CAPO I
I. Tragedie reali.
Risorgeva a gran passi nel cader del passato secolo il gusto della vera eloquenza nelle contrade chiuse dalle Alpi; e già nel 1690 de’ suoi allievi e proseliti potè in Roma formarsi un’ accademia sotto il modesto titolo di Arcadia, le cui colonie si sparsero per l’ Italia tutta. L’antica poesia de’ Greci e de’ Latini ricondotta trionfante ne’ sette colli inspirava disprezzo e pietà per le scuole Gongoresche e Mariniste e venerazione e amore per Dante e Petrarca che bevvero in que’ puri fonti. Il cardinal Delfino e ’l barone Caracci35 furono i precursori del rinascimento della tragedia italiana.
L’onore di primo restauratore di essa nel nostro secolo debbesi senza dubbio al Bolognese Pier Jacopo Martelli nato nel 1665 e morto nel 1727 secondo l’epitafio fattogli dall’illustre matematico e poeta Eustachio Manfredi. Martelli chiaro in Arcadia col nome di Mirtillo, munito di dottrina, d’ingegno e di gusto, emulo del Maffei e del Gravina36, avea cominciato a comporre qualche dramma musicale, e si rivolse indi alle tragedie, che s’ impressero in più volumi. Niuno può negargli nè la regolarità che sempre osserva, nè la ricchezza, la sublimità e l’eleganza dello stile, nè la copia de’ pensieri, nè l’arte di colorire acconciamente i caratteri e le passioni. Nocquegli in molte▶ di esse la versificazione che prescelse, ad onta di averla renduta al possibile armoniosa, sì per esser nuova in teatro, sì per la rima e la monotonia che l’accompagna, e le di lui tragedie dopo alcuni anni cessarono di rappresentarsi. Certo è però che i forestieri stessi non furongli avari de’ loro applausi. I giornalisti Olandesi ne manifestarono varj pregi, e quelli di Trevoux asserirono che pochi tragici pareggiavano il Martelli. Certo è pure che la compagnia di Luigi Riccoboni le rappresentò con applauso non equivoco in Verona, in Venezia, in Bologna. Certo è finalmente che chi comprende le vere bellezze tragiche, ve ne incontra un gran numero non solo nelle più applaudite, come sono Perselide, Ifigenia in Tauri, Alceste, ma nel Procolo, nel Cicerone, nel Q. Fabio, nel Taimingi &c. 37. La semplicità della condotta, la nobiltà de’ sentimenti, l’eleganza e la gravità dello stile, la compassione maneggiata con arte e decenza, il magnanimo carattere di Mustafo, il tenero e patetico di Perselide, la dipintura d’un Ottomano geloso del potere, e perciò crudele in Solimano, costituiscono il merito della Perselide. Altra volta recammo per saggio dello stile e della versificazione l’ appassionato monologo di Perselide dell’atto III, Eccomi donna e sola fra barbari crudeli &c. che la dipinge egregiamente. Osserviamo ora in due frammenti in qual guisa si esprima Solimano e Mustafo. Il primo nell’atto IV dopo aver deliberata la morte del suo gran figlio sente la natura che pugna colla barbarie e col sospetto. Egli dice:
Dunque le altere doti che amabile lo fanno,Che fur già mia delizia, gli si volgono in danno?Io fui che gliele infusi, che l’educai perchè essoFusse amato, e perchè altri l’ama, il punisco io stesso?Misero, il penso e vivo? nè questo cor mi schianto,Che di dolor non scoppia? . . . Soliman? questo è pianto!Non v’è già chi mi veda? Lagrime vili, il corsoFrenate: ahi per cent’occhi bastami il mio rimorso!Or sei morto, mio figlio, or che il pianto mi cade;Scacciam la debolezza sin colla crudeltade ..
La delicatezza dell’espressioni di Mustafo che va a morire, è notabile: egli non vuol dirlo chiaramente a Perselide, e pur vorrebbe far sapere a Zeanghire che muore suo amico:
Quel che udisti e vedrai, per pietà non gli dire,Se no, invidia o dolore te lo faran morire.So quanto ei m’ami e quanto lui dalle fasce amai;Tu pur, vergine degna di miglior sorte, il sai.Per me segui ad amarlo: le voglie tue sian sue,Tue sian le sue: sì uniti siate ambo in ambedue.Virtù piacciavi sempre, che alfin s’oltre la morteSiam qualche cosa, il premio ne avrà l’anima forte.Siate fidi al Soldano; siane in difesa a i troniIl braccio del tuo sposo che com’ io gli perdoni.Addio.Persel.
Ma forse in guerra ti chiamano i perigli?Preserveranti i numi a quai tanto somigli.Non mi parlar qual parla chi più non si rivede.Musta.
Al suocero, allo sposo obedienza e fede.Questi estremi ricordi serba col tuo consorte,E non cercar più nulla di qualunque mia sorte.Sol se qualche novella (che al fin verrà cred’ io)Giugnerà a Zeanghire, digli a mio nome addio:Digli che del suo nome nelle note a me carePartir tu mi vedesti, e finir di parlare.
Una tragedia di tal pregio non meritava occupare il luogo delle Gemelle Capuane o di qualche altra del Teatro Italiano? Ciò che diffinisce i primi progressi della tragedia italiana sin dal principio di questo secolo, è appunto la saggia imitazione fatta dal Martelli dell’Ifigenia in Tauri e dell’Alceste di Euripide. Gl’ Italiani del XVI secolo aveano trasportati i greci argomenti con troppo scrupolosa osservanza delle antiche vestigia, ed i Francesi del XVII secolo fecero un passo di più maneggiandoli in guisa che si adattassero al popolo ed al tempo in cui si ripetono. Il Martelli partecipò felicemente di questa gloria, e con miglior senno de’ nostri cinquecentisti accomodò all’importanza e alla vaghezza de’ greci argomenti l’artifizio della moderna economia. Il confronto dell’Ifigenia in Tauri di Euripide con quella del Martelli mostrerà sempre al giovane studioso la maniera di modernar le greche favole con vantaggio e senza sconciarle. Chi si sovverrà dell’Alceste del medesimo Greco, avendo sotto gli occhi quella del Martelli, vedrà nella moderna conservato l’ interesse dell’antica senza inverisimilitudini, senza il trionfo di Ercole nell’inferno e senza le indecenti altercazioni di Admeto col padre.
Impaziente parimente del risorgimento della nostra tragedia il celebre Calabrese Gian Vincenzo Gravina volle richiamarci allo studio de’ Greci, e scrisse in tre mesi cinque tragedie, Palamede, Andromeda, Servio Tullio, Appio Claudio, Papiniano. La bella semplicità cui si attenne nel tesserle, piacque agli eruditi, e per questa parte fu applaudito dall’istesso Martelli; ma s’ingannò in più maniere nell’esecuzione del suo disegno. Pieno com’ era della più riposta erudizione greca, poteva far risalire i leggitori sino a’ costumi de’ remoti popoli della Grecia nel Palamede e nell’Andromeda; ma qual vantaggio poteva ciò recare al moderno teatro che sì poco desiderava le stesse lodate tragedie de’ cinquecentisti? Dovea egli poi serbare il modo stesso negli altri tre argomenti Romani? Conveniva a questi la veste greca? Volle ancora adoperare alla greca maniera la varietà de’ metri, e sventuratamente elesse l’endecasillabo sdrucciolo per verso principale (già usato dal Grattarolo nella Altea e nella Polissena), lusingandosi di poterlo elevare alla grandezza tragica e sostituirlo al giambico antico; ma questo sforzo inutile ferì l’orecchie italiane. De’ Greci (suggerisce il giudizio e il gusto) vuolsi imitar lo spirito e non il portamento e le spoglie esteriori. Con tutto ciò molta ingiustizia gli fecero i contemporanei e fangli alcuni semidotti de’ giorni nostri. Non si proponga a modello, ma se ne rilevino i pregi che possiede. Se ne censuri la versificazione, l’ uso frequente de’ latinismi, l’affettazione di alcune similitudini poste in canzonette, il suo modo di sceneggiare all’antica &c. Ma se ne comendi la regolarità e il giudizio, e si vegga il filosofo e l’ erudito nell’artificiosa pittura de’ moderni costumi applicata a’ personaggi delle sue favole imitando l’arte di satireggiare di Euripide, specialmente nel Papiniano. Soprattutto si encomj col dotto critico Pietro di Calepio per aver saputo travestire ed applicare all’azione quella sorte di sentenze che contengono massime di morale, nella quale arte il Gravina si è distinto da gran parte de’ nostri poeti &c. Si mostrerà sempre un critico dozzinale colui che proponesse alla gioventù un solo scrittore per modello, alcuno non trovandosene nel suo genere sì compiuto che tutte contenga le perfezzioni. La filosofia consiglierà sempre a valersi della nota sagacità di quel Greco pittore che raccolse da ◀molte▶ leggiadre donne le sparse parti della beltà per formarne la sua Venere. Questo esser dee l’uffizio della vera storia teatrale ragionata; e questo non sanno fare nè i plagiarj di mestiere quando copiano e furano a metà, nè gli apologisti preoccupati.
Il regno di Napoli produsse ne’ primi anni del secolo due altri pregevoli scrittori di tragedie, il consigliere conte Saverio Pansuti, ed il duca Annibale Marchese. Compose il primo cinque tragedie impresse in Napoli, cioè Bruto nel 1723, Sofonisba e Virginia nel 1725, Sejano nel 1729, ed Orazia che unita alle altre uscì nel 1742. Vinse egli per gravità e per versificazione il Gravina, e fece spesso intravedere elevatezza e sublimità, e quel patetico e terribile tragico che agita ed interessa. Ma sceneggiava alla foggia antica, introduceva o faceva partire i personaggi senza perchè, trascorreva nel lirico, faceva versi stentati, imbrattava alcune volte la locuzione con formole poco pure, inusitate e scorrette. Più che altrove lo stile è affettato e lirico nel Sejano, le sentenze più ricercate che in Seneca, il linguaggio più spesso fangoso, e nell’atto V si accumolano troppe cose dopo la morte di Sejano, le quali conveniva accennar brevemente. Ma vi si scorgono varie pennellate franche e vigorose; vivo è il ritratto de’ favoriti nell’ atto III, buona è la scena del IV in cui Sejano intima il divorzio ad Apicata, tragici i rimorsi che atterriscono Livia dopo la morte di Druso, e opportuna l’osservazione della nutrice in tal proposito,
O quai rei simulacri in noi produceLa fiera compagnia de’ proprj falli!
Più moderatamente nella Sofonisba trovansi sparsi gli ornamenti lirici, e non manca di passi tragici bene espressi. La Virginia, mal grado del buon dialogo d’Icilio e Numitore nell’atto I, e del racconto felice e senza ridondanza del di lei ammazzamento, si posporrà sempre a tutte le altre a cagione dell’ episodio della deflorata Volunnia che si frammischia al fatto di Virginia. Migliore delle precedenti è il Bruto dettato in istile sublime e raramente gonfio, e ricco di passi ben espressi. Lodevole nell’atto I è il ritratto che in Tito si fa de’ partigiani del regno, ed in Furio de’ repubblicisti, sul gusto delle politiche discussioni di P. Cornelio, e la descrizione delle arti degli ambasciadori nelle corti straniere: nel III l’ambasciata degnamente esposta da Celio: nel IV i gravi sentimenti di Furio che tenta di richiamar Tito nel camin dritto: nel V i forti rimorsi di Tito divenuto traditore, il tenero abboccamento di lui colla madre, gli eroici insieme e patetici sentimenti di Bruto. Ma l’ Orazia rappresentata in Napoli con ammirazione e diletto universale colla direzione del celebre Andrea Belvedere, fu il trionfo del Pansuti. Nel trattar quest’argomento dopo l’Aretino e il Cornelio egli, dando come il primo alla sua favola il titolo di Orazia, conservò per lei sola sino all’atto V tutto l’interesse, là dove l’Aretino che la fe morire nel III, lo divide fra lei ed il fratello. Rare volte l’espressione tradisce la verità, anzi spesso l’avviva col sublime e col patetico. Meritano particolare attenzione l’amor tragico di Orazia e Curiazio, il carattere eroico e feroce di Orazio, l’amara divisione di Orazia e Curiazio nell’atto III, la notizia della pugna stabilita tra’ Curiazj e gli Orazj nel IV, di cui è conseguenza l’altra scena di Orazio collo sposo, il contrasto delle allegrezze di Roma colle smanie di Orazia per la sanguinosa vittoria del fratello e per la morte del di lei sposo, e finalmente l’ azione del V interessante per la morte di Orazia, pel pericolo di Orazio condannato e per la patetica aringa di Publio in pro del figlio superstite che commuove il Popolo Romano. Non è dunque maraviglia che, al dire anche degli eruditi compilatori della Bibliotheque Italique nel tomo VII, i dotti vi presero tanto piacere a leggerla, quante il pubblico a vederla rappresentare 38.
Predilesse la poesia tragica il coltissimo duca Annibale Marchese, il quale dopo di aver governato da preside in Salerno entrò nel 1740 tra’ Padri Gerolimini di Napoli e glorioso per la rinunzia dell’ arcivescovato di Palermo e del vescovato di Lecce a lui offerti morì nel 1753 ammirato per le sue virtù. Sin dalla prima gioventù mostrò gusto e buon senno colla scelta di ottimi argomenti per due sue favole impresse in Napoli nel 1715, il Crispo e la Polissena. Non fu solo il Martelli ne’ primi lustri del secolo che seppe unire alle bellezze del greco coturno la saggia maniera d’ interessare i moderni alla lettura seguendo le orme de’ tragici francesi. Il Marchese trattò il Crispo che è un ritratto dell’Ippolito greco, col patetico pennello di Euripide e coll’ eleganza armoniosa del Racine sceneggiandolo alla moderna, e vinse coll’ ottima versificazione il Martelli, colla gravità il Gravina, colla purezza del linguaggio il Pansuti. Meritò la di lui Polissena che da Pietro di Calepio si preferisse nel confronto a quella del La Fosse pel piano meglio ragionato, pel costume più conveniente, e per l’arte di muovere la compassione. Egli è vero che all’istesso Calepio sembra di trovare nella Polissena francese maggior bellezza nelle sentenze, più vivacità negli affetti ed energia nella locuzione: vero è altresì ch’ei riprende nelle nutrici introdotte dal Marchese la perizia che mostrano della mitologia. Ma pur non è sì grande lo svantaggio dell’Italiano per le sentenze e per la locuzione, nè gli affetti riescono in lui sì poco vivaci al confronto; e quanto alle nutrici (qualora se ne conceda l’uso), può accordarsi loro certa specie di coltura al riflettersi che esse non rassomigliano alle moderne balie, ma si supposero sempre persone di alta condizione e compagne delle regine sino alla loro morte. Compose in oltre il Marchese dieci tragedie cristiane impresse magnificamente in Napoli in due volumi in quarto nel 1729. A ciascuna si premise un rame disegnato or dal Solimena or da Andrea Vaccaro, ed inciso qual dal Tedesco Sedelmaïr, quale dal Napoletano Baldi, quale dal Veneziano Zucchi. I cori di esse posti in musica da varj eccellenti maestri Napoletani si trovano stampati colle note musicali in fine di ciascun tomo. Tommaso Carapelle pose in musica i cori del Domiziano: Domenico Sarro quelli de’ Massimini: Leonardo Vinci del Massimiano: Francesco Durante del Flavio Valente: Giovanni Adolfo Hasse detto il Sassone della Draomira: Nicola Fago detto il Tarantino dell’Eustachio: Leonardo di Leo della Sofronia: Nicola Porpora dell’Ermenegildo: Francesco Mancini del Maurizio il Principe di Ardore del Ridolfo. Caratterizzano queste favole una locuzione pura ed elegante e sobriamente poetica qual si conviene sulla scena, uno stile grave e sublime, una costante regolarità, la sceneggiatura moderna che quasi mai non lascia vuoto il teatro, i caratteri degnamente sostenuti, le passioni portate a quel segno che permette l’eroismo cristiano che riscaldava il petto dell’autore. Per saggio della di lui maniera di colorire vedasi un frammento del racconto che fa Eustachio a Simile delle sue avventure col Corsaro:
Talche me con mia prole in erma arenaGittando ignudi, il rio corso riprende.Lasso! Teopista io grido, e valli ed antriGridan Teopista ancor: l’ode la bellaCagion del pianto mio, che vuol nell’ondePrecipitarsi, o per tornarmi in braccio,O per fuggir gli oltraggi, e rattenutaVien dal rio predatore. Eustachio, intantoDice fra gridi e fra tumulti, e semprePiù lievi ascolto di sue voci il suono.Lontananza e fragor d’onda sonantePoi mi rende indistinte e al fin mi chiudeLe care voci. Svolazzante linoScuote la grama, testimonio estremoD’amor, di fe, di duolo; e a lei rispondo(Ch’altro meco non ho) con mano ignuda,Poi, così spinto dal dolore, in altoIl pargoletto Agapito l’espongo.Sim.
Tragica scena!Eust.
S’interpone e crescePiù ognor l’aere fra noi per lontananza &c.
Ricca miniera di affetti e di caratteri eccellentemente contrapposti e coloriti, e di gran pensieri con eleganza e sublimità espressi, mi sembra singolarmente l’Ermenegildo. Vi formano un quadro pennelleggiato con vivacità e maestria questo santo re zelante cattolico, rispettoso figliuolo e tenero consorte, Igonda piena di magnanimità e di vero affetto pel marito, Recaredo sensibile e generoso, Leovigildo tiranno inesorabile e ariano superstizioso, Genserico vescovo degli ariani scellerato e astuto cortigiano e persecutore implacabile. Questo insidiatore strappa dalla bocca di Leovigildo la sentenza della morte del figliuolo, se non rinunzj al culto cattolico; e colla di lui astuzia contrasta la nobile franchezza di Recaredo, che al fine gli dice:
Udito ho sempreCh’uomo al cui senno sacri riti ed almeCommesse furo, se con voglia ingordaAlle profane cose intende, e lasciaAll’altrui cura il gregge, e sol da quelloToglie da lungi il ricco frutto, è indegnoDel sacro grado, e ’l profan male adempie.Gens.
Chi serve al Re non è men caro a Dio.Recar.
Caro è a Dio sol chi al suo dovere intende,E il tuo non è di consigliar regnanti.
Trionfa anche il carattere d’Igonda allorchè in faccia a Leovigildo consiglia al marito di preferir la morte al sacrilegio d’imbrattar con rito ariano la cattolica religione, e quando rimanendo sola con lui dopo tanta fortezza lascia il freno alla sua sensibilità. Notabile in fine è la di lei grandezza d’animo, con cui dopo aver vinto Leovigildo fa trionfare la religione sul desiderio della vendetta, e gli perdona. Seppe dunque il Marchese rilevare il pregio maggiore della Cristiana religione di perdonare e amare il nemico, prima che Voltaire avesse composta l’Alzira. Prima ancora del Manasse del Granelli egli ritrasse egregiamente un sovrano penitente nel suo Maurizio che accompagna degnamente l’Ermenegildo. Quest’ imperadore che si era macchiato di delitti e di atrocità, divenuto penitente implora da Dio di esserne punito in questo mondo e non con pene eterne, e quindi soggiace a’ più dolorosi colpi prima che il tiranno Foca lo faccia uccidere. Avea Maurizio un di lui bambino in potere d’Irene, e Foca vuol sapere dove si nasconda minacciando di far tormentar Maurizio con tutta l’atrocità. Irene generosa si fa avanti ed offre al tiranno il bambino. Qual cruda spada al cuore de’ miseri genitori? Irene torna coll’ infante; la madre vuole stringerselo al seno, ma nel fissarvi lo sguardo si avvede che non è il suo Eraclio, ma sì bene il figlio della stessa Irene che eroicamente lo sacrifica alla salvezza della prole reale. Ma il virtuoso imperadore non comporta il cambio, e scopre la nobil frode. Con questa gara di virtù e di eroismo e con queste tragiche situazioni prevenne il Marchese anche l’Orfano della China del Voltaire. Meriterebbe che si trascrivesse il patetico e vivace racconto della carnificina di tutta la famiglia di Maurizio e di lui stesso colorito col pennello di Dante. Presenta dunque il Marchese più d’una tragedia degna dell’attenzione degl’intelligenti che non sono apologisti declamatori; e specialmente l’Ermenegildo e il Maurizio potrebbero arricchire la raccolta del tragico teatro Italiano.
Antonio Conti nobil Veneto filosofo e letterato grande volle in età avanzata dedicarsi alla poesia e singolarmente alla tragica. Compose quattro tragedie, Giunio Bruto, Marco Bruto, Giulio Cesare e Druso. Il pregio singolare del di lui stile è la gravità, la precisione e la verità che richiede la passione e il teatro per la quale costantemente il Conti schiva ogni vano ornamento. La versificazione è la più accetta a’ moderni, cioè il verso sciolto endecasillabo; ma la locuzione non è sempre pura e corretta. Ciò però che caratterizza singolarmente il suo pennello è il decoro serbato nel costume e la proprietà mirabile ne’ personaggi imitati. I suoi Romani (ciò che per lo più si desidera nelle tragedie francesi) vi compariscono veri Romani; Cassio, Bruto, Cesare, i Tarquinj si riconoscono a i loro particolari lineamenti, all’indole e a i sistemi da loro seguiti secondo la storia. Volle il Conti far uso de’ cori per riunire alla tragica rappresentazione la musica che le conviene, e questa forse è una delle ragioni per cui i commedianti oggi non le rappresentano, schivandone la spesa; ma egli però introdusse ne’ suoi cori a cantar sulla scena cavalieri e senatori Romani con poca convenevolezza alla loro gravità e al costume di que’ tempi. Marco Bruto è la tragedia più criticata e spesso con solido fondamento dal conte di Calepio. Giunio Bruto recitata ◀molte▶ volte di seguito in Venezia con gran concorso nel teatro di San Samuele, oltre a i pregi generali dello stile, del costume e del metro, si rende notabile per la forte aringa di Bruto animata da sobria eloquenza e bellezza poetica propria della scena. Ma Giulio Cesare che si rappresentò con sommo applauso, e si lesse con ammirazione da tanti letterati e singolarmente dal filosofo Paolino Doria, dal celebre Giambatista Vico, dall’istesso lodato Pietro di Calepio e dal chiarissimo Bettinelli, basterebbe a far collocare il Conti tra’ buoni tragici moderni.
Il marchese Scipione Maffei Veronese chiaro per dottrina e per erudizione trasse dalle greche favole il più interessante argomento tragico, e compose la Merope, che dopo la prima di Modena del 1713 ha avuto più di 60 edizioni, è stata recata in tante lingue straniere, si rappresentò in Venezia in un solo carnovale più di quaranta volte, e comparve sopra gli altri teatri d’Italia sempre con applauso, ammirazione e diletto. Una delle migliori edizioni che se ne fecero fu quella del 1735 colla prefazione del marchese Orsi e con annotazioni di Sebastiano Paoli. Ne corse ben presto la fama oltre le Alpi ed i Francesi stessi l’accolsero con sinceri encomj39. A chi è ignota la Merope del Maffei? Chi nel solo mentovarla non si sovviene di quel patetico animato ma umano e naturale che ti riempie in ogni scena, e ti trasporta in Messenia? Chi di quella interessante semplicità della condotta? della verità de’ caratteri? del mirabile vivo ritratto di una madre? della dolce forza che ti fanno le passioni espresse in istil nobile ed accomodato agli affetti? di quel vago racconto di Egisto nell’atto I, e dell’avventura del IV conservataci da Aristotile e da Igino, in cui il vecchio Polidoro giugne a tempo a trattener la madre che sta per trafiggere il figliuolo? del vivace atto V ove tutto mira al disviluppo felicemente ed avviene la morte di Polifonte narrata con maestria?
Chi poi non sa ripetere colle parole di Voltaire che i Francesi schivi non soffrirebbero nel lor teatro Ismene che parla della febbre di Merope? che questa regina per iscarsezza d’arte del poeta si avventa due volte ad Egisto colla scure? che le scene de’ confidenti sono troppe? che i coltelli, i vasi, i tripodi, i canestri rovesciati sono minutezze delle quali non doveasi tener conto dopo una grande rivoluzione e l’ammazzamento di un re? Gli sforzi stessi del Voltaire per deprimerla, dopo di essersi ornato delle sue principali bellezze seguendone le vestigia nel comporre la propria, manifestano vie più la prestanza della Merope italiana. Egli ne ingrandì ed esagerò i difetti, bramoso e impaziente di tirare alla sua copia tutti gli elogj tributati all’originale. E perchè serbando l’onorato carattere di amico del Maffei non avrebbe potuto versar su di lui che a metà e con moderatezza il suo fiele, si mascherò col finto nome di un monsieur de la Lindelle, e sciolse il freno alla mordacità, trattando la di lui tragedia come produzione puerile e da collegio, e l’autore come poeta da fiera, senza ingegno, senz’arte e senza fantasia (Nota I). Astuzia sì vergognosa e degna degli antichi Davi umilia la letteratura, copre di nuvole il chiarore del secolo e abbassa Voltaire. La Merope del Maffei non va esente da ogni neo; ma qual produzione teatrale può vantarsi di una perfezzione assoluta? La Merope del Voltaire non ha difetti? Sovvenghiamoci di ciò che so n’è ragionato nel tomo precedente. I Francesi stessi ve ne riconobbero di molti. Un anonimo in una brochure uscita in Parigi dopo la prima rappresentazione vi notò fin anco errori di lingua e di rime; chiamò Voltaire traduttore, copiatore, piggioratore ancora della Merope del Maffei specialmente nell’atto V. Volle poi quest’anonimo far pompa di erudizione, ed affermò che l’Italiano avea saccheggiato e sfigurato l’Amasi del la Grange, e che il Voltaire rivendicando il furto avea restituito alla nazione francese ciò che era suo. Preso poi da un capogirlo aggiunse che Merope era un argomento di tutti i paesi trattato già da Éuripide. Qual cumolo di sciempaggini e di contraddizioni! Se Euripide tutti precedette nell’inventar simil favola, perchè non dire che appartiene alla Grecia? Se è di tutti i paesi, perchè l’infarinato anonimo ne attribuì la proprietà alla Francia? perchè tacciò di furto or Maffei or Voltaire? perchè non s’informò da chi ’l sapea, che il Cavalerino, il Liviera, il Torelli precedettero di più d’un secolo il suo la Grange in comporre Meropi, Telefonti e Cresfonti? Perchè poi non apprese almeno dal Voltaire che la Grange ed altri Francesi ed Inglesi trattarono questo argomento con tali sconcezze che le loro tragedie rimasero nascendo sepolte? Perchè non vide che senza la Merope del Maffei, senza quella ch’ ei chiama povertà Italiana che Voltaire copiò, ancor non avrebbe la Francia una Merope degna di passare a’ posteri? L’anonimo oscuro che tante cose ignorava, ebbe l’audacia di scagliarsi contro l’originale del Maffei, e la copia del Voltaire, produzioni di due grand’ingegni, cui egli mirar non dovea che con rispettoso silenzio (Nota II). Io auguro all’Italia e alla Francia ◀molte▶ tragedie che pareggino queste due Meropi, dovessero anche averne i difetti; essi saranno le macchie degli Omeri, de’ Virgilj, de’ Sofocli fra’ raggi dell’immortalità.
Intorno al medesimo tempo uscirono la Demodice del Veneziano Giambatista Recanati, e la Didone del Bolognese Giampieri Cavazzoni Zanotti. La prima recitata con grande applauso nel 1720 in Modena, in Ferrara, in Venezia, s’impresse in Firenze nel 1721 con una dissertazione dell’ab. Girolamo Leoni. Contiene la pugna de’ tre Tegeati e tre Feneati narrata da Plutarco ne’ Paralleli con tutte le particolarità del fatto de’ Curiazj ed Orazj. Trionfa in essa l’amor della patria in ogni incontro. L’ammazzamento dell’addolorata Demodice per mano del fratello Critolao avviene appunto per le di lei imprecazioni contro Tegea loro patria, il cui amore tutto riempie il cuore di Critolao. Lo sceneggiamento all’antica lasciandosi spesso il teatro vuoto, qualche scena oziosa, un sogno di Demodice di sei tori e una giovenca tanto conforme al fatto di lei e de’ sei campioni, i poco utili ed all’ azione mal connessi episodj dell’amicizia di Eurindo e Critolao, del conflitto di costui col leone, degli amori di Lagisca ed Eurindo, offrono all’occhiuta critica materia da esercitarsi. Ma rendono pregevole tal favola la regolarità e l’interesse che vi regna, lo stile non sempre elegante e sublime ma chiaro e conveniente alle passioni, e più di una situazione patetica felicemente espressa. Serva d’esempio la scena quinta dell’atto terzo, in cui Demodice che ha penetrato che il suo sposo Alceste sarà il competitore del fratello Critolao, così si esprime:
S’ei riman vinto, e come le mie nozzeSi compiranno? E s’egli è vincitore,M’unirò a quel che i miei fratelli uccise?Di natura e d’amor ambo possentiLeggi che a’ danni miei tutte vi unite,Perchè appunto tra voi sì opposte siete?Quale debb’io seguir? da qual sottrarmi?
e poi,
Vincete entrambi,E se alcun dee perir, pera . . . ma quale?Alceste . . .? Critolao . . .? No, Demonice.
La Didone uscì in Verona nel 1721, ma si dice nella dedicatoria alla marchesa Isotta Nogarola Pindemonte di essersene prima fatta un’ altra edizione, ed in Bologna poi si stampò nel 1724 colle rime dell’autore. Non cede questa tragedia nella regolarità e nel colorito delle passioni alla Demodice; ma le sovrasta per nobiltà e per grandezza di stile, e per la semplicità dell’azione avvivata però da un movimento che va d’ atto in atto crescendo. La sceneggiatura è pure alla maniera antica, ma due volte sole resta il teatro vuoto; havvi parimente la tanto ripetuta descrizione di un sogno; ma non si particolareggia per additare appuntino gli evenimenti. Vi si scorgono di bei passi nè pochi. Nell’ atto secondo spira magnanimità la risposta di Didone all’ambasciadore di Jarba. Teatrale è nell’atto terzo il contrasto di Didone, che giugne gioliva e piena di speranze, con Enea che all’ordine di Giove era disposto a partire senza vederla. Bene espressa è la maraviglia e la tristezza di lei al silenzio indi al partir del Trojano con poche compassate parole; ma pregevolissima è la pennellata che ne dipinge il disdegno. Tratta dal naturale orgoglio ella dà a credere a se stessa di essersi disingannata, e di ravvisare il torto che faceva al suo Sicheo, e ne ha onta: si duole di vedersi adorna di altri abiti che de’ vedovili: ordina a Bargina che trovi Enea e l’ ingiunga di partir subito senza vederla. Ma che? Anna le riferisce l’ imminente partenza di Enea, e allora il di lei fuoco sopito sotto quella rassegnazione suggerita dall’istesso amor disdegnoso, divampa ripentinamente:
Ahi me lassa! Bargina, parte Enea!Guarda se furon ciechi i miei timori!Me può lasciar? me abbandonar? Ah tostoSi voli, si ritenga l’infedele . . .Ah! che più indugio? Io stessa al lido, al portoCorro a provar ciò che potranno i prieghi,Le lagrime, i sospiri &c.O Enea che mi abbandoni, o mie speranze,O sacra del mio sposo ombra tradita,O mio onore, o dovere, o forte amore,Sì, troppo forte che al dover contrasti,Qual vincerà di voi?
Ottimamente. Questo bellissimo disviluppo degli affetti di Didone, questo tragico contrasto acconciamente approssimato della prima rassegnazione con quest’impeto repentino, tutta manifestano l’anima di Didone e l’ ingegno dell’autore. La scena quinta dell’atto quarto ci sveglia l’idea dell’abbandono di Armida e di Rinaldo che si sente morire, e pur la lascia. Didone sviene come Armida, ed Enea parte con Ascanio, come Rinaldo con Ubaldo. Questa buona tragedia colle precedenti smentisce l’asserzione di chi imparando la storia letteraria d’Italia sulle notizie giornaliere francesi, afferma che ne’ primi lustri del nostro secolo il teatro italiano non ebbe che drammi irregolari e mostruosi. Si noti che dalla Merope, dalla Demodice e dalla Didone si sono esclusi i cori, e l’uso in seguito n’è passato quasi del tutto.
Anche nel 1721 s’impresse in Venezia l’Ezzelino del dottor Girolamo Baruffaldi Ferrarese, che poi ebbe altre quattro edizioni ed in Venezia stessa ed in Ferrara. E scritta in versi sciolti, con regolarità, con vivace colorito ne’ caratteri e nelle passioni, ed in istile lodato dagl’ intelligenti. Se ne riprende il personaggio di Ansedisio di nota malvagità come poco necessario e lasciato impunito: qualche discorso secreto che si ode dall’uditorio e non da’ personaggi che stanno sulla scena: e la mancanza del tempo richiesto perchè giunga Beatrice co’ sei compagni dal fondo della torre, non essendo passati dalla chiamata alla venuta che sei versi soli recitati da Amabilia. Lo stesso autore pubblicò nel 1725 Giocasta la giovane di scena mutabile, la cui invenzione non gli appartiene, perchè il conte Antonio Zaniboni avea già tratta da un dramma musicale la sua Antigona in Tebe, detta opera tragica, scritta in prosa e impressa in Venezia nel 1722. Da tali favole trasse la sua tragedia il Baruffaldi, nè se ne infinse, ma ingenuamente l’accennò nel ragionamento che vi premise. Si osserva nella condotta dell’azione qualche leggiero intoppo. Antigona madre di Giocasta (che Creonte volle far morire per mano del suo figliuolo Osmene di lei marito) viene a Tebe sotto virili spoglie, e domanda ad Ormindo il cammino della reggia ch’ella non dee ignorare. Viene con animo di dar la morte a Creonte, e nel darsi a conoscere ad Osmene manifesta il suo disegno di uccidere il di lui padre, e pretende ch’egli vi concorra. Io porterommi al tempio (ella dice nell’atto III), mi scoprirò al tiranno, gli trarrò dal capo la corona, farò provargli tutta l’ira mia. Se ciò dicesse spinta da disperazione e da tedio di vivere, sarebbero espressioni convenienti: ma ella ciò dice pensando in fatti di eseguirlo per far la sua vendetta, senza riflettere all’impossibilità della riuscita. Forse potrebbesi risecare qualche cicaleccio di Ormindo. Forse più che tragedia parrà questa Giocasta un romanzo drammatico per tanti colpi di teatro e per le avventure che vi si accumulano in poche ore. Ma tali nei vengono conpensati dalla bellezza dello stile e da situazioni interessanti ben condotte. Viva e patetica è la preghiera che fa nell’atto I Osmene al padre per non isposar Giocasta. Tenera è la riconoscenza di Antigona e Osmene nell’ atto II; giuste le di lei prime espressioni; passionata la narrazione delle proprie sventure e della fanciulla che diede alla luce; grande è il di lei coraggio ed il disprezzo della morte in faccia di Creonte nel IV atto. Piace soprattutto nell’atto V la patetica separazione di Antigona e Osmene nel punto di esser ferita da Giocasta. Ella s’ intenerisce alla rimembranza della figlia perduta, e dice al marito che la cerchi, ed incontrandola (soggiugne)
Dille del mio destin la cruda istoria,Dille che la sua madre al fin morìoTradita e invendicata: e se al mio pettoStringer non la potrò, stringila al tuo.
Mentre si applaudiva la Merope del Maffei, l’ab. Domenico Lazzatini di Morro patrizio Maceratese illustre poeta e pubblico professore di lettere umane in Padova, dopo averla censurata severamente diede alla luce il suo Ulisse il Giovane, nella qual tragedia imitò elegantemente l’Edipo di Sofocle richiamando sulla scena tutto il terrore e la forza tragica del teatro Ateniese. E’ scritta in endecasillabi ed ettasillabi sciolti misti a piacere, ha il coro continuo alla greca, e lo stile accoppia alla grandezza tragica verità e naturalezza senza cader nel basso. Ma, come bene osserva l’ab. Conti, si sfigura questa favola in certo modo col raddoppiarsene l’azione colla morte data dal padre al figliuolo e col suicidio della figliuola. I molti amici dell’ autore e del severo gusto greco contrarj al Maffei l’applaudirono nella lettura, ma il teatro non l’ammise, mal grado della regolarità, dello stile, della versificazione, e della nobiltà de’ cori. Uscì contro di essa una piacevole satira scenica col titolo di Ruzvanscad il Giovane del Vallaresso nobil Veneto, parodia, come ben dice il Bettinelli, saporitissima tralle poche italiane.
Discepolo del Lazzarini e seguace del di lui gusto tragico fu l’ab. Giuseppe Salio Padovano morto giovane qualche anno dopo del 1738. Egli compose tre tragedie col coro continuo lavorate con una troppo servile imitazione de’ Greci, per la quale riescono fredde e nojose, la Temisto, la Penelope, e Salvio Ottone. Esse s’impressero nel 1727 dal Comino in Padova, ma non parmi che siensi mai rappresentate. L’ultima fu dedicata ad Apostolo Zeno che la lodò. Il conte di Calepio comendò la scelta del protagonista nella Temisto, ma parve al Salio ch’egli ne avesse disapprovato tacitamente ogni altra cosa nel Paragone della Poesia Tragica, e perciò nel 1738 produsse contro di quest’opera egregia il di lui Esame Critico, al quale vigorosamente replicò il Calepio colla sua Confutazione di molti sentimenti del Salìo.
Comunicato lo spirito della tragedia per la riuscita del Conti, del Martelli, del Zanotti, del Pansuti, del Marchese, e singolarmente del Maffei, si diffuse per l’Italia tutta, e si produssero ◀molte▶ tragedie regolari e giudiziose, benchè non sempre eccellenti. Giovanni Leone Sempronj da Urbino produsse in Roma nel 1724 la sua tragedia il Conte Ugolino. La Morte di Achille del conte Ludovico Savioli Bolognese si pubblicò in Bassano, se non m’ inganna la memoria, e nella Biblioteca teatrale che faceva imprimere in Lucca il Diodati. Il marchese Gorini Corio stampò in Venezia nel 1733 il suo Teatro Tragico e Comico col trattato della Perfetta Tragedia; ma le sue tragedie erano ben lontane dalla perfezione. Sebastiano degli Antonj Vicentino scrisse la Congiura di Bruto figliuolo di Cesare pubblicata nel 1733 in Vicenza, la quale secondo il conte Mazzucchelli fu lodata dal Martelli, e chiamata dal Maffei nobile tragedia. Il P. Giovanni Antonio Bianchi minore osservante nato in Lucca nel 1686 e morto in Roma nel 1758, conosciuto per gli sforzi perduti contro la Storia Civile del Giannone, e pel libro de’ vizj e de’ difetti del moderno teatro uscito in Roma nel 1753, pubblicò sotto il nome Arcadico di Lauriso Targiensé nel 1761 in quattro volumi dodici tragedie regolari, decenti e giudiziose, ma non vigorose, eccellenti e sublimi. Otto di esse sono in prosa, cioè Don Alfonso, Jefte, Matilde, Tommaso Moro, Demetrio, Marianna, Dina, Ruggiero, e quattro in versi Atalia, David, Gionata, Virginia. Recitavansi in un teatrino, che ancor sussiste nel convento di Orvieto, da’ suoi studenti con grandissimo concorso, dove oltre alle nominate tragedie si rappresentarono ancora due sue commedie, l’Antiquario e la Fanciulla maritata senza dote rimaste inedite40. Il P. Bonaventura Antonio Bravi Veronese pur minore osservante nato nel 1693 e morto verso il 1773 diede alla luce cinque tragedie. Il suo Orazio uscì in Venezia nel 1742, e si ristampò in Verona nel 1762 con ◀molte▶ mutazioni e col titolo Orazio in Campo; Sulmone pubblicata in Venezia nel 1746 si reimpresse in Firenze nel 1756; Irene delusa uscì in Verona nel 1747; Costantino quivi parimente s’ impresse nel 1748, ed un altro Costantino differente dal primo venne alla luce anche in Verona nel 1752, e la seconda volta nel 1764. Il signor Bicchierai produsse in Firenze due tragedie regolari e giudiziose nel 1767, la Virginia, e la Cleone precedute da alcune considerazioni sopra il teatro per lo più utili e sagge.
Ma niuna di tali tragedie levò grido, o parve degna compagna della Merope del Maffei o del Cesare del Conti, o della Perselide del Martelli. Toccò al Varano e al Granelli il vanto di dar nuova fama all’italico coturno.
Alfonso Varano de’ duchi di Camerino distinto per natali, per dottrina e per ingegno poetico morto in Ferrara carico d’anni e di meriti letterarj a’ 23 di giugno del 178841 arricchì il teatro tragico di tre buone tragedie Demetrio, Giovanni di Giscala e Agnese. L’autore che forse pensava di seppellirle con tante altre poetiche ricchezze, si vide obbligato ad imprimere il Demetrio in Padova nel 1749 con correzione e magnificenza, dopo di essersi querelato nelle Novelle letterarie di Venezia del Berno librajo Veronese che nel 1745 su di un esemplare non ritoccato nè concesso dall’ autore l’avea prodotto. In seguito s’impresse anche in Lucca nel 1766 nella Biblioteca Teatrale. L’autore la chiamava impresa della prima sua gioventù, la quale verisimilmente l’avvicina all’epoca della publicazione delle tragedie del Maffei, del Zanotti e del Recanati. Nobile, terso, elegante ed accomodato alle cose n’è lo stile, regolare e ben condotta l’economia della favola, ottima la versificazione, conveniente il colorito de’ caratteri, magnifici i cori introdotti soltanto nell’intervallo degli atti. L’azione immaginata con somiglianza del vero non è istorica, eccetto che nell’àncora naturalmente impressa nel corpo de’ Seleucidi42 dal Varano adoperata nel riconoscimento. Le scene sono tutte concatenate alla maniera moderna ad eccezione dell’atto II, in cui rimane una volta la scena vuota partendo Arsinoe nella quarta e venendo poi fuori Berenice ed Araspe. Due oracoli sono le molle che muovono le passioni di una madre a danni del figliuolo sin dalle fasce, il quale è salvato dal di lei furore, vive incognito, se le presenta con altro nome, n’è amato con altro amore che di madre, è poi perseguitato e accusato di fellonia, e finalmente cagiona la di lei morte secondo la predizione dell’ oracolo. Offre questa tragedia al sagace osservatore molti passi pregevoli per nobiltà ed eleganza di dizione. Nobilmente si esprime la magnanima Arsinoe nell’atto II con Seleuco e con Artamene. Il contrasto dell’amore colla virtù in lei ed in Artamene è dipinto ottimamente nell’atto III, e vi sono con felicità e dignità disviluppate le angustie di Artamene combattuto dal colpevole amore che ha per lui la madre e dall’odio che Arsinoe ha per Seleuco. Egli conchiude:
Per vie diverseCongiuran ambe alla ruina mia.Ahi lasso! Io amo entrambe, una ch’è madreBenchè sia indegna di tal nome, e l’altraPerchè degna d’amor benchè sia ingrata.
Nell’atto IV si ammira una situazione tragica assai ben espressa. Artamene con un falso foglio è fatto reo di una congiura presso Seleuco; il re pretende solo che si scagioni giurando che niun altro congiuri contro di lui; ma egli ciò non può eseguire nell’alternativa o di accusar la madre o di mentire. Nel V investigando Berenice la condizione di Artamene vedesi con maestria e con nobiltà animato il lor dialogo, e singolarmente ogni di lui risposta ingegnosa ed il riconoscimento di Demetrio. Vedasene questo squarcio poichè si è scoperto:
Oimè! che straneVicende ebbi a soffrir! Fui da’ nemiciSalvato, fui nutrito, e dalla madreSon trafitto nel cor. Tu mi accusastiChe di Seleuco io meditai la morte,E per aver qualche ragion sul trono,Chiesi a te le tue nozze. E chi non vedeS’io mi fo noto al genitor, che tornaLa falsa accusa tua sopra il tuo capo?Ma datti pace. Al re sarò Artamene,E a te sola Demetrio, e così ad ambiRenderò quel ch’io debbo e figlio e reo.Girami un guardo, o madre, e alla mia destraGiungi la tua &c.
E così l’eseguisce con Seleuco ostinandosi a tacere, sicchè il re lo manda a morire. Ma poco stante Seleuco rileva da Ircano, che Artamene è Demetrio suo figlio, e ne manda a sospendere l’esecuzione. L’agitazione di Seleuco nel dubbio che il soldato non giunga a tempo per impedirla, è piena di moto e acconciamente espressa. Ma Demetrio è salvato, la virtù felice, e la tragedia ha lieto fine, non ostante la morte di Berenice per l’ interpretazione dell’oracolo fatalmente colpevole. Se questa favola da alcuni non si voglia ammettere tralle migliori tragedie, io credo che al compiuto trionfo del Varano si oppongano i due ostacoli che soggiungo. In prima il patetico onde deriva principalmente l’effetto tragico, non sembra in essa vigoroso al pari del grande che concilia ammirazione; ovvero, che è lo stesso, la compassione non par che sia condotta a quell’attivo fremito che ci scuote sì spesso in Euripide che si pretende invecchiato. L’altro ostacolo potrebbe nascere dall’ ostinazione di Artamene a non palesarsi per Demetrio in tempo che non si sono ancora le cose portate agli estremi; tale ostinazione non sembra necessaria e bella e degna della tragedia, se non quando Demetrio noto alla madre tace eroicamente per non recarle onta e nocumento. So bene che tal condotta può colorirsi col timore che ha Demetrio di perdere totalmente la speranza di placare Arsinoe, e colla sicura conoscenza che ha dell’odio materno; ma nei grandi sconvolgimenti lo spettatore dimanderà sempre perchè non si è scoperto. Queste osservazioni però basteranno per impedir che si registri sì nobil favola accanto alla Merope, al Cesare ed a qualche altra eccellente? Faranno sì che con affettata incontentabilità si ripeta colle parole del sig. Andres, per altro valoroso ed elegante scrittore, che in Italia non v’ha buona tragedia fuorchè la Merope? Bisognerebbe essere qualche affamato gazzettiere enciclopedico, o un uomo di un libro solo, o alcun maligno plagiario perpetuo.
La nobiltà ed eleganza dello stile, la regolarità, la bellezza del dialogo, il colorito vivace de’ caratteri non discordano dal Demetrio tanto nell’Agnese che nel Giovanni di Giscala tiranno del tempio di Gerusalemme. Quest’ultima favola che empie il suo oggetto d’inspirare il terrore colla morte del Giscala e la ruina totale di Gerusalemme, fu dedicata al pontefice Benedetto XIV, e s’impresse splendidamente in Venezia nel 1754, ornata in ciascun atto di alcune medaglie battute da’ Romani in onore di Vespasiano e di Tito, e con un eruditissimo discorso intorno alle profezie e agl’ istorici monumenti della distruzione di Gerusalemme, ed a varie circostanze rammentate nel dramma. Notabile in esso è la dipintura della feroce grandezza d’animo di Giscala, e più di una scena vigorosa e teatrale, come quella dell’atto III, in cui egli s’ intenerisce col figliuolo a lui mandato dal campo nemico, come Attilio Regolo a Cartagine, per proporgli la resa, e da lui con disdegno rimandato al supplizio.
Il P. Giovanni Granelli gesuita Genovese, predicatore e bibliotecario del Duca di Modena, morto l’anno 1769, è l’altro autore che ci ha somministrate tragedie degne di mentovarsi insieme colla Merope, col Cesare, e col Demetrio. Benchè dalle leggi del proprio istituto astretto a contenersi entro certi confini che lasciano infruttuosa la più ricca fantasia, ed a privarsi del vantaggio che apportano sul teatro le femmine, compose quattro tragedie, qual più qual meno, tutte però lodevoli, Sedecia, Manasse, Dione, Seila figlia di Jefte. Regolarità, interesse, giudizio nella traccia della favola, destrezza nel colorire i caratteri, gran sentimenti, nulla a lui manca per esser collocato tra’ migliori tragici. Ma sopra tutte le sue doti trionfa l’ eccellenza dello stile naturalmente bello e poetico, ricco nella frase, puro nel linguaggio, grande sempre, sempre elegante, e forse talvolta per questo appunto alquanto uniforme43. Il non esser esse però accomodate al bisogno de’ pubblici teatri, fece che ne fossero escluse, e che si rappresentassero solo nel collegio di San Luigi di Bologna nel 1732 e ne’ due seguenti anni, e si ripetessero in teatri privati dalla nobiltà Bolognese. Ciò nocque alla loro rinomanza rimanendone confinato il diletto entro pochi instruiti leggitori che ne ammirano singolarmente i pregi dello stile. Nocque anche alla gloria dell’Italia, perchè l’egregio autore avrebbe nella scuola del teatro apprese nuove delicatezze e perfezioni dell’arte. E dove non sarebbe egli giunto con quell’anima sublime e sensibile che pur manifesta, se in vece di limitarsi a rassomigliar nelle sue azioni sacre l’elevatezza del profetico linguaggio scritturale, si fosse dedicato a tesserne altre di argomenti più atti ad eccitar la compassione e il terrore tragico, e a migliorar la sublimità di Cornelio spogliandola dalle gonfiezze, ed il patetico del Racine preservandolo dalla mollezza elegiaca?
Sedecia dedicata al cardinal Giorgio Spinola fu la prima tragedia del Granelli. Essa è regolare e sceneggiata alla moderna, e solo nella terza scena dell’atto IV partono i personaggi della seconda, lasciando vuoto il teatro, ed ha i cori mobili di Assirj, Caldei ed Israeliti. Non ha per principale oggetto la compassione, come confessò lo stesso autore, ma si rende assai pregevole per la semplicità della favola animata dal bell’ episodio de’ figli de’ due re, cioè Giosia di Sedecia, ed Evilmero di Nabucco, i cui eccellenti caratteri cattano la benevolenza di chi ascolta, e danno luogo alla bella descrizione del pericolo di Evilmero nel bosco e del combattimento di Giosia colla fiera. Merita parimente lode il Granelli pel carattere teatrale di Nabucco misto di grandi virtù e di grandi passioni, tal che, com’ egli pur dice, in tutte le sue virtù si scorge il pregiudizio di una grande passione, ed in tutte le sue passioni il principio di una grande virtù. Il suo Geremia ben rassembra all’originale della Sacra Scrittura. Vedasi in qual guisa egli nella 4 scena dell’atto I fa parlare Iddio:
Chi son io, dice Dio, che ne l’Egitto,Anzi che in me, le tue speranze affidi?Quella forse è la terra, onde IsraelloDebba sperar salute, e quelle l’armi,Che di me non curando e del mio Tempio,In sua difesa infedelmente implori?Perchè a sottrarne i vostri antichi padriColà fec’io tanti prodigj orrendi?Perchè poi da l’Egitto un dì sperasseLa casa di Giacob salvezza e regno?
Degna di notarsi è pur la profezia dell’atto IV che il Granelli ad imitazione di quella di Giojada dell’Atalia del Racine fa profferire a Geremia dell’eccidio di Babilonia e dell’impero degli Assirj trasferito a’ Medi. Dovunque in somma s’introduce questo personaggio scorgesi una saggia elevatezza, che inspira un tacito religioso rispetto pei decreti della Divinità. Non merita minore attenzione la magnanima aringa di Sedecia nell’atto II.
Manasse seconda sua tragedia ci dipinge un penitente che potrebbe annojare per la sua abjezione, e pure è condotto con tanto senno che serve ad aumentare la grandezza del dramma. Manasse penitente ancora interessa, e nell’inoltrarsi l’azione desta pietà divenendo sensibile al suo pericolo. L’autore, senza curarsi per altro di farsene un merito, pensa che di tal carattere non abbiasi esempio nè degli antichi nè de’ moderni tragici. Io però credo che fra gli antichi il Tieste di Seneca adombri il di lui Manasse, essendo uno scellerato renduto migliore nelle disgrazie; e fra’ moderni l’abbandono disperato del Radamisto del Crebillon, che riconosce e detesta i passati suoi falli, esprima il dolore di questo re di Giuda. Ben è vero che in Manasse tutto è rettificato e migliorato per la verace divinità; ma anche in ciò il Granelli fu preceduto dal Marchese nel suo Maurizio. L’agnizione di un figlio di Manasse salvato dal sommo sacerdote, forma gran parte del bello di questa tragedia. L’ artifizio usato felicemente nel supporre prima dell’azione dato in sogno il divino comando a Nabucco, onde si cangia il di lui animo avverso in favore di Manasse, salva la tragedia (e l’avvertì pur l’autore) dallo sciorsi per machina, e dà luogo a una serie di cose che conduce a discoprire in Manasse la persona additata in quel comando, ed apporta il lieto fine dell’azione. La dizione è la solita nobile e grandiosa dell’autore, e sembra solo che per gli ragionamenti troppo prolongati benchè proprj ed eleganti, serpeggi per sì bella tragedia qualche lentezza.
Dione che liberò la Sicilia dalla tirannia de’ Dionigi, e rimase indi oppresso dalla propria imprudenza o credulità, è il titolo della terza tragedia del Granelli. La regolarità della condotta, la vivace espressione de’ caratteri ben colpiti, l’eccellenza del dialogo, la rende al pari delle altre due accetta agl’ intelligenti. Vi riconosciamo altresì col chiar. Bettinelli la solita bellezza di stile poetico e naturale, e la stessa ricchezza di frase e purità di lingua, che è pur sì necessaria al teatro, o che sì di rado s’incontra. Egli però aggiugne: ove troverassi un maggiore sforzo d’ingegno in tanta chiarezza e profondità d’invenzione, d’intreccio, e di scioglimento? qual taccia daremo al Dione per non riporlo tra le prime tragedie italiane? Non ardisco proporre a titolo di taccia quanto penso intorno al Dione; pur mi sentirei disposto a riporre tralle prime tragedie italiane anzi il Sedecia e il Manasse, che il Dione. Oso profferire di non parermi l’ultimo sforzo dell’umano ingegno l’invenzione, l’intreccio e lo scioglimento di una favola che non produce in pro del protagonista (io ne appello all’ interno sentimento di chi la legga o l’ascolti) tutto l’effetto della tragica compassione, e che non lascia intravedere il frutto morale che il drammatico dee prefiggersi. Dione ha due favoriti, Callicrate perfido simulatore, Alcimene vero suo amico; il re crede tutto al primo; e poco o nulla al secondo benchè più amato. Callicrate in faccia allo stesso Dione è convinto di manifesta menzogna, di doppiezza, di odio contro di Alcimene. Io sono (dice egli stesso) e fui suo nemico e geloso del real favore ch’ei solo ottiene,
A farnelo cader ogni arte oprai;Congiurato lo finsi &c.
Il re ha stabilito con lui ch’egli si fingerebbe con tutti infedele e traditore; ma poi intende dall’ingenuo Alcimene che Callicrate parlando seco si è mostrato fedelissimo; il re ne stupisce a ragione, e rileva questa doppiezza:
Dio:
Teco dunque Callicrate si finseA me fedel, non traditore? E il veroTu mi narri Alcimene?Alc.
Il ver ti narro;
ed altrove lo rammenta al re lo stesso Alcimene. Per tutto ciò non richiedea la verisimiglianza che Callicrate nemico dichiarato di Alcimene e menzognero convinto dovesse meritare assai minor fede che il suo rivale? Pure Dione tutto si abbandona su di codesto insidiatore, che può dirsi un Davo tragico (tante sono le bugie e le trame che accumola e intesse in ogni incontro) e ciò solo perchè gli promette di dargli in mano Apollocrate figliuolo di Dionigi. Ma per tale utile tradimento, ben potrebbe egli ottener dal re l’immunità per gl’ inganni passati (come suol concedersi a’ rei che fanno denunzie utili allo stato) ma non già un privilegio di esser solo creduto fedele e veritiero. Non per tanto il re totalmente in lui confida, chiama a guardar la reggia i soldati Zacinti da lui dipendenti, e ne viene a man salva ucciso. Lascio che le menzogne di Callicrate non si sostengono senza qualche studiata reticenza; di maniera che se Celippo p. e. o Apollocrate non dicono appuntino ciò che egli ha loro suggerito, crolla la machina. Lascio ancora la poco verisimile ipotesi che di tutta la Sicilia (senza eccettuarne Dione parente di Dionigi) il solo Callicrate conosca Apollocrate figliuolo di questo discacciato tiranno, ed anche Ireno. Tante supposizioni a favor dell’empio per avvolgere e disviluppar questo nodo danno indizio di qualche intrinseco difetto nel piano. Previde il degno autore l’opposizione che singolarmente far si poteva alla somma credulità di Dione, e disse in sua discolpa, che la storia l’ha esposto al pericolo di far parere Dione uomo troppo più facile e credulo che ad un eroe non conviene; e pregò il leggitore a por mente alle di lui circostanze, ed a consigliar se stesso a qual partito sarebbesi egli anzi appigliato. Ma se Dione fosse almeno ugualmente entrato in dubbio di Alcimene e di Callicrate, se si fosse assicurato di entrambi per attendere sulla congiura maggior luce dall’amico Eumene, non avrebbe egli mostrato costanza nel carattere e minorato il suo pericolo? Egli è vero che la storia dà a Dione un carattere d’imprudente44. La di lui imprudenza istorica però si restrinse ad approvare l’astuto consiglio di Callicrate di fingersi egli stesso traditore e nemico di Dione per iscoprire i veri congiurati; ma la storia non attribuisce a Dione l’ imbecillità di confidarsi ciecamente ad un raggiratore convinto d’ impostura e di menzogna. E quando pure la storia gli avesse suggerito questa spezie d’inavvertenza, egli ben sapeva che la tragedia non ripete esattamente la storia, ma la corregge e rettifica nelle circostanze che possono nuocere ad eccitare il terrore e la compassione.
Seila figlia di Jefte è l’ultima tragedia del Granelli. Seila è una sacra Ifigenia, il cui magnanimo carattere non si smentisce mai sino al fine. Ne’ due primi atti l’azione ben disposta prepara l’uditorio alla tragica compassione. Nel terzo le querele di Ada, le angustie di Jefte, la grandezza de’ sentimenti di Seila, sostengono la favola nel medesimo vigore. Ma nel IV (quando dovrebbe crescere) già prende un aspetto più pacato per l’esame liturgico su i sacrifizj e i voti tra Ozia e Jefte, la qual cosa sgombra il timore che agitava gli animi col pericolo della vita di Seila, e la compassione quasi non ha più luogo. Nel V essa riprende tanto di forza quanto permette la determinazione di Seila che vuol rimanere offerta volontaria in olocausto. Nel lasciare i genitori e l’amante altre lagrime essa non ottiene se non quelle che spargonsi oggidì per le nostre fanciulle che rendonsi religiose.
Proseguendo alla nostra guisa senza odj e senza timori ad esporre de componimenti scenici la luce e le ombre, in vece di pronunziar secchi responsi da oracolo e giudizj magistrali, che lasciano la gioventù qual era prima di ascoltarli, parleremo ora del valor tragico dell’ab. Saverio Bettinelli nato l’anno 1718 nella patria di Virgilio45. Se ne hanno tre ragionevoli tragedie, Gionata, Demetrio Poliorcete, ossia la Virtù Ateniese, e Serse Re di Persia, le quali colla traduzione della Roma Salvata stamparonsi nel 1771 in Bassano, ma si diedero al teatro in diversi tempi, la prima in Bologna nel 1747, e le altre in Parma tra il 1752 e 175746. La regolarità, lo stile accomodato alle cose, e gli affetti naturali e bene espressi, sono i meriti generali delle favole del Bettinelli. Vediamone qualche particolarità.
Gionata è tragedia di lieto fine semplice quanto altra mai fondata in quel detto della Scrittura, gustavi paullulum mellis, & ecce morior, così espresso dall’ autore:
Due stille sol di colto mel gustai,Ecco il mio fallo, e per sì poco io muojo.
Lo stile di questa favola non è quello del Granelli o del Varano, ma è pregevole perchè naturale e patetico senza veruna bassezza. Vi s’ imitano i tratti dell’Ifigenia or di Euripide or di Racine, e la compassione è condotta al suo punto, e vi si scorge più di un bel passo da comendare. Tale è il lamento di Saule nella scena terza dell’atto III:
Questa è la mia vittoria, e quì doveaLo sperato trionfo addurmi al fine?Oh patria! oh Israello! a questo prezzoDunque tuo re m’hai fatto? Or che mi caleDi scettro e regno, se mi togli un figlio?Rendimi il figlio, e tienti scettro e regno.
Tale è la scena quarta di Saule e Gionata, il quale ignorando il suo destino attende la risposta dell’oracolo e vuol consolare il padre che risponde in termini di doppio significato alla maniera di Agamennone nella Ifigenia in Aulide. Sono ancora interessanti le tenerezze di Abinadabbo e di Gionata simili in parte a quelle di Pilade e di Oreste nell’Ifigenia in Tauri, e lodevole altresì è la patetica scena quinta dell’atto IV tra Gionata e Saule. Non per tanto ad occhio attento parranno poco utili all’azione e forse superflue sì la scena 6 dell’atto III, che la prima del IV. In quella del III Saule domanda ad Abiele, se il popolo entrerebbe a parte del suo paterno affetto, ov’egli inclinasse al perdono, ovvero si solleverebbe? Ma le disposizioni del popolo nella Teocrazia come avrebbero potuto cangiare le deliberazioni di Saule, cui era tolto ogni arbitrio dal proprio giuramento e dallo zelo temuto di Samuele per la volontà del cielo enunciata dal sacro oracolo? Quanto alla prima scena del IV Saule potrebbe per l’affetto naturale venire con ripugnanza all’esecuzione della sentenza; ma non mai essere incerto se debba o no far morire il figlio, che il Cielo condanna. Egli intanto convoca un consiglio di Abnero e Samuele per deliberare su di ciò che pur non è più in suo arbitrio.
Nel Demetrio Poliorcete abbondano i sentimenti eroici, e lo stile si eleva alquanto più di quello del Gionata. Il fondo istorico dell’azione consiste nel perdono dato ad Atene da Demetrio, ma nel disviluppo prende la favola il portamento del Cinna di Pietro Cornelio, di cui s’imitano singolarmente i memorabili versi di Augusto, o siècles, o memoires &c., dicendo Demetrio:
Secoli e genti, in me volgete il guardo,Serbate eterna a quante età verrannoL’alta memoria della mia vendetta,Che la maggior sarà di mie vittorie.
L’imitazione può chiamarsi esatta, e pur questi versi non pare che abbiano destato la commozione che recitandosi quelli del Cinna facea piangere il gran Condè all’età di venti anni. E perchè? Forse la diversità dell’effetto deriva dalla dissomiglianza delle due favole. La virtù di Augusto, come quella di Tito dell’ inimitabile Metastasio, trionfa sopra tutto. Nel Demetrio l’ammirazione ha più oggetti, esigendone il rigido eroismo di Timandro, la virtù de’ suoi figli, ed il bel perdono di Demetrio. Di più Cinna e Sesto vassalli beneficati ed ingrati rendono ammirabile e grande il perdono di Augusto e di Tito; là dove Timandro e i figli sono individui di una repubblica non affatto estinta, sono nemici che hanno ancora l’ armi alla mano, e la resistenza nobile di un nemico non è la stessa cosa che la machina infame di un vassallo beneficato e traditore. Produce ottimo effetto la tragica situazione di Timandro e de’ figli, i quali nella scena terza dell’atto II a prova accusano ciascuno se stesso per liberare il fratello dalla colpa e dal pericolo; ed anche la scena settima, nella quale sono convinti nell’Areopago col foglio da essi sottoscritto, e vi si legge la loro energica giustificazione. Notabili son questi versi:
Dolce è morire per la patria, tuttoPer lei versiamo il sangue, ella su noiPiangerà, benchè tardi; a questo prezzoDal fiero eccidio ella campasse almeno.
Ma che diremo di questi altri profferiti poco prima dal medesimo?
Ma se la sorte a noi contraria fia,Se d’uopo fia perir, peran con noiSotto le torri e i patrj tempj e i tettiInceneriti in un comun sepolcroLa Grecia, i Dei, l’Areopago, Atene.
Timandro non dovea fremere all’udirli? Ottimo nel principio dell’atto III è il contrasto che si ammira in Timandro del padre e dell’arconte, dell’amor de’ figli con quello della patria, della passione colla virtù. Ma la seconda e terza scena, nelle quali Alceo e Biante un dopo l’altro annunziano la stessa volontà del Senato a Timandro, non si potevano ridurre ad una sola? Nella quarta scena nobili sono i sentimenti di Timandro e de’ figli. Dice il padre:
Io come padre,Voi come figli alla diletta AteneDoniamo a gara in ricompensa il sangue.Itene a morte.
Dice Ipparco:
Vedrammi AteneMorir così come l’ho già salvata.Fido pugnai, fido morrò per lei.Ma paga di me sol sia tua vendetta;Il fratel viva.
Dice Cleomene:
Padre, non voglioGrazia, se col fratel non la divido.O non morrà, o noi morremo insieme.
Il padre che s’intenerisce, pur li condanna, dicendo:
Basta, non più, vi piango,Ma vi abbandono, vi condanno e v’amo;
ed allora i fratelli generosamente si animano a morir con costanza. Tutto bene; ma già nell’atto II, come si è notato, è seguita una volta la loro nobil gara; nell’atto IV i medesimi che sono stati liberati da Demetrio, per salvare il padre, anche accusano se stessi a vicenda, e la competenza ha il medesimo colore; e finalmente nella sesta scena tornano a gareggiare. Avrei desiderato che sì bella situazione, benchè non nuova, e sì patetica e nobil gara non perdesse col ripetersi tanto con Timandro, nell’Areopago e con Demetrio. L’autore chiarissimo già sa la censura del Voltaire alla Merope del Maffei, per essersi questa regina due volte avventata colla scure contro del figlio.
Il Serse risale colla Semiramide del Voltaire a i Persi di Eschilo, u andovisi dell’ombra introdotta da questo Greco. Nol tacque il dotto Bettinelli; ma avrebbe potuto ben dire ancora che l’ombra della Semiramide apparsa in chiaro giorno in mezzo alla corte ed al popolo la rende infruttuosa per lo spettatore, perchè incredibile e spogliata delle terribili circostanze onde simili apparizioni scuotono gli animi della moltitudine, e perciò rimane inferiore non meno a quella de’ Persi che al di lui Serse. I terrori di questo re nella scena I dell’atto III, per l’ombra che l’incalza e lo spaventa, sono alla solita saggia maniera accreditati dalla scarsezza della luce e dalla dubbia visione del fantastico simulacro, appunto come vien dal volgo immaginata. Veggasene uno squarcio:
Un lamentevol suon parmi improvvisoDa lunge udir che più s’appressa: io veggioFra una pallida luce in quel momentoTerribile apparir mesto fantasma.Bende funeree e vedovili panniTutto lo ricoprian: celava il voltoLugubre velo: per le man traeaTutto sparso di lagrime un fanciullo.Io tento di fuggir ma non so dove . .In quello un pianto, un gemito dolenteMi raddoppia il terror, odo, o udir parmiIl fatal nome risonar d’Amestri.Mi volgo, e la ravviso; ella era dessa,Che squarciatasi il velo, ancor le belleMa confuse sembianze a me scopriva.Io correr voglio a lei, ma ignota forzaOr mi trattiene, or mi respinge, e miro,Ch’ella stringeva insanguinato ferro,E al garzone il porgea. Parmi vederla,Parmi ascoltarla ancor, che tra i singhiozziIgnoti sensi mormorava, e il nomeDi Dario ripetea &c.
I caratteri di questa favola sostengono bene il proprio decoro e l’ uguaglianza. Vigoroso è quello di Serse, savio quel di Clearco, candido e naturale d’Idaspe, e soltanto quello odioso di Artabano che intriga se stesso nelle sue sofistiche sottigliezze, mi sembra poco plausibile.
Intanto che tali valorosi scrittori emulando ora i Greci ora i Francesi nobilitavano il coturno italiano con drammi che dalla sola invidia, sotto pretesto di delicatezza di gusto, può inspirarsi il basso espediente di occultarne il merito con un maligno silenzio, piacque ad un’ altra schiera di letterati di recare esattamente nel nostro idioma le più applaudite e felici tragedie francesi. Non parlerò io di certe fangose compilazioni di traduzioni senza scelta di ogni sorte di tragedie buone, mediocri e cattive, le quali servono unicamente a rendere ambiguo il gusto alla studiosa gioventù, e ad apprestare copia di materiali a’ pubblici commedianti. Parlo solo delle non moltissime versioni eccellenti, cioè del Cesare e del Maometto del chiar. ab. Melchiorre Cesarotti, del Radamisto e di altre del rinomato compatriotto del Chiabrera Innocenzio Frugoni, della mentovata Roma Salvata del Bettinelli, della Zaira e di altre dell’elegante conte Gasparo Gozzi, dell’Orfano della Cina del signor Giuseppe Pezzana di Parma, dell’Irene dell’ab. Zacchiroli di Ferrara, di alquante del sig. marchese Albergati, del cavalier Richeri, del conte Agostino Paradisi e del dottor Domenico Fabri, della Berenice del sig. Romano Garzoni Lucchese, dell’Ifigenia del sig. Lorenzo Guazzesi47. Anche il Bruto del Voltaire si tradusse bellamente da una dama Lucchese. Ma che lascia a desiderare l’eccellente versione dell’Alzira dell’insigne traduttor di Teocrito il P. M. Giuseppe Maria Pagnini Pistojese? Non altro se non che il degno autore si determini a pubblicarla. Pregevole è parimente la traduzione della Fedra fatta dall’ab. Giacinto Ceruti di Torino comparsa nella Biblioteca teatrale di Lucca l’anno 1762, e fra i di lui opuscoli nel 178148.
Non ha poco contribuito ad inspirar fra noi e diffondere per tanti paesi un nuovo ardore per la poesia tragica il generoso invito del Sovrano di Parma pel cui benefico genio Borbonico abbiam veduto in pro delle belli arti spuntar nuovamente i lieti giorni de’ Principi Farnesi. Tra varie tragedie prodotte dal comparire del real programma per tutto l’anno 1782, cinque sole meritarono la corona nel certame Parmense. Ottenne la prima nel concorso del 1772 la Zelinda tragedia del conte Calini da Brescia, nella quale si riconosce qualche somiglianza della languida Blanche & Guiscard del Saurin; ma è grandissimo il numero de’ buoni componimenti che non ebbero verun modello? La seconda corona di quell’anno si destinò al Corrado tragedia nazionale del conte Francesco Antonio Magnocavallo di Casal-Monferrato. Non si premiò tragedia alcuna nel 1773; ma nel seguente anno conseguì la prima corona il Valsei, ossia l’Eroe Scozzese di Antonio Perabò di Milano giovane di alte speranze morto qualche anno appresso. Rimase la seconda corona all’Auge tragedia del nobile Ascolano Filippo Trenta, il quale prima ancora del real programma altre due ne avea pubblicate, la Teone, e l’Oreste. Nel concorso del 1775 riportò la prima corona la Rossana del nominato conte Magnocavallo, il quale è pure autore di una Sofonisba pubblicata in Vercelli nel 1782. Il più accigliato censore non negherà che tali tragedie conseguirono meritamente la promessa corona, avendo allora in preferenza di altre soddisfatto alle condizioni del programma singolarmente colla proprietà dello stile, colla convenevolezza del costume e colla regolarità della condotta. Non basterà ciò per convincere i maldicenti Freloni enciclopedici dell’utilità del disegno del Real Protettore, e per mostrare che l’Italia non è sì lontana dal calzar con piena riuscita il coturno Ateniese? Nè con ciò si pretende assicurare che abbiano le nominate tragedie tutta l’energia e la grandezza tragica, calore, moto, patetico, interesse da elevarle accanto al Cinna, alla Fedra, all’Alzira, al Radamisto. Molto meno si pensa di proporle per modelli a chi voglia ottenere una corona dalle mani stesse di Apollo, secondo l’espressione del sig. Andres. Ma dalle mani almeno di chi si compiace encomiar l’Ifigenia del Lassala, la Numanzia dell’Ayala e l’Agamennone dell’Huerta, non potrebbe, oltre del Maffei, sperar di essere coronato qualche altro Italiano di questo secolo?
Intorno al tempo che si maturava l’eccitamento della Corte Parmense corsero il tragico aringo molti illustri compatriotti del marchese Maffei. Se non con molto calore, con grandi affetti e con istile sempre accomodato alle cose, certo con regolarità costante, con arte e con giudizio composero le loro tragedie Carl’ Antonio Monti, che pubblicò nel 1760 in Verona il Servio Tullio; il conte Guglielmo Bevilacqua che nel 1766 impresse Arsene ben condotta e ben verseggiata non meno del suo Giulio Sabino; il conte Alessandro Carli autore di Telane ed Ermelinda, di Ariarate, e de’ Longobardi impressa nel 1769; il dottor Willi che scrisse Idomeneo; il sig. Girolamo Pompei che diede alle stampe un’ Ipermestra, e la Calliroe pubblicata nel 1769; il conte Paradisi che compose gli Epitidi; ed il cavaliere Durante Duranti che pubblicò in Brescia nel 1768 la Virginia. Io non preferirei questa tragedia nè all’Appio Claudio del Gravina, nè alle Virginie del Pansuti o del Bianchi o del Bicchierai. Quel vedere tre volte tornare alla vista dell’uditorio l’apparato del Decemviro per sentenziare sulla condizione di Virginia; il ripetersi tre fiate la citazione de’ testimonj, e il darsi ogni volta nuova dilazione per sospendere la sentenza, sembra povertà d’arte. Le scene di Claudio sono troppo staccate e talvolta si frappongono all’azione inopportunamente. Icilio minaccia, e poi rimane quasi ozioso nella difesa dell’innamorata. La sceneggiatura non serva il modo accettato da’ moderni, e più di una volta il teatro rimane vuoto. Il partire ed il restare de’ personaggi non sempre avviene giusta le regole del verisimile, ma secondo il bisogno dell’autore. V’ha non pertanto più di un passo vigoroso. Virginio nell’atto III parla con eroica grandezza al Decemviro: nel V la di lui difesa contro l’impostura di Marco è sobria e giudiziosa: patetiche nel medesimo sono l’espressioni di Virginia: buono il racconto non diffuso che fa Claudio della ferita data dal padre a Virginia: assai compassionevoli son l’ultime di lei parole.
Il cavaliere Ippolito Pindemonte parimente Veronese acclamato in Italia tra’ valorosi poeti viventi diede alla luce in Firenze l’anno 1778 Ulisse tragedia di lieto fine degna di mentovarsi come regolare, bene scritta e ben verseggiata, e pregevole per la semplicità delle greche favole e pel decoro delle moderne, che vi si osserva. Viene in essa espresso con vivacità e delicatezza l’amor conjugale e paterno. E che importa che si riconduca sulle moderne scene un antico argomento della Grecia, purchè le passioni comuni a tutti i tempi e a tutti i paesi traggansi dal fondo del cuore umano in guisa che commuovano e chiamino l’attenzione? Questa tragedia in una sola azione principale che si va disviluppando senza bisogno di estrinseci episodj, ci presenta varie scene teatrali49. Tali mi sembrano le seguenti: quella di Penelope nell’atto II, che intende la morte di Ulisse comprovata col di lui manto: la riconoscenza di Ulisse e Telemaco nell’atto III: la scena del IV tra Penelope ed Ulisse chiuso nell’armi, che si parlano con affetti convenienti al proprio stato, e si dividono senza che Ulisse si faccia conoscere. Nell’atto V Penelope si lamenta del tripudiar che fanno i proci per la morte di Ulisse, mentre stanno a mensa con Telemaco e con Ulisse sconosciuto. Si ode un gran romore, si distinguono gemiti e lamenti, Penelope teme pel figlio. Intende poi che si è accesa una gran mischia tra’ proci, Telemaco e lo straniere. Cresce la di lei agitazione; ma secondo me ella si perde in troppo lunghi discorsi dopo tal notizia intempestivi. Trattasi del tutto, di un figlio unico suo sostegno, perduto Ulisse; e che dee a lei importare l’origine della contesa in quel punto? È l’evento della pugna che dee occuparla tutta. Dopo di aver saputo da Mentore ancora che tuttavia si combatte, può ella esser curiosa delle circostanze dell’avvenuto? può udirne un lungo racconto? Ella intanto l’ascolta, ed al fine si sovviene del figlio. Tutto potrebbe passare, s’ella non fusse Penelope, se non fusse madre. Ma questo dubbio che molesterà chi legge o ascolta, si dilegua all’arrivo di Telemaco salvo e di Ulisse vincitore. Ella sviene, e ripigliando l’uso de’ sensi si trova tralle braccia del tanto sospirato e pianto consorte. L’illustre autore volle apporre alla sua tragedia alcune osservazioni contro di essa, fingendole fatte da un altro; ma esse altro non sono che graziosi colpi e motteggi contro il mal gusto e la pedanteria e gli errori di alcuni moderni innamorati di un nuovo stile e di un nuovo modo di far tragedie. Egli oppone ancora al suo componimento che sia assai scarso di morali sentenze; ma questa è la sua maggior lode, esser sì ricco di lumi filosofici, come specialmente dimostra il discorso di Ulisse in fine dell’atto IV, e sapere occultar se stesso ne’ personaggi che imita.
Prima del Pindemonte avea in Lucca pubblicato nel 1773 un altro Ulisse il dottore Francesco Franceschi Lucchese autore di varie lodevoli produzioni, di un’ apologia del Metastasio, e della tragedia intitolata il Coreso. Il di lui Ulisse destinato al concorso di Parma intimato nel 1771 non si ristrigne, come quello del Pindemonte, al di lui ritorno in Itaca e alla vittoria su i proci, ma ne contiene anche la morte seguita per mano di Telegono suo figlio non conosciuto. Parve all’erudito autore, e se ne dichiarò nel discorso fatto all’Accademica Deputazione Parmense, che ciascuna di queste due avventure non potesse apprestar materia per una favola di cinque atti. Egli vi aggiunse anche una scelta di uno sposo da farsi da Penelope tra’ proci; gli artificj del sagace Ulisse per rompere l’alleanza de’ due amanti principali seminando fra loro la diffidenza; e tre fatti d’armi. Ecco ciò che ci sembra più interessante in questa favola, oltre ad alcune vaghe imitazioni della maniera Metastasiana e di altri nostri poeti: l’appassionato trasporto di Penelope nella scena 4 dell’atto II in procinto di aprirsi il foglio della scelta dello sposo; il colpo di scena quando al volersi ferire essendo trattenuta da Ulisse ella il riconosce, ed egli destramente l’avverte di non iscoprirlo; la bella scena 8 dell’atto IV, in cui Ulisse esplora l’indole di Telemaco, e poi si dà a conoscere. Parrà poi forse al critico imparziale, che con poca verisimiglianza Alcandro il confidente di Circe, l’educatore di Telegono e partecipe dell’arcano della di lui nascita, taccia sino al fine e lasci che avvenga il parricidio. Egli si discolpa del suo silenzio con Telegono nella scena 7 dell’atto V così:
Temer d’un parricidio io non potei;Ulisse mai non vidi, e lungi o estintoIo lo credei. Nè del tuo amor gli effettiIo potei paventar, che di soverchioLa fe della madrigna a me paleseEra.
Ma sebbene sia uno de’ possibili ch’egli non abbia mai nè visto nè conosciuto Ulisse, è però una delle supposizioni inverisimili ed assai rare che l’unico confidente degli amori di Circe ed Ulisse, colui che fanciullo nascose Telegono ad ognuno, non conoscesse Ulisse. E quanto al non paventar gli effetti dell’amore del suo allievo, egli parla contro a ciò che non ignorava, poicchè ben potea su Telegono cader la scelta di Penelope, ed in effetto su di lui è pressochè seguita; ed egli intanto personaggio insulso e ozioso seguitava a tacere nè impediva le incestuose nozze.
La Bibli tragedia del conte Paolo Emilio Campi Modenese s’impresse in Modena nel 1774, e si era rappresentata con grande applauso nel teatro di corte la primavera dell’anno precedente. L’amor disperato e funesto dell’appassionata Bibli per Cauno suo fratello segue le tracce della Fedra di Racine. La stessa furiosa passione contrastata da un resto di pudore e di virtù lacera il cuore di Bibli e di Fedra: la stessa tragica forza anima l’una e l’ altra favola: la stessa galanteria subalterna d’Ippolito ed Aricia che indebolisce l’interesse della Fedra, caratterizza gli amori di Cauno, d’Idotea e di Mileto, e raffredda l’azione della Bibli. Sin dalla prima scena Bibli interessa e commuove. Essa non contiene al solito un freddo racconto del passato, bensì una dipintura patetica della di lei situazione; ma il rimanente dell’atto I e parte del II si occupa negli amori di Mileto e d’Idotea, e l’azione procede languida e lenta. Tornando Bibli prende nuovo vigore nella scena 5 col di lei incontro con Cauno, nella quale narrando con passione e senza superfluità i suoi spaventi notturni, dà indizj della colpevole sua fiamma. Le prime cinque scene dell’atto III sono impiegate negli amori di Cauno ed Idotea e nel disegno di Mileto su di costei dalla quale è odiato. L’atto risorge colla venuta di Bibli destinata dall’ oracolo ad immolare una vittima. Buona è la scena 7, in cui Bibli apre il suo cuore ad Eurinoe. Ella le dice:
E sarà vero, Eurinoe, che i deiVoglian da me nuovi delitti ad ontaD’un resto di virtù che m’han lasciato?
Come (riflette) appressarsi all’altare? come così colpevole svenar le vittime? il padre ignorerà sempre i miei arcani? e Cauno? avrebbe egli penetrato il senso iniquo del mio discorso? Eurinoe l’ignora, ma soggiugne che il vide fremere, arrossire e mirarla con isdegno; e Bibli ripiglia:
Assai dicesti. InteseL’ingrato intese, e non intender finse.Crudel!Eur.
Ma che? forse dovea . . .Bib.
T’intendo.Ah taci . . . . è ver, io sola, io fui l’ ardita,Io fui la scellerata . . . Ma l’amaroSuo simular, quel fingere . . . . ah sì questo,Facendomi arrossir, m’empie di sdegno.
Ella ha ceduto alla passione, ha mandato trall’atto III ed il IV un foglio a Cauno per iscoprirla; ma tosto ne ha ribrezzo ed orrore. Vieni, dice ad Eurinoe,
Fuggiam da questi luoghi. Un dio nemicoM’insegue, e mi minaccia. Andiam, non odiIl fulmine che fischia, il ciel che tuona?Si oscura il giorno, fugge il sol . . . Non vediL’aria di sangue e di caligin tinta?Sostienmi . . . il piè vacilla . . . ie non mi reggo.Ahi lassa! io muojo.
Nell’atto V la scena di Bibli e Cauno è scritta con vigore, e Bibli benchè colpevole combattuta dall’orrore e dall’amore desta pietà. Ma la scena terza, la quarta ben lunga e la quinta di quest’atto, che non ne contiene che sette, si aggirano intorno ad Idotea, e trattengono l’ evento principale a pura perdita. Bibli ferita condotta a spirare davanti al padre cui chiede perdono, chiama di nuovo verso di se l’ attenzione e l’interesse.
Uscì in Bergamo nel 1778 Calto tragedia del P. Giuseppe Maria Salvi sommasco lavorata su di un argomento tratto dalle poesie di Ossian. Prendono talvolta l’espressioni qualche novità per le immagini di nubi, di meteore, di raggi di luna cadente &c. proprie del Celtico Poeta, come si vede nel racconto che fa Calto della visione avuta. Ma nel rimanente lo stile rassomiglia a quello delle nostre tragedie e talora delle opere musicali, la qual cosa par che dissuoni, perchè le maniere e le formole de’ popoli cacciatori introdotti nel Calto dovrebbero esser sempre di molti gradi lontane dalle idee de’ popoli culti e dal linguaggio delle opere in musica. Oltreacciò non ha voluto l’autore soggettarsi all’uso della scena stabile, cambiandosi ben otto volte; ed in conseguenza non ha potuto scansare di non lasciar la scena vuota, regola che non osservarono gli antichi nè i nostri cinquecentisti, ma che in Francia e in Italia dopo Racine e Maffei nè anche da’ tironi si trasgredisce. Se il P. Salvi (che dicesi che abbia composte altre tragedie ancora) non avesse dimostrato nel Calto ingegno atto a riescire in questo genere, anche da queste osservazioni passeggiere mi sarei astenuto. Guai a quel poeta, il cui dramma non si vitupera nè si loda! guai a quello ancora che non ha per lodatore che se stesso e i suoi compiacenti amici! L’indifferenza del pubblico e degli esteri è una condanna del suo dramma.
Si pubblicò in Bassano nel 1779 Ugolino Conte de’ Gherardeschi tragedia senza nome di autore, la quale non sembra che ottenga pienamente il fine tragico, con tutto che vi si notino alcuni passi lodevoli che ne accenneremo. Forse l’orrore di uno che muore per fame, prolongato per cinque atti non permette varietà di situazioni, e rende a poco a poco quasi indifferente il lettore. Forse un’ atrocità impetuosa mette in maggior movimento le passioni sulla scena, e una spietatezza, per dir così, riposata alla maniera de’ Caligoli, qual’è questa di Nino che dà luogo all’artifizio, rivolta gli animi in vece di atterrirli. Forse quest’ argomento non esige cinque atti, e trattato in tre l’azione diverrebbe più rapida. Forse la versificazione vorrebbe essere più armoniosa, e lo stile talvolta più energico. Forse i caratteri equivoci di Guido, di Lanfranco ed anche di Marco, di tempo in tempo rallentano gli affetti; e un ambasciadore Genovese che viene a implorar mercè e ad intercedere a favor di Ugolino, par che lavori contro l’intento esacerbando l’animo di Nino con rimproveri e declamando quasi fosse a lui superiore. Nonpertanto è patetica la descrizione che fa Marco nella scena 2 dell’atto II, della rassegnazione di Ugolino condotto al carcere, la quale ben prepara il carattere di lui già scellerato pentito e ravveduto nelle avversità. Nella scena 4 del III ottime sono l’ espressioni di Ugolino: nobile nella seguente è il rifiuto della libertà offertagli a condizione di portar le armi contro Genova che lo protegge: energiche in questa scena son le di lui parole:
Non mi rapir quel beneChe mi diè la tua torre. O torre amica,Chi mi ritorna a te? Tu cancellastiIn pochi giorni da mia mente infermaL’idee del fanatismo, e del furore.Entro al tuo bujo un favorevol raggioPur mi rilusse. Io vidi, e che non vidi?Vidi le stragi che in Italia e in PisaNacquer dall’odio mio. Il sangue vidiDe’ cittadin fedeli a terra sparsoPer difesa d’un nome e d’un partito.
Patetica e vera è l’espressione di Ugolino nella scena 6 dell’atto V su i figli:
V’udrò di nuovoChiedermi un pane, nè in risposta avreteFuorchè inutili lagrime e lamenti;
come ancora il congedo ch’egli prende dal nemico mancando per debolezza:
Figli ... Guelfo ... ovesiete? Nino, io muojo,E ti perdono.
Niccolò Crescenzio regio professore di filosofia in Napoli che nel 1727 produsse il Coriolano tragedia languida e regolare: il cavaliere Scipione Cigala autore di una Cleopatra stampata in Napoli nel 1736, mentovata nel supplemento della Drammaturgia dell’Allacci e onorata con un bel distico del consigliere Giuseppe Aurelio di Gennaro eccellente giureconsulto e poeta latino50: il P. Serafino Giustiniani Genovese che impresse nel 1751 il Numitore riuscita sulle scene, mal grado della trascuraggine dello stile: il sig. Flaminio Scarpelli Bolognese, e Don Ignazio Gajone di Casale di Monferrato autori di alquante tragedie regolari: il conte Alessandro Verri che nel 1779 impresse in Livorno col modesto titolo di Tentativi due tragedie la Congiura di Milano, e Pentea argomento tratto dalla Ciropedìa di Senofonte: sin anco due donne, cioè la sig. Francesca Manzoni di Milano, e la sig. Maria Fortuna auttrice della Zaffira, e della Saffo: tutti, dico, questi scrittori meritano lode per qualche pregio che traspare in mezzo alla languidezza; ma essi servono come il color nero sottoposto alle pietre preziose per dar maggior risalto ai nomi del Martelli, del Marchese, del Varano, del Granelli, del Bettinelli, e singolarmente del Maffei.
Ma che diremo del Diluvio Universale, dell’Anticristo, di Adelasia in Italia, della Rovina di Gerusalemme, del Nabucco, del Davide, della Sara &c. del P. Ringhieri ristampate dopo la di lui morte, e ripetute da’ commedianti Italiani, piene di tragiche mostruosità, e scritte in istile inelegante, prosaico, snervato, seminate di dispute sottili e mezzo scolastiche? Che della sua Bologna liberata armata di una prefazione contro di certo Dottore Don Pietro Napoli Signorelli che non avea lodate le sue tragedie che l’Italia chiama mostruose? Ciò che ne dicemmo altra volta, cioè che può bastar loro il servir di capitale a parecchie compagnie di commedianti. Aggiugneremo quel che ne dice un giornalista in parte suo parziale, che egli era il tragico del volgo e degli Ebrei. Egli pur ebbe ◀molte▶ situazioni interessanti e teatrali in mezzo alle stranezze; egli fu dunque calzando il coturno ciò che era il nostro Cerlone nelle sue chiamate commedie mostruose e talvolta interessanti reimpresse in Roma colla falsa data di Bologna.
Il pugnale di Melpomene vibrato senza effetto da mani sì deboli, è stato in questi ultimi anni impugnato con più successo. Il cavaliere Giovanni Greppi fervido e pronto d’ingegno ha prodotto in Venezia nel 1787 due volumi di Capricci Teatrali, ne’ quali trovansi tre tragedie, Gertruda Regina d’Aragona, Giulio Sabino in Roma, ed Odoardo stimata la migliore. Esse apprestano a uno sguardo curioso ◀molte▶ scene vivaci e tragiche e con felicità verseggiate; ma qualche ipotesi non molto verisimile, un portamento tal volta romanesco, l’atrocità spesso soverchia, alcun neo nella lingua e nello stile, non ci lasciano pienamente soddisfatti. Increbbe, nè senza ragione, nella seconda tragedia al conte Alessandro Pepoli che il proscritto Giulio Sabino e la sua sposa ardiscano penetrare con poco scorgimento nel palazzo d’un imperadore Romano loro nemico, ed avventurar tutto pel piacere di sfidarlo. Arrigo nell’Odoardo inferocisce atrocemente contro del proprio padre più perchè gli ha tolto la sposa che perchè gli ha svenata la madre. Il senatore Marescalchi di Bologna diede alla luce delle stampe in Bassano nel 1788 una tragedia di Antonio e Cleopatra, di cui loderemo di buon grado varj tratti di Romana grandezza che vi si possono notare. Accorderemo parimente all’illustre autore di averne ideato un piano assai più conveniente alla scena tragica di quello del Shakespear. Confesseremo nonpertanto che la scena dell’atto IV di Cleopatra ed Ottavio nel tempio, in cui ella coll’ idea di adescarlo al suo amore mentre il marito dorme, domanda alla confidente, se le sue vesti si accordino col suo volto, ed entrambi poi tentano ogni via per ingannarsi scambievolmente, ne sembra anzi comica che tragica. Aggiungeremo per amor del vero che il carattere della sua Cleopatra insidiosa, mentitrice, infingevole, civetta, potrà bene rassomigliarsi a quello che gli dà la storia, ma non essere nè sì tragico nè sì grande come quello della Cleopatra del cardinal Delfino. Il nobile autore de’ Baccanali tragedia pubblicata in Venezia nel 1788, colla regolarità della condotta, colla forza de’ caratteri, con varj tratti robusti e colla gravità dello stile fa concepire alte speranze ch’egli esser debba uno de’ tragici pregevoli del nostro tempo. Vigoroso nell’atto I è il discorso tenuto da Sempronio al giovane Ebuzio da iniziarsi ne’ misteri de’ baccanti. Vivace la dipintura che fa dell’empietà di essi nell’atto II Fecenia spaventata dal vedere ascritto il caro amante a quella nefanda adunanza. L’istesso autore ha composto i Coloni di Candia di egual merito. Ma si è desiderato in entrambe maggior verisimiglianza nelle circostanze, maggior cura in certe espressioni, più attività nel capo de’ ribelli nella tragedia de’ Coloni, meglio accreditata ne’ Baccanali la guisa onde il vecchio Ebuzio trafitto da cento colpi pensò a tramandare, fidandosi di una baccante, la notizia del proprio eccidio a un figlio allora fanciullo, scrivendo su di un cuojo col proprio sangue.
Il sig. Matteo Borsa noto per varie operette erudite, ed il sig. ab. Giuseppe Biamonti, ripetendo gli antichi argomenti greci hanno saputo procacciarsi nuova e non volgar gloria. Volle il sig. Borsa con Agamennone e Clitennestra pubblicata in Venezia nel 1786 dare a un argomento mille volte trattato e bene per molti riguardi specialmente da Eschilo primo inventore, e da Seneca e dal conte Alfieri, un portamento novello col variare il carattere di Clitennestra, cui non fa rea dell’uccisione del marito. Il sig. Biamonti seguendo le tracce di Euripide ha prodotta in Roma nel 1789 un’ Ifigenia in Tauri, uno de’ due argomenti tragici della Grecia, che Aristotile antiponeva ad ogni altro. Aveano trattato questo bell’ argomento in Italia con pari felicità per diverse vie il Rucellai serbando i cori e la condotta del tragico greco, ed il Martelli scortamente adattandone l’azione alle moderne scene, per nulla dire del conte Gian Rinaldo Carli che l’avviluppò di amori, d’inganni e di avventure romanzesche. Il sig. Biamonti calca le orme di Euripide in tutte le circostanze della patetica generosa gara di Pilade ed Oreste, e della riconoscenza d’Ifigenia col fratello; ma premette all’azione una nuova ipotesi della peste onde Tauri è afflitta, per cui si è mandato Reso a consultar l’oracolo di Apollo in Delo, il quale serve allo scioglimento naturale della favola senza l’intervento di una machina; nel che però non sembra ideato con tutta l’arte questo comodo arrivo di Reso nel punto stesso che Oreste è per cadere sotto la sacra bipenne. Parimente la riconoscenza segue diversamente, cioè non per la lettera d’Ifigenia da recarsi in Argo, come nella greca favola, ma pel nome di Oreste scritto sul monumento erettogli come morto; ed anche in questo si bramerebbe che tali onori funebri e tal dolore d’Ifigenia non si fossero totalmente fondati sul di lei sogno e prima della notizia recata da Lico che in Argo regna Menelao. Mal grado di ciò, e di qualche neo e della copia delle apostrofi, e spezialmente di quella della scena 5 dell’atto I,
O fortunata quella cerva alpestre &c.
che contiene un concetto non vero, noi dobbiamo sinceramente congratularci col valoroso giovane poeta che ha saputo dar nuovo e vivo interesse a un argomento più volte ben maneggiato in Italia, cui possono oggi invidiare le scene francesi, le quali non hanno ancora una Ifigenia in Tauri da metterle a fronte. La gioventù studiosa vi troverà molti squarci eccellenti tratti singolarmente da tutte le scene di Pilade ed Oreste, dalla 4 dell’atto III d’Ifigenia co’ medesimi, dall’ultimo patetico congedo di Oreste coll’ amico nella 3 dell’atto IV &c. A noi basti accennare che rendono pregevole questa tragedia grandi affetti, stile nobile, vivace ma natural colorito e versificazione armonica quanto richiede il genere.
All’ab. Giambatista Alessandro Moreschi di Bologna dobbiamo Carlo I Re d’Inghilterra tragedia pregevole pubblicata nel 1783, in cui non si ripete qualche argomento greco, non si trattano amori, non intervengono confidenti inetti, non si fa pompa di lirici ed epici ornamenti. La morte di un re che trasse verso il Tamigi tutta l’ attenzione dell’Europa, è uno de’ pochissimi argomenti proprj del vero coturno. In essa non mostrasi che Ciro p. e. prevalga ad Astiage, o Alessandro a Dario, o Tamerlano a Bajazzette, sventure di personaggi eroici che altro non fanno che cangiar le catene de’ regni. Quì si vede una tremenda catastrofe della costituzione di un popolo che conculca le proprie leggi per alzare un tempio alla libertà nazionale, sacrificandole con formalità giudiziarie per prima vittima il proprio sovrano. Il sig. Moreschi col solo presidio della storia degnamente colorita e posta in azione ci trasporta in Londra, e ci schiude la terribile scena di un legittimo monarca solennemente condannato da’ proprj vassalli. Ei presenta in un medesimo quadro Carlo magnanimo e sensibile che nel gran passaggio dal soglio al patibolo trafitto dalla tenerezza de’ figli conserva il decoro reale e muore da forte: Cromuel che si ravvisa alla vastità de’ suoi disegni e alla naturale spietatezza vestita di empia politica: Farfè che rappresenta tutto l’entusiasmo Inglese per la libertà, la quale gli occulta l’atrocità del mezzo di stabilirla: Federiga e Dacri che dipingono la virtuosa debolezza compassionevole de’ pochi in pro del principe sacrificato. La dizione è nobile, convenevole al gran fatto, e spoglia di ornamenti quasi sempre inutili al tragico che sa le vie del cuore. Serva di saggio ciò che dice Farfè nella bella scena 5 dell’atto II in cui si ammirano quattro caratteri dissomiglianti ugualmente importanti e ben espressi nella deliberazione di Carlo sul foglio del Parlamento:
Hai tu vaghezzaDi grande tanto divenir, che alcunoPareggiar non ti possa? Ardisci, o Carlo,D’alzare oltre te stesso il tuo pensiero?Lo scettro a te cagion di lungo affannoOsa deporre, cittadin diventa;Imita Silla, e sii maggior d’Augusto.
Vedasi il ritratto di Cromuel in queste parole della I scena dell’atto IV:
Diadema non curo, o regia spoglia;Voglio il comando. Alma non ho capaceDi servitù. Dovunque nato io fossi,Io comandar dovea. L’utile nomeDi libertà, che sì l’Inglese apprezza,Quì mi chiama a regnar: altrove usatoD’altro consiglio avrei.
Con maggior copia di favole ha cercato il sig. conte Alessandro Pepoli di Bologna abbandonar parimente i greci argomenti investigando nuova materia tragica nella storia di ogni nazione, ed ha sinora pubblicate sette tragedie che si trovano raccolte nell’edizione di Venezia del 1787 e 1788. Trasse dalle cronache Inglesi la prima intitolata Eduigi re d’Inghilterra che perseguitato dallo zelo di Dunstano perde la vita, il regno e la sposa per essersi congiunto in matrimonio con Elgiva sua cugina. In tal favola, che ha un coro mobile nel I, II e IV atto, e non nel terzo, è notabile la franca dipintura d’ un impostore vendicativo e fraudolento fatta in Dunstano.
Sulle storie Spagnuole fabbricò la Gelosia snaturata ossia la Morte di Don Carlo figliuolo di Filippo II, ed il Rodrigo, per le cui lascivie passò la Spagna sotto il dominio de’ Mori. Scrisse la prima ad emulazione di quella del conte Alfieri, nella quale piacquegli far morire Carlo ed Elisabetta abbracciati sotto le rovine d’un sotterraneo carcere. Fu il Rodrigo sventurato anche nella rappresentazione secondo il racconto del medesimo illustre autore essendo stata pessimamente accolta in Venezia per gli sforzi di un partito avverso. Vi si vede una Clotilde violata involontariamente, che ama però il suo violatore, e che continuando ad amarlo pure scopre la sua vergogna al proprio padre, il quale all’apparenza si gloria bassamente del sofferto oltraggio meditandone la vendetta fatale a tutta la Spagna.
Dalle solite vicende de’ serragli de’ Turchi ricavò la sua Zulfa, in cui si vede Seremeth il migliore de’ mariti ed il più generoso degli uomini tradito ed offeso dagli amori della sua moglie Zulfa con Errico, per li quali si serba l’interesse della favola. Non per tanto è patetico il congedo che prende Zulfa dal marito nell’esser condotta al Dey:
Signor, mi lasciaAl mio destino . . . Il ciel ti ricompensiDi tua bontà . . . Morir m’era dovuto:Accogli il pianto mio . . . Se il puoi, rammentaSenza sdegno il mio nome . . . e alla memoriaDella misera Zulfa, oh Dio! perdona.
Tolse dalla storia di Pausania re di Sparta la Cleonice, in cui mi sembrano lodevoli i caratteri di Cleonice e di Sofronimo, e grande insieme e patetica la scena 3 dell’atto IV. Taluno però sentirà qualche rincrescimento del non delicato carattere di Pausania e del di lui indecente invito mandato a Cleonice perchè venisse a passar seco la notte, facendole indi in premio sperare le fue nozze; nè meno sconvenevole parrà la mediazione di Scilace di lei padre che cerca tutte le vie di persuader la figlia ad andarvi.
L’argomento della tragedia di Dara è tratto dagli eventi de’ successori di Tamerlano, ed è piuttosto un tessuto di colpi di scena, cioè di fatti, che di situazioni tragiche. Nurmal e Cajeam interessano; ma Dara che abbandona subito la reggia e la città al consiglio del fallace Jemla, e che poi vi torna quando è occupata dal fratello, non si manifesta, qual si enuncia, valoroso nè privo di accortezza. Il colpo di Mirza colla pistola coperta, che non prende fuoco, e si scopre al cader del broccato, indica un disegno mal concertato da non contribuire al tragico terrore. Non reca onta all’ autore la rassomiglianza del suo Oramzeb col Maometto del Voltaire; ma se ne vede la discordanza nella confidenza che delle proprie scelleraggini ed insidie l’uno fa a Jemla e l’altro a Zopiro. Maometto potea lusingarsi di trarre vantaggio dalla sua astuta sincerità coll’ indurre Zopiro a seco unirsi. Ma Oramzeb che poteva mai ottenere col manifestarsi il più furbo degli uomini ad un suo spregevole schiavo? Di tanto non faceva mestieri con un traditore com’ è Jemla per fare che scoprisse Dara.
Dalla storia Romana prese un argomento nuovo per la scena nel Sepolcro della libertà, ossia Filippi, cui i leggitori non esiteranno a dar la preferenza sulle altre per istile, per condotta e per grandezza di caratteri. Marco Bruto vi comparisce degnamente, e se non potrà compararsi col Catone dell’Addison, non manca di sublimità e di forza, nè gli amori subalterni della favola inglese interrompono il buono effetto dell’italiana. L’autore nel tessere la sua tela non ha potuto nell’atto V serbare il modo tenuto da’ moderni e guardarsi dal lasciar vuoto il teatro. Bruto nella 1 scena, Cicerone nella 2, Messala e Casca nella 4, Antonio nella 5, lasciano la scena vuota. Rapita Porcia dal trasporto per la libertà prima di uccidersi accanto a Bruto trucida con ispietato eroismo i teneri figli al cospetto dello spettatore; ma forse la provvida variazione di quella scena, che risparmia tanta atrocità, non toglie alla tragedia il terrore che se ne attende.
Finalmente sul fondamento istorico dell’invito fatto dalla repubblica Fiorentina a Gualtieri duca di Atene a governarla, ha l’illustre autore immaginata l’interessante tragedia Romeo e Adelinda impressa nel V volume del suo Teatro nel 1788, e rappresentata con pieno applauso in Bologna nel palazzo del chiar. marchese Albergati che vi sostenne egregiamente la parte di Uberto, mentre si distinse a maraviglia la nobil donna sig. Teresa Venier in quella di Adelinda, e l’autore stesso in quella di Romeo.
Chiudiamo con lieta fronte la classe de’ moderni tragici italiani col sig. ab. Vincenzo Monti e col conte Vittorio Alfieri da Asti51.
Il sig. Monti ha sinora composte due tragedie, l’ Aristodemo, e Galeotto Manfredi Principe di Faenza. S’impresse la prima nel 1786, e si recitò in Parma con pieno applauso in due autunni consecutivi, sostenendo la parte di Argia la celebre Gardosi52; nè con minor lode si accolse tal favola in Roma recitandovi il valoroso Zanarini. L’argomento è quello stesso che Pausania suggerì al Dottori nel secolo passato; ma ciò che formò l’azione del primo Aristodemo, serve di antecedente a quest’altro. Ci tratterremo noi a dare una compiuta analisi di sì nota tragedia enunciata in tanti giornali buoni e cattivi, recitata in tanti teatri ed impressa tre volte in due anni? Basti ormai accennare in generale che ne formano la prestanza ed il carattere una versificazione felice, armonica, maestosa: lo stile robusto, animato, sublime e poetico quanto comporta il genere: ◀molte▶ invidiabili bellezze di esecuzione: le passioni espresse col terribile pennello di Crebillon e di Shakespear ne’ loro migliori momenti. Ne vorremmo, è vero, le parti della favola più concatenate; più fondato e naturale il disegno di Lisandro di occultare Argia, d’imprigionare e non uccidere Eumeo, di obbligar Taltibio con un giuramento a non palesarne la nascita; l’entrar di Argia nella tomba della sorella preparato almeno con raccapriccio maggiore. Ma chi direbbe che lo spettro dell’Aristodemo sia la stessa cosa con quelli della Semiramide e dell’Hamlet, se non chi di tutto parla per tradizione? In queste favole gli spettri appariscono e parlano realmente, come anche il genio di Marco Bruto nel Filippi del conte Pepoli: ma nell’Aristodemo, come nel Serse del Bettinelli, il simolacro che adombra i rimorsi di questi gran delinquenti, si presenta solo alla loro riscaldata e atterrita fantasia. L’Aristodemo (si è detto ancora) non ha catastrofe, perchè già se ne prevede il fine. Traspare, è vero, il disegno ch’egli ha di uccidersi; ma in qual guisa l’effettuerà? Argia scoperta in Cesira sarà prima a lui nota? porravvi a tempo impedimento? Ecco le cose che formano la sospensione dell’uditorio. Affermò il fattore di Colpi d’occhio che tal favola è piena di atrocità, nel che s’inganna o mentisce, mentre eccetto il suicidio della catastrofe, non vi si rappresenta atrocità veruna, ma sì bene terrori e rimorsi d’averne anticamente commesse. E’ nojosa, fredda, priva di movimento e d’interesse, disse il medesimo folliculario. Ma può mancar di calore, interesse e movimento una favola che esprime con tanta forza il terrore tragico, come si vede nel terribil racconto della scena 4 dell’atto I, nel congedo di Cesira e Aristodemo della 3 dell’atto III, nella mirabile dipintura dello spettro della 7 dell’istesso atto, nella 2 del IV in cui Aristodemo atterrito cade sul teatro a piedi di Cesira ed a lei si discopre reo, nello scioglimento sommamente patetico in cui Aristodemo che si è ferito a morte, riconosce in Cesira la sua Argia e spira? Rechiamo per saggio del valor tragico del sig. Monti qualche frammento della scena 7 del III e dell’ultima dell’atto V. Ecco la dipintura dello spettro che fa il re a Gonippo:
Allor che tutteDormon le cose, ed io sol veglio, e siedoAl chiaror fioco di notturno lume,Ecco il lume repente impallidirsi,E nell’alzar degli occhi ecco lo spettroStarmi d’incontro, ed occupar la portaMinaccioso e gigante. Egli è ravvoltoIn manto sepolcral, quel manto stesso,Onde Dirce coperta era quel giorno,Che passò nella tomba. I suoi capelliAggruppati nel sangue e nella polveA rovescio gli cadono sul volto,E più lo fanno, col celarlo, orrendo.Spaventato io m’arretro, e con un gridoVolgo altrove la fronte; e mel riveggoSeduto al fianco, mi riguarda fiso,Ed immobile stassi, e non fa motto.Poi dal volto togliendosi le chiome,E piovendone sangue, apre la veste,E squarciato mi addita utero e senoDi nera tabe ancor stillante e brutto.Io lo respingo, ed ei più fiero incalza,E col petto mi preme e colle braccia.Parmi allora sentir sotto la manoTepide e rotte palpitar le viscere,E quel tocco d’orror mi drizza i crini.Tento fuggir: ma pigliami lo spettroTraverso i fianchi, e mi strascina a piediDi quella tomba, e quì t’aspetto, grida.
Odasi ancora Aristodemo spirante:
Ebben, che vuol mia figlia?S’io la svenai, la piansi ancor. Non bastaPer vendicarla? Oh venga innanzi? Io stessoLe parlerò .., miratela; le chiomeSon irte spine, e vuoti ha gli occhi in fronteChi glieli svelse? E perchè manda il sangueDalle peste narici? Oimè! Sul restoTirate un vel, copritela col lemboDel mio manto regal, mettete in braniQuella corona del suo sangue tinta,E gli avanzi spargetene, e la polveSu i troni della terra, e dite ai regi,Che mal si compra co’ delitti il solio,E ch’io morii . . .
Gon.
Qual morte! Egli spirò 53.
S’impresse il Galeotto Manfredi del medesimo autore insieme colla precedente nell’edizione Romana del 1788. L’azione consiste nella morte di questo principe di Faenza seguita per la gelosia che ha di lui la Bentivoglio sua moglie ingannata da un malvagio ambizioso. L’autore vi appose per epigrafe,
vestigia græcaAusus deserere, & celebrare domestica facta,
perchè uscendo dagli argomenti forestieri, nella guisa che i Romani abbandonarono tal volta l’orme de’ Greci, avea trattato un argomento nazionale 54. La condotta è regolare; interessanti ognuno per se e tutti insieme nel contrasto sono i caratteri di Manfredi, Elisa, Matilde, Ubaldo; quello di Zambrino nero e detestabile inspira ne’ buoni tutta l’indignazione colla verità e forza delle pennellate che lo ritraggono. Le scene per noi singolarmente pregevoli sono le seguenti: nell’atto I la 2 di Manfredi co’ suoi cortigiani, e la 3 di Ubaldo e Manfredi; nel II la 2 in cui si dipinge felicemente la tenerezza di Elisa; nel III la riconciliazione di Matilde e Manfredi col congedo che viene a prendere Elisa; nel IV gli affetti del virtuoso Ubaldo che si allontana dalla corte; nel V la tenerezza di Manfredi che ordina che si richiami nella scena 1, le furie di Matilde inspiratele da Zambrino nella 6, e sopra ogni altra l’ultima tragica situazione di Manfredi trafitto a torto e di Matilde che ne intende l’innocenza quando egli spira. Lo stile è nobile ne’ grandi affetti e talora alquanto dimesso e famigliare specialmente in bocca di Zambrino. Le bellezze delle scene indicate sono ◀molte▶. Eccone un saggio. Zambrino che sostiene nella 2 scena dell’atto I doversi aggravare e smungere i popoli per ingrandir l’esercito e guarnir le fortezze, dice:
Dove difesa,Dove coraggio avrem?
Ed Ubaldo:
Nel petto,Nell’amor de’ vassalli. Abbiti questo,Signor, nè d’altro ti curar. Se tuoDelle tue genti è il cor, solleva un grido;E vedrai mille sguainarsi e milleLucenti ferri, e circondarti il fianco.Ma se lo perdi, un milion di brandiNon ti assicura! Non ha forza il braccio,Se dal cor non la prende; e tu saraiFra tante spade disarmato e nudo.
Dopo tanti contrarj avvisi di critici occulti o manifesti, invidi o sinceri, e di censori periodici o buoni che servono alla verità e alle arti, o perfidi che militano per chi gli assolda e mordono chi ricusa pagar lo scotto a simili pirati, come mai parlare delle tragedie del conte Alfieri senza farsi un nemico? Brevemente e come da noi si suole senza timore e senza dipendenza coll’ usata nostra debolezza. Dieci egli ne ha sinora pubblicate dall’impressore Graziosi di Venezia raccolte in tre volumi nel 1785: Filippo, Polinice, Antigone, Virginia, Agamennone, Oreste, Rosmunda, Ottavia, Timoleone, Merope. Sono esse scritte alla greca maniera o alla moderna? Non alla greca, perchè non hanno cori, non nutrici, non nunzj, non machine che le sciolgano, non decorazioni pompose, non il solo fatalismo che ne governi le molle55. Le passioni maneggiate con terribile maniera le caratterizzano, e la condotta delle favole è accomodata al moderno teatro. Il pregio singolare che distingue l’Alfieri da moltissimi contemporanei ed oltrepassati, è l’arte grande di rintracciare entro il più intimo del cuore umano i pensieri che contribuirono a consumare i gran delitti. Nulla nelle sue favole rallenta l’azione, tutto va al fine, tutto tende ad inspirare spavento, e terrore. Il dialogo grande ed a proposito si accomoda alle situazioni. Lo stile enfatico, e troppo, manca di ogni poesia, di colori, di ornamenti, non dico già de’ vietati epici e lirici da lui meritamente abborriti56, ma di quelli che l’uso costante de’ tragici eccellenti antichi e moderni accorda alla scenica. La versificazione è per lo più dura, senza grazia, inarmonica; la locuzione stentata stranamente contorta, quasi sempre non naturale, cruschevole sino alla noja. Egli si priva rigorosamente di ogni sorte di confidenti, ed è quindi astretto a valersi con frequenza de’ monologhi spesso narrativi altrettanto nojosi e più inverisimili. Quattro o cinque personaggi non senza offesa della verità nè senza rincrescimento alternano in cinque atti. L’illusione manca del necessario soccorso delle proprietà indispensabili che accompagnano i troni; e si vede inverisimilmente una reggia per natura popolata abbandonata a uno e a due attori che vengono a tramare una congiura quasi al cospetto del tiranno. Tali mi sembrano i pregi ed i difetti generali delle nominate tragedie. Scendiamo a qualche particolarità su ciascuna.
Filippo. Spira tragica gravità questo componimento mal grado della snaturata barbarie di Filippo; della catastrofe preveduta sin dal principio; della venuta d’Isabella nella 1 scena del I senza perchè o solo per tornar indietro dopo il suo monologo; della costruzione quasi alemanna,
ch’ei t’è padre e signor rammenti Mal tu così;
del mal suono che fa quell’
a te sol restaCome a me morte;
della mancanza degli articoli più volte &c. Non saprei che desiderare nel rassomigliante ritratto del geloso inumano simulatore Filippo. Gomez insidiosamente lo dipinge ad Isabella nella scena 5 del IV, ma con eccellenza,
Niun pregio ha in se che il simular pareggi &c.
La storia lo rappresenta come il Tiberio delle Spagne57. Quindi ben si dipinge tale nella tragedia, e singolarmente nella scena 5 del III fra’ suoi adulatori iniqui consiglieri, che ci rimembra un’ immagine di quel cupo imperadore in mezzo al servo Senato Romano, qual ci viene delineato da Tacito.
Polinice. I caratteri di Eteocle e Polinice che si abborriscono, e Giocasta che palpita per ambedue, sono espressi con forza di colorito veramente tragico. Eteocle non sa vedersi suddito un momento, ed a costo d’ogni delitto non respira che indipendenza ed odio mortale. Polinice non soffre i suoi torti, ma ama la germana, ama e venera la madre, e nell’istesso fratello non abborre che l’ingiustizia e la mala fede; sente in somma la voce della magnanimità in mezzo all’ ira. Tali caratteri ricevono l’ultima mano nell’atto V, quando il moribondo Eteocle fingendo d’abbracciar l’altro l’uccide:
Eteo:
Vendetta è al fin compiuta.Moro, e t’abborro ancor.Polin.
Pena al delittoOttengo pari . . . io moro, e ti perdono.
Antigone. Di questa tragedia recitata in Roma nel 1782 m’incresce singolarmente l’introduzione priva di verisimiglianza e proprietà. Argia giovane principessa sola di notte s’inoltra in una reggia nemica per ottener da Antigone, che non conosce, il cenere del suo sposo; primo monologo. Antigone si accinge contro del regio divieto ad andar nel campo per bruciare il corpo insepolto di Polinice; secondo monologo. S’incontrano in fine, si parlano alla cieca, ed Argia in una reggia per lei tanto sospetta vede una donna, e dice di cercare Antigone e di aver con lei comune la pietà ed il dolore. Ciò che esse dicono, non conoscendosi, è senza riflessione se non per timore della loro vita, almeno per quello di non condurre a fine la meditata impresa. A tali angustie e incongruenze è condotto il poeta per voler trasportare tutta l’azione nella reggia di Tebe. La gara però di Argia ed Antigone, gli arditi sentimenti di questa in faccia al tiranno, il loro ultimo patetico congedo, rendono alla favola la verità e la forza.
Virginia. I monologhi di Appio e di Virginio in parte narrativi, qualche intoppo che si presenta nella condotta della favola, l’ondeggiamento circospetto e picciolo del Popolo Romano nel giudizio, l’impunita tirannide minacciosa ancor dopo l’ammazzamento di Virginia, la durezza e l’oscurità prodotta nelle maniere di dire dalla mancanza degli articoli e da’ troppo stravolti iperbati; tutto ciò, dico, non ci nasconde i pregi di questa favola. Noi ne ammiriamo la dipintura de’ caratteri d’Icilio, di Virginia e di Virginio, veramente Romana, la vigorosa scena 2 dell’atto III58, e la 3 passionata di Virginio che incontra la figliuola e la consorte col nobile disdegno di Virginia, col terribil pensiero d’Icilio,
ah! schiavo il sangue mio? non mai..Padre io non son . . . se ’l fossi . . .
colla fiera luce che ne scende in Virginio,
orribil lampoMi fan tuoi detti traveder! deh taci..
Agamennone. Punto non esitiamo ad ammirare in particolar modo questa tragedia eccellente, mal grado di circa otto soliloquj, delle solite eccezioni sullo stile e del gallicismo Atride forse già mi sospetta. Oltre della proprietà de’ caratteri e della forza delle passioni, è inimitabile la guisa onde vi si disviluppa la riposta sorgente del gran misfatto. Le insidiose maniere di Egisto che conduce la cieca Clitennestra all’esecrabile assassinamento con latenti insinuazioni, mostra nel sig. Alfieri un filosofo teatrale che sa le vie onde si penetra nel fondo del cuor dell’uomo. Egisto inspira per gradi tutta la sua malvagità alla regina sempre occultando il pravo suo disegno sino all’atto IV col velo della modestia e del grande amore che mostra di nutrir per lei. Quindi nascono quattro mirabili scene, la 1 dell’atto I, la 1 del II, la 1 del IV59, e la 2 del V. La gioventù studiosa vedrà mirabilmente dipinto lo stato dell’animo di Clitennestra e quando è per giungere Agamennone, e quando vi s’ incontra, e quando freme all’idea della proposta lontananza di Egisto, e quando si determina al colpo atroce, e quando esce bagnata del sangue del marito.
Oreste. Non siam contenti di alcune circostanze del piano di tal favola. Oreste e Pilade s’inoltrano fin nella reggia indeterminati del pretesto che sceglieranno per presentarsi al re, e del nome onde far velo al lor venire. Elettra va parlando sola e voce alta nella scena 2 del I, ed è intesa da Pilade ed Oreste. Nella medesima lunghissima, benchè bella, avviene la riconoscenza de’ fratelli in un luogo tanto sospetto. Oreste declama, minaccia, va in furie, fulmina col guardo ardente il tiranno, gli rimprovera il tradimento e la viltà, quasi altro disegno non avesse che d’irritarlo e morire invendicato. Pilade nella 2 del IV per rimediare alle imprudenze di Oreste gli dà il proprio nome di Pilade non meno imprudentemente, giacchè Egisto non ha manifestato minore abborrimento per Pilade che per Oreste. Ma i difetti dello stile mi sembrano più rari, e i caratteri sono espressi con tutta la forza tragica. Eccellente è la dipintura di Clitennestra che palpita alternativamente or pel figlio or pel marito: ella è madre stando Egisto in salvo, ella non l’è più quando per lui paventa. Soprattutto nell’ atto V lodevolissimo è il trasporto di Oreste nel trucidar Egisto, col quale si colorisce egregiamente l’aver uccisa la madre che si frappone, senza vederla.
Rosmunda. Sembra il trionfo dell’iniquità questa favola in cui invano si cercherà un oggetto morale. L’inumana vendicativa Rosmunda riesce felicemente in opprimere tutti i suoi nemici e la virtù e l’innocenza in Romilda. Questa figlia di Alboino imprudentemente e senza necessità fa una confessione spontanea del secreto del suo cuore alla barbara matrigna e all’uccisore di suo padre. Il prode Ildovaldo che ha più volte giurata la morte di Almachilde, essendo da questo re chiamato a duello, accetta e poi ricusa per non abbassarsi. In oltre egli comanda le truppe di Rosmunda contro Almachilde, si pugna, e mentre ferve ancor la battaglia, il buon generale abbandona il campo e torna insulsamente nella reggia &c.
Ottavia. Supera di gran lunga quell’altra attribuita a Seneca, e vi si vede con forza e giustezza espresso il carattere di quest’imperatrice. Ma Nerone è tiranno con affetti privi dell’energia tragica, e Poppea e Tigellino hanno passioni e vizj da commedia.
Timoleone. Ottima lezzione a’ tiranni, morir nella maggior sicurezza. Timofane dopo avere scoperte tutte le occulte trame de’ cittadini oppressi, e fatta strage degli zelanti repubblicisti, rimane ucciso per cenno del virtuoso fratello, non per amor di regno o di gloria, ma di libertà. Timoleone, Bruto novello, spegne in Timofane il tiranno e piagne il fratello. L’atto V piacerà sempre per l’ oppressione repentina della tirannia, e pel ravvedimento del tiranno nell’atto di spirare. L’eroismo trionfa in Timoleone senza tradir la natura, e l’oppressore stesso punito si rende compassionevole ed ammaestra col morir meglio che non visse.
Merope. Tra tante pruove che dimostrano Euripide gran tragico ed Aristotile non men grande osservatore, può noverarsi la bellezza che mai non invecchia del soggetto del Cresfonte ideato ed eseguito dal primo, ed esaltato dall’ altro come il miglior modello tragico. Dopo le Meropi del Maffei e del Voltaire il conte Alfieri ci astringe ad ammirare e leggere con vero diletto la sua ch’egli dedicò alla contessa sua madre nell’agosto del 1783. Nè anche in questa mi sembrano frequenti le solite eccezioni dello stile; ma il primo monologo di Merope è troppo narrativo; ed a chi racconta ella tante particolarità, or gia ben l’anno &c.? Polifonte pensa dopo dieci anni a sposar Merope per politica; ma egli imbrattato di tanto sangue perchè ha conservato tanto tempo nella propria reggia questa nemica irriconciliabile? Il carattere di Egisto è colorito egregiamente nella scena dell’atto II con Polifonte; ma la circostanza del suo bel racconto con mie man sua destra afferro, non dovea esser la prima azione di un disarmato che affronti uno che gli si avventa collo stile alla mano? Ottima è la scena 4 d’Egisto con Merope, e felice e naturale il candido racconto che a lei fa dell’ ucciso che singhiozzando domandava la madre sua, alla cui immagine si desta il palpito di Merope che si sovviene del figlio. Dipinta eziandio egregiamente è nella 2 del III la madre in ogni tratto, e singolarmente alla vista del cinto insanguinato, che migliora il segno dell’armatura da Voltaire sostituito alla gemma del Maffei. L’incontro di Polidoro con Egisto nel punto in cui è esposto al furore di Merope che lo crede uccisore del proprio figlio, anima l’atto IV; pur la sua lunghezza potrebbe far pensare che Polidoro siasi a bello studio fermato per far che giungesse Merope con Polifonte senza poterla avvertire. Finalmente sembra che Polifonte nell’ultima scena abbia più pazienza e meno scorgimento di quel che a lui starebbe bene in lasciar dir tanto a Merope che tiene discorsi sediziosi a’ Messenj. Evitar tutti i nei nell’arduo impegno di tessere una buona tragedia, è ben difficil cosa: ma assai più l’imitar la scaltrezza filosofica dell’Alfieri nell’investigar nel cuore umano le arcane sorgenti degli affetti. Mille parodiette del di lui stile si faranno come quella del Socrate; ma quanti fra mille si appresseranno a i di lui pregi? Oh chi congiungesse lo stile del sig. Monti o di qualche altro che non trascuri di colorire, a’ talenti veramente tragici dell’Alfieri60!
II. Tragedie cittadine e commedie lagrimanti.
Non ha l’Italia ricusato di accogliere nel suo recinto di simili merci oltramontane, fossero pur di quelle che la sana criti ca ed un gusto fine riprovano perchè imbrattate da fanghose macchie eterogenee. Così le dolorose rappresentazioni di atroci fatti privati de’ signori Falbaire, Mercier, Sedaine, Dorat, Arnaud, Beaumarchais &c. o tutte tragiche o mescolate di tratti comici, si sono alla rinfusa tradotte e recitate dovunque ascoltansi i commedianti Lombardi.
Dietro la scorta de’ lodati drammisti Francesi hanno i nostri inventate altre domestiche tragedie e commedie lagrimanti, alcune originali alcune tratte da’ romanzetti di Arnaud e Marmontel ricche miniere di scene interessanti e di lugubri pantomimi nojosamente ripetuti. Venezia ha vedute varie tragedie cittadine simili a quella del dottor Simoni uscita nel 1787 Lucia e Melania, e più d’una commedia lagrimante come Teresa e Claudio del sig. Greppi, nella quale il patetico ed il romanzesco si vede interrotto dalle buffonerie dell’improvvisatore Leggerenza e del sedicente letterato Pirotè entrambi scrocconi di mestiere.
Il sig. ab. Villi occupò per alcun tempo l’attenzione degli spettatori con varj drammi. Egli deve a’ nominati Arnaud e Marmontel la sua Carolina e Menzicof, l’Amor semplice, la Vergine del Sole, Sidney e Volsan, la Pastorella delle Alpi &c. Si è puerilmente affermato che la decadenza del credito di tali favole sia derivata dall’essersi divulgato che i loro argomenti venivano delle novelle francesi. Ciò ben avrebbe potuto involare all’autore quella gloria che proviene dall’invenzione; ma potrebbe togliere a que’ drammi il merito intrinseco di una condotta naturale e di una felice esecuzione? Euripide e Sofocle senza il vantaggio dell’invenzione ripetevano gli argomenti di Eschilo, di Carcino, di Platina &c., ed occupavano i primi onori del coturno. Ciò che suol nuocere a’ moderni scrittori di drammi lugubri, è l’ uniformità delle tinte, la lentezza dell’intreccio, un disviluppo sforzato, l’abbondanza ed il gelo delle lunghe moralità e delle sentenze staccate &c.
Nel Teatro del prelodato sig. conte Pepoli trovansi finora tre drammi lagrimosi in prosa, Don Alonso di Zuniga, ossia il Dovere mal inteso, Gernand, ossia la Forza del suo destino, e Nancy, ossia la Vanità dell’umana fermezza.
Osservo nel Don Alonso molti requisiti che possono giustificare una tragedia cittadina; intreccio condotto e disviluppato con verisimiglianza, caratteri espressi con verità e forza, regolarità, interesse, terrore tragico giudiziosamente procurato meno con colpi di scena che con quadri e situazioni patetiche. Se ne dee pur lodare, oltre del pregio dell’ invenzione, quello di un ottimo oggetto morale, cioè di distruggere un colpevole pregiudizio che si occulta spesso sotto l’aspetto del dovere. Troviamo altresì teatrale l’atto IV, e vera la dipintura di Don Alonso oppresso da’ rimorsi nell’atto V. L’autore benchè in prosa si vale di uno stile immaginoso e poetico, che però non di rado riesce troppo studiato. Forse anche le angustie dell’atto III nelle scene 3, 4 e 5 sembreranno condotte oltre il verisimile. Un figlio che per una capricciosa debolezza di non abbandonare la casa dell’amata sacrifica la vita di un padre e la propria: questo padre che per non dissimile capriccio di non dipartirsi dal sepolcro dell’amico da lui ucciso espone a certa morte se stesso ed un figlio amato: questi personaggi, dico, mettendo di più in mortal pericolo, non che il virtuoso Sancio, la stessa benefattrice ed amante Violante, lasciano nell’animo certa idea d’inverisimiglianza ed un rincrescimento, che si oppone all’effetto della compassione che si vuole eccitare.
Ma nel Gernand raffiguro una commedia lagrimante piena di colpi scenici più che di situazioni, atroce per disegni scellerati che disonorano l’umanità, frammischiata di bassezze comiche de’ servi Merville e Ricauld. Aggiungasi che il dimostrare la forza del destino che strascina ad atrocità, non è l’oggetto più istruttivo sulla scena61. Sembraci dunque il Gernand meno plausibile dell’Alonso, e difettoso per la mescolanza delle tinte comiche ad un tragico orribile. È ciò in natura, si dirà colle parole del Voltaire; ma noi siamo persuasi che l’arte dee scegliere fra gli eventi naturali quelli che non distruggono un disegno dell’artista con un altro opposto.
Non abbiamo finora potuto ammirare il terzo dramma intitolato Nancy; ma per l’idea che può ricavarsene da’ fogli periodici, esser dee una vera tragedia cittadina, che non degenera punto in commedia lagrimante.