CAPO III.
Commedie del secolo XVII.
Nelle commedie convien fare la medesima distinzione usata nel precedente secolo in erudite ed in piacevoli portate sino alla buffoneria ed all’oscenità destinate al divertimento del volgo. Senza ciò i critici boriosi e singolarmente i superficiali viaggiatori privi della fiaccola della storia combatteranno sempre contro di quest’ultime, e sempre crederanno di aver trionfato di tutte.
Non meritano di esser poste in obblio o disprezzate le commedie ingegnose piacevoli regolari che specialmente ne’ primi lustri del secolo uscirono da varie Accademie del XVI che continuarono nel seguente a fiorire come le Napoletane, le Toscane e le Lombarde. Ne produsse ancora quella degli Umoristi di Roma cominciata dopo il 1600. Or si può senza biasimo da chi vuol ragionar di teatro negligentare la notizia di queste produzioni non ignobili, delle quali gli autori o tributo molto scarso pagarono al mal gusto che giva infettando l’eloquenza, o pur felicemente se ne guardarono?
Non furono certamente commedie scritte unicamente per dilettar la plebaglia quelle degl’Intronati di Siena, i quali dopo che nel principio del secolo ebbero dal governo la permissione di tornare agli antichi esercizii, nel 1611 ne pubblicarono una collezione, dove si veggono caratteri ben condotti, costumi bellamente dipinti, economia regolata, il ridicolo destramente rilevato, ed una dizione propria del genere comico. Quella di Adriano Politi intitolata gl’Ingannati si accolse con applauso in Italia, si tradusse in francese, e si pubblicò in Lione col titolo Les Abusez, secondo il Fontanini; secondo però Apostolo Zeno la commedia francese quì mentovata non si trasse da quella del Politi, ma da un’ altra degl’Intronati che portò il medesimo titolo.
Si vogliono collocare tralle ingegnose commedie erudite l’Impresa d’Amore rappresentata sin dal 1600 dagli Accademici Amorosi di Tropea, e le Spezzate Durezze di Ottavio Glorizio che s’impressero nel 1605 in Messina, e si reimpressero qualche anno dopo in Venezia: la Trappolaria del palermitano Luigi Eredia recitata ed impressa in Palermo nel 1602: l’Ancora vaga commedia pubblicata nel 1604 e più volte ristampata in Venezia del cavaliere napoletano Giulio Cesare Torelli, la cui morte compianse con un sonetto il Marini: il Padre afflitto del Cenzio uscita nel 1606, e il di lui Amico infedele del 1617.
Non furono forse regolari, ingegnose e facete la Pellegrina di Girolamo Bargagli senese uscita alla luce nel 1611, gli Scambii di Belisario Bulgarini pubblicata nel medesimo anno, e le commedie del Malavolti, cioè i Servi Nobili del 1605, l’Amor disperato del 1611, e la Menzogna del 1614? Mancano esse d’arte e di grazia comica? abbondano di oscenità e d’inverisimiglianza? Cede forse l’Idropica di Giambatista Guarini pubblicata nel 1613 a veruna delle commedie erudite per rogolarità, per grazià comica, per delicatezza ne’ caratteri e per vaghezza di locuzione?
Se altre favole comiche non potessero mostrare gl’Italiani del secolo di cui parliamo, se non quelle del cavaliere napoletano Giambatista della Porta recitate in parte anche nel precedente, ma in questo pubblicate per le stampe, poco avrebbero da temere nella prima metà del XVII. Noi più cose ne accennammo nella nostra opera appartenente alle Siciliea; e quì ci arresteremo anche un poco su di esse forse non inutilmente non solo per la gioventù, ma ancora per chi non leggendo osa ragionare, e per chi solo sa ripetere come oriuolo i giudizii portati dagli esteri su i nostri scrittori, favellandone iniquamente per tradizione. Non ci fermeremo nè su di quelle che l’editore della di lui Penelope Pompeo Barbarito nel 1591 promise di produrre, nè sulle favole notate a sogetto, tralle quali lasciò lunga fama la celebre sua Notte b, onde solea ricrear la città di Napoli nel tempo stesso che colle opere scientifiche la rendeva dotta. Per comprendere l’indole comica di questo cavaliere e la natura delle sue favole, bastano le quattordeci che raccolte in quattro volumi si pubblicarono in Napoli nel 1726 dal Muzio. Sono: la Trappolaria, la Tabernaria, la Chiappinaria, la Carbonaria, i Fratelli simili, la Cintia, la Fantesca, l’Olimpia, l’Astrologo, il Moro, la Turca, la Furiosa, i Fratelli rivali, la Sorella.
Il Porta conoscitore esperto de’ Greci e de’ Latini, ed osservator sagace dell’arte comica di Lodovico Ariosto, mostra di possedere la grazia d’Aristofane senza oscenità ed amarezza, la giovialità di Plauto rettificata, e L’artificio di dipignere ed avviluppare del Ferrarese senza copiarlo con impudenza da plagiario che ti ruba e ti rinnega. Seguì per lo più le orme di Plauto, ma nel viluppo lo sorpassa d’invenzione e di proprietà. Se Plauto potesse prestar la sua penna e render latine la Trappolaria e l’Astrologo, ne rimarrebbe oscurata buona parte delle favole di lui tolte in prestanza da’ Greci. Talvolta si elevò ad un genere di commedia più nobile, come nella Furiosa, nella Cintia e ne’Fratelli Rivali; talvolta maneggiò la commedia tenera, come nella Sorella e nel Moro.
Generalmente prese egli a perseguitare colla sferza comica la vanità ridicola, la letteratura pedantesca e la falsa bravura de’ millantatori scimie ridevoli de’ soldati di ventura. L’economia delle sue favole è sempre verisimile, semplice ed animata da piacevoli colpi di teatro. Lo stile è comico buono per lo più, benchè talvolta soverchio affinato alla maniera Plautina per far ridere. Dipigne benissimo le delicatezze e i piccioli nulla degl’innamorati, tirando fuori dal fondo del cuore umano certi tratti così naturali e proprii dell’affetto, che riescono inimitabili. Solo ne incresce che alcune volte renda gli amanti soverchio ragionatori. Del linguaggio Italiano generale si vale acconciamente pe esprimere le cose con verità e qualche volta con vivacità. Non giugne all’eleganza dell’Ariosto, del Bentivoglio e del Caro; anzi non sempre la dizione è pura, sfuggendogli dalla penna tratto tratto formole e voci non ammesse da’ Toscani rigorosi. Egli sulle orme degl’Intronati e de’ Rozzi e di altri che introdussero qualche personaggio che parla veneziano, bolognese, spagnuolo, napoletano, frammischiò ancora qualcheduno che si vale del dialetto napoletano, ma coll’atticismo patrio e con ogni lepore cittadinesco come nato in Napoli e versato nelle grazie della propria favella.
Ma il comico valore del Porta ha per avventura qualche carattere particolare, onde si distingua dagli altri comici, come Raffaele si distingue da Michelangelo, Achille da Ajace, Cicerone da Pollione, Terenzio da Plauto? A noi par di vederlo; e ci dispiace di non essere stati in ciò prevenuti da verun critico. La commedia del Porta è sempre di situazione, e l’arte che possiede di avviluppare ingegnosamente nella stessa semplicità, lo rende particolarmente nobile e pregevole. Un filo naturalissimo mosso da una molla non preveduta si va con verimiglianza avvolgendo senza bisogno di circostanze chiamate a forza in soccorso del poeta, e vi cagiona un moto vivace, mette i personaggi in situazioni comiche o tenere, e sino al fine tiene svegliato lo spettatore tralla sorpresa ed il diletto.
Quindi è che le sue commedie possono con ragion veduta proporsi per modello di viluppo ingegnoso senza sforzo, attivo senza trasporto e naturale senza languidezza. Diasi agli eccellenti comici Francesi venuti dopo di lui il bel vanto di essersi segnalati ogregiamente nella bella commedia che dipigne i caratteri correnti; ma si riserbi al Porta il trionfo nella commedia di viluppo. Non entro quì ad esaminare a qual delle due commedie debbasi la preminenza. Quando l’uno e l’altro genere siano trattati con maestria, meritano ugualmente la corona comica. Ogni scrittore ha pregi a se proprii (possiamo dire con madama Dacier che tante buone cose conobbe a molti de’ suoi posteri sfuggite) e siccome non v’ha cosa più vasta della poesia in generale e della drammatica in particolare, così non v’ ha carriera dove mostrino gli uomini maggior diversità di talenti. Tutti i generi sono buoni secondo l’avviso di Voltaire, fuorchè il nojoso, e (aggiungerei) fuorchè lo spropositato e l’eterogeneo. Quei che pretendono che tutta l’arte comica consista nel solo ritrarre i costumi senza molto aver cura d’istoriar l’azione, riflettano che i costumi, spezialmente locali, sono come le mode passeggieri, ma l’azione esposta con bell’arte in vaghi quadri appassionati o piacevoli conviene ad ogni tempo. I caratteri forti, niuno l’ignora, sono di numero limitati, e dipinti bene una volta, se vogliano replicarsi, riescono per lo più languide e fredde copie. Ma gli accidenti o le combinazioni del verisimile ben modificato producono in teatro la sempre bella e sospirata varietà. Or tale è l’arte che serpeggia nella Trappolaria, nell’Olimpia, nella Tabernaria ed in altre del Porta e questo dilettevole genere comico dopo di alcune prime commedie del Moliere e del Bugiardo del Cornelio, fu da Francesi totalmente negletto. Gli Spagnuoli lo maneggiarono molte▶ volte con felicità, ma sempre trascurando ogni saggia regola adottata dalla culta Europa, e talvolta violentando la verità nel condurre lo scioglimento. Il Porta lo fece suo particolar retaggio maneggiandolo con piacevolezza, ingegno, nobiltà e giudizio, senza infrangere le regole, e senza ricorrere a’ soliti partiti di manti, nascondigli, evenimenti all’oscuro e case che si compenetrano.
Parvero, è vero, al signor di Marmontel le commedie spagnuole meglio intrecciate delle italiane e noi rispetteremmo ciecamente il suo giudizio, se avesse egli mostrato di aver letta alcuna delle buone commedie erudite dell’Italia. Il solo Porta che avesse letto, bastato sarebbe a guarirlo del suo preoccupato avviso; ma il Porta soffrirà con Ariosto e Machiavelli e Bentivoglio ed altri illustri Italiani che scrissero commedie, la disgrazia di non essere stato letto dal Marmontel. Di grazia quale ingegnoso artificio lodevole può campeggiare in una favola che di ogni modo si agevola il sentiero aggruppando in due ore di rappresentazione la storia di mezzo secolo, e presentando in quattro spanne di teatro tutto il globo terraqueo, ed anche il mondo mitologico, e l’inferno e il paradiso? Intende egli per intreccio un cumolo di avvenimenti romanseschi ammonticati a dispetto della natura in mille guise?
Secondo me l’arte di avviluppare consiste nel concatenare gli avvenimenti in maniera che vi si ravvisi sempre una ragione che soddisfaccia in ogni passo dell’azione. Direi ancora che il viluppo più acconcio ad appagar chi ascolta, altro non sia che una giudiziosa progressione di un’azione solo per la via del maraviglioso condotta al suo fine a. Ma questo maraviglioso in che mai è posto? Nell’accumolar fatti come si fa nelle commedie romanzesche? Aristotile lo caratterizzò egregiamente con questo esempio: cada una statua nel punto che passi sotto di essa l’uccisore di colui che rappresenta, e questa caduta naturale per combinazione diventa maravigliosa. Il Porta ne diede di belli esempi. Ecco l’intrigo dell’Astrologo. Un impostore dà ad intendere ad un credulo ignorante innamorato che per mezzo di arcane scienze trasformerà talmente un servo che rassembrerà un vecchio creduto morto e nel punto che si aspetta la promessa metamorfosi, per mero caso arriva quel vecchio stesso, e tolto in cambio cagiona maraviglia, sconcerto e movimento di ◀molte▶ passioni con diletto dello spettatore. Una sola è la molla ma attivissima e ben collocata dà moto a tutta la macchina. Pari industria si scorge nella sua Sorella. Un padre spedisce in Costantinopoli un suo figliuolo per liberare dalla schiavitù la moglie e una figliuola. Questi s’innamora in Venezia di una bella schiava, e senza eseguire la commissione del padre riscatta quella giovine, la sposa e la mena nella casa paterna facendola credere la sorella liberata, ed affermando di aver trovata già morta la madre. Ma questa madre per buona ventura ottiene la libertà, ed arriva in un punto che disturba la tranquillità degli amanti. Il primo a vederla è il figliuolo che prevedendo di dovere al di lei arrivo fuggire dal rigore del padre giustamente sdegnato, piangendo le manifesta la sua colpa, e vuol partirsi disperato, quando ella impietosita dar non voglia a credere al marito che la giovane che è in casa, sia appunto la perduta sua figliuola. La madre condiscende e promette. S’ incontra con la giovane, ed effettivamente la riconosce per la figlia ed è da lei riconosciuta per sua madre. Le reciproche tenerezze, il pianto che produce naturalmente quest’incontro, vien dal figlio creduto pietoso artificio della madre affettuosa. Ma quando intende che quella è veramente sua sorella, cade nelle smanie di Edipo senza però oltrepassare i limiti prescritti alla commedia, e la vivacità delle passioni che risveglia questo evenimento, agita e scompiglia la casa tutta, la quale avventuratamente si rassetta col manifestarsi uno scambio accaduto in fasce alla fanciulla, per cui si riconosce per figlia di un altro concittadino. Il viluppo della Trappolaria e quello dell’Olimpia sono ugualmente ingegnosi e felici una sola ipotesi verisimile tutto avvolgendo e mettendo in movimento, ed un solo fatto che necessariamente, e non già a capriccio del poeta, si manifesta, riconducendo la tranquillità tra’ personaggi ed un piacevole scioglimento.
Tre altri buoni scrittori Napolitani fin dal principio del secolo si segnalarono con ingegnose favole comiche regolari, l’Isa, lo Stellati, il Gaetano duca di Sermoneta. Cinque commedie portano il nome di Ottavio d’Isa capuano, la Fortunia impressa verso il 1612 e poi ◀molte altre volte, l’Alvida del 1616, la Flaminia del 1621, la Ginevra dell’anno seguente, e poi del 1630 in Viterbo, che è l’edizione citata dal Fontanini, ed il Malmaritato del 1633 secondo il Fontanini e l’Allacci, benchè il Toppi ne registri una edizione del 1616 col titolo di Malmaritata che le conviene meglio. Esse veramente non portano il nome dell’autore che le compose, cioè di Francesco d’Isa sacerdote erudito che dimorava in Roma, dove morì sull’ incominciar del secolo. Sono tutte artificiose e facete scritte ad imitazione de’ Latini con intrighi maneggiati da servi astuti e talvolta con colori tolti da Plauto, come il raggiro de’ servi per ingannare un Capitano nell’Alvida, che con poche variazioni si trova nel Miles del comico Latino. Rancida parrebbe ancora l’invenzione degli argomenti delle sue favole fondati sulla schiavitù di qualche persona in Turchia o in Affrica ma si vuole avvertire che in quel secolo essi doveano interessare più che ora non fanno, perchè tralle calamità specialmente delle Sicilie sotto il governo viceregnale non fu la minore nè la meno frequente quella delle continue depredazioni de’ barbari sulle nostre terre littorali non più coperte dalle potenti armate di mare di Napoli e di Sicilia. Aggiugni a ciò le devastazioni nelle provincie del regno taglieggiate e saccheggiate da compagnie di banditi, i quali non rare volte tolsero a’ ricchi abborriti i beni e le figliuole. Ed in fatti su questa lagrimosa parte della storia di Napoli è fondata la schiavitù di Alvida menata via da’ banditi Abbruzzesi, come ella stessa racconta ad Odoardo nell’atto IV. Capuano fu ancora Lorenzo Stellati autore pregevole di altre due commedie, cioè del Furbo uscita in Napoli nel 1638, e del Ruffiano impressa nel 1643 assai comendate da Gio: Vincenzo Gravina. Le commedie del duca Filippo Gaetano di Sermoneta parimente con ragione lodate dal Gravina per la loro regolarità e per la dipintura de’ caratteri e degli affetti, sono la Schiava impressa in Napoli sin dal 1613, e reimpressa dopo molti anni in Palermo, l’Ortenzio rappresentata in Rimini alla presenza del cardinal Gaetano e stampata in Palermo nel 1641, e i Due Vecchi impressa colle altre dal Ciacconio in Napoli nel 1644.
Piacevole e senza inverisimiglianze grossolane è il Trimbella trasformato commedia in versi del Martellini stampata nel 1618. Si recitò in Firenze nel medesimo anno in cinque giorni con generale applauso la Fiera commedia urbana del festivo Buonarroti il giovine, la quale è uno spettacolo di cinque commedie concatenate diviso in venticinque atti a. Tra’ piacevoli Trattenimenti di Antonio Brignole Sale impressi in Genova, trovasi il Geloso non geloso commedia in cui lepidamente si ritrae un uomo posseduto dalla gelosia, che per non incorrere nel ridicolo attaccato a’ gelosi, vorrebbe comparirne esente e ne diviene doppiamente degno di riso. È questa una bella dipintura di caratteri qual si richiede dalle persone di gusto e qual si è eseguita poi in Francia nel Pregiudizio alla moda.
Assai giocondamente il messinese Scipione Errico schernì le affettazioni e le arditezze dello stile detto secentista e criticò con sale e giudizio diversi poeti di quel secolo colla sua commedia le Rivolte di Parnaso per le nozze di Calliope, che s’impresse in Messina nel 1620, ed altrove diverse volte. Compose anche l’Altani quattro commedie che possono mentovarsi con onore l’Amerigo del 1611, la Prigioniera del 1622, il Mecàm Bassà del 1625 e le Mascherate del 1633. Gli Abbagli felici del conte Prospero Bonarelli della Rovere si pubblicò in Macerata nel 1642, e non è commedia da confondersi colle buffonesche accette al solo volgo. Carlo Maria Maggi compose quattro piacevoli commedie con intermezzi e prologhi da cantarsi il Barone di Birbanza, il Manco male, i Consei de Meneghin, ed il Falso Filosofo impresse poi in Venezia nel 1708. Esse hanno molta grazia comica, specialmente per chi ha pratica del dialetto milanese, e vi si veggono acconciamente delineati i caratteri, e sopra tutti quello del falso filosofo è pittura vera vivace e pregevole, di cui s’incontrano alla giornata frequenti originali.
Adunque anche in un tempo di decadenza nelle belle lettere debbono distinguersi le additate commedie erudite da ciò che in seguito si scrisse in Italia col disegno di piacere alla plebe ed esse debbono tanto più pregiarsi quanto più si vide il secolo trasportato dallo spettacolo più seducente dell’Opera in musica.
Dalle descritte erudite tragedie e pastorali e commedie del XVII chiara quanto il meriggio ne risulta questa istorica verità, che allora il Teatro Italiano conservò l’usata regolarità, quando anche volesse notarsi in esso qualche alterazione nello stile.
Intanto non posso dispensarmi dall’osservare che il chiarissimo abate
esgesuita Giovanni Andres asserisce con una franchezza che
fa meraviglia, che
il Teatro Italiano regolare da principio ma
languido e freddo
(di che vedasi ciò che si è detto nel precedente
volume della nostra Storia)
sbandi poi nel passato secolo e nel
principio del presente
(parla del decimottavo)
ogni
legame di regolarità, e lasciate le
tragedie e le castigate commedie altro non presentava che pasticci
drammatici, come dice il Maffei
. Dopo ciò che abbiamo narrato, e
che si può verificare ad ogni occorrenza, non pare che questa sentenza
dell’Andres sia stata dettata da giusta critica, da
lettura diligente e da perizia della poesia drammatica. Non bisogna fare
atti di fede in letteratura. Rileggendo la citazione del Maffei egli si
accorgerà subito che quel nostro letterato non intese al certo di parlare di
tanti buoni componimenti de’ quali non ignorava l’esistenza e conosceva la
prestanza, perchè avrebbe fatto gran torto a se stesso e non mai all’Italia.
Parlò bensi effettivamente de’
pasticci reali eroici
regiocomici
oltramontani adottati in un breve periodo del passato
secolo da commedianti di mestieri e da Italiani ignoranti e di pessimo
gusto. Il critico universale che s’innoltra a parlare d’ogni letteratura,
conviene che tutto legga e che bene interpreti gli scrittori. Ma quando
anche il dotto Maffei e qualunque altro uomo di
lettere più illustre pretendesse formare un mucchio spregevole di tutto ciò
che si scrisse in quel secolo pel teatro, noi gli diremmo con rispetto ma
con franchezza che s’inganna, ed avremmo dal canto nostro gl’imparziali e
meglio informati. Gli faremmo risovvenire delle tragedie dell’Ingegneri, del
Chiabrera, del Bracciolini, del Bonarelli, del Dottori, del Pallavicino, del
Delfino, del Caraccio come ancora delle pastorali dell’altro Bonarelli, del
medesimo Chiabrera, del Bonarroti il giovine e dell’Errico e finalmente
delle commedie del Guarini, del Brignole Sale, del Malavolti, dell’Altani,
del Maggi, del Porta, dell’Isa, dello Stellati, del Sermoneta, del
Buonarroti, e di altre indicate. A tutte queste chi negherà il pregio della
regolarità? Chi oserà dare il titolo in tutti i sensi
sconvenevole di pasticci drammatici, che solo appartiensi
agl’Inglesi, agli Spagnuoli ed agli Alemanni, ed anche a’ Francesi prima di
Corneille e Moliere?