
Te imperia regere, me decet jussa exequi,
Muliebre non est regna tutari patris.
Tu qui juventæ flore primævo viges,
Cives paterno fortis imperio reges,
Sinu receptam, supplicem, ac servam tege.
Miserere viduæ.

Questa offerta dello scettro fatta da Fedra con tanto garbo, ha servito a Racine per formarne una scena intera. Ippolito col promettere semplicemente di proteggerla,

Et te tuebor, esse ne viduam putes,
Ac tibi parentis ipse supplebo locum,

avviva le di lei speranze, e l’anima a palesarsi amante. Ippolito o per farla ravvedere, o perchè ancora non ben l’intenda, le dice, Amore nempe Thesei casto furis? Sì, risponde Fedra già incapace di ritirarsi, di Teseo ma giovanetto:

   Thesei vultus amo
Illos priores quos tulit quondam puer;
. . . . . . genitor in te totus . . . .
Tibi mutor uni . . . . . . . .
Miserere amantis.

Bellissima è l’indignazione d’Ippolito:

Magne regnator deum,
Tam lentus audis scelera . . . . .?
In me tona, me fige . . . .
Sum nocens, merui mori,
Placui novercæ.

Commosse a questo segno le passioni, la scena prende maggior movimento e vigore. Non è meno vivace l’atto terzo in cui Fedra accusa della propria colpa l’innocente Ippolito, e Teseo in di lui danno invoca il soccorso di Nettuno obbligato a compiere l’ultimo di lui desiderio. L’ atto quarto cavato interamente da Euripide contiene il magnifico elegante racconto del mostro marino e della disgraziata morte d’ Ippolito. Vivace è la dipintura de’ cavalli inalberati:

Tum verò pavidâ sonipes mente exciti
Imperia solvunt, seque luctantur jugo
Eripere, rectique in pedes jactant onus.

L’evento funesto chiama le lagrime sugli occhi di Teseo,

Occidere volui noxium (egli dice), amissum fleo.
. . . . . . Malorum maximum hunc cumulum reor,
Si abominanda casus optata efficit.

Nut.

Et si odia servas, cur madent fletu genæ?

Th.

Quod interimi, non quod amisi, fleo.

versi eccellenti, pensieri giusti, tragici, disviluppati leggiadramente, a tempo, e con passione. Il dolore, i rimorsi, le furie della madrigna, la funesta sua risoluzione di seguire Ippolito, tutto è con vigore espresso.

Con tutto ciò le bellezze della Fedra greca sorpassano di gran lunga quelle dell’Ippolito latino, che per altro per le additate maestrevoli pennellate merita non poca lode, ed ha molto contribuito ad arricchire la Fedra del gran tragico Francese, secondochè il lodato Brumoy con ingenuità parimente confessa (Nota XI.). Si è finora detto e ripetuto sino all’estrema noja: Seneca è gonfio, monotono, affettato; abusa delle sentenze e delle antitesi; declama; il suo stile sente di scuola. Ma è poi vero che alterò sempre la semplicità e verità della natura nell’imitare le greche tragedie, e che corruppe, come altri disse, quel vin Greco sì sano e sì grato colla sua mordente acquavite? Seneca spessissime volte per troppa voglia di farsi ammirare cade in una manifesta affettazione; ma Seneca ha molte bellezze che meritano di notarsi, e se non vince o non uguaglia sempre i Greci, talora ai soggetti medesimi di Euripide presta maestà e vigore127. Seneca dunque non sempre è affettato declamatore e secco filosofo; e doveasi dagl’ intelligenti (se volevano dare una pruova di non copiarsi alla cieca l’un l’altro) sceverar dal grano la paglia; ciò che rare volte si è fatto. Non si vuol decidere per sistema anticipatamente adottato, ma per esame ben ragionato. Se i giovani leggeranno le opere teatrali in simil guisa, ravviseranno molte bellezze degli antichi, e mostreranno a pruova di saper ben leggere e bene intendere, e daranno a’ critici di sistema occasione di rilegger canuti gli autori dal loro tripode approvati o condannati negli anni più verdi. Questa è la sola maniera di bene ed utilmente favellare di quello di cui tante volte si è scritto.

Accompagna degnamente le tragedie descritte la Troade, la quale abbraccia parte dell’Ecuba e parte delle Trojane di Euripide, aggirandosi sulla divisione delle schiave Trojane tra’ vincitori, sul sacrifizio di Polissena all’ombra di Achille, e sulla morte di Astianatte. Sublime n’è lo stile, molto vaghi ne sono i versi, nè vi si scorgono molte antitesi e sentenze affettate che la deturpino (Nota XII). Querelasi Ecuba nobilmente de’ mali della patria e della sua famiglia nell’atto primo, mal grado di quel falso pensiero, Priamus flammâ indiget ardente Trojâ. Tutti i cori delle tragedie latine, ancorchè ben verseggiati, cedono d’assai a quelli delle greche per artifizio, interesse e passione, che che ne dicesse nel secolo decimosesto il celebre gramatico Bartolommeo Riccio (Nota XIII). Ma questo primo coro della Troade accoppiato ai lamenti di Ecuba rassomiglia ad alcuni delle greche tragedie, e dovè riuscire assai comodo alla musica per gli oggetti diversi che le appresta. Nell’atto secondo la vivace contesa di Pirro e Agamennone presenta i caratteri del vecchio re e del giovane eroe coloriti con brio. Singolarmente il discorso di Agamennone, Juvenile vitium est regere non posse impetum, è grave, nobile, sobrio e ripieno di bellezza:

. . . . . . magna momento obrui
Vincendo didici.
Tu me superbum, Priame, tu timidum facis.
. . . . . . Exactum satis
Pœnarum, & ultra, est. Regia ut virgo occidat,
Non patiar. In me culpa cunctorum redit . . . . .
Qui non vetat peccare, cum possit, jubet.

Il giudizioso leggitore ammirerà sì gravi e saggi concetti senza fermarsi nel bisticcio,

O tumide, rerum dum secundarum status
Extollit animos, timide cum increpuit metus.

Ma l’originale bellezza dell’eccellente atto terzo gareggia colle più teatrali patetiche situazioni del greco coturno. Astianatte rinserrato nella tomba di Ettore e scoperto dall’astuto Ulisse, le materne agitazioni e preghiere, l’inflessibilità del greco, tutto in somma produce un movimento che tira l’attenzione universale, e lacera tutti i cuori sensibili. Il sogno di Andromaca è primieramente descritto con immagini patetiche e senza superfluità liriche:

. . . . . ., Subitò nostros Hector ante oculos stetit,
Non qualis ultro bella in Argivos ferens,
Sed fessus ac dejectus, & fletu gravis.
Depelle somnos, inquit, & natum eripe,
O fida conjux. Lateat: hæc una est salus.
Omitte fletus. Troja quod cecidit, gemis?
Utinam jaceret tota!

La visione del consorte apporta con molta naturalezza la comparazione del padre col figlio somministrata da Virgilio, sic oculos, sic ille manus, sic ora ferebat:

. . . . . . . . Hos vultus meus
Habebat Hector, talis incessu fuit,
Habituque talis; sic tulit fortes manus &c.

Cerca poi Andromaca un luogo per sottrarlo alle inchieste, e si determina al sepolcro del padre:

. . . . . . . . Optimè credam patri.
Sudor per artus frigidus totos cadit.
Omen tremisco misera feralis loci . . .
Succede tumulo, nate; quid retrò fugis?
. . . . . . . . . Agnosco indolem,
Pudet timere. Spiritus magnos fuge,
Animosque veteres: sume quos casus dedit;
En intuere turba quæ simus super,
Tumulus, puer, captiva.

Chiuso il fanciullo sopravviene Ulisse a chiederlo, Ubi natus est? al che Andromaca ripiglia,

. . . . Ubi Hector? ubi cuncti Phryges?
Ubi Priamus? Unum quæris, ego quæro omnia.

Finge poi di cedere forzata a confessare che Astianatte è morto, e con equivoco giuramento conferma che luce caret, inter extinctos jacet. Crede per un istante Ulisse, indi dubita, e dice a se medesimo: richiama le tue usate frodi e tutto te stesso, o Ulisse,

Scrutare matrem. Mœret, illacrymat, gemit:
Et huc & illuc anxios gressus refert,
Missasque voces aure sollicitâ excipit.

Gran verità! gran naturalezza! gran conoscenza de’ caratteri delle passioni! In questa scena veramente teatrale, non v’ha mordente acquavite che corrompa il vin grato e sano apprestato dalla natura. Indi con molta avvedutezza lo scaltro Itacense conchiude: magis hæc timet, quam mœret. E perchè totalmente scoppi la tenerezza materna, cerca atterrirla:

Tibi gratulandum est, misera, quod nato cares,
Quem mors manebat sæva, præcipitem datum
E turre, lapsis sola quæ muris manet;

Alla qual cosa Andromaca sbigottisce:

Reliquit animus, membra quatiuntur, labant,
Torpetque vinctus frigido sanguis gelu.

Dice allora Ulisse che l’osserva attentamente:

En tremuit. hac hac parte quærenda est mihi.
Matrem timor detexit. Iterabo metum.

Comanda a’ seguaci che si cerchi Astianatte per tutto; indi finge che si sia trovato e preso alle spalle di Andromaca:

Bene est, tenetur. Perge, festina, attrache.
Quid respicis, trepidasque?

Porta l’ultimo colpo a questa infelice madre il pensiero che sopravviene ad Ulisse di spargere al mare almeno le ceneri di Ettore, abbattendo la di lui tomba, quando non si possa avere il di lui figlio per ucciderlo. Che farà la misera madre? Parlando palesa il figlio, e tacendo, senza salvarlo, soffre che si profanino e dispergano le amate reliquie del gran consorte. Vinta dunque dall’ astuto volgesi alle preghiere, confessando di esser vivo Astianatte; miserere matris, ella gli dice; ed Ulisse, exibe gnatum, & roga. Ogni passo di questa scena è un prezioso quadro della natura colorita maestrevolmente. Il fanciullo tratto dalla tomba da’ seguaci di Ulisse grida, miserere, mater, e la desolata Andromaca,

Quid meos retines sinus,
Manusque matris? cussa præsidia occupas;

immagine vaghissima presa da Euripide. La comparazione però da questo tragico Greco fatta e chiusa in un verso dell’augellino che si ricovera sotto le ali della madre, è assai più delicata e bella, che quella da Seneca quì usata e distesa in quattro versi e mezzo, del giovenco che impaurito dal ruggito del lione si appressa alla madre. Cresce l’ interesse e il lutto nell’atto quarto, vedendosi condotta con inganno Polissena al sacrifizio, e annunziandosi alle prigioniere, quali padroni sieno loro caduti in sorte. Si narra nell’atto quinto l’intrepida morte di Polissena, ed il precipizio di Astianatte. A questo terribile racconto però Andromaca si ricorda delle crudeltà esercitate in Colco, degli Scìti erranti, degl’ Ircani, degli altari di Busiride, de’ cavalli di Diomede; ma, oimè! l’uomo di buon gusto e discernimento quì vede il poeta, quando aspettava di vedere quella medesima madre trafitta e sì al vivo scolpita nell’atto terzo. Trovansi di questa tragedia varie espressioni bellamente imitate dal Metastasio. Seneca dice nell’atto secondo: Si manes habent curas priores, nec perit flammis amor, ed il Poeta Cesareo nel Catone,

S’è ver ch’oltre la tomba amin gli estinti.

Seneca nell’atto terzo: Levia perpessæ sumus, si flenda patimur, ed il Metastasio nell’Artaserse,

Picciolo è il duol, quando permette il pianto.

Seneca nell’atto quarto: Perge thalamos appara, quid tedis opus est, quidve solemni face? Quid igne? thalamis Troja prælucet novis, ed il nostro Drammatico nella Didone,

Va pure, affretta il piede,
Che al talamo reale ardon le tede.

L’autore dell’Edipo latino, sia per istile sia per condotta di azione, dimostra esser diverso da quello delle tre precedenti tragedie. Sofocle ha somministrata la materia di questa; ma la traccia della favola va peggiorando a misura che si scosta dall’ originale. L’apertura dello spettacolo, in vece di essere una decorazione teatrale e un quadro compassionevole, come è in Sofocle, quì si converte in una cicalata, in una declamazione di Edipo su i mali della peste ripetuti dal coro nell’ atto primo. Sofocle con saggia economia svolge gradatamente i fatti passati, per apportar con garbo quel felice scioglimento che diede alla sua favola; là dove Seneca accenna varie circostanze senzachè l’azione avanzi, ovvero se ne accresca l’interesse. Quel trivio con tanto senno riserbato da Sofocle per la bellissima scena di Giocasta con Edipo, viene da Seneca fatto accennare scioperatamente da Creonte nella prima scena dell’atto secondo, senza che Edipo mostri di ricordarsi che egli in simil luogo ammazzò ancora un uomo. Tiresia che nella favola greca viene alla presenza del re chiamato per ben due volte per ricordo di Creonte, nella latina si presenta spontaneamente senza esser la di lui venuta preparata o attesa; sebbene al volgo Romano superstizioso sarà riuscito grato e popolare lo spettacolo dell’auspicio. Ma ciò nè anche bastando all’augure, alia, dice, tentanda est via.

Ipse evocandus noctis æternæ plagis,
Emissus erebo ut cædis auctorem indicet.

E con ciò si prepara per l’atto terzo un lunghissimo racconto dell’ evocazione delle ombre e di Lajo. La scena di Edipo e Giocasta in Sofocle tira l’attenzione di chi legge, mentre quanto Giocasta adduce per dissipare i timori del re, tutto sventuratamente serve per aumentarli e per accendere vie più in lui la curiosità di abboccarsi col pastore. All’opposto in Seneca nell’atto quarto è magrissima e pressochè sfornita di passione. Lo scioglimento poi con somma arte maneggiato nella tragedia greca, qui si precipita, non avendo saputo il tragico latino mettere a profitto quelle patetiche situazioni che nello svilupparsi la stessa favola naturalmente appresterebbe. Le disperate riflessioni, i tratti terribili e compassionevoli suggeriti a Sofocle dalla situazione deplorabile e dall’ acciecamento di Edipo, trovansi presso Seneca sommersi in una piena di studiate e stravaganti locuzioni. Secondo il Messo che lo riferisce, mai Edipo non fu più sofistico ragionatore che sul punto di volersi ammazzare. Moreris? hoc patri sat est. Quid deinde matri? quid male in lucem editis gnatis? quid . . . . flebili patriæ dabis? Solvenda non est illa, quæ leges ratas natura in uno vertit Œdipode, novos commenta partus. É questo forse il linguaggio de’ rimorsi e di un dolor disperato? Egli vuol morire e vivere di bel nuovo e tornare a morire e rinascer sempre,

Iterum vivere, atque iterum mori
Liceat, renasci semper.

Non vuol esser tra’ morti, nè dimorar tra’ vivi,

. . . . . . . . quæratur via,
Quâ nec sepultis mixtus, & vivis tamen
Exemptus erres.
Fodiantur oculi.

E in fatti gli occhi condannati a seguir le lagrime, impazienti appena si contengono nelle occhiaje; e finalmente

. . . . . . . suam intenti manum
Ultro insequuntur: vulneri occurrunt suo.

Se gli svelle dalle radici, e la mano non si sazia di lacerare fin anche le loro sedi, e temendo (dove giugne il delirio del poeta!) che vi abbia a rimaner qualche luce,

. . . . . . . . attollit caput,
Cavisque lustrans orbibus cœli plagas,
Noctem experitur.

Ecco a quali vaneggiamenti conduce nel genere drammatico la frenesia di dir cose non volgari. Egli è però da confessarsi che pur si trova in tal tragedia qualche imitazione fatta di Sofocle non infelicemente, e vi si veggono sparsi quà e là molti bei versi ed alcuni squarci pregevoli. Tale può parere quello dell’atto quarto, quando l’orrore s’impossessa di Edipo già noto a se stesso:

Dehisce tellus, tuque tenebrarum potens
In tartara ima rector
Retro reversas generis ac stirpis vices.
Congerite, cives, saxa in infestum caput;
Mactate telis; me petat ferro parens;
Me natus; in me conjuges arment manus &c.

Meno riprensibile, declamatorio e ampolloso di quello dell’Edipo riferito e dell’Ercole Eteo che or ora osserveremo, sembrami lo stile dell’Agamennone. Non è molto infelicemente espressa nell’atto secondo la situazione di Clitennestra presso a rivedere il marito,

Quocumque me ira, quò dolor, quò spes feret,
Huc ire pergam. Fluctibus dedam ratem.
Ubi animus errat, optimum est casum sequi;

la qual cosa da Metastasio si pose in bocca di Massimo nell’Ezio così:

Il commettersi al caso
Nell’estremo periglio
E’ il consiglio miglior d’ogni consiglio.

Lo stesso nostro celebre Drammatico ne trasse un’ altra sentenza detta pure da Clitennestra,

Remeemus illuc, unde non decuit prius
Abire: sic nunc casta repetatur fides.
Nam sera nunquam est ad bonos mores via.
Quem pœnitet peccasse, penè est innocens.

Fulvia così se ne vale nel’ Ezio:

Non è mai troppo tardi onde si rieda
Per le vie di virtù. Torna innocente
Chi detesta l’error.

Magnifica nell’atto secondo è la dipintura della tempesta che scompiglia e dissipa l’armata greca; e ciò che la rende più lodevole si è che cade in un luogo, in cui senza nuocere all’azione prepara la venuta di Agamennone. Tragicamente e con nobiltà si esprime Cassandra:

Vicere nostra jam metus omnes mala.
Equidem nec ulla cœlites placo prece.
Nec si velint sævire, quo noceant, habent.
Fortuna vires ipsa consumpsit suas.
Quæ patria restat? quis pater? quæ jam soror? &c.

I di lei furori fatidici sono pieni dell’entusiasmo che la trasporta:

Timete, reges, moneo, furtivum genus.
Agrestis ille alumnus evertet domum.
Quid ista vecors tela fœmineâ manu
Districta præfert? . . . .
Quid me vocatis sospitem solam e meis
Umbræ meorum? Te sequor, totâ pater
Trojâ sepulte: frater, auxilium Phrygum &c.

La prima scena dell’atto quarto benchè breve presenta un rapido vivace dialogo di Agamennone lieto di vedersi nella patria, e di Cassandra che predice la prossima di lui morte senza esser creduta. I caratteri sono quali esser debbono, e le passioni non sono tradite dall’affettazione, benchè non mostrino di essere animate con que’ colori della natura che nella Troade e nella Medea enunciano la mano esperta di un buon pittore. Ciò abbiamo voluto con ingenuità rilevare, sebbene il piano di questa favola non sembrami disposto con quel giudizio che si richiede per tener lo spettatore attento e sospeso; e bisognerebbe che le scene vi fossero con più artificio concatenate. Soprattutto nell’atto quinto si scopre la poca destrezza e pratica di teatro che avea l’autor latino; e sempre più si desidera il bellissimo e veramente tragico atto quinto del coronato Agamennone di Eschilo.

Il Tieste è una delle più terribili tragedie per l’ atrocità dell’azione. Ma l’autor latino che d’altro non va in traccia che di declamare, prende a tale oggetto i punti principali dell’argomento l’un dopo l’altro, senza tesserne un viluppo verisimile insieme ed artificioso, come fa Sofocle, che con siffatta industria sin dalle prime scene si concilia l’altrui attenzione; e senza imitar la delicatezza di Euripide, che nulla trascura per ben dipignere gl’ interni movimenti del cuore umano, e riuscire in tal guisa a commovere, perturbare e disporre gli animi agli orribili evenimenti. Uno studio continuato di mostrare ingegno ad ogni parola fa sì che l’autore si affanni per fuggire l’espressioni vere e naturali, e per correr dietro a un sublime talvolta falso, spesso affettato e sempre nojoso per chi si avvede della fatica durata dall’ autore a portar la testa altà e a sostenersi sulle punte de’ piedi. Gli squarci più tragici vengono bruttati dal furore di presentar sempre pensieri maravigliosi. La strage de’ nipoti da Atreo atrocemente eseguita, è ben narrata ne’ seguenti versi:

. . . . . . . O nullo scelus
Credibile ævo, quodque posteritas neget!
Erepta vivis exta pectoribus tremunt,
Spirantque venæ, corque adhuc pavidum salit.
At ille fibras tractat, ac fata inspicit,
Et adhuc calentes viscerum venas notat.
Postquam hostiæ placuere, securus vacat
Jam fratris epulis.

Ma tal maniera naturale di esprimersi è straniera all’autore di questa tragedia, il cui vero carattere torna a comparire nelle seguenti false espressioni dal verso 768 al 775: il fuoco arde di mala voglia, le fiamme piangono, il fumo stesso esce malinconico, e si piega in vece di ascendere direttamente. Avvegnachè alcune sentenze sieno ottime e non affettate, pure per la maggior parte esse hanno l’aria di aforismi, o di responsi di oracolo. Poetiche sono molte comparazioni, ma sembrano assai improprie nel genere rappresentativo, quando sono lunghe e troppo circostanziate. Tale è quella di Atreo nell’ atto terzo: Sic cum feras vestigat, & longo sagax Loro tenetur Umber &c. allungata per ben sette versi; e l’altra dell’atto quarto contenuta in cinque: Jejuna sylvis qualis in Gangeticis &c.; e anche un’ altra del medesimo atto, nè molto da questa lontana, spiegata in altrettanti versi: Sylva jubatus qualis Armeniâ leo &c. Può non per tanto osservarsi in essa più di uno squarcio in cui è sobria la locuzione. Tale è questo dell’atto secondo:

Per regna trepidus exul erravit mea.
Pars nulla nostri tuta ab insidiis vacat.
Corrupta conjux, imperii quassa est fides,
Domus ægra, dubius sanguis: est certi nihil,
Nisi frater hostis.

Bella è pure la sentenza della atto terzo:

Habere regna casus est, virtus dare,

che Metastasio imitò nell’Ezio:

. . . . . . Se non possiedi,
Tu doni i regni, e il possederli è caso,
Il donarli è virtù.

Tratto dal vero è parimente ciò che dice Tieste al figliuolo Plistene nell’atto quarto:

Occurret Argos, populus occurret frequens,
Sed nempe & Atreus . . . .
Nihil timendum video, sed timeo tamen.
Placet ire, pigris membra sub genibus labant,
Alioque, quam quò nitor, abductus feror.

Degno è pur di leggersi quanto aggiugne Tieste un tempo scellerato, ma che nella tragedia si enuncia pentito e corretto dalle sventure, e bramoso della vita privata. Le di lui riflessioni filosofiche son ricavate con molta cura da varie epistole di Seneca. L’elegante descrizione del Bosco sacro e del Larario di Atreo spira magnificenza, e dispone all’orrendo sacrificio de’ figliuoli di Tieste. A taluno parrà soverchio lunga; ma se in qualche occorrenza è permesso al poeta drammatico di adornare ed essere pomposo, egli è in simil congiuntura, in cui l’orrore del luogo ben dipinto contribuisce a destare l’orrore del misfatto. Sublime è anche la risposta di Tieste nell’atto quinto, allorchè Atreo insulta al di lui dolore:

Atr.

. . . . . Gnatos ecquid agnoscis tuos?

Th.

Agnosco fratrem.

L’argomento dell’Ercole furioso è lo stesso di quello di Euripide, ma la condotta dell’azione è cangiata. Nel greco è più manifesta la duplicità della favola, e nel latino i due oggetti, cioè l’ ammazzamento di Lico e il delirio di Ercole colle conseguenze, sembrano più connessi a cagione del prologo di Giunone che forma l’atto primo. Ma poi la tragedia greca trionfa per la vivacità dell’azione e pel vero colorito degli affetti; là dove la latina al paragone par dilombata e senz’anima, e le passioni vi si veggono maneggiate più ad ostentare erudizione in una scuola di declamazione rettorica che a ritrarre al vivo il cuore umano e presentarne agli uomini la dipintura in un teatro. Il discorso di Megara nell’atto secondo sa desiderare il patetico che si ammira nella tragedia di Euripide, quando tutta la famiglia di Ercole spogliata del regno rifugge all’ara di Giove per evitar la morte. Il carattere di Megara si allontana dal gusto greco, e prende l’aspetto di certo eroismo più proprio de’ costumi Romani, il quale a poco a poco si è stabilito ne’ teatri moderni, e ne forma il sublime:

Patrem abstulisti, regna, germanos, larem
Patrium. Quid ultra est? una res superest mihi,
Odium tui;

la qual cosa vedesi dal Metastasio emulata:

. . . . . . . Sola mi avanza
(E il miglior mi restò) la mia costanza.

Cogere, le dice il tiranno; ed ella:

. . . . Cogi qui potest, nescit mori.

Lyr.

Effare, thalamis quod novis potius parem Regale munus?

Meg.

Aut tuam mortem, aut meam.

Venuto Ercole il poeta fa che egli intenda lo stato del regno e voli a trucidare il tiranno; ma intanto che la sua famiglia dovrebbe mostrarsi sollecita dell’esito dell’impresa, Anfitrione si diverte ad ascoltar da Teseo l’avvenimento di cerbero tratto fuori dell’inferno, e a domandare, se in quelle regioni si trovino terre feraci di vino e di frumento. Per altro tale racconto contiene più d’una bellezza, che a miglior tempo si farebbe ammirare. Tale è la nobile descrizione del Giove infernale:

. . . . . . . . Dira majestas deo,
Frons torva, fratrum quæ tamen speciem gerat,
Sed fulminantis. Magna pars regni trucis
Est ipse dominus, cujus aspectum timet
Quidquid timetur.

Tale è pure la pittoresca immagine di cerbero smarrito al vedersi esposto alla luce:

. . . . . . . . Vidit ut clarum æthera,
Et pura nitidi spatia conspexit poli,
Oborta nox est, lumina in terram dedit,
Compressit oculos, & diem invisum expulit,
Aciemque retro flexit, atque omni petiit
Cervice terram, tum sub Herculeâ caput
Abscondit umbrâ.

Meritevoli di particolar lode sono eziandio le preghiere di Ercole nell’ atto quarto. Anfitrione gl’ insinua d’implorar da Giove il termine delle sue fatiche; ed egli risponde, che farà de’ voti di Giove e di se più degni; cioè che il cielo, l’etere e la terra serbino concordi il luogo che ottennero nell’uscir dal caos: che gli astri non sieno turbati nel loro corso: che il mondo goda una perenne pace: che tutto il ferro s’impieghi negl’ innocenti lavori villeschi, e mai non si converta in armi; voti nobili e proprii di un cuor magnanimo. Non è da omettersi la bella espressione di Giunone nell’ atto primo:

. . . . . . Monstra jam desunt mihi,
Minorque labor est Herculi jussa exequi,
Quam mihi jubere;

ch’è una vaga imitazione di ciò che Ovidio con eleganza fe dire all’ istesso Ercole nel IX delle Metamorfosi:

. . . . . . . . Defessa jubendo
Sæva Jovis conjux, ego sum indefessus agendo.

Trovansi in tal tragedia altre sentenze ancora non meritevoli di riprensione.

Ars prima regni est posse te invidiam pati,

che da Metastasio s’inserì nell’Ezio,

La prima arte del regno
E’ il soffrir l’odio altrui;

e quest’altra,

Pacem reduci velle victori expedit,
Victo necesse est,

pur da Metastasio nell’Adriano imitata,

. . . . . . . . Al fin la pace
E’ necessaria al vinto,
Utile al vincitor.

La Tebaide che non ci è pervenuta intera, contiene lo stesso argomento de’ Sette Capi a Tebe di Eschilo, e delle Fenisse di Euripide; ma questa Tebaide latina cede di molto alle due favole greche per istile e condotta. Nel lunghissimo atto primo, benchè pur tronco, presenta una verbosa declamazione di Edipo colla figliuola di circa trecento versi, de’ quali più di 275 esprimono la disperazione e la dolorosa rimembranza delle sventure di Edipo, e si aggirano in tutt’altro che nell’ argomento della Tebaide, di maniera che sembra piuttosto prepararsi l’ azione dell’Edipo ramingo in Colono trattata da Sofocle, che la guerra de’ di lui figliuoli. Ciò debbe da’ poeti fuggirsi con somma cura: perchè lo spettatore che ha motivo d’ingannarsi sul di loro disegno, se ne vendica col disprezzo. Nel frammento dell’atto secondo Edipo comparisce un mentecatto, perchè pregato a interporre la sua autorità fra i due fratelli, egli al contrario fulmina contro di loro varie maledizioni. Non satis est adhuc civile bellum, frater in fratrem ruat; nec hoc sat est &c. Ma perchè mai? qual motivo aveva Edipo di abbandonarli al loro furore? I Greci con più senno fecero derivare la di lui avversione e le maledizioni dal disprezzo e dall’ingratitudine de’ figliuoli verso di lui, come può vedersi nell’Edipo Coloneo. Nell’altro frammento dell’atto terzo si vede il falso gusto dell’autore che non sa internarsi nell’interesse de’ personaggi. Alla notizia della battaglia imminente Antigona prega la madre ad affrettarsi per impedirla: Scelus in propinquo est; occupa, mater, preces. Ed in fatti, come indi dice il messo, ella è accinta a precipitarsi in mezzo alle squadre, come fende l’aria veloce partico strale, come va una nave spinta da vento farioso, o come dal cielo cade una stella. Gran velocità! ma pure avanti di correre in tal guisa ella è arrestata dall’ urgente necessità, di che mai? di declamar sette versi per desiderare un turbine che la trasporti per aria, l’ali d’una sfinge, o di un uccellaccio Stinsalide capaci di ecclissare il sole, o di un’ arpia. Ad onta pure di tutto ciò che salta agli occhi, Giuseppe Scaligero scrivendo a Claudio Salmasio chiamava questa tragedia princeps omnium Senecæ, Martino Del Rio la stimava latinior & melior quam cæteræ, e Giusto Lipsio la riferiva all’aureo secolo di Augusto. Ma le sottigliezze, l’espressioni ampollose, i lampi d’ ingegno ricercati con istudio, l’ oricalco posto in opera in vece dell’oro di quella felice età, enunciano anzi l’indole del secolo in cui si corruppe e si perdè ogni eloquenza e si prese per entusiasmo vigoroso la foga di un energumeno. Dall’altra parte non solo non è, come diceva il dotto Brumoy, la più stravagante di tutte (perchè qual più stravagante dell’Ercole Eteo dallo stesso critico attribuita all’autore dell’Agamennone?), ma possono in essa senza oltraggio del buon senno ammirarsi varii tratti veramente sublimi, e certa vivacità di colorito nelle passioni che difficilmente si rinviene altrove. Rechiamone qualche esempio. Dice la tenera Antigona al padre:

Pars summa patris optimi e regno mea est
Pater ipse . . . . . . .
. . . . . . . . Prohibeas, genitor, licet,
Regam abnuentem. Dirigam invitum gradum.
In plana tendis? vado. Prærupta expetis?
Non obsto, sed præcedo. Quo vis utere
Duce me: duobus omnis eligitur via.
Perire sine me non potes, mecum potes.

Le mostruose nozze con Giocasta sono bene espresse dal medesimo Edipo:

Avi gener, patrisque rivalis sui,
Frater suorum liberum, & fratrum parens;
Uno avia partu liberos peperit viro,
Ac sibi nepotes;

il che è stato nobilmente imitato da Metastasio nel Demofoonte, e forse migliorato per la facilità maggiore di rinvenirvi i rapporti de’ gradi di parentela:

. . . . . . Le chiome in fronte
Mi sento sollevar. Suocero e padre
M’è dunque il re! figlio e nipote Olinto!
Dircea moglie e germana! Ab qual funesta
Confusion di opposti nomi è questa!

Quem, genitor, fugis? dice Antigona al padre agitato, il quale risponde,

Me fugio, fugio conscium scelerum omnium
Pectus, manumque hanc fugio, & hoc cælum, & deos,

che pur dal medesimo drammatico Romano, e forse con più energìa, si trova espresso nel nominato dramma:

Dem.

Ma da chi fuggi?

Tim.

Io fugge
Dagli uomini, da’ numi,
Da voi tutti, e da me.

Vi è moto, affetto, robustezza senza veruna stravaganza in quest’altro squarcio:

Ant.

Perge, o parens . . . . . . .
Compesce tela, fratribus ferrum excute.

Joc.

Ibo, ibo, & armis obvium opponam caput.
Stabo inter arma &c.

Pregevole è pure quest’altro della medesima Giocasta:

. . . . . Misera, quem amplectar prius?
In utramque partem ducor affectu pari.
Hic abfuit. Sed pacta si fratrum valent,
Nunc alter aberit. Ergo non unquam duos,
Nisi sic videbo?

La nobile semplicità delle Trachinie di Sofocle non si rinviene nel piano e nella condotta dell’Ercole Eteo latino che ne deriva. L’atto primo ci mostra Ercole che si trattiene a ciarlare nel promontorio Ceneo in Eubea, ed il rimanente poi si rappresenta in Trachinia. Uno spirito declamatorio senza freno ne contamina i punti più tragici che si ammirano nella tragedia greca (Nota XIV). Il Plautino Pirgopolinice che con un pugno spezza una coscia a un elefante, è un’ ombra a fronte di Alcide, il quale dice a Giove che si rincori, secure regna, mentre il suo braccio ha già fracassato quanto Giove avrebbe dovuto fulminare. Egli domanda in premio il cielo, cioè l’immortalità, poichè già la terra

. . . . timet concipere, nec mostra invenit.
Feræ negantur. Hercules monstri loco
Jam cœpit esse.

Che se poi non avesse finora fatto abbastanza per meritarlo, egli farà di più, congiungerà Peloro all’Italia, cacciando in fuga i mari che si frappongono, muterà tutto l’orbe, darà nuovo corso all’ Istro e al Tanai &c. Il carattere di Dejanira sì bello e naturale presso Sofocle, diviene grossolano nella tragedia latina, e stanca il leggitore nell’atto secondo con mille discorsi che per far senno potevano omettersi. Quanto poi eloquente è il silenzio di lei nella greca, allorchè ha risoluto di andarsi ad uccidere, tanto disadatte sono a commuovere le antitesi, le sentenze affettate, le riflessioni e la nojosa declamazione della Dejanira del tragico latino. Non per tanto in questo lunghissimo componimento di circa duemila versi, fra tanti concetti affettati e strani trovansene alcuni giusti, bene espressi e spogliati d’ogni gonfiezza. Tali sono,

Nunquam est ille miser, cui facile est mori . . . . .
Felices sequeris mors, miseros fugis;

che Metastasio imitò nell’Artaserse:

Perchè tarda è mai la morte,
Quando è termine al martir?
A chi vive in lieta sorte,
É sollecito il morir!
O si pateant pectora ditum,
Quando intus sublimis agit
Fortuna metus!

pure leggiadramente recato in Italiano dal medesimo poeta Cesareo:

Se a ciascum l’interno affanno,
Si vedesse in fronte scritto,
Quanti mai che invidia fanno,
Desterebbero pietà.
. . . . Tot feras vici horridas,
Reges, tyrannos; non tamen vultus meos
In astra torsi. Semper hæc nobis manus
Votum spopondit. Nulla propter me sacro
Micuere cælo fulmina. Hic aliquid dies
Optare jussit. Primus audierit preces,
Idemque summus. Unicum fulmen peto.
Effare . . . . . . . . . . . . . .
. . . . Vultu quonam tulerit Alcides necem?

Ph.

Quo nemo vitam. (Nota XV).

La snervata Ottavia sembra produzione di un rettorico novizio che mai non conobbe teatro, nè si curò di osservare l’artifizio de’ Greci poeti. Gherardo Vossio la crede opera di Floro, e Giuseppe Scaligero sospetta esser parto di Sceva Memore. Principia la prima scena con una declamazione o elegia generale di Ottavia, la quale esce e si ritira senza perchè. Le succede una Nutrice che si querela delle vicissitudini che accadono nelle reggie. Ottavia senza cagione ancora comparisce di nuovo a lamentarsi della fortuna. La Nutrice ne ascolta la voce, e facendo un’ apostrofe alla propria vecchiaja (cessas thalamis inferre gradus, tarda senectus) le va incontro, e cominciano le nenie a due. Apre l’ atto secondo Seneca che pur viene non si sa perchè, e si mette a moralizzare sulle diverse età del mondo, ravvisando in quella in cui egli vive i vizii di ciascheduna,

Collecta vitia per tot ætates diu
In nos redundant.

Ma ciò serve punto a fare avanzar l’azione? Al contrario; fin quì essa nè anche può dirsi incominciata. Sopraggiugne Nerone; insorge una disputa generica tra il discepolo e ’l maestro; sostiene ciascuno la propria tesi con caparbieria scolastica; lancia l’una e l’altra parte un cumulo di sentenze proposte o risposte ex abrupto; e dopo una lunghissima tiritera di più di cento versi, si manifesta l’ intento di Nerone di ripudiare Ottavia e sposar Poppea, che è la meschina azione della tragedia, sulla quale si favella appena in poco più di trenta versi. Ma diceva benissimo Boileau,

Le sujet n’est jamais assez tôt expliqué.

Scappa dall’inferno nell’atto terzo l’ombra di Agrippina per precedere alle nozze di Poppea colla fiaccola accesa in Acheronte, declama a sua posta, indi accortasi forse ella stessa della sua nojosa cicalata si determina a partire:

Quid tegere cesso tartaro vultus meos?

Chiude l’atto Ottavia rimandata alla casa paterna, ed il Coro la compiange. Nell’atto quarto un’ altra Nutrice accompagna Poppea, intende i di lei timori cagionati da un sogno funesto, e sembra che vadano a cominciare una nuova tragedia. Il Coro loda la bellezza di Poppea; e un messo enuncia il tumulto del popolo pel ripudio di Ottavia. Narrasi nel quinto che il tumulto è già sedato. Nerone comanda che Ottavia sia relegata nell’isola Pandataria del golfo di Gaeta, che nel Napoletano dialetto oggi dicesi Vientotene; e in fatti ella viene fuori condotta da’ soldati per imbarcarsi. Che languidezza! che gelo! che noja! Qual differenza enorme tralla sublime terribile Medea, e questi dialoghi scolareschi senz’arte, senza interesse, senza moto, senza contrasti e senza tragiche situazioni.

Tale per mio avviso è Seneca, o per meglio dire ciascuno autore delle dieci tragedie latine che sotto il-di lui nome ci sono rimaste. Non so se in questo giudizio i leggitori sereni troveranno parzialità, ingiustia, o difetto di lettura o d’ intendimento; so però che il critico illuminato che ve ne scorgesse, dovrebbe avvertirne il pubblico con buone ragioni esposte con urbanità e moderazione, e non già con decisioni enfaticamente profferite in qualche prefazione e alla guisa degli oracoli, nelle quali sempre trovasi il mistero e di rado il gusto, o la verità, o la giustizia128.