Bocchini Bartolommeo detto Zan Muzzina della Valle Retirada, bolognese.
Compagni ve ringraziocol zenocchio piegà, la bretta in man,e son pur troppo saziotenendo in st’occasion starve lontan,che per mi tira el fangone la città, ch’a nominarla piango.Quella Bologna cara,quella patria mia, quel caro albergh,quella dove s’impara,e lo conferma il Bagaron sul tergh,quella ov’ebbi il natale,privo di questa son nel carnevale.
Dice il Fantuzzi (Degli Scrittori bolognesi) che il Bocchini
fu nativo del Castello di S. Agata, e si dilettò di Poesia Burlesca, ma non aveva fatti grandi studi, ed era solo ajutato nel comporre da una naturale disposizione ; e pretendendo di vendicar la sua Patria dalla burla, che gli aveva data il Tassoni nella sua Secchia rapita, diede alle stampe un Poema tragicomico diviso in XII Canti intitolato : Le passie de’ Savj ovvero il Lambertaccio, nel quale si parla con poco rispetto de’ Modonesi. Questo libro fu stampato In Venesia appresso i Bertani, 1614, in-12, con dedicatoria al Principe D. Lorenzo di Toscana….. avverte giustamente il Quadrio nella Storia e Ragione d’ogni Poesia, tomo IV, pag. 728, che come il Bocchini nel dir villanìe superò di gran lunga il Tassoni, così nel fatto di Poesia gli restò di gran lunga addietro fino a perderlo di veduta.
Il Bocchini fu argutissimo ingegno, e lasciò scritte molte opere poetiche in cui è da ammirare più specialmente la vena comica abbondantissima. Fu egli semplice scrittore soltanto ? Non credo. E se bene nè il Fantuzzi, nè il Quadrio, nè altri, a mio sapere, accennino al Bocchini attore, pure gli scritti suoi (Corona Maccheronica, ecc., Modena, Soliani, 1665, in-12), nei quali sono particolarità curiose sulla schiera infinita degli Zanni e una conoscenza profonda dell’arte e della vita loro, starebbero a provare che non solo egli montò in banco, ma che nè men fu de’peggiori recitanti, di cui alcuni eran gente di moltissimi pregi nell’arte comica, che esercitavan non solo recitando, ma, come i grandi colleghi, suonando, cantando e ballando.
Comincierò dal trascrivere intero il suo Prologo rappresentato quand’egli fu accettato nella Zagnara, nel quale abbiamo l’idea di quel che fossero le rappresentazioni degli Zanni.
Scoprendosi la scena, si vede il Re Scappino con Brighella e Bagolino suoi consiglieri, uno da un canto, e l’altro dall’altro con una mano di Paggi Zagnetti, dove arrivando Muzzina senza Tabarro e Beretta, gli dà una Supplica, e Scappino così cantando dice :
Varda un poco, Brighella,mio conseglier fidado,se sto Zagno ha portà qualche novella,che possa desturbar el nostro stado :spiega tosto la carta,e inanzi, ch’el se parta,saveme dir, s’el brama pase o guerra,e che bon vento l’ha portà in sta terra.
Brighella
Questo, Signor, xè un Zagnoda vu recorso in fretta,sol, perchè ’l meschinel nol fa vadagno,e non ha soldi da comprar la Bretta ;ma con supplica fresca,la maestà zagnescaprega, per impetrar gratia sì cara,de poderse introdur ne la zagnara.
Bagolino
È ben giusto, Signore,col xe un Zagno d’ingegno,che vostra maestà per servidoreno se sdegna accettarlo entro el so Regno.Perchè za le Valladeson del tutto estirpade,e per destin sì crudo e manigoldo,nol ghe xe un Zagno più che vala un soldo.
Scappino a Mussina
Famme sentir almancoqualche cosetta niova,ma avverti ben de note dar de bianco,ch’el se scortega i Aseni a la prova :dimme qualche concetto,quà senza scaldaletto,che a sta foza vedrò, se ti xe instrutto,e fa saltar la rana sora el tutto.
Muzzina
Za, ch’el me vien concessoda corona si degna,vogio desgamuffar la Musa adesso,se però d’ascoltar lei no se sdegna :supplicando in zenocchiocon la lagrema all’ occhio,che la vogia accettar da Zan Muzzina,la Riosa sol, e no toccar la spina.La Zia Mona mia mare,scarsella mai me diede,Zan Pitocca Batocchio, qual fu el pare,d’un strazzo de Tabar me lassò erede ;ma la mia trista sortecausò dopo la mortegran nascita de debiti, e malanni,si ch’el morir me ravvivò i affanni.A tal, che in sti rumoriper non haver cervello,el se me serò adosso i creditori,e fu dato el precetto al Barisello,qual me tolse de frettael Tabar con la Bretta,e son remasto un Zagno sì deserto,ch’el neva, e tegno star col cao scoverto.
Scappino
O là Paggi, via presto,no fe’ al corso sparagno,ma disè al Vardarobba, ch’el sia lesto,e ch’el me manda da fornire un Zagnoe ch’el se pia sto assunto,perchè de tutto puntovogio vestirlo, a zo col stil Zagnesco,el possa star co i altri Zagni al desco.
Qua si scoprono i campi Elisi, e si vedono l’ombre di tre Zagni, quali cantando dicono, principiando Trivello.
Mentre, che a tanti spirtide Zagni hozi è concessol’uscirne fuor da questi ombrosi mirti,ecco Sivel, che da ti vien adesso,che in paese me chiamade Muzzina la fama,el qual per fabbricar canzon sì spesso,el merita segur d’esser ammesso.
Fenocchio
Quel Fenocchio, che al mondose fe’ cognoscer tantoe in su le scene ognor sì furibondo,ne riportò tra Zagni il pregio e il vanto :quel te supplica e prega,che grazia nol se niegaa sto Muzzina, scusando i defetti,che fra Zagni el farà piover concetti.
Stupin Candelotto
De Stupin Candelottozonto adesso è a l’orecchio,el gran valor de quel Muzzina dotto,in zovanil età Zanno sì vecchio,a te digo, Signore,ch’el merita ogni onore,per esser fio de la Zia Mona solo,ch’un tempo fu sì grata al nostro stuolo.
I Paggi tornano con un Bacile dove vi è sopra il fornimento d’un Zagno.
Eccone retornadiobedienti al tuo cenno,perchè daspò che semo stà sbrigadiciascun s’è messo a caminar da senno,sì che in tempo arrivandocon gusto massa grando,hozi vedrem crescendoci un compagno,Muzzina dal suo Re creado Zagno.
Scappino a’ Conseglieri
Levè el cul da le sedieBagollino e Brighella,e a zo ch’el possa recitar comediedeghe pur col Tabar, Bretta, e Scarsella ;che per mi me contento,pur ch’el ghe tira dentro,e avrò gusto a sentir per la confina,per tutto rebombar : Viva Muzzina.
Bagolino e Brighella insieme
O Zagno avventurado,se vede, che in effettoti ha inclinazion ne l’esser fortunando,perchè a la prima ti ghe intrà in concetto,e nu grami meschinisfadigai d’assassini,stentando el ghà volesto più d’un mezoinanzi, ch’el ce segna el privilezo.
Muzzina
In effetto me sentolonzi da ogni desgratia,e spero ogn’ hor de viver più contento,purchè del Re Scappin me trova in grazia.Faza donca la sorte,ch’altro mai, che de morteno avrò spavento più, no avrò timore,sotto a la protezion del mio Signore.E con questo ve basola man, o Re de’ Zagni,pregando solo a no me dar del nasone la partenza, perchè i miei compagnista aspettando la niova,se son passà a la prova,che dopo tante grazie e tanti onori,volemo far comedie a sti Signori.
Scappino
Per no desdire al cantode l’ombra mia paterna,va pur felice, e ’n su le scene intantocerca lassar de ti memoria eterna.No te metter paura,che questa xe segura,vera occasion da immortalarte giusto,se a tanta Nobiltà ti sa dar gusto.
La parte parlata nelle commedie degli Zanni doveva restringersi a ben poco ; tutti i ritratti di Zanni a noi pervenuti, ce li descrivono con la chitariglia, o mandola, o altro strumento a pizzico, in atto di accompagnarsi una canzonetta.
Zan Muzzina era dunque nella genealogia zannesca figliuolo di Zia Mona e di Zan Pitocco Batocchio. Basta il nome del padre, per capir bene come la povera mamma non gli avesse mai dato scarsella. E Scappino dice ai Consiglieri : e a zo ch’el possa recitar comedie – deghe pur col Tabar, Bretta, e Scarsella.
La scarsella era appunto una borsa di cuojo, o d’altro, che gli Zanni portavano alla
cintola : e se ne servivan forse per mettervi dentro il danaro che avevan raccolto in
giro dagli spettatori colla berretta. Quasi tutti gli zanni raffigurati nelle antiche
incisioni hanno al fianco la scarsella, come vedremo. Quando Scappino invita Muzzina a
far la prova dell’arte sua, gli dice : « ma avverti ben de non te
dar di bianco. »
Dar di bianco è frase del gergo comico. I comici
d’oggi dicono ancora : fare uno sbianchimento ; e vuol dire più
specialmente : metter sotto gli occhi del pubblico l’errore di un compagno di scena, non
rilevato avanti. Il gergo teatrale propriamente detto, la lingua
di cui si
servivano i comici abitualmente da’tempi i più remoti ; quella di cui abbiamo esempio
nella citata Farsa Satyra morale del Venturino (V. Andreini
Francesco), dove il bravo Spampana sfidando il giovine Asuero a ogni specie di giuochi,
chiama le carte galante sfogliose :
Ah, ah, scio quel che uuoi, no te intendea :eccole qui le galante sfogliose :chiama te : fante ; ue, chel te venea,
e di cui ci ha lasciato più che un saggio Carlo Goldoni nella Locandiera, quella lingua, dico, è oggi del tutto scomparsa. E credo per lo studio della scena di prosa, non sia privo d’interesse il dialogo in furbesco di Zan Muzzina tra Scatarello e Campagnolo, che è nella seconda parte della Corona maccheronica, e di cui ecco le prime due stanze :
Scatarello
Alluma un po’ Calcagno,se ’l gonzo da per ell’ vien al cogoll’.che se ’l ghe de vadagno,munel ghe slanzerà le cerre al coll ;no te squassar ; sta saldo,tiò al sbasidor, e tira zo el ghinaldo.
Campagnolo
Tanto farò, ma credo,che so isa ha tagiado el cordovan,perchè per quanto vedo,el batte la calcosa molto pian ;el se mostra invilio,ghe trema el proso, e par tutto sbassò.
Quanto agli Zanni, personaggi del prologo, V. anche Gabbrielli Francesco, lo Scappino, Re de’Zanni, e Gabbrielli Giovanni, padre, detto il Sivello. Quanto a Fenocchio, V. Cimadori Giuseppe.
Di moltissimi Zanni nulla ci è rimasto. Essi son tutti su per giù variazioni poco sensibili del tipo di Brighella, del quale in genere conservano anche il costume. La schiera degli Zanni era, come abbiam detto, infinita ; e lo stesso Muzzina nel suo trionfo di Scappino, ne cita buona parte. Eccoli : Pidurlino (V. Lombardo), Gonella (citato da Ludovico Domenichi nella sua raccolta di facezie), Fregnocola (V. Gabbrielli Giovanni), Buffetto (V. Cantù), Lupino, Frittellino (Vedi Cecchini), Burattino, Farina (V. Roncagli), Guazzetto, Capocchia, Trippone, Gradella, Padella, Fritella, Gabionetto, Scalogna, Trappolino, Scattolino, Cortellazo (V. Montini), Boccalino, Baccalaro, Zan Gurgola (V. Andreini Francesco). E questi sono un niente ancora appetto ai tanti nominati nella genealogia di Zan Capella, che pubblico in fine. Un saggio di quello stile in Bisticcio, che troviam poi nella Villana di Lamporecchio (V. Del Bono), ci ha dato anche Zan Muzzina in più sonetti, uno dei quali è il seguente :
Io che passo si spesso, e pur non possose ben batto da Betta un dì far botta,comporterò s’altrui l’accatta cotta,ch’ella me sol salassi fin su l’osso ?No, che vergogna in simil rissa rossorenderìa il viso, e più la detta indottada mero amor fariami in fretta, e in frottaferir, forar da drudi d’essa il dosso.Ma pur mi par, se su lo stocco attacco,o con sferza la sforzi a star a stecco,che sì la sciocca non mi secchi il sacco.Scusimi il ciel se per la picca pecconon vuò più a patto alcun potta di Bacco,che feccia di facchin mi faccia becco.
Nel prologo di accettazione nella Zagnara era certo rappresentato al vivo il suo stato miserevole. « Le vicissitudini della mia fortuna » dice nelle parole al lettore (V. la Corona maccheronica) « dopo la mia nascita, hanno stillato sempre di farmi vivere in angoscie. » E più oltre : « Spero una volta frenare gli empiti di questa mia sorte, ecc., ecc. »
E ora, ecco un brano, che tolgo dalla Piazza Universale di Tommaso Garzoni, descrizione particolareggiata di quel che erano e facevano gli Zanni, nella quale andrò intercalando le graziose e preziose figurine del Callot, che, specialmente coi fondi, come s’è già visto anche pei capitani e per l’Antonazzoni (V.) e come anche si vedrà per altri, illustrano alla perfezione il testo.
Dal Discorso CV – De’Formatori di spettacoli in genere, e de’Ceretani e Ciurmatori massime (pag. 550 e segg. dell’ edizione di Venezia, Miloco, 1665).
Da un canto della piazza tu vedi il nostro galante Fortunato insieme con Frittata cacar carote e trattener la brigata ogni sera dalle ventidue sino alle ventiquattro ore di giorno, finger novelle, trovare istorie, formar dialoghi, far caleselle, cantar all’improvviso, corucciarsi insieme, far la pace, morir dalle risa, alterarsi di nuovo, urtarsi in sul banco, far questione insieme, e finalmente buttar fuora i bussoli e venire al quamquam delle gazzette (moneta venesiana da dieci centesimi) che voglion carpire con queste loro gentilissime e garbatissime chiacchiere.

Da un altro canto esclama Burattino, che par che il boja gli dia la corda, col sacco indosso da facchino, col berettino in testa che pare un mariuolo, chiama l’udienza ad alta voce, il popolo s’appropinqua, la plebe s’urta, i gentiluomini si fanno innanzi, e a pena egli ha finito il prologo assai ridicoloso e spassevole, che s’entra in una strana narrativa del padrone, che stroppia le braccia, che stenta gli animi, che ruina dal mondo quanti uditori gli han fatto corona intorno ; e se quello co’gesti piacevoli, co’motti scioccamente arguti, colle parole all’altrui orecchie saporite, con l’invenzioni ridicolose, con quel collo da impiccato, con quel mostaccio da furbo, con quella voce da scimiotto, con quegli atti da furfante s’acquista un mirabile concorso ; questi collo sgarbato modo di dire, con la pronuncia bolognese, col parlar da melenso, con la narrazione da barbotta, collo sfoderar fuori di proposito i privilegi del suo dottorato, col mostrar senza garbo le patenti lunghe di signori, col farsi protomedico senza scienza, all’ultimo perde tutta l’udienza, e resta un mastro Grillo a mezzo della piazza. Fra tanto sbuca fuor de’portici un Toscano e monta su con la putta, smattando come un asino Burattino col suo Graziano ; il circolo si unisce intorno a lui, le genti stanno affisse per vedere ed ascoltare, ed ecco in un tratto si dà principio, con lingua fiorentinesca, a qualche pappolata ridicolosa, e in questo mezzo la putta prepara il cerchio sul banco e si getta in quattro a pigliar l’anello fuora del cerchio, poi sopra due spade, tuole una moneta indietro stravaccata, porgendo un strano desiderio al popolo della sua lascivia grata : ma fornita la botta, si urta nelle ballote e il cerchio si disunisce, non potendo star più saldo allo scontro dei bussolotti che vanno in volta. Da un’altra parte della Piazza il Milanese, con la beretta di velluto in testa e con la penna bianca alla guelfa, vestito nobilmente da Signore, finge l’innamorato con Gradello, il qual si ride del padrone, li fa le fiche in sul viso, le mocche di dietro, si proferisce al suo comando, prontissimo a pigliare una somma di bastonate, si tira il cappello sul mostaccio, caccia mano al temperino, e con gli occhi storti, con un viso rabbuffato, con un grugno di porco, con un guardo in sberleffo verso i rivali del suo padrone, fa mostra di sè stesso come d’un can mastino corrucciato ; ma pian piano vedendo l’incontro degl’inimici diventa paralitico, e tremando di paura e lordandosi in sul banco, si dà in preda ai calcagni e lascia il Milanese fra le scatole e l’ampolle in mezzo della piazza impettolato.


Fornita questa istoria, Gradello fa una squaquarata di voce e di canto molto sonora ; ovvero finge l’orbo col cagnuolo in mano in luogo di tiorba, e poi si comincia l’invenzione delle bolle di Macalesso che dura due ore, onde gli uditori stomacati, si partono beffando lo sciocco cerretano, che sta pur saldo su le tre gazzette delle grosse, e delle piccole due soldi, protestando al cielo ed alla terra di non volere calare se non quando l’udienza parte senza dir buona sera, nè tor commiato d’alcuna sorte.
E qui dopo di avere con ogni particolarità parlato di Mastro Lione addottorato a Lizzasusina, del Cieco da Forlì, di Zan della Vigna, del Tamburino, del Napolitano, e di Mastro Paolo D’Arezzo e del Moretto da Bologna, e di Settecervelli colla sua cagnuola ammaestrata, e del Parmeggiano colla sua capra, e del Turco e del Giudeo e di tutte le loro scioccherie comiche, ciarlatanesche, acrobatiche, conclude :
Or da ogni parte si vede la piazza piena di questi Ciurmadori, chi vende polvere da sgrossar le ventosità di dietro ; chi una ricetta da far andare i fagiuoli tutti fuor della pignatta alla Massara ; chi vende allume di feccia per stopini perpetui, chi l’olio de’filosofi, la quinta essenza da farsi ricchi, chi olio di tasso barbasso per le freddure, chi pomata di seno di castrone per le crepature, chi unguento da rogna per far buona memoria, chi sterco di gatta o di cane per cerotto da crepature ; chi paste di calcina da far morire i topi ; chi braghieri di ferro per coloro che sono rotti, chi specchi da accendere il fuoco posti incontro al sole ; chi occhiali fatti per vedere allo scuro ; chi fa veder mostri stupendi e orribili all’aspetto, chi mangia stoppa, getta fuori una fiamma, chi si percote le mani col grasso discolato, chi si lava il volto col piombo liquefatto, chi finge di tagliar il naso a uno con un cortello artificioso, chi si cava di bocca dieci braccia di cordella, chi fa trovare una carta all’improvviso in man di un altro, chi soffia in un bossolo e intinge il viso a qualche mascalzone, e chi gli fa mangiare dello sterco in cambio di un buon boccone.

Oltre a ciò V. Casali Gaetano, comico di rari pregi al servizio del celebre ciarlatano Buonafede Vitali, Bissoni Giovanni, e primo fra tutti il famoso Tabarrini, da cui poi la maschera di Tabarino, quasi sempre (V. Sand) padre di Colombina e compagno del Dottore, che vediamo comico e ciarlatano, al servizio del celebre Mondor, nel 1620 circa, a Parigi.
Nè in questi soltanto, ma in altri ancora avremo da notare questa mescolanza di ciarlataneria e d’arte comica. Quanto a’rimedj, segreti, ricette (buffonerie da non dirsi), V. Montini Ippolito e Mozzana Francesco. Anche abbiamo un canto carnascialesco di Zanni e di Magnifichi e un capitolo, pubblicato per la prima volta da Carlo Verzone, di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, che vedremo riprodotto al nome di Cantinella.

A riscontro della descrizione garzoniana, ecco un brano di Giambattista del Tufo, concernente il carnevale del 1588 in Napoli, ecc. ecc., riprodotto da Benedetto Croce nell’opera sua de’ Teatri Napoletani più volte citata :
Vedresti ed anco allor tanti buffoni,Transtulli e Pantaloni,che, per tutti i cantoni,con le parole e gesti ed altri spassifanno muovere i sassi ;sentireste d’intornocento cocchi di musiche ogni giorno,come anco farse e tresche e imperticateda cento ammascherate,ed al suon del pignato e del taglierocantar Mastro Ruggero,e simili personecol tamburello e con lo calassione,sentendo in giro chi da là e da quà :Lucia mia Bernagualà !Veder talvolta comparir in scenacon dolcissima venapresto e destro, qual suol, Covar Navettola,Coviel, Giancola, e Pascariello Pettola.Così veder quel ballo alla maltese,ma in Napoli da noi detto Sfessania,donne mie, senza spesevi guarireste allor febbre o micrania.
Quella frase di Lucia mia Bernagualà, o era il primo verso di una canzone celebre cantata in carnevale dagli Zanni, come oggi dal popolo quella di Piedigrotta, o una specie di parola d’ordine, nella quale era, dirò, il segno col quale il popolo e le maschere si davano a quella specie di chiasso indiavolato. Di questa frase press’a poco si servì il Callot per il frontespizio de’suoi balli di Sfessania (Lucia mia, Bernovallà, che buona mi sa), nel quale essa è intonata a suon di mandòla, di cembalo, e di armonica, e in mezzo alle danze, o meglio a’salti i più vertiginosi. In fondo di tra le tende, sbucan due tipi, probabilmente la Signora Lucia e Trastullo ; e a’fianchi del palco si veggon teste di spettatori intenti. Bernovalla è poi, mutato in Pernovalla, divenuto uno dei personaggi de’Balli di Sfessania, accoppiato con Cucorongna.


Quanto all’etimologia della parola Zanni, omai, dopo i vari studi dello Stoppato, del Rossi, già pubblicati, e quello del Della Torre, tuttavia inedito, credo sia da rigettarsi recisamente la derivazione che fecero i nostri antichi, seguiti poi servilmente sino al secolo scorso, dello Zanni dal Sannio de’latini.
Assai più semplice pareva a me di dover prendere il Zan bergamasco come la forma dialettale di Gianni, Giovanni ; forma conservata sin qui nel veneto e nel lombardo. Anche a Lugano, Canton Ticino, quando si voglia rimproverar taluna di certe sue sciocchezze, si suol dirle : fa minga la Zana ! Nel linguaggio famigliare veneto vive la frase : far da Zane e da Burattin, ossia far tutte le parti in commedia. A ogni modo Vittorio Rossi, in una sua recensione alli studi dello Stoppato sulla Commedia popolare, avvertiva :
Non fu, ch’io sappia, mai rilevato come in appoggio di questa opinione possa essere citata La Primavera, Comedia di Messer Vincenzo Fenice, detto il Rinovato, nuovamente recitata nella magnifica città di Venezia. (In Vinegia, appresso di Agostino Bindoni, 1549). Nella lista dei personaggi vi troviamo infatti un Giovanni bergamasco servidor, il quale nel corso della commedia è sempre chiamato Zane, e fa precisamente la parte dello Zanni.
Ed eccoci, senza più, alla promessa
GENOLOGIA
DI ZAN CAPELLA.
Fatta in una bellissima Matinata, alla sua
cara innamorata detta D. Bertolina
nella qual si narra tutta
la nobiltà del
suo
parentado per acquistar la
gratia sua.
Opera nuoua, et redicolosa ad
ogni spirito gentile.
Bona sera, o BertolinaL’hè chi ol Capella valentCh’è venud de voltolinaPer narrat ol so tormentMo te pregh te stagh attentE non esser venenusaNe superba o desdegnusaMa pietosa e Melosina.Bona sera o Bertolina.Za che sem a rasonaPerchè so che t’ho cennatDelle volte più de milMi te l’ho volud mostraOl me sangu col parentàPerchè son innamoràMa ti soni la sordina.Bona sera o Bertolina.(Manca un verso alla strofa)Del illuster sangu de TrojaHomen splendid, e famusNanzi alla Regina AncrojaDosent an ancora plusCh’el nasi quel valorusE terribel fier porchetChe fu pader del zampetHom d’ingegno e de dottrina.Bona sera o Bertolina.De Zampet nasi FrittadaDe Frittada ol CodeghiCodeghi fe la StagnadaLa Stagnada ol PentoliPentoli fe BuratiBurati criò ol BocalOl Bocal fe l’orinalChe fu poi detto Fascina.Bona sera o Bertolina.Ol Fascina fe MolenaE Molena fe crostiOl Crosti fe la MezenaLa Mezena ol TempariTempari fe ScorteghiScorteghi fe Pan BuffetChe fu pader dol GuazzetCh’andò sempre a testa china.Bona sera o Bertolina.El guazzet fe Zan padellaZan padella PedroliPedroli fe Zan CapellaZan Capella ol GiouariGiouari fe Zan DoniZan Doni fe Zan BatochioZan Batoch fe Zan CapochioChe fu mes poi alla berlina.Bona sera o Bertolina.Zan Capochio fe Zan IntrighZan Intrigh fe Frega ol busFrega ol bus fe Zan BrutighZan Brutigh fe Zan AmbrusZan Ambrus fe Rocca e FusE de Fus naq Zan PestelZan Pestel hauea un fradelChe si chiama Zan Farina.Bona sera o Bertolina.Zan Farina fe FaloppaOl qual fu poi Cazza diauolCazza diauol fe la StoppaE la Stoppa fe Zan PauolDe Zan Pauol naq Zan CauolChe fe poi la FilippettaChe cantaua la zeromettaQuand la faceua la cachina.Bona sera o Bertolina.Filippetta fe FiumanaChe fu poi di Zan BagozzaZan Bagozza fe GuzanaE Guzana Zan carozzaZan carozza fe catozzaChe fe poi quel Zan CauallaChe morì dentro una stallaChe pelaua una galina.Bona sera o Bertolina.Zan caualla fe FrittadaDa qual naq puo Bon amighBon amigh fe barba radaBarba rada Zan DouighZan Douigh fe Barba righBarba righ fe la quintanaChe vendeua la sua lanaA i fachi de voltolina.Bona sera o Bertolina.Fe Quintana Zan GradellaZan Gradella ol ScattolettaScattoletta fe LabellaChe criò puo Zan BraghettaChe cagand mai non si nettaZan Braghetta eb quattro fioiChe volend robbà i fasoiFu impicat una mattina.Bona sera o Bertolina.Ol mazzur fe Zan PoinaE puo l’oter fe SturiùE dol terz naq la PedrinaE dell’ultim Zan TripuZan Tripu fe un gran poltrunChe si chiamaua Zan PedralChe mori di carneualChe’l mangiaua una poina.Bona sera o Bertolina.Zan Pedral fe’ Zan PignattaZan Pignatta ol MoleghiMoleghi fe donna imbrattaDonna Imbratta il MescoliChe portaua un bocalSu la testa per berrettaMescoli fe Zan ZanchettaChe morì poi a panza pina.Bona sera o Bertolina.E costù fe’ Zan BeltramMerchadant ch’andò a patrasZan Beltram fe Zan PedramChe compraua i ScartafazI bicchier la fezza e i strozDon Pedral fe Zan TognuolChe magnaua in dol parolE da sera, e da matina.Bona sera o Bertolina.Zan Tognuol fe la canellaE Canella fe CanuChe sponsò donna StanellaChem fe mi che son zanuolGuarda me doncha se sunDun terribel parentàEt se merit d’esser amaDa ti cagna patterina.Bona sera o Bertolina.Oltra questo mi so faD’ogni cosa che se pol diSo cantà mi la sol faE la sol fa do re miSo sonar ol violiLa chitarra col trombuE le gniachare el violuLa zampogna e la sordina.Bona sera o Bertolina.Per portà la conca in spallaE drouà zappe e vanghetPer strià una cauallaUna mula e un zanetUna troja, e un porchetUna piegora, e un multuNon è par al tu zanulChe ti vol ben cara manina.Bona sera o Bertolina.Perchè vegh che tro al bordelTut ol me rasonamentChe t’e ti che un mat ceruelCom s’è vist in tra la gentDunq à voi fa testamentPerche a vegh che ho a morìSolament per amar de tiMarioletta frasarina (o frascarina ?)Bona sera o Bertolina.Alag dunq alla tognuolaUn bel caspi de fenochE seg lag la grattarolaChe la possa fa di gniochEt puo lag a Zan BatochioMe fradel quella bajadaChe s’adroua a fa la jadaE puo lag a te maminaUn bel bas in la buchina.Bona sera o Bertolina.
(Dalla Miscellanea della Biblioteca dell’ Università di Bologna, 266. Tab. I, N. III, Fascicoletto 10. Sono in tutto 8 paginette di stampa in carattere corsivo, 12, senza luogo nè data, ma probabilmente sul ’600).
Boccomini Giovanni. Nato a Roma nel 1784, si diede all’arte giovanissimo, ed esordì in Compagnia Zuccato, nella quale, in poco tempo, divenne l’attor principale. Fu col Bazzi, col Vestri e col Fabbrichesi al fianco del gran De Marini. Dalla Compagnia del Fabbrichesi passò in quella stabile agli stipendi del Re di Sardegna ; poi di nuovo in quella del Fabbrichesi nel 1824, col grado di primo attore tragico, per tornarsene ancora una volta nella Compagnia Reale. Mentre era il 1836 al Teatro Grande di Trieste, in Compagnia di Angelo Rosa, fu colpito dal colèra che lo tolse a i vivi a circa sessant’anni.

Tutti gli autori nostri, Alfieri, Metastasio, Goldoni, Nota, Bon, Sograffi, ebbero in lui un valoroso interprete : e quando l’Italia fu inondata circa il 1830 dalle traduzioni del Teatro di Scribe, l’esecuzione del Filippo, della Malvina, del Povero Giacomo mostrò a qual grado di perfezione egli seppe giungere coll’arte sua.
A lui dedicò Iacopo Ferretti il seguente sonetto :
Non io perchè de’tuoi sublimi accenti
il regolato suon, che non sa d’arte,
e giugne al cuor come dal cuor si parte,
interrompono ognor plausi frementi ;
non perchè ne’tuoi muti atti eloquenti
i pensier leggo come scritti in carte,
nè perchè in vario mar sciogli le sarte,
stupor perenne alle addensate genti ;
ma perchè di natura alcuno hai vanto
con brevi cenni, e semplici parole
trar da ciglio Roman stille di pianto,
dirò, che Roma al tuo partir si duole,
e quelle stille su i tuoi lauri intanto
saran gemme del Gange ai rai del sole.
E di lui così lasciò scritto un egregio artista contemporaneo, Francesco Righetti (Teatro italiano, vol. II. Torino, Paravia, 1826) :
A Giovanni Boccomini fu genorosa natura ; di bella figura, di voce sonora, di avvenente aspetto ; quasi sempre applaudito, soventi volte encomiato, oltre le qualità fisiche possiede un tatto giusto e perfetta cognizione degli spettatori con che ha a fare. Pieno del nobile ardore di meritarsi un posto distinto nel numero de’suoi confratelli d’arte, l’ottenne ; una lunga pratica gli tiene luogo di teoria, ed è ben raro il caso che non riesca nel divisamento che si è proposto. Trasportato dall’entusiasmo nella tragedia, colpisce con forza gli animi de’spettatori, che con pari forza gli contraccambiano applauso ; non meno vivace nella commedia, quest’attore non lascia mai di occupare, e chiamare a sè l’attenzione di chi lo guarda e l’ascolta ; e s’egli fosse talvolta più rattenuto nella violenza de’conati, lo scoppio degli affetti farebbe più impressione.