CAPO XII.
Teatro di Aristofane.
La poesia di questo comico vivace, animata, fantastica, faceta, e al tempo stesso acre, maligna, licenziosa e spessissime volte triviale, appartiene alla commedia bassa e alla farsa. Ma serpeggiano nelle sue favole tali tinte veramente comiche, tali politiche vedute, e tal conoscenza de’ costumi e dello stato degli Ateniesi, che, mal grado delle bassezze ed oscenità, piaceranno in ogni tempo a chi saprà trasportarsi a quello del poeta. Senza ciò qual commedia piacerà mai? Qualunque produzione d’ingegno porta la divisa del proprio secolo, del costume, del gusto corrente impressovi con caracteri indelebili. Ma la commedia singolarmente che dipinge per gli spettatori presenti e non per gli futuri, è sopra ogni altra esposta all’abbandono e al disprezzo in cui cadono le mode già passate. Una commedia Italiana o Francese, dopo tre o quattro lustri, con difficoltà diletta nelle scene nazionali senza notabili cangiamenti. Ora che diverrà di una Greca di ventidue secoli indietro, se nelle nostre contrade tanto cangiate da que’ tempi remoti prendasi a leggere senza gli accennati requisiti? Questo basti a’ giovani per non lasciarsi spaventare dalle critiche pedantesche del per altro dotto Nisieli contro di Aristofane, o dagli oltramontani ancor più ridicoli censori di tutta l’antichitâ. Mai abbastanza a costoro non si ripete che il tuono decisivo e inconsiderato è quello della fatuità, e che debbono apprendere e ritenere, per sovvenirsene nelle loro decisioni, che questo Aristofane era un Ateniese, e che fioriva sul principio del quarto secolo di Roma nell’ olimpiade LXXXV, pochi annimeno di quattro secoli e mezzo prima dell’ era Cristiana.
Cinquanta e più commedie compose Aristofane, delle quali per la maggior parte, è perita ancor la memoria. Di alcune si conserva qualche piccolo frammento, come dell’Anfiarao e del Cocalo. Delle undici intere che ce ne rimangono, sono questi i titoli: la Pace, i Cavalieri, gli Acarnesi, gli Uccelli, Lisistrata, le Concionatrici, le Nuvole, le Cereali, le Rane, le Vespe, il Pluto.
La Pace (Ειρηνης). Nulla prova con maggiore evidenza che nel comico teatro de’ Greci agitavansi le quistioni politiche correnti, quanto i drammi di Aristofane. L’unico oggetto del poeta nella Pace è di ritrarre con pennellate vivaci i danni della guerra posti al confronto de’ vantaggi della pace. Del sale comico di questa favola il lettore prenderà diletto a misura che si avvezzerà all’artificio dell’allegoria. Trigeo lavoratore disgustato della guerra va esclamando: O Giove, metti giù quella granata, non iscopare la Grecia, lasciala stare in pace. Ma parendogli di non esserne inteso risolve di volare in cielo per porgergli i suoi lamenti supplichevoli più da vicino. I servi e le figliuole di codesto Greco Don-Quijote cercano rimuoverlo dal proposito, temendo che si abbia a rompere il collo, o che ne divenga matto del tutto. Tu cascherai nel mare (gli dicono), ne rimarrai zoppo, darai motivo ad Euripide di far di te una tragedia. Tutto è inutile; egli è fermo nel suo pensiero, si congeda, cavalca uno scarafaggio sull’autorità di un apologo di Esopo, e gli pare essere arrivato alla rocca di Giove. Olà (grida in aria) non mi aprite? Mercurio gli domanda chi sia. Sono (dice) Trigeo Atmoneo buon vignajuolo, che non sono nè spione nè ladro. Mercurio gli dice che se vuol parlare a Giove, è venuto a mal tempo, essendo fuori di casa con gli altri Dei, per cedere alla Guerra la propria abitazione, e lasciare agli nomini il pensiero di se stessi. Dovesono essi andati? dice Trigeo. Più in alto, risponde Mercurio, per non veder combattere i Greci, nè ascoltar quelli che gli porgono suppliche. Aggingne che per la loro ostinazione essi non vedranno più la pace che dalla Guerra è stata gettata in una profonda spelonca che ha coperta e serrata con gran sassi. Nè contenta questa fiera nemica della pace ha fatto condurre nella celeste dimora un gran mortajo, dentro del quale intende pestare le città. Questa immagine conviene al comico più basso; ma subito mostra popolarmente le perniciose conseguenze di tal flagello dell’umanità. Odesi intanto il suono del terribil mortajo nel quale si è buttato il porro (in greco Πρασον donde viene il nome di Prasia città della Laconia) e l’aglio, particolar produzione di Megara. Comparisce la Guerra minacciando le Greche città:
Guer.
O Megara, Megara, tu sarai tosto schiacciata.
Tri.
Oimè, oimè, che la Guerra annunzia grandissimi guai a’ Megaresi!
Guer.
O Sicilia, in mal punto ti trovi tu nel fondo del mio mortajo; tu sarai pesta come ogni altro paese infelice! Io vò mettervi dentro un poco di mele Attico.
Tri.
No, per Dio, non fare; mettivi qualche altro mele, e risparmia l’Ateniese ch’è di gran prezzo.
La guerra però non bada alle parole di Trigeo, e chiama Cidemo perchè le porti un pistello.
Cidemo finge di non trovarne nè presso gli Ateniesi, nè presso i Lacedemoni, che l’hanno
prestato a’ Traci. Entrasene la Guerra. Trigeo intraprende di trarre la Pace dalla caverna,
eccitando all’opera lavoratori, fabri, mercatanti. Tutti di buon grado si accingono
all’impresa, pregando Mercurio perchè non si opponga. Ma Trigeo dove ha trovati alla mano
questi compagni? Non era egli sulla rocca di Giove? Non si sa
veramente come veggasi cosi bene accompagnato. Con tutto ciò la più vaga allegoria di questa
favola consiste nel Coro che fa sforzi grandi, tirando alcune corde per ismuovere le gran
pietre che chiudono la bocca della caverna senza punto avanzar nell’opera. Alcuni tirano da un
lato, altri dall’opposto, e l’effetto si ritarda; la qual cosa allude alle discordie delle
città Greche, per le quali la guerra sussiste. I soli agricoltori tirano concordemente e con
animo sincero, e co’ loro sforzi pervengono a rimuovere i sassi e a sprigionare la Pace;
lezione eccellente di politica e di commercio. Tutti ne gongolano, e Mercurio fa osservare che
le città prima miseramente saccheggiate durando la guerra, pacificate conversano insieme assai
amichevolmente. I lavoratori con piena sicurezze tornano ai loro campi senza spade e senza
lance, e si rallegrano e festeggiano colle proprie famiglie. Trigeo invita il Coro a salutar
la Dea. Dopo il canto egli vuol sapere da
Mercurio, onde avvenne che
la Pace abhandonò la Grecia? Mercurio ne dà la prima colpa a Fidia; indi a Pericle, il quale
(egli aggiunge)
accese il fuoco fralle città gittando nel mezzo di esse la
picciola scintilla del risentimento di Megara, e destò un incendio generale onde tutti i
Greci per lo fummo ne lagrimavano, tutte le vigne ardendo strepitavano, tutto era or ore,
travaglio, movimento, e la Pace si fuggì via
. Così istruito Trigeo pensa a
partire. Il Coro prende occasione di favellare degli spettacoli scenici di Atene, e di lodare
il suo poeta, il quale (egli dice)
è ottimo compositore di commedie e
pieno di gloria
. Rammenta come egli sia stato il primo ad acchetare gli uomini
che contendevano, si calunniavano e combattevano per frascherie. Ha egli banditi, soggiugne,
dal teatro gli Ercoli divoratori famelici, poltroni, ingannatori, ed i servi, che sempre
piangono o che sempre mostrano le piaghe ricevute e le lividure del bastone.
Daciò si ricava, che quanto i comici Latini dicevano di se e de’ poeti
contemporanei ne’ prologhi, i Greci facevano dire in qualche parte de’ Cori. Trigeo arrivato
tra’ suoi narra varie cose vedute in aria quando ha volato. Si prepara un sacrifizio e si
fanno nuove preghiere alla pace. All’odore del convito viene l’indovino Jerocle coronato di
alloro. Spia, chiede, s’insinua, ma non gli è dato retta. Il ghiottone impostore usa ogni
artifizio, e comincia a predicare e mostrare di esser volontà degli Dei che non si cessasse
dal guerreggiare
avanti che il lupo menasse in moglie una
pecora
. Altercando con Trigeo asserisce che non potrà mai farsi che
un gambero cammini diritto, che un guscio di castagna non sia irsuto
,
e nega di partecipare de’ licori adoperati nel sacrifizio,
perchè non l’ha
commandato la Sibilla
. Ognuno vede quanto graziosamente quì si ridicolizzi
l’aria di oracolo che prendono gl’impostori, profferendo con affettata gravità sontenze
enigmatiche e concetti
oscuri. Ognuno vi apprende con diletto che il
linguaggio dell’impostura è sempre misterioso. Questo sacro impostore accumula sentenze é
parole vote di sostanza, per mostrarsi uomo grave, inspirato, interprete della divina volontà.
Vedendo poi le vivande preparate vuole la sua parte delle interiora. Ma Trigeo gli risponde
lepidamente:
Tri.
No, amico, non possiamo fartene parte, prima che il lupo meni in moglie una pecora.
Jer.
Vi supplico.
Tri.
No, fratello, tu supplichi invano; tu non farai mai liscio e polito un riccio di castagna. Mangiamo pur noi; amici miei.
Jer.
Ed io?
Tri.
Oibò; mangia tu la tua Sibilla.
Il ribattere le altrui parole è un artificio scenico pieno di sale, che sempre riesce vivace
e dilcttevole sì ne’ gravi che ne’ lepidi drammi. Arriva altra gente in mezzo al tripudio, per
mostrare le felici conseguenze della pace. Un artefice di falci ringrazia Trigeo, perchè
se prima non vi era chi comprasse falci neppure a vilissimo prezzo, ora
le vende cinquanta dramme l’una, cioè intorno a sei ducati di moneta di Napoli. Fabbri di
celate, di aste, di corsaletti, di lance e di trombe guerriere vengono a lamentarsi, dicendo
che periscono per la fame nella pace, e i contadini gli deridono e seguitano a godere, a
cantare, a saltare. In questa favola vedesi trasgredita l’unità del tempo in varie guise. Gli
effetti partoriti dalla pace non possono vedersi eseguiti nel giorno stesso che si pubblica.
In oltre Trigeo dice appena di voleré andare in cielo che vi si trova: appena vuol tornar fra’
suoi che parla alla sua famiglia. Nè anche l’unità del luogo vi è osservata; perchè Trigeo si
vede prima in Atmone, indi in aria, poscia in certe balze. Vi si trovano ancora varie immagini
schifose, che svegliano idee d’immondizie puzzolenti da fuggirsi da qualunque scrittore che sa
rispettare il pubblico. Il lettore sagace lascerà tali difetti e bassezze al
popolaccio Ateniese che le tollerava, e si appiglierà solo alle molte▶ finezze
comiche, delle quali la Pace abbonda, non meno che al buon senno e all’amor
patriotico che vi campeggia. Ma che censura è quella dell’erudito Nisielia?
La pace, ove
consiste tutta la favola, non dice mai una parola.
Non dice mai una parola, ed
è pure il fondamento della favola; or che perciò? qual convenienza, qual regola in questo si
trasgredisce? Non sempre il titolo indica un interlocutore, benchè sempre manifesti
l’argomento. La Casina di Plauto presa a difendere dal Nisieli contra
l’Einsio, è l’oggetto interessante di tutta la favola, è la persona in cui cade una
riconoscenza, e
non dice mai una parola
.
Lisistrata (Λυσιστρατη). L’oggetto di questa favola è d’inspirar la pace
come nella precedente, ma l’argomento n’è indecentissimo. L’Ateniese
Lisistrata moglie di uno de’ primi magistrati si fa capo delle donne Greche, e ordisce una
congiura per ridurre gli Ateniesi a pacificarsi con gli Spartani. Per riuscirvi si avvisano le
donne di vietare a’ loro mariti di valersi de’ diritti del contratto nuziale, astringendovisi
con un solenne giuramento. Un giuoco di teatro curioso nasce dall’atto del giurare fatto colle
formalità tragiche, mettendo, in vece di sangue, del vino in uno scudo. I comici non
lasciavano occasione alcuna di contraffare quanto esponevano sulla scena i tragici. La formola
del giuramento dettata da Lisistrata e ripetuta a spezzoni da Calonica, è tale:
Giuro di non badare alle carezze di uomo veruno, sia amico o marito; se mi verrà
caldo, me ne starò in casa senza farmi toccare; mi metterò la veste del più vago colore che
mi abbia; mi raffazzonerò, mi farò trovare gaja ed ornata per destar le fiamme del consorte,
ma insensibile a’ suoi ardori, tutto metterò in opera per non
condiscendere.
Abbonda veramente di pitture oscene abominevoli, e per niun
modo confacenti per portare il nome Mattejano di catechismo, siccome può
dedursi dalla sola esposizione dell’argomento. E che laido catechismo non sarebbe la sfacciata
sozza scena di Mirina con Cinesia suo marito nell’atto quarto? Le donne per mezzo di quel
ritrovato la vincono, e costringono gli uomini a far la pace. Di passaggio in questa commedia
vien motteggiato Pisandro uomo di bella figura che andava armato galantemente, ma che in un
combattimento gittò le armi; onde nacque appo i Greci il proverbio, Più codardo
di Pisandro. Costui per avere occasione di rubare il pubblico danajo consigliò e
promosse la discordia e la guerra, ed Aristofane ne manifestò la codardia e le ruberie. I
Pisandri pullulano in ogni terra e in ogni tempo; sbucciano bensì ben di rado gli Aristofani
vindici delle pubbliche lagrime.
Le Concionatrici (Εκκλεσιαζουσαι). Una continuata ironia drammatica contro le donne sfacciate, altiere, ambiziose, si osserva in questa favola. Si ridicolizza la loro stravagante pretenzione di togliere agli uomini il governo delle pubbliche cose. Mostra in prima il poeta la loro scempiaggine nel modo da esse prescelto per ottenerlo. Si mascherano con abiti virili, lasciano crescere la loro lanugine, e si appiccano al mento delle barbe posticce per presentarsi al Consiglio. Espone poscia la loro imperizia nel concionare. Prassagora stessa, che se ne fa capo e sembra la meno sciocca, aringa stranamente valendosi de’ più ridicoli argomenti nel dimostrare che per migliorare la città debbe concedersene alle donne il dominio. Con tal disegno e con le spoglie degli uomini s’incamminano al Consiglio. Un vecchio chiamato Blepiro viene fuori con una veste di donna addosso, essendo li stata dalla moglie portata via la propria. Egli è costretto a venir fuori da un bisogno naturale, per fare in piazza ciò che la decenza prescrive di farsi nel più segreto della propria casa. Le commedie sono la storia de’ costumi e delle maniere; e se Aristofane non ha commesso un errore nel costume, in questa scena si scopre la grossolana libertà e schifezza di que’ popoli. Blepiro in vero si discolpa per esser di notte; ma eravi in Atene tal costumanza di venire espressamente in istrada per siffatte cose? Di più se è di notte, sì che non possa esser veduto, ond’è che sopravviene un altro che lo ravvisa? e che vede il colore della veste che ha indosso? Non parlando ora dell’indecenza di tali scene, nei sono questi, durezzé, negligenze da correggersi, se si vuol procacciare un’opportuna illusione in chi vede o legge. Noi di buon grado le notiamo, come proseguiremo in ogni occorrenza, perchè si avveggano una volta coloro, a’ quali incresce il nostro rispetto verso la dotta antichità, che noi in quest’opera collo spirito d’imparzialità che ne governa, e con giusto sforzo (non so se felice) intendiamo di cogliere dagli scrittori di ogni tempo il più bel fiore per inspirare il buon gusto, e di osservarne anche i difetti che potrebbero guastarlo: differenti in ciò totalmente da certi pedanti moderni che si fanno gloria di esagerare tutti i difetti degli antichi, e di negligentarne le bellezze. Blepiro adunque con naturale ma schifosa dipintura, e, quel che è peggio, inutile per l’azione, si dispera per non potersi alleggerire del peso del ventre. Cremete viene dal Consiglio a raccontare quanto vi è passato, e quali oratori hanno aringato, e singolarmente riferisce la concione di certo giovanetto (una delle donne mascherate) il quale diffondendosi nelle lodi delle donne ha dimostrato doversi dar loro il governo della città. Vengono indi le donne frettolose per metter giù i pallii, i bastoni, le scarpe de’ mariti. Quello di Prassagora la riprende di essere uscita sì di buon’ora senza che gliene abbia fatto motto. Ella si discolpa col pretesto di avere assistito un’amica prossima a partorire. Intende poi dal marito come sia stato conceduto alle donne il governo della città. Ecco l’oggetto del poeta: mostrare gli sconcerti che ne seguirebbero. Prassagora se ne rallegra, ed afferma che in tal guisa se ne correggeranno i vizii e gli abusi e gli errori; e ne addita la guisa. Bisogna (dice) mettere tutti i beni in commune, e da questo fondo della nazione prendere il sostentamento di ciascuno. Imperocchè non mi piace che uno straricchisca mentre un altro manchi del bisognevole, che uno possegga ◀molte▶ terre, intanto che un altro non ne abbia una spanna per esservi seppellito; che uno sia circondato da una folla di schiavi, ed un altro per bisogno sia costretto a servire. Vita commune, uguaglianza; questo è il mio progetto… Tutte le cose adunque terra, argenti, mobili, stabili faranno un tesoro commune, dal quale saranno tutti pasciuti. Ella non eccettua da questa communità nè anche le donne. Tutti (le si oppone) vorranno attaccarsi alle più belle. Ma a queste (ella risponde) non si passerà se non da chi avrà prima trattenute le più sparute e le vecchie. Si oppone ancora che non si conosceranno i figliuoli di ciascuno. Ma qual pro da questo? dice Prassagora. Così i vecchi passeranno per padri di tutta la gioventù. E chi lavorerà la terra? I servi. In somma (conchiude) io voglio fare della città nostra una sola famiglia. Questo progetto suole in ogni paese trovarsi nella bocca de’ poveri che non posseggono, per invidia de’ ricchi, e per rincrescimento della fatica. Ora il poeta sagace, per mostrarne l’insussistenza, lo fa uscire da teste femminili e poco ragionatrici, e con una satira graziosa ne espone comicamente gli assurdi. Quanto gusto e qual dottrina non richiedesi per discutere sulla scena col riso alla bocca le quistioni politiche, e per distruggere i pregiudizii sì che i volgari vi si ammaestrino senza tediarsi della lezione! Uno de’ principali inconvenienti che il poeta mette in vista, è che molti avvezzi a possedere non vorranno spogliarsi del proprio, e defrauderanno il pubblico. L’altro inconveniente che subito manifestá la stranezza del progetto, nasce dall’uso delle donne. Le vecchie si bellettano, e stanno attendendo i giovani; le giovanette altercano colle vecchie; i giovani vogliono avvicinarsi alle fanciulle senza tracannare l’amarezza delle stagionate. La commedia termina con una gran cena. Non è meno licenziosa e sfacciata della precedente, e secondo gl’intelligenti lo stile è più sollevato che nelle altre, e si avvicina al genere tragico. Vi sono nominati e derisi, Argeo, Jeronimo, Trasibulo, Cefalo, Neoclide; nè vi si risparmia la bruttezza ed il naso di Lisicrate, e l’effemminatezza di Nicia.
Le Cereali (Θεσμοφοριαζουσαι). La satira de’ poeti contemporanei, specialmente de’ tragici, era uno de’ principali oggetti della commedia antica, non leggendosi favola veruna, ove contro di essi non si avventino strali di fuoco, e non si facciano de’ loro versi continue parodie. Una delle satire più vivací contro delle invénzioni tragiche contiene questa commedia, la quale prende il titolo dalle feste di Cerere, e dal soprannome Tesmoforo legislatrice attribuito a questa Dea. Vi si agita una comica difesa di Euripide allora vivente contro le accuse delle donne satireggiate da questo tragico che in tal favola a tutto potere vien motteggiato.
Nell’atto I Mnesiloco suocero di Euripide si consiglia con lui e va cereando il modo di
difenderlo dalle donne irritate, le quali nel celebrarsi le accennate feste debbono
gindicarlo. Ambedue picchiano alla porta del giovino tragico Agatone per supplicarlo di
prendere innanzi alle donne la difesa di un di lui collega. Viene fuori il servo di Agatone,
il quale colle sue comiche espressioni si manifesta preso (come d’ordinario avviene a’ servi
de’ letterati) dalla smania di mostrarsi bell’ ingegno ad imitazione del padrone.
Osservate, o popoli, un silenzio religioso
ora che il Coro
delle Muse discesenel gabinetto del mio padrone gli stà inspirando nuovi poemi: ritenete, o
venti, i vostri flati: sospendete, a flutti, il mormorio.
Mnes.
Capperi!)
Fur.
Non taci?)
Ser.
E voi, augelletti, fate pausa a’ vostri gorgheggi: e voi fiere selvagge, cessate di agitare correndo le boscaglie.
Mnes.
Cospettone!)
Ser.
Ecco il mio gentil padroue si accinge a verseggiare.
Ad istanza di Euripide Agatone viene fuori cantando. Mnesiloco è rapito dalla melodia, indi
meravigliato della di lui attillatura e mollezza;
Donde sei
(egli domanda)
o tu che non sembri uomo del tutto? quale è la tua patria? che foggia di vestire
adopri tu? che vivere ambiguo? come accoppi tu lo specchio e la spada? di che spezie sei tu?
parla hai tu tutto quello che stà bene all’uomo? Tu sembri allevato come una donna; ma dove
sono le poppe?
Questo tragico assettatuzzo risponde
che
un poeta aver debbe i costumi convenienti alle favole che maneggia, e
chi ne fa delle effemminate, uopo è che accomodi se stesso a que’ costumi…, Ibico,
Anacreante Tejo ed Alceo versatissimi nella musica portavano creste femminili e ballavano
alla Jonica; e Frinocoo che appariscente e vago era, vestiva leggiadramente; la natura
fruttifica secondo i semi
. Mnesiloco che è alquanto buffone, risponde:
Perciò dunque Filocle ch’è disonesto, compone disonestamente, e Senocle
che è malvagio, scrive perversamente, e Teognide ch’è freddo, freddamente
verseggia.
Dopo ciò Agatone vien pregato di accompagnare Mnesiloco, e di parlare a favore di Euripide accusato come nemico delle donne. Agatone se ne scusa; ed è forza che il solo Mnesiloco tolga sopra di se l’impresa. Euripide gli rade la barba e gli bruçia i peli non senza dolore del vocchio, e in presenza dello spettatore lo trasforma in donna con gli abiti di Agatone. Fatto ciò dopo di un giuramento di Euripide di non abbandonarlo nel pericolo, Mnesiloco affettando modi e portamento femminile vassi a mescolar tralle donne. Un Coro composto di donne insieme col banditore invoca le deità tutte, pregando che muoja di mala morte colui che tende insidie al popolo, o chè maltratta le donne, o che fa tregua o amicizia con Euripide, o che pensa di farsi tiranno della patria, o che manifesta qualche donna che espone un fanciullo, o la serva ruffiana che svergogna il padrone, o la messaggiera bugiarda che porta notizie é speranze false, o quell’indegno che inganna e non paga le donne, o la meretrice che tradisce il drudo, o le vecchiarde che regalano i loro mercenarii amanti.
Atto II. Il banditore intima l’aringa contro Euripide. Sorge una donna a concionare, e va noverando tutti gi’ improperii detti dal tragico contro del sesso, e le debolezze e gli artifizii donneschi da lui propalati. Un’altra donna l’accusa di ateismo, e che coll’aver negato l’esistenza degli Dei, ella che vender soleva ghirlande per gli sagrifizii, dopo le di lui tragedie non vende la mettà delle corone che prima vendeva. Levasi appresso Mnesiloco e contraffacendo la voce femminile e usando de’ tuoni acuti sottentra ad aringare a favore di Euripide; e mostra quante e quante altre cose ha taciuto quel tragico, le quali poteva pubblicare in isvantaggio e disonore delle donne. E quì il Comico spiega tutta l’amarezza della satira contro il bel sesso, facendo che Mnesiloco racconti mille e mille furberie donnesche alla giornata praticate. Tale aringa solleva l’assemblea femminile contro la finta oratrice che vien minacciata di esser pelata col fuoco. Continua non per tanto Mnesiloco a riferire gl’inganni femminili e i parti supposti e i regali dati alle ruffiane nelle feste Apaturie e i beveraggi apprestati a’ mariti per farli impazzire ed altro. Il romore che eccita questa maligna orazione, è sospeso dall’arrivo di Clistene (cui il poeta dà il nome di putto a cagione de i di lui costumi) il quale fa sapere alle donne di avere udito nel foro che Euripide ha inviato nel tempio di Cerere il vecchio suo suocero vestito da donna a prendere la sua difesa e a spiare i loro consigli. L’angustia di Mnesiloco vicino ad essere scoperto dovea produrre uno spettacolo assai piacevole. Egli si spaventa, e l’assemblea si pone in iscompiglio. Chi sarà mai? vanno dicendosi le donne. Dove sarà questo vecchiaccio disgraziato? È costei? È quell’altra? Cade in fine il sospetto sulla finta donna, per non essere essa da veruna conosciuta. Fanno sopra lui tutte le necessarie ricerche per assicurarsi del sesso, e toccando la verità lo prendono per consegnarlo al magistrato. Un giuoco di teatro ben vivace doveva risultare dal movimento di tutta l’adunanza, e dalle diligenze che faceva il Corro per accertarsi se altri vi fosse ancora così mascherato.
Atto III. Il suocero di Euripide non so come si sviluppa e si distriga dalle donne che lo
custodiscono, e strappata dalle braccia di una di esse una bambina tenta fuggire. E con aria
minaccevole facendo forse una parodia di qualche scena tragica,
No
, dice, non fia che mai più tu allatti questa
fanciulla, se non sono lasciato in libertà; con questo ferro le taglierò le vene, farò che
ne sgorghi tutto il sangue e ne rosseggi quest’ara.
La donna chiama le altre in
soccòrso, e minaccia di farlo bruciare. Mnesiloco furibondo si accinge a svenare la bambina:
Incolpa, o misera fanciulla
(dice a lei
rivolto)
incolpa della tua morte la spietata tua genitrice; mori…. Che
veggio?
La bambina è diventata
un’otre di vino, ed ha le
scarpe alla Persiana!
Di quì Mnesiloco prende argomento per inveire contro
l’ebrezza e intemperanza donnesca. Quello che rende più
satirico e
piacevole questo colpo teatrale, è che l’azione si rappresenta nel terzo giorno delle
Tesmoforie, le quali duravano cinque dì, e quello di mezzo era consacrato alla penitenza, e le
donne lo passavano in un rigoroso digiuno. Ora il poeta dà ad intendere in qual modo esse
digiunavano, e mette in vista la loro ipocrisia, mentre provvedendo in segreto al loro ventre,
osservano all’apparenza le pratiche della religione. Adunque Mnesiloco per vendetta vuol
forare la pelle dell’otre; ma Mica tenera madre della bambina implora la di lui clemenza, e
chiama Mannia, perchè rechi almeno un vase da raccoglierne il sangue. Altre donne
sopraggiungono, e Mica affrettasi di far noto al magistrato il di lui delitto. Mnesiloco
vedendosi a mal partito incide su di un legno il proprio pericolo con intenzione di affrettare
Euripide in suo soccorso. Il Coro giustifica il proprio sesso, ed accusa gli uomini degli
eccessi delle donne.
Atto IV. Mnesiloco aspettando in vano il genero tenta la fuga, fingendosi Elena moglie di Menelao. Una donna lo rimprovera per questa nuova follia; ma egli senza darle retta pronunzia alcuni versi tragici come se veramente fosse Elena. Questi versi non possono essere imitazione di alcun passaggio di tragedia? Questo giusto dubbio può renderci cauti per non tacciar, cosi spesso il Comico di aver ◀molte▶ volte inalzato lo stile. Viene Euripide in forma di Menelao, e la scena tragica riesce graziosa. Tutto ciò che vedesi sul teatro viene da essi adattato alla storia di Elena. Il paese diventa Egitto, il tempio chiamasi casa di Proteo, l’altare vien detto sepolcro, la donna che è presente detta Critilla, è presa per Teonoe figlia di Proteo. Dopo ciò il finto Menelao e la finta Elena fanno vista di ravvisarsi e riconoscersi. Ecco un dialogo ed una agnizione tragica, che accompagnata dalla parodia e caricata con azione buffonesca solea produrre sì piacevole effetto sulle scene Ateniesi. La donna intanto che custodisce il colpevole, annunzia la venuta di un arciero o fante della giustizia, ed Euripide si ritira. Mnesiloco è legato, ed il coro con balli e canti conchiude l’atto.
Atto V. Euripide non comparisce più, ed il suocero freme. Si avvede poi che di lontano gli
fa qualche cenno, dal quale intende (per altro con poca verisimilitudine) che vuole che si
finga Andromeda. Euripide torna vestito dá Ecco, e la finta Andromeda recita alcuni versi
tragici. Euripide la consola. Chi sei tu? gli dice Andromeda. Io sono Ecco che ripete i suoni
e le parole; e seguita la scena della ripetizione delle parole. Ecco sen fugge con maraviglia
della finta Andromeda. Ma Euripide ritorna in forma di Perseo; e da questo nuovo travestimento
nasce un nuovo passaggio tragico. È chiaro che tutte queste trasformazioni tendevano a
contraffare e ridicolizzare le tragedie più rinomate. Il Coro invoca Pallade, ed Euripide dice
alle donne, che se
vogliono venir seco a patti e liberar Mnesiloco,
egli promette con giuramento di non dir mai più male di loro. Le donne sono di accordo, ma
temono che il custode abbia ad opporsi; alla qual cosa Euripide si traveste per l’ultima volta
da una vecchia accompagnata da una giovinetta, per mezzo di cui adesca il custode, lo disvia,
scioglie Mnesiloco, e si fugge con lui. La bellezza de’ tre primi atti non pare agli occhi
miei continuata ne’ due ultimi; ma il Comico contava certamente sulla varietà delle imitazioni
e parodie, le quali, presso la posterità già sazia delle trasformazioni degli zanni scemano di
pregio in ragione del tempo che va tramezzandosi fra essa ed il Comico Greco. Anche in questa
favola osserva il riputato Poeta Cesareo (nel capitolo V dell’Estratto della
Poetica di Aristotile) che
l’asione incomincia in istrada, poi
passa, continua e finisce nel tempio di Cerene
. Ma se la scena si figuri, come
agevolmente poteva eseguirsi nel vasto teatro
Ateniese, che
comprendesse due membri, de’ quali l’uno rappresentasse parte di una strada, e l’altro il
tempio di Cerere adjacente, il luogo in tal caso sarebbe uno.
Le Rane (Βατραχοι). Eschilo, Sofocle ed Euripide erano già trapassati,
quando fu composta e rappresentata questa favola, nella quale di que’ tragici si giudica, e
specialmente si comparano Eschilo ed Euripide, dandosi al più antico la preferenza, comechè
amendue vi sieno acremente motteggiati. Vi s’introduce Bacco vestito ridicolosamente da
Ercole, e si finge molto poltrone, per deridere prohabilmente qnalche poeta che era mal
riuscito a vestire e caratterizzare il figliuolo di Alcmena. Bacco in compagnia di Santia suo
servo che porta alcuni vasi, un letto ed altro, batte alla porta di Ercole, e gli dice che in
leggendo l’Andromeda di Euripide erasi invogliato di trarre questo tragico
dall’inferno ed averlo seco.
E che vuoi tu farne?
gli dice
Ercole.
Bac.
Vo che ritorni al mondo, perchè i tragici che vi sono rimasti, sono ignoranti.
Erc.
Tutti ignoranti? Ma non vive Jofone?
Bac.
Questo è l’unico che sia passabile, ma non so dire dove egli sia.
Erc.
Non sarebbe meglio portar qui Sofocle anteriore ad Euripide?
Bac.
Io non vò altri che Euripide, perchè un furbo come egli è saprà contribuire dalla sua banda a far sì che io possa agevolmente condurlo meco.
Erc.
Ed Agatone dove egli è ito?
Bac.
Mi ha lasciato questo poetino tanto desiderato dagli amici.
Erc.
In che parte sarà andato?
Bac.
Nel Convito de’ beati.
Erc.
Senocle poi?
Bac.
Egli è morto.
Erc.
E Pitangelo?…. E tanti altri giovani i quali sono autori di più di diecimila tragedie, e sono più loquaci di Euripide?
Bac.
Sono tutti cianciatori che fanno vergogna al mestiere.
Questo squarcio ne dà la storia de’ tragici che sopravvissero a Sofocle, fra’ quali, al dir di Aristofane, il meno cattivo era Josone. Bacco poi vuole che Ercole gl’insegni la via da calare speditamente all’inferno, ma vuole che gliene additi una che non sia nè troppo calda nè troppo fredda.
Erc.
Te ne additerò una bella, cioè quella di un legno ed una corda, impiccandoti.
Bac.
Oibò, questa via suffogatoria non mi piace.
Erc.
Ti dirò quella di un pistello e di un mortajo.
Bac.
Intendi tu con manipolare qualche veleno?
Erc.
Sì certo.
Bac.
No, no, questa mi farebbe subito gelar le gambe.
Erc.
Ne vuoi tu sapere una speditissima?
Bac.
Dì su.
Erc.
Andrai al Ceramico.
Bac.
E poi?
Erc.
Vi vedrai più bassa una lampada, e se chi ti vede vorrà farti la carità di mandarti giuso, vi anderai.
Bac.
Dove?
Erc.
Abbasso.
Bac.
Tu vuoi che ti rompa la testa. Io non vo’ miga andar per siffatte vie.
Erc.
E perchè?
Bac.
Perchè vo’ gire per quella che tu facesti.
Erc.
Oh! Per quella avrai molto travaglio. Bisognerà calare in una palude profonda.
Bac.
E come la passerò io?
Erc.
Un vecchio barcajuolo ti tragetterà, se gli darai due oboli.
Bac.
Oh oh! anche nell’inferno hanno forza le monete? Ma in che modo vi andasti tu?
Erc.
Mi guidò Teseo ecc.
Ercole gli dice poi tutto il cammino e le difficoltà che incontrerà, e parte. Bacco rimane
fermo nel proposito di
andarvi, ma Santia vorrebbe almeno ajuto da
alcuno per portar la carica. Veggono un morto condotto a seppellirsi, e gli domandano, se
voglia portar que’ vasi; il morto dice che gli porterà per due dramme. Due dramme a Bacco
sembrano troppe; non convengono; e s’incamminano soli senza cercar di altri. Trovano Caronte
che ammette solo Bacco nella sua barca, e Santia è costretto a fare a piedi il giro della
palude. Si sente il molestissimo Coro delle Rane, le quali coll’ingrato
gracidare
Brecececex coax coax
fanno montar la stizza a
Bacco. Questa scena molto corta, ed il Coro delle Rane, il quale secondo lo Scoliaste, neppure
compariva in iscena, ha dato il titolo alla favola. Finisce la navigazione; scende Bacco dalla
barca, ed incontra il servo. Domandagli se ha vedute tutte le cose accennate da Ercole. Santia
risponde di no, e stima che le abbia dette per ispaventarlo; ma egli è bravo, non conosce
timore. Curiosa in questo luogo è la
descrizione dell’Empusa, ossia della Fantasima, che per ventura possiamo far conoscere colla versione
del riputato Cesarottia.
San.
Zitto che non so che d’intorno rombami.Bac.
Dove?San.
Dietro le spalle.Bac.
E bene arretrati.San.
Non più dietro, è dinanzi.Bac.
Avanza.San.
Oh canchero.Io veggio colà giù la gran bestiaccia.Bac.
Cosa è?San.
Tutto.Bac.
Che tutto?San.
Un centofacce,Un centoforme: or è cavalla or pecora,Or bue cornuto, ed ora una freschissimaE bella giovinotta.Bac.
Ah ch’io la brancichi.San.
La giovinotta è già sparita e restati.Per conforto una cagna, or vanne e stringila.Bac.
Oimè! questa è l’Empusa!San.
Affè ch’io credolo.Vè vè che il viso come bragia avvampale.E una gamba ha di bronzo, e l’altra…Bac.
Io palpito.Di sterco?San.
Appunto.Bac.
E dessa! Ove rimpiattomi?
Un Coro di sacrificatori canta di poi le lodi di Bacco, e dice quali sono i perversi, i furfanti, i traditori che debbono star lontani da i cori sacerdotali. Quì campeggia tutta la mordacità del Comico. Bacco batte alle porte di Plutone, e si annunzia per Ercole. Ercole? (risponde Eaco furibondo) colui che rubò il nostro cane Cerbero? Bacco s’impaurisce e prende il partito di cangiar vesti con Santia che mostra più coraggio di lui. Ma viene una fantesca di Proserpina, la quale accoglie Santia credendolo Ercole con molta cortesia e affabilità, e pensa di presentargli un buon pranzo; la qual cesa udendo Bacco, per goderne, riprende la clava e la pelle di leone. Vengono però altri servi che lo prendono per un rubatore, ed egli dice a Santia che torni ad esser Ercole. Torna Eaco, e per sapere quale di essi due è il ladro e quale Ercole, immagina questo espediente: colui che soffrirà le bastonate senza dar segno di dolore, sarà certamente Alcide. È battuto or l’uno or l’altro: vogliono lamentarsi ma si trattengono, temendo di peggio. Questa scena è propria de’ pulcinelli e degli arlecchini, ma è vivace e ridicola. Un pianto, uno sdegno che convenga occultare, un riso o dissimulato o sforzato, ogni affetto in somma che sia dallo spettatore conosciuto, ma che il personaggio debba reprimere, produce in teatro un effetto assai piacevole. Al fine Eaco risolve di condurli al cospetto di Plutone e di Proserpina. Dopo il Coro lo stesso Eaco parlando con Santia accenna la contesa di Eschilo e di Euripide, per la quale havvi tra’ morti un gran contrasto. È una legge dell’inferno che il più eccellente in un arte occupi la sede di Plutone, pronto a cederla a un altro di maggior nome che sopravvenga.
San.
E perchè dunque Eschilo è cosi adirato?
Eac.
Perchè egli aveva la sede onorifica della tragedia come ottimo artefice.
San.
Ed ora chi la possiede?
Eac.
Euripide…
San.
E non n’è stato ancora discacciato?
Eac.
No, ma il popolo grida, e pretende che si esamini qual de’ due sia il più insigne.
San.
E Plutone che cosa ha deliberato?
Eac.
Farne l’esame.
San.
Ma Sofocle perchè non ha occupato il posto tragico?
Eac.
Quando egli discese giù, porse la mano ad Eschilo, lo bacio, e non volle aspirare al trono… Ora che sa che si contende pel primato, ha risoluto di confermare ad Eschilo la cessione in caso che rimanga vincitore; se poi egli perde, fa conto di combattere contro di Euripide.
Si commette a Bacco il giudizio. Vengono i poeti altercando e ingiuriandosi. Bacco cerca di
farli acchetare. Non è dovere, ei dice, che poeti, uomini di lettere, si vituperino, e dicansi
villanie come due donnicciuole che vendono del pane. Eschilo protesta di aver pena di
contendere con un emolo la cui poesia è morta coll’autore, dove che la sua è ancor viva.
Comincia la disputa. Euripide in prima taccia l’emulo come superbo; gli rimprovera che in lui
il Coro soleva guastar l’ordine del canto, quattro volte tacendo; ne censura l’uso delle
parole strane ignote agli spettatori. A quest’ultima cosa Bacco aggingne che in fatti egli
aveva un’intera notte vegliato, per sapere che mai fosse un Equigalto. Ma a
ciò Eschilo risponde.
Oh
ignorantissimo! impara
che questa era una dipintura capricciosa fatta sulle navi.
Segue Euripide:
Non ho fatto io così, che avendo ricevuta l’arte da te ch’eri gonfio e
pieno di jattanza, e che adoperavi parole inintelligibili, primieramente le attenuai, le
tolsi ogni turgidezza, le diedi un linguaggio più umano, più naturale, più adattato alle
varie persone che imitai. Son io
(soggiugne)
che ho insegnato a parlare agli Ateniesi: sono io che ho fatti discepoli
migliori de’ tuoi; perochè tu non hai se non Formisio, Menegeto e Sarcasmo, ed io ho
Clitofone e Teramene.
Toccando ad Eschilo a favellare così prosegue il
dialogo:
Esc.
Or dimmi tu, perchè si loda e si ammira un poeta?
Eur.
Per la destrezza e per l’ammonizione, sendo nostro dovere il render gli uomini migliori nelle città.
Esc.
Or tu all’incontro di buoni gli hai fatti divenire scellerati. Non così io che in vece di renderli sofisti, ciarloni, astuti, come tu facesti, gli ho fatti generosi e inclinati all’armi; di modo che chiunque ha veduti i Tebani, ha desiderato esser guerriero… Facendo rappresentare i Persi, ho stimolati i compatriotti ad addestrarsi a superare gli avversarii con opere generose. Io non ho fatto come quest’Euripide le Fedre meretrici, nè le Stenobee; anzi mi sono astenuto sempre di ritrarre donne innamorate. In oltre io non solo ho dato come conveniva parole magnifiche a’ semidei, ma gli ho ancora vestiti di abiti tragici, gravi e assai più nobili di quelli che communemente usiamo; dovecchè tu, distruggendo questo bel ritrovato, gli hai abbigliati triviálmente.
Dopo ciò Euripide riprende i prologhi di Eschilo, e in prima quello della
tragedia intitolata Orestia. Eschilo
ancora
motteggia de’ prologhi di Euripide; ed in qualunque cosa essi dicono, Bacco frammischia
qualche facezia sullo stile de’ nostri zanni istrionici e de’ graziosi della
commedia spagnuola. Passano indi alla censura de’ canti o sia della musica apposta alla loro
poesia. Sembra che Euripide ripetendo uno squarcio di qualche dramma di Eschilo, lo declami
colla cantilena da Eschilo usata, esprimendola col ripetere per modo d’intercalare
flatto tratto flatto trat
, come noi diciamo laralara
laralà, e forse motteggiandolo di monotonia. Ed Eschilo lo paga della stessa moneta,
riprendendo la cantilena di Euripide
Ei ei ei ei
. Tali
critiche benchè esagerate che Aristofane mette in bocca ai due tragici, ci conservano il
giudizio de’ Greci contemporanei sulle tragedie, e non parrà nojosa e inutil cura l’averle quì
opportunamente rapportate. In fine Bacco pone questi emuli a un nuovo cimento, volendo che
profferiscano a vicenda un verso per esaminare qual
sia di maggior
peso; ma vi buffoneggia su al solito, prendendo la parola peso
materialmente, e dando la palma a colui che nomina in esso cose più gravi. Giudice siffatto dà
la precedenza ad Eschilo, il quale si accinge a tornar tra’ vivi; ma prima dice a Plutone che
conceda la sede tragica a Sofocle, affinchè gliela conservi, in caso che dovesse egli
ritornare all’inferno, non istimando altri degno di occuparla in sua vece. Il giudizio
derisorio, ed il fondamento della sentenza pronunziata da Bacco manifesta che Aristofane volle
burlarsi di ambedue, benchè con più asprezza malmenasse Euripide. Il dotto Udeno Nisieli ha
rilevate le sconcezze del viaggio fatto da Bacco in sì poco tempo dalla superficie della terra
al centro, passando il semidiametro di essa di 3436 miglia; dalla qual critica s’impara il
sito dell’inferno de’ Greci. Sarebbe a desiderarsi che i Critici in ogni censura domandassero
a se stessi, a qual genere appartiene la favola che io esamino? La maggior
parte delle osservazioni di quell’erudito contro Aristofane svanisce
al considerarsi che egli volle misurare le di lui favole colla squadra della commedia, e doveva adoperarvi quella della farsa. Egli non vide se
non il teatro comico Fiorentino del secolo XVI, e doveva risalire al teatro allegorico
Ateniese, e spiarne l’indole e le vedute.
Le Nuvole (Νεφελαι). La più artificiosa, la più salsa, la più abbondante di colori comici tralle commedie di Aristofane, è questa intitolata le Nuvole composta nel nono anno della guerra del Peloponneso; la quale diede agli Ateniesi oziosi materia di ragionare anche due mesi prima che l’autore ottenesse la licenza di porla in teatro. Per gustarne le grazie e l’artifizio senza detestarla, altro far non bisogna se non che al nome del virtuoso Socrate che astiosamente vi è malmenato, sostituirne un altro fantastico di qualche impostore malvagio corruttore della gioventù. Non fu già vero ciò che s’imputò al poeta, cioè di essere stato subornato e pagato da maligni sacerdoti professori di cloquenza Anito e Melito per comporre questa commedia col fine dí procurar per tal mezzo la condanna del buon filosofo. Di cio non v’ha nè pruova nè verisimiglianza. Socrate fu sentenziato ventidue anni dopo, ed il suo credito non iscemò punto per la rappresentazione delle Nuvole. Può ben dirsi però che in essa il Comico temerario osò attaccare la stessa virtù e preparare gli animi degli spettatori a udir senza ribrezzo calunniare un uomo di merito eminente e a vederlo poscia denunziare all’Areopago, o sia al Consiglio de’ Cinquecento. Sappiamo dall’altra parte da Eliano accusatore di Aristofane, che Socrate non frequentava i teatri ed il Pireo, se non quando rappresentava e gareggiava Euripide il tragico più abborrito da Aristofane. Sappiamo ancora dal medesimo Eliano che Socrate affatto non apprezzava i poeti comici, odiando come giusto e probo e sapiente la velenosa mordacità e l’indecenza della commedia antica. Ora non bastavano tali cose per accendere nell’animo di Aristofane un desiderio di vendicarsene in uua commedia? Eliano stesso dice chiaramente και ταυτα οὺν της κωμοδιας ην αυτῶ τα ασπερματα, e queste cose (cioè il disprezzo che faceva Socrate de’ comici maledici) furono ancora l’origine della commedia di Aristofane. Quanto altro aggiugne della subornazione non ha fondamento istorico, e lo asserisce per congetture ch’egli stesso distrugge col soggiugnere, ma queste cose non possono sapersi se non dal solo Aristofane. Basti ciò per l’origine di tal commedia bella insieme e scellerata, e passiamo a darne un estratto accompagnato da qualche passeggiera riflessione.
Atto I. Strepsiade padre di Fidippide si vede oppresso dai debiti contratti per compiacere
al figliuolo. Mentre tutti dormono, e il figliuolo sogna cavalli e carrette, egli vigila
rivedendo i suoi conti. Va rimembrando lo sproposito fatto nell’essersi egli
uomo di campagna voluto congiungere in nodo maritale colla nipote di Megacleo
donna avvezza alla vita molle e oziosa e ad una libertà eccessiva e a raffazzonarsi,
imbellettarsi, profumarsi. Eccovi tre comici caratteri da piacere in tutti i tempi nelle più
colte città: una donna vana che dameggia, un figliuolo di un villano che fa da cavaliere e si
occupa di carrette (ed ora diremmo di carrozze) a due, a quattro ed a sei cavalli, e un
contadino mal accasato che a suo dispetto si tratta da gentiluomo e si carica di debiti e di
angustie. Da questo matrimonio disuguale cominciarono a buon’ora le discordie de’ consorti,
che Strepsiade va rivangando nella prima scena.
Il primo contrasto avvenne
pel nome che portar doveva il figliuolo. Io voleva chiamarlo Fidonnide dal nome dell’avolo,
ed ella voleva che il nome terminasse in ippo, che dinota nobiltà e
generosità
a, e si
chiamasse
o Santippo o Carippo o Callippide. Al fine come al ciel
piacque ci accordammo nel dirlo Fidippide. Ella di poi toglieva in braccio questo figliuolo,
e accarezzandolo diceva: E quando, o caro, verrà quel dì che tu fatto grande condurrai il
cocchio in città come faceva Megacleo vestito di seta e di panni fini? Io all’
incontro gli diceva: E quando menerai tu le capre da Felleo come faceva tuo
padre vestito di grosso panno?
Comici contrapposti graziosissimi! I moderni non hanno
immaginato nè di più veri nè di più vaghi. Con questi principii materni non è meraviglia che
il figliuolo sia cresciuto con inclinazione al lusso, alla vanità, a’ cavalli, alle carrette,
ed abbia fatto caricar di debiti il padre. Bramoso intanto Strepsiade di uscire di guai
sveglia Fidippide, il quale si mostra verso il padre molto rispettoso, e ciò ne darà motivo in
appresso di ammirare l’arte del poeta. Gli dice che bisogna mutar vita e costumi, mettere da
banda la cavalleria, e diventar discepolo di Socrate per imparare a rispondere a’ creditori.
Non vi si accomoda il figliuolo; il bisogno stringe; e Strepsiade risolve di andare egli
stesso a studiare. Batte alla porta di Socrate, e un discepolo che viene a veder chi picchia,
lo sgrida perchè ha interrotte le di lui meditazioni. Questo solo colpo di pennello manifesta
subito lo spirito della casa; che se il servo o discepolo affetta
tanto l’uomo d’ingegno e di conseguenza, che sarà il padrone o maestro? Strepsiade vuol sapere
in che trovasi attualmente occupato il maestro. Ed il discepolo lo prega a conservare il
segreto, e poi gli confida che stà misurando quanti de’ proprii piedi una pulce ha saltato
dalla fronte di Cherefonte alla testa di Socrate. Strepsiade domanda in qual modo possa
venirne a capo. Socrate, colui ripiglia, ha liquefatto della cera, e vi ha calato la pulce, e
poichè si è raffreddata, ha tolto quella specie di calzari di cera formati ai di lui piedi, e
con essi ha misurato lo spazio corso nel salto. Strepsiade esclama,
Str.
O Giove! che prodigiosa acutezza?
Disc.
E che dirai di quest’altra?. Domandato da Cherefonte, se la zanzara canti per la bocca o per lo foro posteriore, Socrate dopo lunghe e seriose esperienze è giunto a sciorre sì gran problema, e si è assicurato che il canto venga dalla parte deretana.
Str.
Il di dietro adunque delle zanzare è una tromba?
Con simili inezie il poeta in due pennellate avvilisce le ricerche minute intorno a certi
insetti di niun uso continuate per una serie di anni da pseudonaturalisti, i quali appo il
volgo vogliono passare per ingegni rari applicandosi con affettata diligenza a indagare le
meno importanti produzioni naturali. Di simili comiche sferzate si ha bisogno oggidì ancora in
più d’un luogo, ove l’impostura coglie le palme riserbate alla scienza; ma dove sono gli
Aristofani? Il discepolo apre la porta, e sembra che Strepsiade sia introdotto nella scuola
senza partire dal cospetto degli spettatori; siccome anche in simil guisa si è veduto nella
propria casa, indi nella strada. In Grecia la vastità de’ teatri dava il comodo agli attori di
agire in più luoghi contigui successivamente senza uscire dalla scena; se non si voglia dire
che i Greci non si fecero una legge intorno al luogo, lasciando alla
discretezza dello spettatore di supporre il passaggio eseguito. All’aprirsi della scuola
Strepsiade si meraviglia de’ visacci e degli strani gesti de’ discepoli, de’ quali altri
incantato guarda al suolo, altri estatico si affisa al cielo. Osserva indi le statue che
rappresentano la geometria e l’astronomia, e i mappamondi, su i quali gli va il discepolo
mostrando Atene, l’Eubea, la Laconia. Vede in fine il maestro Socrate assiso in un cesto che
stà sospeso, e gli domanda in prima che cosa faccia in quel cesto. Socrate risponde che egli
va colla mente spaziando per l’aere e meditando sul sole, cosa che far non potrebbe, se co’
piedi toccasse la terra, perchè questa
attrarrebbe a se l’umore delle sue
cogitazioni
, le quali non avrebbero forza di elevarsi alla contemplazione delle
cose superiori. Non sembra che favelli un cerretano che vada affastellando grandi paroloni
ch’egli stesso non comprende,
per acquistar fama di scientifico appo
di chi ne sa quanto lui? L’impostura de’ falsi coltivatori degli studii severi è bene antica,
e si perpetuerà massime in que’ paesi che sono privi di teatro perfetto, ove possano senza
pericolo smascherarsi con grazia ed essere esposti alla pubblica derisione. Strepsiade pieno
del suo disegno, più non badando alle di lui ciance, il prega perchè voglia insegnarli ad
aringare, esponendo di trovarsi oppresso dalle usure e di avere impegnata tutta la sua roba
per essere stato consumato da un maladetto morbo cavaleresco, e promette di
rimunerarlo giurando per gli Dei.
Che sorta di Dei giuri tu?
ripiglia Socrate. Tu dei sapere che la prima cosa che qui
s’insegna, si è che non vi sono Dei.
Ecco le conseguenze della falsa filosofia.
La vera insegna ai Newton a provare l’esistenza di Dio dalle cose fattea; e la falsa che
tutto ignora il mirabile magistero dell’universo, manca del mezzo
naturale per sollevarsi da esso gradatamente alla cognizione di un ente creatore, e si
appiglia al partito di negarlo. Quest’ateo adunque da Aristofane introdotto con malignità col
nome del buon Socrate, insegna che non vi sia altro nume fuor delle Nuvole, alle quali fa una
preghiera con parole incomprensibili per aggirare l’ignorante Strepsiade, affinchè degnino
mostrarsi a questo nuovo discepolo. Odesi qui il canto del Coro delle Nuvole accompagnato o
preceduto dallo scoppio del tuono; nel che si noti come i Comici Greci si approfittavano di
ogni occorrenza per appagar l’occhio colla magnificenza delle decorazioni. Questo canto è
lavorato con forza e arricchito d’immagini poetiche. Strepsiade domanda che cosa sono queste
Nuvole?
sono esse regine? No
, dice Socrate,
sono Nuvole celesti, Dee sublimi, che agli uomini pacifici e studiosi, come noi
siamo, danno forza per meditare e disputare, fecondano la mente, e somministrano gloria,
sapere, ed eloquenza.
Questa adunque è la ragione
, ripiglia
Strepsiade,
per cui udendo la loro voce io mi sento una voglia di volar su, di dir cose
sottili, disputar del fummo, attaccarmi alle paroluzze, seminare equivoci e
contraddire.
Desidera indi di veder le Nuvole, e Socrate gli dice, che si volga
verso il monte Parnaso, donde potrà vederle venire. Qui a poco a poco andavano esse empiendo
il teatro comparendo in sembianza di donne. Stupisce il candidato, perchè queste Nuvole non
rassomigliano a quelle che ei suol vedere iu aria, avendo queste l’aspetto donnesco; e quelle
che volano per l’aria sembrano tanti volumi di lana che ondeggi.
O
sciocco
, gli dice Socrate, non hai tu alcune
volte veduto in cielo le Navole simili a
un centauro, a un pardo, a
un lupo, a un toro? Esse si trasformano in quello che vogliono. Se vedono uno zotico come
Senofonte, prendono la forma di centauri; se un rapace come Simone, diventano lupi; se il
poltrone Cleonimo, si fanno cervi; ed ora che hanno aocchiato l’effemminato Clistene, si
sono cangiate in femmine.
Ecco in qual guisa seminavano i Comici la satira
personale e nominavano i viventi. Sparge indi il poeta varie empietà, facendo che Socrate
neghi Giove, per renderlo odioso, giusta l’oggetto che si ha prefisso. Ma Giove, dice
Strepsiade,
non fulmina gli spergiuri? Ciance
(replica
Socrate):
se ciò fosse vero, a quest’ora non avrebbe incenerito Simone,
Cleonimo e Teoro spergiuri e mancatori spacciati? Giove non fulmina se non che il suo
tempio, la cima della rocca Ateniese, e le quercie
.
Strep.
E perchè questo? le quercie forse giurano sul falso?
Socr.
Abbi per certo che non visono se non se queste tre cose, il Caos, le Nuvole, e la lingua.
Strepsiade promette di non più sacrificare, purchè col mezzo delle Nuvole diventi un esperto
parlatore da potere aggirare i giudici e deludere i creditori. Le Nuvole gliel promettono
ordinando che si dia in potere delle loro fantesche e si adatti ad obedirle. Socrate comincia
a spiegare la sua dottrina; ma Strepsiade uomo materiale nulla ne comprende. L’atto si chiude
con un Coro; ma prima del canto vi si osserva una novità. Non solo il poeta mette in bocca di
una delle persone del Coro le proprie lodi, come si è veduto nella Pace, ma
egli stesso si caccia avanti a favellar di se. È questo l’equivalente di un vero prologo che i
Latini premisero alla favola. I Greci però sono scusabili, perchè il loro Coro si fingeva
composto di una parte del popolo, per cui si rappresentava, e potevano i poeti trarre fuori
chiunque per farlo ragionare, e tra tanti non sarà sembrato strano
che venisse fuori lo stesso autore come un individuo di quel popolo. Tuttavolta il coro
delle Nuvole si suppone composto di esseri immaginarii, ed il poeta che si presenta alla
scoperta, pare che ne distrugga ogni illusione. Che che sia di ciò, egli parla di se stesso,
loda le proprie invenzioni e satireggia quelle de’ suoi competitori e antepassati. Dice di
esser questa la migliore delle sue favole, e spera che l’uditorio l’accolga benignamente,
tanto più che egli è in possesso della sua cortesia, da che non avendo l’età propria da
presentar commedie (richiedendosi per legge che il poeta avesse almeno trent’anni, e secondo
altri quaranta) ne produsse una anonima ottimamente ricevuta. Spera adunque che la presente
sia ugualmente accetta, perchè niuna indecenza niuna bassezza porta seco, come quelle degli
altri Comici, i quali fanno uso di vesti lacere….. per far ridere i fanciulli.
Essa non si avvilisce a svillaneggiare i calvi, non a far dipinture e balli
osceni, non a introdurre un vecchio che va col bastone percotendo
quanto incontra, non a farlo venire con fiaccole alla mano a guisa di una furia, ma se ne
viene unicamente adorna di bellezze naturali.
In oltre io non cerco
(aggiugne)
come gli altri d’ingannarvi, riproducendo in iscena con poche apparenti
variazioni due o tre volte la medesima favola. Io m’ingegno di comporne sempre delle nuove e
spiritose con tal cura che l’una all’altra non rassomigli e se una volta ho battuto Cleone,
non torno a saltargli addosso mentre che giace in terra. All’incontro gli altri avendo preso
a pungere Iperbolo, non cessano mai di trargli de’ calci. Eupoli, nella sua commedia
intitolata Marica, altro non fece che trasformare la mia che nominai i Cavalieri, e solo vi aggiunse una vecchia ubbriaca che faceva un ballo
lascivo, e questa ancora egli tolse da Frinico. Ermippo poi l’introdusse di nuovo in iscena,
scagliandosi contro Iperbolo
a, e contro Iperbolo parimente
si accanirono tutti gli altri, saccheggiando varie mie commedie.
Un lungo coro
termina l’atto.
Atto II. Socrate adirato contro Strepsiade che poco comprende, e nulla ritiene, lo chiama per dargli una lezione. La scena è molto salsa e piacevole.
Socr.
Orsù che cosa vuoi tu prima imparare di tante che ne ignori? Vuoi tu studiare di misure di parole o di canti?
Strep.
Di misure; perchè ultimamente da un venditore di frumento sono stato burlato di mezzo stajo.
Socr.
Non ti parlo io di questo ma di misure metriche. Dimmi quale stimi tu miglior metro, il trimetro o il tetrametro?
Strep.
Per me non v’ha cosa migliore del semisestario.
Socr.
Tu dici delle bestialità.
Strep.
O non è egli tetrametro il semisestario?
Socr.
Va alle forche, che tu sei troppo tondo e grosso. Queste cose non sono pe’ tuoi denti. Potresti piuttosto imparar di eanto.
Strep.
O o, che giovano i canti alla farina?
In fine egli si dichiara di voler solo apparare il modo di persuadere l’ingiustizia. Socrate replica, che prima bisogna apprendere ◀molte▶ altre cose; ma si affatica invano, perchè l’uomo di grossa pasta accomoda alle cose materiali tutte le fantastiche dettegli dal maestro. Finalmente conoscendo questi che per lo capo del vecchio altro non si aggira che il non rendere le usure, il persuade a raccorsi in se stesso e a meditare per rinvenire qualche espediente. Strepsiade si prova, e poi dice:
Strep.
O Socrate carissimo, ho trovato il modo di non pagare.
Socr.
E quale è questo?
Strep.
Dimmi un poco.
Socr.
Che mai?
Strep.
Se io pagando una maliarda di Tessaglia tirassi giù di notte la Luna e chiusala in un vaso rotondo me la serbassi?
Socr.
E che ti gioverebbe?
Strep.
Se non nascesse più la Luna, non arriverebbe il tempo del pagamento.
Propone indi Socrate un’altra quistione.
Socr.
Se ti fosse scritta una pena di cinque talenti, in che modo la scancelleresti?
Strep.
In che modo… in che modo…? E cosa da cercare… Oh! l’ho trovata, è bellissima. Vedi tu, o Socrate, questa pietra de’ venditori di farmachi sì rilucente, colla quale si accende il fuoco?
Socr.
La chiami tu vetro?
Strep.
Sì.
Socr.
E bene?
Strop.
Se piglierò questa pietra, quando il Notajo stà imprimendo le lettere della pena, e mettendomi al Sole farò struggere la cera e scancellerò la scrittura?
Per simili puerilità e per la di lui smemoraggine, Socrate s’infastidisce, e le Nuvole consigliano il vecchio a menare alla scuola qualche figliuolo già grande se l’ha, non essendo egli più in età di apprendere. Strepsiade dice di aver bene un figliuolo, ma che non vuole imparare. Il Coro replica che lo costringa, ed il vecchio va a chiamarlo.
Atto III. Non meno piacevole è la scena di Strepsiade col figliuolo. Il sale comico di questa, per avviso del dotto Brumoy, non è dissimile da quello della scena del Bourgeois Gentilhomme, quando M. Giordano fa lezione alla moglie e alla serva. Ma se la copia (aggiugne l’avveduto scrittore) è più conforme a’ nostri costumi, non pertanto essa è meno vivace del l’originale. Strepsiade parlando al figliuolo impiastriccia alla rinfusa tutto quello che ha udito da Socrate di gallo, di gallina, di Giove che non esiste, del turbine che regna in sua vece ec., di sorte che il giovane crede che il padre sia diventato matto, e sta pensando se debba farlo legare e menare in casa a forza. Strepsiade al fine l’obbliga ad andar da Socrate per imparar ciò che è giusto e ingiusto, o almeno solo l’ingiusto. Socrate per fare che il giovine impari più facilmente, vuol che ascolti il favellar del Dritto e del Torto. Vengono fuori due attori che rappresentano questi esseri allegorici, e diconsi ◀molte ingiurie aspramente altercando. Non v’è giustizia, dice il Torto; che se vi fosse Giove che ha legato il padre, sarebbe stato punito. Il Coro si frappone; e vuole che tanto il Dritto che ha insegnato a’ tempi antichi, quanto il Torto che insegna a’ giorni nostri, dicano pacatamente le loro ragioni, sicchè Fidippide e gli ascoltatori possano giudicare con fondamento. Il Dritto aringa lungamente a favore degli antichi semplici costumi. Il Torto mette in ridicolo siffatte cose come rancide e fuor di moda, per le quali l’uomo si priva di ogui piacere e delizia della vita. Risponde il Dritto che se i giovani prestassero orecchio a ciò che dice il suo nemico, diventerebbero tanti infami ciuedi. E se ciò avvenisse, replica il Torto, che mai sarebbe? E quì il poeta lancia i più amari e velenosi tratti, rimproverando come impudenti cinedi tutti gli oratori, capitani, legati, magistrati, e poeti tragici Ateniesi; e ardisce fin anche di andarli segnando a dito nell’uditorio, e dimostra di essere in così gran numero, che il Dritto stesso si confessa vinto, e passa dalla parte degli spettatori. Fidippide rimane in casa di Socrate per essere istruito. Le Nuvole esortano il popolo a pregiarle e tenerle per Dee, mostrandogli i benefizii che da esse può ricevere, dispensando a tempo la piova e la serenità, e i danni all’incontro che gli arrecheranno non essendo da esse onorate.
Atto IV. Vedendo Strepsiade avvicinarsi il tempo di pagare corre a chiamar Fidippide alla
scuola. Secondo il racconto di Socrate il giovane è già perfettamente ammaestrato a negare il
debito a fronte di mille testimoni. Il vecchio ne gongola.
O care le mie
viscere
(gli dice vedendolo venire)
io scorgo nella tua fronte cert’aria novella d’impudenza che non avevi; tu hai
un aspetto franco ed un colore degno di un impostore Ateniese.
Sagace
osservazione del poeta per far rilevare al popolo il cangiamento di Fidippide. Egli dovette
venir fuori con una baldanza e sfacciataggine totalmente contraria a quel modesto rossore che,
secondo Catone presso Plutarco, è il colore della virtù. Il gaudio del vecchio va crescendo a
dismisura all’udire le cavillazioni e le risposte furbesche che dà il figliuolo. Si noti che
questo Fidippide baldo, trincato, calunniatore, è diverso dal Fidippide modesto che il poeta
maestrevolmente ci presentò nella prima scena, per mostrarci ora il
frutto della corrotta scuola di un falso filosofo. Egli fa trapelare ancora che per l’avvenire
questo sfacciato andrà più oltre. Entrato il padre ed il figliuolo nella propria casa, viene
un creditore a domandare i suoi denari. Strepsiade nega, sfugge di rispondere con semplicità,
si burla del giuramento fatto per gli Dei, si vale delle follie apprese da Socrate, e lo
discaccia. Ne sopravviene un altro; ma Strepsiade, in vece di rispondere congruamente, gli
domanda, se pensi egli che Giove faccia piovere ognora acqua fresca, o se il Sole attragga a
se di bel nuovo l’acqua piovuta? Il creditore risponde che nulla sa di ciò, nè cura saperlo.
Come dunque (ripiglia il debitore) ardisci domandare i tuoi denari, se nulla sai delle cose di
sopra? Dammi almeno l’interesse (replica il creditore). L’interesse? (riprende Strepsiade). Or
dimmi un poco; il mare è più pieno di quello che è stato prima? Io credo
(il creditore) che sia sempre lo stesso. Come? (conchiude il mal pagatore) il
marc non cresce col concorso di tanti fiumi, e pretendi tu che il tuo danajo si aumenti colle
usure? E adunque discacciato ancor quest’altro. Il Coro riflette alla malizia di questo
vecchio, ed al figliuolo divenuto sommamente destro a guadagnare i litigii;
ma chi sa
(aggiugne)
che il padre non abbia un giorno a piangere e a desiderare ch’ei fosse
mutolo?
Atto V. Questo è quello che il poeta insegna nell’ultimo atto. Un giovane così corrotto
dalla malvagità del padre e dalla perversa scuola del precettore, avvezzandosi a difendere
l’ingiustizia, se ne innamora e tosto arriva alle scelleraggini. Egli batte il padre e colla
solita sfrontatezza vuol dimostrare che ciò sia ben fatto. Con mille ridicoli sofismi va
puntellando l’empia proposizione, e aggiunge prendendo ad ogni parola nuova baldanza, che sia
lecito battere la madre ancora.
Va scellerato (gli
dice il padre tardi accorto del proprio errore);
con tali eccessi ti
getterai da te stesso col tuo abominevole maestro nel baratro infernale. O Nuvole, o Nuvole!
questo mi avviene per voi.
No
(riprendono le Nuvole)
tu sei stato a te stesso fabbro di questi mali.
O perchè
(replica il vecchio)
non mi diceste allora quello che mi dite adesso, in cambio di aggirare e
ingannare come faceste un povero vecchio idiota ignorante?
Noi
(quelle ripigliano)
facciamo sempre così, qualora conosciamo alcuno che è inclinato al male, fino a
tanto che non lo gettiamo in qualche disgrazia per insegnargli a temer gli Dei.
Oimè
(conchiude Strepsiade)
voi fate del male, ma non senza una specie di giustizia. Ora mi accorgo che
bisagnava rendere i danari altrui ed esser giusto.
Egli risolve di vendicarsi
del perfido maestro. Chiama i servi, si fa dare una fiaccola e attacca fuoco
alla casa di Socrate che insegna delitti ed ingiuria gli Dei.
Così termina la più eccellente e artifiziosa commedia dell’antichità, ma la più infame
ancora per esservi stato calunniato il più virtuoso degli uomini allora viventi. Detestabile
adunque è per questo il Comico. Ma travede l’eruditissimo Nisieli nel censurarlo e
oltraggiarlo, perchè, a suo credere,
Aristofane induce la gente a
conculcare e a perseguitare gli uomini giusti, sapienti, utili
a. Ciò non è vero. Aristofane induce la gente a
conculcare e a perseguitare i corruttori della gioventù, gl’impostori irreligiosi e i
preccttori di sofisticherie e cavillazioni; ed in ciò fece gran senno essendo il suo disegno
utile e lodevole. Ma egli per malignità voleva far passare Socrate per tale, e ne merita
l’indignazione de’ posteri. Nisieli non seppe distinguere questi due delitti: 1 calunniare un
buono, 2 insegnare a
perseguitare e a conculcare i giusti. Il primo
fu il delitto di Aristofane, e vuolsi perciò detestare come maligno accusatore; il secondo che
lo renderebbe un nemico del popolo, un distruttore dei principii di giustizia e dimorale, non
può imputarglisi senza ingiustizia, perchè l’impostore da lui dipinto in tal guisa meriterebbe
l’odio universale.
Stupirono alla prima gli Ateniesi a tale rappresentazione, non essendo preparati ad uno
spettacolo così strano. Ma lo stupore si dissipò a poco a poco per l’arte del poeta, e le Nuvole furono avidissimamente ascoltate. E tali e tanti applausi egli ne
riportò, che fu a pieni voti dichiarato vincitore, e s’impose a’ giudici che niun altro nome a
quello dell’autore delle Nuvole si preponessea. Cartaud de la
Vilade preteso legislatore filosofo e storico del Gusto (cioè del
proprio gusto) il quale
nè arte ne ordine riconosceva
in questa favola e si rideva della semplicità di
Madama Dacier che l’aveva letta quaranta volte
a, si sarebbe egli mai immaginato
che contenesse tante bellezze e tant’arte, mal grado di alcuni pochi difetti che vi si notano
e dell’empia calunnia che la deturpa? Ma i Cartaud vogliono avere il piacer
di giudicare, quantunque non sieno avvezzi a durar la fatica di leggere con riflessione.
Si rappresentò questa favola nella festività de Baccanali con un prodigioso concorso di Greci e di forestieri Socrate stesso vi assistette di proposito, sapendone il contenutob. Or quale spettacolo meritava più gli applausi della Grecia, l’arditezza di un Comico calunniatore che insolentiva contro la probità, o la tranquillità di un Saggio che assisteva in piedi alla rappresentazione per farsi ravvisare da’ forestieri curiosi? Essi domandavano chi fosse quel Socrate? Io sono Socrate (par che egli dicesse loro serenamente): vi pare che io sia quel malvagio corruttore che quì si morde? La virtù trionfa della malignità; ma, oimè! la malignità opprime i virtuosi!
Gli Uccelli (Ορνιθες). Questa favola ha per oggetto gli affari politici di quel tempo colla Laconia, dove erasi rifuggito Alcibiade accusato in Atenea. Essa abbonda di circostanze locali e di fatti particolari piacevoli senza dubbio pe’ contemporanei che ne comprendevano l’allusione, ma perduti per gli posteri, pe’ quali le bellezze sono divenute tenebre. Chi è quell’uccello raro di Fenicia dimorante nelle paludi chiamato Fenicottero? Chi l’uccello Medo che vaga alteramente per lo monte? Chi quell’uccello divoratore variamente dipinto? Chi quel Nibbio che signoreggiava la Grecia? Chi quel Cucco che dominava in Egitto e nella Fenicia? Tutte queste cose, mal grado de’ comentatori e degli scoliasti, oggi sono a noi indifferenti, ed allora rapivano gli animi de’ Greci. L’argomento è una sollevazione degli uccelli contro gli Dei per consiglio di un uomo. Dalla lettura delle commedie antiche e dal sapere qual religione professassero i popoli che le applaudivano, risulta una delle coutraddizioni delle nazioni. Atenne venerava Giove e gli altri numi, e perseguitava i miscredenti; ma intanto facevano la delizia di Atene certe commedie che inspiravano l’ateismo e l’irreligione.
Pistetero trasportato nel regno degli Uccelli è una copia de’
viaggiatori progettisti che vanno disseminando novità negli altrui paesi per raccorre cariche
e tesori. Mostra egli a’ volatili come essi sieno stati i primi regnatori delle regioni
abitate, e che sieno più degli Dei meritevoli di venerazione. Persuade loro d’imprendere a
edificarsi una gran muraglia, ad inalzarsi una nuova città, cui dà il nome di Nefelococcigia, a fare scorrerie in aria e ad intimar guerra a Giove. Cattivo esordio è
questo certamente per cominciar gli Esercizii Spirituali del calabro Mattei
al popolo Ateniese. Nel coro si ragiona del caos che precedette la creazione.
Era prima di ogni altra cosa il caos, la notte, l’erebo e l’immenso tartaro. Non
era la terra, non l’aere, non il cielo, ma ne’ golfi interminabili dell’erebo la notte che
ha le penne negre, partorì un uovo pieno divento, dal quale nacque l’Amore dalle ale dorate.
Quest’Amore si accoppiò col Caos alato nel tartaro,
produsse la
razza degli uccelli. Come poi ebbe Amore mescolato ogni cosa insieme, ne uscì il cielo,
l’oceano, la terra, e l’incorruttibile generazione degli Dei. Così noi Uccelli siamo i più
antichi di tutti i beati…. Tutti i beni più grandi sono da noi compartiti ai mortali.. Noi
ad essi siamo Ammone, Delfo, Dodona, Febo e Apolline…. A noi destinar potrete aruspici ed
are. Noi dalle nuvole sederemo al pari di Giove, e vi saremo propizii, dandovi salute
felicità pace vita riso gioventù ricchezza.
Gli argomenti poi onde invitano ed
allettano gli uomini al loro culto, sono questi.
Se alcuno
di voi, o spettatori, volesse per l’avvenire menar giorni
felici e tranquilli, venga a vivere con noi uccelli. Ogni cosa turpe fra voi vietata per
legge, diviene lecita e innocente nelle nostre contrade. Se è cosa abominevole e scellerata
fra gli uomini il battere il padre, appresso gli uccelli è cosa utile e ben
fatta.
Questi esercizii
spirítuali
sono pieni di pietà e di unzione. Questo Coro grottesco di uomini con maschera di uccelli di
varie specie imitava al possibile la fisonomia di coloro che si volevano dal poeta additare e
mordere; ed oltre a fare una capricciosa decorazione, serviva a dar motivo alla musica di
esser varia e piacevole coll’imitazione del canto di varii uccelli. Si trovano in questo Coro
ed anche in una scena precedente di Epope alcune strofe, nelle quali le parole vengono
alternate colla cantilena
tiotio tiotinx
, e poi con
quest’altra
totototo totototo tototinx
. Si prepara un
sacrifizio alle nuove pennute deità. Sopraggiugne in prima un verseggiatore cianciatore, il
quale a forza di seccarlo cava dalle mani di Pistetero qualche vestito; indi un impostore che
si spaccia per interprete degli oracoli; appresso un geometra che pretende misurar l’aria,
compartir le strade, mischiare in tutto il suo compasso, a cui Pistetero insinua a misurar
solo se stesso; ottima lezione per uno stuolo
di falsi matematici.
Tutti questi oziosi vengono discacciati, come anche una spia ed un altro che si spaccia
giure-consulto e venditore di giudizii. Dopo il canto del Coro viene un Messo a riferire le
gran fabbriche alzate da soli Uccelli nella nuova città. Il verisimile drammatico viene offeso
in questa favola manifestamente, formandosi il progetto, ed eseguendosi così presto, e
mostrandosene le conseguenze. Ma si vuol riflettere che non è già una commedia di Menandro o
di Moliere o di Ariosto, ma una farsa allegorica, dove quasi tutto si opera per macchina.
L’azione prende poscia nuovo movimento per un altro avviso di una formidabile spedizione
minacciata da Giove e dagli altri Dei. Iride viene a dire che bisogna sacrificare agli
Dei.
Pist.
A quali?
Ir.
A quali! A noi che siamo Dei del cielo.
Pist.
Voi Dei?
Ir.
Ve ne sono forse altri fuori di noi?
Pist.
Gli Uccelli sono presentemente Dei, e ad essi, e non a Giove, si ha da sacrificare.
Ir.
O pazzo, o scellerato, non voler tentar gli Dei, se non vuoi vedere la tua malvagia generazione giustamente oppressa e incenerita dalla potenza di Giove!
Pistetero la schernisce, minaccia il suo Giove, e la manda via. Riceve poi notizie degli applausi e onori fattigli da tutti a cagione de’ beni loro apportati colla nuova città e religione. Accorrono ad abitare fra gli Uccelli fortunati, ma ne sono esclusi, un malvagio che pensa di poter secoloro percuotere impunemente il padre, un ridicolo verseggiatore ditirambico chiamato Cinesia, ed un calunniatore che vorrebbe le ali per far male e guadagnare illecitamente. Dopo il Coro comparisce Prometeo.
Prom.
Oimè!… Che Giove non mi vegga!… Dov’è Pistetero?
Pist.
Che cosa è questa? Chi è costui che viene così coperto?
Prom.
Vedi tu alcuno degli Dei che mi seguiti?
Pist.
Non veggio alcuno io. Ma tu chi sei tu?
Prom.
Boleto o Peretero.
Pist.
Oh che mai dì tu! conoscendolo per Prometeo.
Prom.
Che fa Giove? Dà serenità o nuvole agli uomini?
Pist.
Povero il mio Prometeo!
Prom.
Taci di grazia che mi scopriranno!
Pist.
Caro Prometeo, io…
Prom.
Non gridare, ti dico.
Pist.
Perchè?
Prom.
Non nominarmi; me la pagherai, se per tua colpa sarò scoperto da Giove. Ma affinchè io possa tutto narrarti, prendi questo parasole, e tienlo sopra di me sì che io non sia veduto dagli Dei.
Pist.
Ottima invenzione e di te degna. Ecco ti copro. Dì su ora senza timore.
Prom.
Odi adunque.
Pist.
Ti ascolto.
Prom.
Fa conto che Giove sia morto.
Pist.
Morto?
Prom.
Morto.
Pist.
E quando?
Prom.
Quando voi prendeste ad abitare in aria. Già niuno più sacrifica agli Dei ec.
Prometeo prosegue narrandogli che fra poco verranno a lui ambasciadori di pace da parte di Giove; ma l’avverte a star saldo e a non sacrificargli, se prima Giove non prometta di rendere l’imperio agli Uccelli e di dare a lui per consorte certa donzella che stà presso Giove e dispone di tutto; col quale avviso e consiglio Prometeo mostra al solito benevolenza verso gli uomini e avversione agli Dei. Gli ambasciadori annunziati sono Nettuno, Ercole e un Triballo. Ercole viene di mal talento e bravando e minacciando di volere strangolare quell’ardito ribello che con un muro ha chiuso suori gli Dei. Nettuno gli ricorda che essi vengono per trattar di pace. Si propone in prima una tregua e poi la pece, a condizione che Giove e gli Uccelli godano unitamente il dominio dell’universo, e che Pistetero abbia a conginngersi colla donzella accennata da Prometeo. Dopo qualche disparcre tra Ercole e Nettuno si accordano e dispongonsi le nozze del felice ed empio progettista Pistetero, e terminano gli esercizii spirituali dell’empietà. In questa favola che parmi la più strana e bizzarra e la più irregolare di ogni altra, si nominano e motteggiano Spintaro, Essecestide, Clistene, Cleonimo come divoratore delle pubbliche sostanze, e Metone astronomo.
Le Vespe (Σφηκες). I giudici vengono in questa farsa caratterizzati come
vespe. Vi si dipinge la follia di Filocleone giudice, che mal grado della debolezza della sua
mente pretende tuttavia esercitar la propria carica, ed è rinserrato da Bdelicleone suo
figliuolo per tentarne la guerigione. I servi alla bella prima prevengono l’uditorio della
strana malattia del vecchio, e dell’
espediente preso dal figliuolo di
tenerlo chiuso. Parlano intanto con gli spettatori della qualità della favola.
Non aspettino
(dice un di essi)
da noi gli spettatori nè il riso rubato da Megara, nè le noci gettate da un
servo in mezzo dell’uditorio, nè Euripide ingannato e burlato nella cena, nè la magnificenza
di Cleone da noi motteggiata. Pur non vo’ lasciare di dirvi cosa che forse non vi piacerà,
cioè che la commedia satirica è la più giusta e la più dotta.
Filocleone cerca
ad ogni patto di sprigionarsi per andare a giudicare. Il Coro delle Vespe ode le di lui
querele, e si presta a soccorrerlo, facendolo calar giù da una finestra. Avvertitone il
figliuolo accorre co’ suoi famigli. Filocleone implora il soccorso delle Vespe amiche.
O giudici, o Vespe acutissime, volategli sopra, pungetegli di su di giù
il viso, gli occhi, le mani.
I Servi e le Vespe attaccano briga. Bdelicleone
vorrebbe senza lite comporre l’affare. Le Vespe lo
rimproverano di
tirannia. Egli riprende il carattere sospettoso degli Ateniesi ed il loro costume che si
andava disusando ed ora torna a venire in moda, cioè d’incolpare per ogni poco le persone di
tirannia. Trovasi questo passo tradotto dal chiarissimo Cesarottia.
Fra noi, siano le colpe o grandi o picciole,Tutte congiura son, tutte tirannide.Eran già forse cinquant’anni ch’ioNon udiva un tal nome, ora sì dàPiù a buon mercato del salume, e aggirasiTutto giorno per piazza. Se alcun comperaUna triglia per cena, e non vuol muggine,Tosto grida il vicino pescivendolo,Gnaffe! cena costui cene tiranniche.Tal, poichè il pesce comperò, pergiuntaDomanda un porro per la salsa, biecoLo guata l’erbajuola, e porro porro,Dice, tu osi domandarmi? Oibò!Vuo’ tu farti tiranno? Eh! la repubblicaHa forse a mantenerti anche d’intingoli?
Dopo varie altercazioni la contesa si riduce a parole, ed-il giudice stravagante s’industria
di provare l’autorità e superiorità che banno i giudici nella città esercitando la lopo
carica, ed il figliuolo vuol provare che essi sono meri schiavi. Quest’ultimo riesce più
felicemente nell’impresa, e benchè il Coro alla prima si era rallegrato dell’aringa del padre
credendo di non potervisi replicare, all’udir poscia il figliuolo cangia di avviso, approva
quanto questi ha detto, e cosi riprende se stesso:
Non voler mai giudicar
prima di avere ascoltato ambedue le parti.
Persuaso il Coro e convinto il
padre, il figlinolo prega a desistere
dal giudicare in pubblico, ed
a contentarsi di esercitare il suo impiego nella propria casa e nelle domestiche occorrenze. E
per mantenere in certo modo appagato il vecchio che pargoleggia, gli prepara il ridicolo
giudizio di un cane che ha rubato un formaggio di Sicilia. Tutte è ordinato colle formalità
giudiziarie di Atene, e si tratta con tutta serietà il gran litigio. È reo il cane? La legge
lo condanna. L’accusatore è un altro cane. A tale attore ed a tal reo ben conveniva un giudice
mentecatto. Al giudizio precede l’usato sacrifizio agli Dei; nel che si noti che quasi sempre
sul teatro soleva introdursi la pompa di un sacrifizio. Dopo l’aringa dell’accusatore, si dà
il termine delle difese al reo, si esaminano i testimoni che produce; si fà insomma quanto può
caratterizzar per matto il giudice, e per ridicolo stravagante e non più udito il giudizio. Mi
viene in mente in tal proposito un altro giudizio agitato in un intermezzo
sul teatro Spagnuolo
avanti di un ridicolo giudice pedaneo, ossia
Alcade di un picciolo villaggio. Un cane avea bevuto una gran’quantità
d’olio in una casa. Il padrone dell’olio voleva esser pagato dal padrone del cane. Il giudice
per procedere con ordine comanda che si prenda la dichiarazione e la deposizione del cane,
indi decreta che al cane reo sia fecato dove meglio stia un stoppino, e che si accenda, e si
consumi l’oglio a beneficio dell’attore. M. Racine daile Vespe cavò i suoi Plaideurs, ma non potè seguire l’originale nel
cepiare le minute formalità de’ tribunali, nè anche valersi della piacevolezza che nella greca
farsa risulta dal processo allegorico, nè introdurvi il cane accusatore che appartiene
unicamente alla commedia antica. Oltre a cio in Racine il
reo è veramente un cane, ed il cappone rubato è veramente quel che si dice; là dove in
Aristofane il cane rubatore di un formaggio di Sicilia allude a un Capitano, il quale avendo
condotto le truppe in quell’isola, si fe corrompere
co’ formaggi,
cioè co’ regali di quel paesea. Simili circostanze e allusioni per
noi perdute accrescevano pregio alle finzioni di Aristofane, e fanno in generale rimaner la
copia francese superata per vivacità e interesse dal greco originale. Io non seguirò il
prelodato erudito Udeno Nisieli per tutte le critiche fatte aspramente ad Aristofane. Egli lo
condanna sempre co’ principii della commedia nuova, ed io sempre dovrei ripetere che questa
differisce di molto dalla farsa allegorica; cioè dalla commedia antica di
Atene. I personaggi principali derisi nelle Vespe sono Alcibiade, Cleonimo,
Teoro, Cleone, Filosseno, Eschine, Fano, Acestero, e Mesato poeta tragico figliuolo di
Carcino.
I Cavalieri (Ιππεις). L’oggetto del poeta in questa favola denominata così
da un Coro di Equiti o Cavalieri
che vi s’introduce, fu dí fare sul
teatro una denunzia di stato contro Cleone cittadino potente, manifestando le di lui
estorsioni e ruberie. Quale ardire? accusare ridendo un nomo che disponeva del popolo come
suol dirsi a bacchetta! Osò il comico poeta assalirlo nel tempo che egli era più rispettato e
temuto. Osò accusarlo a dispetto di ogni difficoltà, avendo gli artefici timorosi ricusato di
farne la maschera, e niuno attore volendo montare in iscena a rappresentarlo. Aristofane non
perdè coraggio. Assunse egli stesso la cura di far la parte di Cleone, e tingendosi il volto
di feccia ne imitò alla meglio la fisonomia, e la foggia di vestire, e riuscì così bene nella
favola a svelarné i ladronecci e gli artifizii che il popolo condannò Cleone a pagar cinque
talenti, cioè intorno a tremìla scudi che furono regalati al poeta. Si finge in questa
commedia che Demostene e Nicia capitani mentovati insieme con Cleone da Diodoro Siculo e da
Tucidide, siano schiavi
in compagnia di Cleone, ma di lui nimici
occulti. Essi l’abborriscono e lo temono. Servono a un padrone (sotto la cui immagine si
adombra il popolo Ateniese) colerico, fracondo, maremmano, fastidioso, ciarlone, mangiator di
fave (cioè avido di giudicare e dar voto per mezzo delle fave, colle quali
si affermava o negava nelle deliberazioni) e debole anzi ché no per la vecchiaja e quasi
sordo. Con quale ardita satirica allegoria dipingevasi dalla scena un popolo principe! Noi
oggidì favelliamo con altro rispetto e per lo più con manìfesta adulazioné anche de’ popoli
che servono nelle monarchie e nelle aristocrazie. Questo nostro padlone (aggiugne Demostene)
al principio del passato mese ha comprato uno schiavo tintore di pelli di nazione Paflagone
calunniatore e ribaldoa.
Costui
che ha ben conosciuto il carattere e la maniera di vivere del padrone, non risparmia riverenze
inchini umiliazioni e lusinghe; e tal volta con regalucci di pezzi di corami tiene soddisfatto
il vecchio sbalordito. Egli poi allontana tutti gli altri schiavi dalla di lui presenza, si fa
bello di quello che gli altri fanno di buono, accusa e calunnia i compagni, e ne carpisce
danajo, se vogliono che egli loro non rechi nocumento. Questa anticipazione del carattere di
Cleone è giudiziosa e piena d’arte. Un poeta che cerchi dirigere l’attenzione di chi ascolta
al proprio scopo, non riuscirà se non imiti sì gran maestro nel preparare l’uscita del
personaggio principale. Per far cadere il loro nemico pensano gli schiavi congiurati di
valersi di un oracolo che annunzia la rovina di Cleone per mezzo di un venditore di salcicce.
Agoracrito è tale, ed essi gli persuadono che si addossi l’impresa di far fronte a Cleone, e
di accusarlo in faccia al popolo, dandogli speranza di signoreggiare nel
foro, ne’ porti, nel consiglio, nell’esercito.
In qual
modo avverrà tutto questo
(domanda Agoracrito)
se io non sono che un venditor di salcicce? Giusto per questo tu diverrai
grande
, risponde Demostene. Ma io
(dice l’altro)
non sono uomo molto dabbene, ignoro colla musica ogni bell’ arte, appena so
leggere. Baje
(replica Demostene); questo è il
tuo vero merito l’essere odioso, vile, ignorante; anzi è sventura che tu conosca, benchè a
stento, l’abici. Ma
(il salcicciaro)
come volete che io sappia il modo di regolarmi nel governare il popolo?
E Demostene:
Non v’ha cosa più agevole. Fa quel che fai ora delle tue salcicce; scomponi e
rattoppa a tua posta, purchè abbi cura di cattivarti l’animo del popolo, indolcendolo con
belle parolette, a somiglianza de’ cuochi. Animo; nulla a te manca di ciò che può rendertelo
benevolo; hai la voce chioccia e spiacevole, sei cattivo, sei plebeo, e gli oracoli ti
favoriscono. E
chimi ajuterà?
dice
Agoracrito. I ricchi hanno timore di Cleone, e de’ poveri non si fa caso.
Demostene:
Havvi un migliajo di Cavalieri dabbene che odiano Cleone; e ti ajuteranno; havvi
un buon numero di ottimi discreti cittadini e di spettatori che ti proteggeranno; ed io con
tutti questi ti spalleggerò. Non temere, no; che sebbene per la paura che si ha della di lui
potenza, niuno degli artefici finora ha osato di farne la maschera, pure sarà siffattamente
imitato, che verrà tosto conosciuto, essendo questo teatro pieno di spettatori savii e
sagici.
Ora in queste parole non sembra che la finzione tutta svanisca, e si
converta in verità? Si passa dal teatro alla repubblica, dallo schiavo Paflagone immaginato al
vero cittadino tolto di mira. Al comparir di Cleone si spaventa Agoracrito e vacilla. Ma al
vedere che una parte del Coro l’insulta ed oltraggía, ripiglia l’ardire non altrimenti che
Pulcinella divenuto principe a forza, e Sganarello fatto medico a suo
dispetto, i quali con dispiacere e ripugnanza
entrano nell’impresa, ma poi con baldanza la proseguono. Agoracrito adunque è stato in parte
il modello di queste moderne farse. Egli si avanza a poco a poco ad accusarlo con gli altri,
sempre più rinforzando le grida e gli schiamazzi e rimproverandogli varii furti. Dopo una viva
altercazione vanno al Pritaneo, ed il Coro esorta il suo campione salcicciajo a portarsi
arditamente
incolpandola, mordendolo, mangiandogli il collo
.
Intanto il Coro si trattiene a favellare del poeta.
Degno di lode
(ei dice)
è questo nostro al pari de’ poeti antichi, perchè egli abborrisce que’ medesimi
che noi detestiamo, e perchè non teme di dire con franchezza ciò che è giusto… Egli è vero
che da alcuni di voi, o spettatori, gli è stato amichevolmente insinuato di astenersi dal
troppo accusare; ma egli ne ha imposto di rammentarvi la gran difficoltà di comporre ottime
commedie atte a piacere, e quanti pochi sinora vi sieno
riusciti.
Magnete per quant’arte usasse, non bastò a sostenersi sino alla
vecchiaja, perchè cessò di dir male. Cratino che merito si gran lode, stette in fiore finchè
fu mordace; ma perchè ora altro non fa che cianciare, si vede andare con una corona secca e
morto disete; e pure per le vittorie riportate
meriterebbe di bere nel
Pritaneo. E quanto non sofferse dal vastro sdegno il Comico Cratete, che pure profferiva
tante e sì belle e urbane sentenze? Voi adunque benignumente compatite e perdonate al nostro
poeta, e animandolo con applauso strepitoso fate che parta lieto dal teatro
.
Torna Agoracrito vittorioso dal consiglio ed è ricevuto con festa. Arriva ancora Cleone, il
quale dopo nuove villanie invita l’avversario a parlare al popolo, e Agoracrito baldanzoso non
ricusa il nuovo cimento. Cleone che conosce l’indole del popolo che a ma di esser lusingato
con parolette melate, si sforza di mostrargli il suo amore; ma l’emulo usa il medesimo
artifizio con maggior felicità. Il dotto traduttore di Demostenea trasporta colla solita grazia
alcuni squarci di questa scena per mostrare le smancerie adoperate da ambedue verso quel
vecchio rimbambito:
Cle.
Popol mio, babbo mio, esci.Salc.
Salc. Sì, escine,Cle.
Popoluccio, belluccio.Pop.
E chi mi chiama?Cle.
Son io, son desso, il tuo Cleon che a tortoDa costui son battuto.Pop.
E perchè questo?Cle.
Perchè ti sono spasimato amante,Perchè ti adoro.Pop.
E tu chi sei? rispondi.Salc.
Son di costui rivale, e ti amo, e bramotiDa lungo tempo, e di giovarti struggomi.
Ecco poi le offerte che essi gli fanno a gara:
Salc.
Oimè, tu siedi in queste dure pietre,Nè costui n’ha pietà. Sorgi, io ti arrecoUn buon guanciale sprimacciato, adagiatiBellamente su questo, onde non abbiaA logorar le Salaminie natiche.Pop.
Chi sei tu valent’uomo? Or se’ tu forseDella schiatta di Armodio? Ah questo al certoFu un atto generoso e democratico.Cle.
Vedi con che moine ei lo si ha compero!Maa non mi vincerai) Voglio, o mio Popolo,Che sfaccendato colle mani a cintolaTu sorba una scodella capacissimaDi un brodetto Eliasticoa.Salc.
Ed io porgotiUn alberello pien di unguento, ond’ungertiGli stinchi incancheriti.Cle.
Ed io vo’ svellertiAd uno ad uno i grigi peli, e rendertiUn giovinastro rigoglioso.Salc.
Or abbitiQuesta coda di lepre, o caro, e forbitiDagli occhietti la cispa.Cle.
Ah se ti moccicaTalora il naso, o mio buon babbo, in graziaSpazzati nel mio capo.Salc.
Anzi nel mio.Cle.
Salc.
Nel mio, nel mio.
Il popolo finalmente disingannato per le cose dette dal venditore di salcicce, si avvede di
essere stato lungo tempo aggirato da Cleone, e gli ritoglie l’anello che aveagli dato,
discacciandolo dal suo servizio. L’ultima contesa si aggira intorno agli oracoli. Cleone
propone i suoi interpretandoli a suo favore. Agoracrito propone altresì i suoi, distruggendo
la spiegazione di Cleone Finalmente si verificano nella persona del Salcicciajo tutte le
circostanze dell’oracolo, e Cleone rimane convinto, ed è costretto a cedergli la corona, e ad
esercitare il di lui mestiere vendendo trippe, salcicce, e carne cotta in una bottega di
piazza. Oltre a i nominati pongonsi in berlina ne’ Cavalieri Iperbolo,
Tufane, Cleonimo, Clistene, Stratone, Cratino comico, Morsimo
tragico, e Lisicle che succedette a Pericle da mercatante di montoni che egli era, e sì
buono che il poeta lo nomina per terzo dopo Cinna e Salabacca due famose meretrici di que’
tempi. Nisieli al solito inveisce contro Aristofane chiamandolo
stoltissimo d’ invenzione
per avere ordinato un
vilissimo
pizzicagnolo per governatore del popolo Ateniese
. Atene però che doveva
intendersi meglio del Nisieli delle qualità richieste ne’ suoi governatori, premiò l’autore
per questa commedia. Il dotto critico ciò scrivendo non badò alla costituzione democratica di
Atene; ed obbliò quanto poco bastava per divenir colà cittadino, ed influire nel governo
avendo danajo ed eloquenza. Cleone era cuojajo, Iperbolo artefice di lanterne, e l’anzinomato
Lisicle cosuoi montoni non era per origine più illustre dell’allegorico pizzicagnolo de’ Cavalieri.
Gli Acarnesi (Αχαρνεις). In questa favola ancora si vuole insinuar la pace, mostrandone i vant aggi confrontati coi disastri della guerra. Diceopoli, il quale par che rappresenti il personaggio del poeta, gode di aver fatto punir Cleone colla multa di cinque talenti per mezzo della commedia de’ Cavalieri; ma si attrista, perchè la città non si curi di trattar la pace nel Pritaneo. Egli vede ammessi i Legati del Pie, e disperando della pace per l’intera nazione, pensa di mandare Amfiteo a conchiudere co’ Lacedemoni una tregua particolare per se e per la sua famiglia. Questo Amfiteo tornando avvisa che gli Acarnesi lo perseguitano co’ sassi per aver portata la pace alla famiglia di Diceopoli. La deliberazione di costui, la partenza di Amfiteo, il di lui ritorno col trattato di pace conchiuso, e le conseguenze che ne risultane, sono cose dal poeta aggruppate con poca verisimiglianza per lo tempo che dovrebbe corrervi in una commedia regolare; ma gli Ateniesi ed Aristofane erano tacitamente convenuti di stendere i confini della verisimiglianza un poco più oltre nella farsa allegorica. Diceopoli per la pace ottenuta ordina un sacrifizio in ringraziamento, celebrandosi le feste Dionisie. Sopraggiungono gli. Acarnesi, e vogliono lapidarlo, ed a stento egli ottiene di essere ascoltato. Per prepararsi alla concione va a battere alla porta del tragico Euripide, e lo préga di prestargli alcune vesti oenciose della tragedia antica per aringare al popolo. Ottiene quelle di Telefo, colle quali si abbiglia per rassembrare un povero. Con tal vestito favella al popolo, alterca con Lamaco, e gli riesce di convincere gli ascoltatori della sua innocenza per aver procurato di ottenere per se solo la pace. Havvi un Coro che parla a favore del poeta, ed accenna il pericolo ch’egli corse l’anno precedente per aver detta la verità agli Ateniesi accusando Cleone. Vi si troya un colpo che caratterizza l’indole di que’ repubblicani amici di essere, piaggiati, e facili a prendersi colle lodi esagerate. Trovo questo squarcio anche tradotto bellamente dal Cesarotti:
Quando gli Ambasciadori della GreciaBramano di accappiarvi a qualche trappola,Vi chiamano violi-ghirlandiferiAll’udir questa voce melatissimaDi gioja vi traballano le naticheChe se poi vesseggiandovi vi aggiunganoMia grassa Atene, ogni domanda accordasiSol per quel grasso, e il popolo ne gongola,Che di un majale riportò la gloria.
In vece di majale trovasi nel testo nominato il pesoe apua assai celebrato dagli Ateniesi. Le lodi di portatori di ghirlande diviole e l’aggiunto di grassa, lusingavano sommamente la vanità e puerilità Ateniese. Disbrigatosi. Diceopoli felicemente dalla molestia che gli dava il Coro per la pace fatta, ne va godendo i frutti. Prima conseguenza di tal pace si è la libertà del commercio per lui, e non già pel bellicoso Lamaco. Si vedé una dipintura naturale del mercato di Atene per decorare la favola, e vi accorrono varii venditori di Megara e della Beozia. Tra questi un povero Megarese, il quale trasforma due sue donne in guisa che sembrano porci per farne mercato, esortandole a contraffarne il grugnito per invitare alla compera. Questa è una scena episodica del comico più basso e triviale che forse per qualche allusione potè allora piacere agli Ateniesi, e che ha dato al Nisieli motivo di declamar fortemente, quasi in essa consistesse tutto il pregio della farsa degli Acarnesi. L’abbondanza colma la casa del pacifico fortunato Diceopoli arricchito dal commercio. Il Coro riflette che a lui tutto va a seconda ed ogni bene corre dietro, e che accade il contrario a chi ama la guerra. Diceopoli commendando la pace amica di Venere e delle Grazie, sa preparare un magnifico convito, e il Coro ammira la copia e la squisitezza de’ cibi, la diligenza e lo zelo di coloro, che servono, e i preziosi regali che da ogni banda gli vengono tributati. Intanto sopravviene un Messo a Lamaco e un altro a Diceopoli, e ne nasce una scena piacevole e artificiosa, nella quale si mostrano l’ore tranquille che si passano nella pace, e gli agitati momenti della vita di chi si trova in guerra. Si avvisa Lamaco che tenga pronte le schiere, perchè i ladroni Beoti minacciano di volerli assaltare. Si avvisa Diceopoli da parte del sacrificatore che venga a cena, tutto essendo pronto, tavole, letti, coscini, corone, unguenti, confetture, meretrici e ballerine.
Lam.
Servo, cava fuori la mie sporta.Dice.
Serva, portami i miei cestoni.Lam.
Dammi del sale e delle cipolle.Dice.
Dammi i miei manicheretti, che le cipolle m’increscono ec.
Così l’inevitabile frugalità del soldate contrasta colla dovizia del cittadino che gode la
pace. Lamaco va a combattere, Diceopoli a cenare e a dormire.
Un
nuovo Nunzio dà avviso alla famiglia di Lamaco che prepari lenzuola, balsami, empiastri e
bende da fasciar ferite, trovandosi Lamaco piagato in una gamba e colla testa rotta. Giugne
egli stesso lamentandosi e considerando per cordoglio maggiore che se Diceopoli il vede eosi
mal concio, si ridera di lui. Questo amator della pace, il quale in fatti si è di lui
avveduto, per rendere vi è più manifesto il suo trionfo si rallegra a misura che Lamaco si
lamenta. Nisieli non dovette avvedersi di tale artifizio, allorchè asseri che in questa favola
era uno confusione di cose parle orribili e parte ridicole
.
Così termina la commedia degli Acarnesi, nella quale dal principio al fine
si scorge lo scopo principale del comico spettacolo greco essere stato di manegiarvisi le
questioni politiche, le quali secondo gli affari correnti si agitavano in Atene. Espongonsi
principalmente negli Acarnesi alla pubblica derisione Lamaco generale della Repubblica
soverchiamente appassionato della
guerra, Teoro orgoglioso senza
fondamento, Ctesia calunniatore, Lisistrato mendico benchè impostore. Artemone codardo,
Stratone e Clistene effemminati, Euripide introduttore di vertiti laceri e meschini nella
tragedia, Amfiteo povero e fiero dell’albero cronologico della sua schiatta, oltre a Cleone
prepotente, a Cleonimo ingordo, al freddo poeta Teognide e al comico Cratino, i quali entrano
pressochè in tutte le favole di Aristofane.
Il Pluto (Πλουτος). Quaranta anni dopo che Aristofane produsse sotto
l’Arconte Diotimo la prima sua favola sulle scene Ateniesi, fu scritta la commedia del Pluto in un genere comico totalmente nuovo. De pubblici affani non vi si
favella punto nè poco: vi si ritraggono e satireggiano ben pochi particolari, pochissimi vi si
nominano, la maldicenza antica cede il luogo alla finzione, la quale sola ne forma tutta la
piacevolezza. La spoglia allegorica di questa favola copre un tesoro di filosofiche verità, e
mette in azione,
soto l’aspetto piacevole e popolare di una
favoletta anile, quanto nel profondo discorso sulle grandi ricchezze ragionò
con vigor sommo e con salda dottrina l’immortale utile filosofo non mai abbastanza ammirato e
sospirato Antonio Genovesi. Ecco la materia e la traccia dell’azione. Cremilo uomo dabbene
povero e disgraziato si consiglia coll’oracolo di Apollo intorno al modo di migliorare la
propria condizione e al genere di educazione che dovrà dare all’unico suo figliuolo. Vuol
sapere, se dee fargli cangiar costume e renderlo malizioso scaltro disleale malvagio, affinchè
abbia miglior fortuna e più ricchezza del padre. Apollo risponde che all’uscir del tempio si
ponga a segnitare il primo che incontri sulla strada non mai abbandonandolo, finchè non
l’induca ad entrare nella sua casa. Cremilo obedisce all’oracolo, imbatte in un cieco mendico
e lo va seguitando. Carione suo servo se ne maraviglia, e vuol sapere ad ogni patto, perchè
tenga dietro a quel cieco. Forzato
dalle di lui importunità Cremilo
gli narra la risposta dell’oracolo; prega indi il cieco a volergli dire chi egli sia. Ricusa
il cieco di palesarsi; ma pressato dalle minacce di Carione manifesta di esser Pluto Dio delle
ricchezze, e di trovarsi mal condotto sporco e privo degli occhi per l’invidia di Giove. Tutto
il mio male (egli dice) mi viene da Giove invidioso del bene altrui. Essendo io giovane mi
proposi di andar soltanto in traccia di uomini savii giusti e probi; ed egli mi tolse la
vista, affinchè non potessi distinguere i cattivi da i buoni, a’ quali egli porta grande
invidia. Cremilo gli domanda, se ricuperando la vista eviterebbe i malvagi e arricchirebbe i
buoni? Pluto risponde di sì, e vuol partire. Cremilo nol permette; gli dice che egli è uomo
dabbene; e gli fa sperare di adoperarsi perchè possa ricuperar la vista. Pluto non osa
condiscendere per timore di Giove. Cremilo riprende la di lui pusillanimità:
Credi tu
(aggiugne)
che i fulmini di Giove
saranno più rispettati
riacquistata che avrai la vista?… A Giove si sacrifica unicamente per l’oro che se ne
attende. Per te solo, o Pluto, tutte s’inventarono le arti e le astusie: per te solo uno
taglia corami, uno e fabbro, un altro muratore, un altro ruba e fa buchi nelle case altrui:
tu sei l’autore di tutti i beni e di tutti i mali.
L’incoraggisce mostrandogli
l’onnipotenza che ha sulla terra, e promette d’investigar la maniera di guarirlo. Per mezzo
poi di Carione invita i suoi compagni uomini probi che mancano di pane, a venire a partecipare
de’ favori di Pluto. Pure egli non sa risolversi ad entrare nella casa di Cremilo.
Se io
(dice)
entro in casa di qualche avarone; incontanente mi sotterra in una fossa; e se un
povero il richiede di qualunque minimo soccorso, nega di avermi veduto mai a’ giorni suoi.
Se entro in casa di qualche pazzo dissipatore, tosto egli scialacqua colle femmine e col
giuoco quanto io pozzo dargli e
mi costringe in poco tempo a
fuggir nudo dalla sua casa.
Bellissime allegorie fatte per insegnare con
popolarità ! Al fine Pluto si determina ad entrare in casa di Cremilo. Intanto i di lui
compagni non sanno dar fede a Carione, nè persuadersi come un cieco pitocco e pieno di malanni
possa arricchirli. Anzi Blessidemo nettamente dice allo stesso Cremilo che a lui non piace di
vederlo tutto ad un tratto divenuto ricco; ed ha timore che egli abbia rubato a qualche nume
la ricchezza. Cremilo giura, stragiura, e al fine rivela il secreto di tenere in casa il nume
delle ricchezze. Se ne maravigliano i Villani, e bramano di pariteciparne. No, dice Cremilo;
non è possibile, se prima non si tenti di fargli ricuperar la vista. Deliberano di condurlo
nel tempio di Esculapio. Frattanto viene fuori la Povertà e svillaneggia gli astanti, perchè
col macchinare di dar la vista a Pluto, pensano di scacciarla dalla città.
Noi
(rispondono à Villani)
cerchiamo di far del
bene con isbandirti dalle nostre
terre Io
(replica la Povertà)
vi farò toccare colle mani, essere io sola la cagione di ogni bene, e non
potersi commettere eccesso maggiore che procurare di arricchire i giusti… Se Pluto torna a
vedere, le ricchezze saranno divise ugualmente, e niuno più si curerà di provvedersi di
dottrina, nè di esercitare le arti. E chi vorrà più fare il fabbro? chi costruir navi? chi
cucire, fabbricare, tigner pelli, mietere, arare? Io, io vi somministro tutte queste cose:
io col bisogno costringo gli uomini alla fatica. Rousseau
ed i filosofi
migliori non hanno insegnato di più investigando il principio delle società e dell’economia
politica. Quali popoli furono codesti Greci, fra quali nella stessa buffoneria s’insegna a
pensare e a ragionar dritto e a sviluppar la scienza politica ed economica !
Quanta filosofia ci nascondeva
Sotto il velame degli versi strani
di codesto Comico così
dispregevole
agli occhi cisposi di molti scioli oltramontani e
nostrali! Il Coro oppone che la povertà riempie anzi il mondo di miserie.
Parti
(dice)
una bella impresa il far nascere mendici da’ mendici, l’infettar la terra di
pulci ed insetti molestise schifosi, il colmarla di miserabili che non hanno pane da
satollarsi nè letti da dormire? Questi sono i beni che tu fai all’uomo…. O
semplicioni, (ripiglia la Povertà)
voi non sapete quello che vi pescate. Voi me confondete colla Miseria; ma dovete
sapere che noi siamo due cose ben distinte. La povertà nulla patisce dei disagi che
accennate, ne mai gli patirà. La vita del mendico che dipingete, consiste in mancare delle
cose più necessarie: quella del povero in vivere parcamente e lavorare, in non abbondar di
beni, ma in non mancar di nulla. Io, vi dico, io sono quella che rende gli uomini saggi e
prudenti e di buono aspetto, a differenza di Pluto che gli fa diventare
gottosi panciuti grossi di gambe e lascivi. I miei seguaci sono magri
sottili svelti accorti ingegnosi e robusti. Osservate un’altra cosa. Gli Avvocati prima di
uscire dalla povertà, sono giusti circospetti onorati per acquitar credito; divenuti poi
ricchi cangiano costume, e si fanno impostori falsi doppii nemici veri ed amici apparenti
insidiatori della plebe oppressori e ministri d’ingiustizie.
Queste verità
ristuccano il Coro avido già di ricchezze, il quale ricusa di più ascoltarla, fosse anche
certo di essere interamente persuaso. Carione reca l’avviso della felicità del suo padrone e
della guarigione di Pluto. Racconta la cura fattagli da Esculapio e molti ridicoli accidenti a
lui stesso avvenuti nell’andar la notte pel tempio rubando delle schiacchiate ecc. La casa di
Cremilo si converte in reggia d’abbondanza per le ricchezze che vi versa Pluto guarito. Ne
vola intorno la fama; ognuno vi accorre. Viene un uomo giusto per ringraziarlo della mutata
sua fortuna; e nella dipintura che ne fa Aristofane maestrevolmente
possiamo ravvisare il modello di tutti i prodighi dissipatori e discoli comparsi sulle moderne
scene convertiti e ravveduti nella miseria per l’ingratitudine degli scrocchi che gli
adulavano nell’abbondanza. Viene un Sicofantaa per ingiuriar Pluto, perchè gli uomini divenuti ricchi a lui più non
ricorrono.
Vien e una vecchia per querelarsi della sua sventura.
Ella nutriva e vestiva un giovine bisognoso, il quale per tali comodi malgrado delle di lei
grinze la corteggiava; ma oggi che col favore di Pluto è uscito di miseria, l’ha abbandonata.
Viene poi questo medesimo giovine, il quale in veder la sua vecchia motteggia sulle sue rughe
e sulle bocca senza denti: Viene Mercurio stesso per minacciar comicamente tutta la samiglia
di Cremilo, perchè con far ricuperar la vista a Pluto, non vi è più chi si ricordi di
sacrificare agli Dei.
Ben vi stà
, dice
Carione, perchè di noi nulla vi curate.
Adunque nè anche in
una favola si moderata si tralasciava di mormorar contro la provvidenza; tanto lungi erano di
lor natura le commedie greche di quel tempo dall’essere gli esercizii
spirituali della nazione che videvi il traduttor de’ Salmi autore de’
Paradossi.
A me
, ripiglia
Mercurio,
non importa un frullo di tutti gli Dei, ma mi dolgo per me che muojo
di fame.
Questo Mercurio pezzente fa una scena di parasito.
Prega di poi il servo ad accomodarlo in casa promettendo di prestare ogni servizio più vile,
ed il servo lo manda a lavar delle budella. Finalmente si ricovera in casa di Cremilo un
Sacerdote di Giove, il quale non ha più modo di sostentarsi ora che Pluto cogli occhi sani
vede e distingue i buoni e li arricchisce. Osserva giustamente l’erudito Benedetto Fioretti
che in questa favola l’azione abbraccia lo spazio di due giorni; ma la preferisce a tutte le
altre così esaltandolaa:
Le Nebbie sono pertutto un giardino fioritissimo di tutte le vaghezze
comiche e mimiche più desiderabili o vuoi di motti e di concetti e di episodii, o di persone
e di relazioni allegoriche a d’invenzioni stranissime. Con tutto ciò il Pluto per mio giudizio par che tenga il principato di tutte quelle favole, perchè
quivi non
sei stomacalo da laidezze nè scandalezzato da oscenità,
nè immalvagito da perversa imitazione quanta si cede nelle altre. Il ridicolo a sufficienza,
la speculazione considerabile, e la moralità infinita.
Variano assai i giudizii degli antichi e de’ moderni intorno al merito di Aristofane.
Platone, Aristotile, Cicerone l’ebbero pel più gran poeta comico dell’antichità. Plutarco,
Eliano ed altri antichi si vendicarono col disprezzo di questo maligno persecutor di Socrate,
e al lor parere si sono appigliati il Fioretti o Nisieli, il Rapin ed altri
moderni. Francesco di Voltaire però copiando la censura di Plutarco o di Rapin, volle aggiungere del suoche Aristofane
non era nè
comico nè poeta
: il che avventurò con soverchia leggerezza. M. Marmontel volle ancora dar su di ciò il suo parere e derise Madama Dacier che avea tanto encomiato Aristofane. Ma quella celebre letterata, sebbene
maneasse di certo gusto poetico necessario a ben
tradurre i poeti,
almeno intendeva pienamente il greco idioma, ed ha voto autorevole allorchè afferma che
Aristofane è fino puro armonioso, ed empie di piacere coloro che hanno la fortuna di leggerlo
originale; sortuna che auguriamo al traduttore di Lucano autore della Poetica
Francese
a Il
riputato Gian Vincenzo Gravina così perito nelle materie poetiche e nella lingua greca versa a
piena bocca su questo comico le sue lodi per la verità e naturalezza delle invenzioni, per la
proprietà de’ costumi, per la felicità delle allusioni, per la bellezza de’ colpi, e per la
fecondità la pienezza il sale attico di cui abbonda e che oggi a’ nostri orecchi non può tutto
penetrare. Daniele Einsio, Tanaquil le Fevre, Boivin, ottimi giudici di
poetica e di greca lingua,
ammirarono Aristofane. Il dotto Pietro Brumoy non dissimula i suoi difetti
non pechi, ma ne va con profitto degli stud osi additando l’arte e le bellezze dello stile.
Questi, sì, che possono farsene giudici; ma sono rari pur troppo giudici di simil fatta
provveduti di criterio eccellente e di perizia grande nelle greche lettere, e d’intelligenza
della poetica facoltà e di giudizio purgato, e di gusto vero per decidere intorno alle opere
degli antichi. Avea egli tutti questi pregi M. de Chamfort che nell’elogio di Moliere volle malmenare Aristofane? Facciamolo giudicare dal critico
Freron
a. Aristofane (egli dice) le cui
commedie empivano con tanto applauso il teatro Ateniese 436 anni prima dell’era Cristiana, è
il più gran poeta comico dell’antichità. Pieno di coraggio e di
elevazione, ardente dichiarato nemico della servitù e di quanti tentavano di opprimere il
suo paese, esponeva agli occhi di tutti nelle sue favole la segreta ambizione de’ magistrati,
che governavano la Repubblica, e de’ generali che comandavano gli eserciti. Era nelle di lui
mani la commedia diventata una molla del Governo, il baluardo della libertà, l’organo del
patriotismo. Egli vituperava con vigore tutti i vizii dell’amministrazione. Or qual carriera
più vasta, qual più nobile più sublime scopo? Ei non si prefiggeva per oggetto principale il
far ridere gli spettatori con facezie o piagnere con avventure compassionevoli, ma sì bene
l’additar loro i più sacri doveri, il fortificargli contra ogni nemico domestico o straniero,
e l’istruirgli piacevolmente con sole lezioni. Gli Ateniesi provando sommo diletto nelle di
lui commedie non contenti di applaudirlo in teatro, a piena mano gettavano fiori sul di lui
capo, e menavanlo per la città tra festive acclamazioni; anzi con pubblico
decreto gli diedero la corona del sacro olivo, che era il
maggiore onore che far si potesse a un cittadino. Il gran Re (cioè il Re di Persia) domandando
di questo poeta agli ambasciadori Spartani e de’ soggetti ordinarii delle sue satire, ebbe a
dire che «i di lui consigli erano diretti al pubblico bene, e che se gli Ateniesi gli
seguivano, si sarebbero impadroniti della Grecia»
. Il gran Platone, l’idolo de’
nostri filosofi, al quale essi cercano con tanti inutili sforzi di parer simili, scriveva a
Dionigi il tiranno, che «per ben conoscere gli Ateniesi e lo stato della loro
Repubblica, bastava leggere le commedie di Aristofane»
. Lo stesso Platone studiavasi
di formare la propria maniera di scrivere sullo stile elegante polito dolce e armonioso di
questo poeta, e se n’era talmente invaghito che onorò un sì eccellente comico con un distico
del tenor seguente:
Avendo le Grazie cercato da per tutto un luogo per
farvisi un tempio eterno,
elessero il cuore di Aristofane, e mai
più non l’abbandonarono
a Ecco quello che
agli occhi de’ dotti era Aristofane. Dopo ciò che pensereste di un giovine Gaulese, il quale
più di duemila anni dopo la morte di tal valoroso scrittore viene a dirci che egli altro non
era che un
satirico sfrontato, un parodista, un superstizioso, un
bestemmiatore, un buffone da piazza, un Rabelais sulla scena
, e che le di lui
commedie sono
un ammasso di assurdità, donde qualche volta scappano fuori
alcune bellezze inaspettate
? In tal guisa viene egli malmenato da M. de Chamfort. Probabilmente costui e di greca lingua e di poesiab
s’intende meglio del popolo Greco il più illuminato dell’Universo,
meglio di Platone, meglio di Aristotile, meglio di Moliere stesso, meglio di
tanti e tanti grand’ ingegni antichi e moderni, i quali tutti hanno avuta la compiacenza di
ammirare Aristofane. Fin quì M. Freron critico dotto e sagace e riputato ad
onta della nimistà che ebbe con Voltaire. La cosa più da notarsi nell’elogio di Moliere si è che le scempiaggini profferite da Chamfort si approvarono, coronarono e premiarono nel 1768 dall’Accademia Francese.