(1789) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome V « LIBRO VII. Teatro Francese ne’ secoli XVII e XVIII — CAPO IV. Teatro Lirico Francese, e suoi progressi per mezzo di Lulli e Quinault. » pp. 59-74
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(1789) Storia critica de’ teatri antichi e moderni (2e éd.). Tome V « LIBRO VII. Teatro Francese ne’ secoli XVII e XVIII — CAPO IV. Teatro Lirico Francese, e suoi progressi per mezzo di Lulli e Quinault. » pp. 59-74

CAPO IV.
Teatro Lirico Francese, e suoi progressi per mezzo di Lulli e Quinault.

Aveano in Francia nel XVI secolo eccitato il gusto musicale i Concerti del poeta Antonio Baif, e più i balletti di Baltassarino seguiti da quelli del Rinuccini del XVII. Di assai cattivo gusto furono in seguito il balletto delle Fate del 1625, in cui, come si è detto, ballò Luigi XIII, e la festa della Finta Pazza mentovata da Renaudot fatta rappresentare nel Picciolo-Borbone nel 1645 dal cardinal Mazzarini. Due anni dopo egli stesso introdusse in corte l’opera Italiana chiamando da Firenze alcuni Cantanti che recitarono alla presenza del re l’Orfeo rappresentata in Venezia colla musica del famoso Zarlino. S’imitò poi la magnificenza dell’opera di Venezia nel 1650 coll’ Andromeda di P. Cornelio. Non fu che una mascherata in forma di balletto la Cassandra di Benserade eseguita nel 1651 in cui ballò Luigi XIV.

Faceva intanto il marchese di Surdeac rappresentare a sue spese nel castello di Neoburgo in Normandia il Toson d’oro; e l’abate Perrin tentava di fare un’ opera francese componendo in cattivi versi una pastorale posta in musica da Cambert cantata la prima volta in Issy nel 1659. L’anno seguente il Mazzarini fe rappresentare nel Louvre l’Ercole amante in italiano che a’ Francesi non piacque. Allora il Perrin vide ravvivarsi le sue speranze di fondare un’ opera francese, e nel 1661 compose l’Arianna ancor più infelicemente verseggiata; ma la morte del Mazzarini deluse tali speranze. Senza scoraggiarsi compose la pastorale Pomona, e l’ applauso che ne riscosse, l’animò a chiedere al sovrano la facoltà di stabilire un’ opera francese, ed ottenutene nel 1669 le lettere patenti si associò con Cambert per la musica e con Surdeac per le decorazioni, e per otto mesi nel 1671 continuò a cantarsi in Parigi l’opera di Pomona. Col pretesto poi di avere anticipato molto danaro Surdeac s’impossessò della cassa, cacciò via il Perrin e si valse del Parigino Gabriello Gilbert che compose le Pene e i Piaceri di Amore rappresentata nel 1672 colla musica di Cambert. Questi furono i deboli principj dell’opera francese, che dopo qualche anno per mezzo del Fiorentino Giambatista Lulli passato in Francia e del Quinault, fu portata nata appena all’eccellenza.

Lulli famoso violinista, maestro di musica e poi segretario del re di cui ebbe in seguito tutto il favore sino alla sua morte, fece tosto sentire la superiorità del suo ingegno e con alcune arie di balletti composti pel re e colla musica posta ad alcuni versi di Quinault nella tragedia balletto di Psychè. Per buona sorte e gloria della scena musicale francese Lulli favorito da madama di Montespan ottenne dal Perrin con una somma considerevole la cessione del privilegio, e nel medesimo anno preso per socio il Vigarani machinista del re diede le Feste di Amore e di Bacco opera composta di molti balletti. Morto Moliere nel 1673 Lulli ottenne la sala del Palazzo Reale, dove nell’aprile di quell’anno stesso comparve la prima opera di Quinault Cadmo ed Ermione. I Francesi ammirandone la versificazione tanto superiore a quella del Perrin, non avrebbero voluto trovarvi la mescolanza del burlesco introdotta nella Pomona.

L’anno seguente si rappresentò Alceste, ovvero il Trionfo di Alcide, in cui le scene di Lica e Stratone si appressano non poco al burlesco. La varietà delle decorazioni in diversi luoghi della terra e dell’inferno unita alla facilità armoniosa dell’espressioni apprestò al genio incomparabile di Lulli tutta l’opportunità di manifestarsi. Egli è vero che un viluppo condotto con tanta libertà riesce assai più facile a tessersi e a snodarsi che un’ opera istorica incatenata al comodo della musica e alle leggi del verisimile; ma il sapere scerre e interessare, come fe molte volte Quinault, nell’opera mitologica che non ha freno, merita distinta lode. I di lui contemporanei notarono nell’Alceste più di un difetto. Al loro intendere il poeta Francese avea guastato l’argomento greco senza approfittarsi del più bello dell’Alceste di Euripide, ed aggiugnendovi episodj che converrebbero ad ogni favola e che non hanno un legame necessario col fatto della moglie d’Admeto.

Nella tragedia di Teseo cantata nel 1675 è teatrale l’ angustia di Egle nella scena quarta dell’atto IV, che per salvar la vita a Teseo promette a Medea di sposare il re e rinunziare all’amore di Teseo; come ancora nella scena quinta è delicato lo sforzo di Egle stessa per apparire infedele e far credere a Teseo che più non l’ami.

Ati recitata nel 1676 dee reputarsi una delle favole più interessanti di Quinault. Vi si trova la solita varietà delle decorazioni mitologiche, ma accompagnata da alquanti colori patetici e vigorosi degni del tempo di Metastasio. Serva prima di esempio la bella scena sesta dell’atto primo di Sangaride ed Ati, di cui diamo la traduzione, pregando i leggitori a compiacersi di consultare l’ originale:

Ati.

Sangaride gentil, de’ giorni tuoi
Il più bel giorno è questo.

Sangar.

A te del pari
Che a me concesso è il vanto
Di apprestar del gran dì sacro a Cibele
Il festivo apparato.

Ati.

È ver, ma a questo
Che dividi con me, l’onor tu accoppj
D’esser d’un gran regnante oggi consorte.
Oh del re rara sorte!
Mai sì vaga e sì lieta io non ti vidi!

Sangar.

Ati però così d’amor nemico
Della sorte del Re non fia geloso.

Ati.

Lieti vivete; i voti miei fur questi,
Così bel nodo i strinsi, i vostri amori
Io secondai . . Ah de’ tuoi dì felici
Questo il più glorioso
Sarà del viver mio l’estremo giorno.

Sangar.

Numi!

Ati.

Il funesto arcano
A te sola confido: ho finto assai:
A chi di vita ormai
Non riman che un momento,
Il simular che giova il suo tormento?

Sangar.

Io fremo; il mio timor deh rassicura,
Ati, per qual sventura
Morir tu dei?

Ati.

Tu stessa
Condannarmi dovrai,
Morir mi lascerai.

Sangar.

Io? per salvarti
Tutto armerò tutto il poter supremo . .

Ati.

Vano soccorso! a superar me stesso
Mi manca ogni valore:
Per te senza speranza ardo d’amore.

Sangar.

Che? Tu!

Ati.

Pur troppo è ver.

Sangar.

M’ami?

Ati.

T’adoro;
Te ’l dissi già, condannerai tu stessa
Il mio foco il mio ardire,
Mi lascerai morir. Castigo io merto,
Un rival generoso,
Un mio benefattor pur troppo offendo.
Ah ma l’offendo invan, d’amore è degno,
E tu a’ meriti suoi giustizia rendi.
Oimè! questo è dolore!
Confessar che un rival degno è d’amore!
Senza ritegno il mio morir decreta.

Sangar.

Oh Dio!

Ati.

Sospiri? . . . piangi?
La mia fiamma funesta
Forse qualche pietà nel sen ti desta?

Sangar.

Ati, la sorte tua di pianto è degna,
E pur tutta non sai la tua sventura.

Ati.

Ah se ti perdo, ah se a morir son presso
Che mi resta a temer?

Sangar.

Perdere è poco
L’oggetto del tuo foco:
Ciò che pianger tu dei
È che mi perdi, e l’idol mio tu sei!

Ati.

Io? ciel che ascolto! M’ami tu, mio bene?

Sangar.

T’amo, e lo stato tuo peggior diviene 20.

Io convengo co’ Francesi che questa scena sia sì bella e delicata che in tutta l’opera altra non se ne legga che la faccia dimenticare. Ma non mi sembra poi vero che tutto il rimanente cada per ciò, bastando a sostenerlo diverse situazioni. Nell’atto terzo ne mantiene l’interesse la scena in cui Ati divenuto Gran Sacrificatore si dimostra poco sensibile a’ favori della fortuna, e nel sentire che Sangaride piange pel suo imminente imeneo e pensa a palesare il proprio amore, Ati con poche voci mostra lo stato del suo cuore,

Je souhaite, je crains, je veux, je me rèpens.

Delicato nell’atto quarto è il lamento di Sangaride. Ella volle nel precedente atto manifestare a Cibele l’amore che ha per Ati, e questi l’interruppe perchè non si esponesse al furore della dea svelando l’arcano. Ciò ella attribuisce all’infedeltà di Ati, e dice,

Hélas! j’aime un perfide
Qui trahi mon amour;
La Déesse aime Atys; il change en moins d’un jour;
Atys comblé d’honneur n’aime plus Sangaride.

Ati poi dal poter della dea renduto furioso rassomiglia l’Agave degli antichi tragici, e trafigge Sangaride più non conoscendola. La dea crudele gli rende la ragione nel quinto atto, ed egli conosce l’eccesso ove ella l’ha spinto,

Quoi! Sangaride est morte! Atys est son bourreau ecc.

e si uccide alla presenza di lei che pentita si duole di non poter morire, ed Ati allora dice spirando,

Je suis assez vengé, vous m’aimez, & je meurs.

Queste patetiche situazioni tengono svegliato lo spettatore in questa favola, e ne formano la vera bellezza; là dove il lavoro mitologico ne forma una specie di distrazione. Gli zeffiri in gloria, i sogni piacevoli ed i funesti danzanti intorno ad Ati addormentato, le divinità de’ fiumi e delle fontane che ballano e cantano, i voli, la trasformazione di Ati in pino, erano cose buone quando non si conosceva il melodramma Metastasiano; esse potevano occupare tutti gli occhi, ma non tutti i cuori.

Iside è la favola della figlia d’Inaco perseguitata da Giunone, e fatta tormentare dall’Erinni d’ogni maniera. Giove intercede per Io, e giura al fine di non amarla più purchè cessi di patire. Giunone caccia allora la furia nell’inferno, ed Io sotto nome d’Iside diventa immortale. Vi si vede il solito uniforme ammasso di personaggi allegorici, e la trasformazione di Siringa in canna, di Jerace in uccello di rapina, d’ Argo in pavone. Pur vi si osserva una bella scena di Jerace ed Io. L’amante si lamenta della di lei freddezza che gli sembra incostanza, la Ninfa si discolpa dicendo di temere un presagio funesto, e Jerace ripiglia:

Répondez-moi de vous, je vous répons des dieux.
Vous juriez autrefois que cette onde rebelle
Se feroit vers sa source une route nouvelle
Plutôt qu’ on ne verroit votre coeur dégagé.
Voyez couler ces flots dans cette vaste plaine,
C’est le même penchant qui toujours les entraîne;
Leurs cours ne change point, & vous avez changé &c.

Questa osservazione è tenera e vera e da preferirsi al pensiero ricercato d’ Ovidio Xante retro propera &c. Il monologo e i lamenti di Jerace sono stati meritamente comendati da Marmontel21.

Nel Fetonte rappresentato nel 1683, nell’Amadigi il cui soggetto fu dato al poeta dallo stesso sovrano nel 1684, e nel Tempio della Pace balletto e nell’Orlando tragedia che si cantarono nel 1685, si ripetono le decorazioni delle altre favole interrotte talvolta da qualche scena interessante.

Ma il capo d’opera del teatro lirico francese si rappresentò nel 1686. L’ Armida tratta dal gran poema di Torquato più felicemente che l’Orlando dal gran poeta Ariosto, fu il melodramma più fortunato di Quinault, in cui egli trionfò come poeta, Lulli come gran maestro di musica, e Rochois come attrice. L’azione si rappresenta ora in Damasco, ora in una campagna con un fiume che forma un’ isola, ora in un deserto oltre l’oceano, o nel palazzo incantato d’Armida. Con Idraotte, Rinaldo, Armida ed altri personaggi reali intervengono gli allegorici l’Odio, la Vendetta, la Rabbia, le Furie, i Demonj, i Piaceri.

Nell’atto I si vede la disposizione dell’animo di Armida contro Rinaldo: l’ applauso ch’ella riscuote per tanti cavalieri cristiani da lei imprigionati: la vendetta che medita contro Rinaldo che gli ha liberati. Nel II Idraotte ed Armida dispongono le loro insidie contro il nemico guerriere. Rinaldo arriva appunto nella campagna ove son tese, ed incantato dalla delizia del luogo si discinge parte dell’arnese. Vaghi ed armoniosi sono i versi che dice:

Plus j’observe ces lieux, & plus je les admire.
Ce fleuve coule lentement,
Et s’éloigne à regret d’un sejour si charmant . . .
Un son harmonieux se mêle aux bruit des eaux;
Les oiseau enchantez se taisent pour l’entendre.

Tutto ciò è detto con leggiadria, ma con poca verità; per un poeta lirico è bello, per un personaggio drammatico è falso. È vero che diletta un fiume che placido e lento irriga i campi, è vero che incanta il mormorio armonioso delle acque: ma non è vero che il fiume con rincrescimento si allontana da quel soggiorno, anzi non è vero che se ne allontana; nè anche è vero che gli augelli tacciono per udire il gorgoglio delle acque. Il drammatico ciò dee sempre mitigare almeno con un sembra. Rinaldo si addormenta e Armida gli si avventa con un dardo ma non ferisce. La sua esitazione è bene espressa; la sua avversione si dissipa; desidera di renderlo suo amante; ordina a’ demonj che la trasportino con Rinaldo au bout de l’univers. Tutto ciò chiama l’attenzione; ma l’atto III è quasi tutto fantastico e miracoloso, e gli osservatori di buona fede confesseranno che il dialogo dell’Odio con Armida è per lo spettatore ciò che è un sogno per chi è sveglio. Se l’apparenza sarà eseguita con qualche grazia, tratterrà l’uditorio senza noja ma senza persuadere nè commuovere: se l’esecuzione sarà debole, si corre rischio di coprir la favola di ridicolo. L’azione già intepidita nel III con gli esseri allegorici, in tutto l’atto IV diviene vieppiù fredda e nojosa per le apparizioni delle donne di Ubaldo e del Danese, ed i Francesi stessi non disconvengono. Nel V si vedono benchè in iscorcio i vaneggiamenti de’ due amanti, la sorpresa di Rinaldo al raffigurare nello scudo incantato la propria mollezza, la sua deliberazione di partire, l’arrivo e gli sforzi d’Armida per trattenerlo, il suo svenimento, la partenza de’ guerrieri, i pianti disperati della maga. Tutto ciò nulla ha di mitologico, ed è quello appunto che commuove ed interessa, e che il Marmontel e chi l’ha seguito in encomiar Quinault, non par che abbiano saputo osservare. A ciò si aggiunga che l’Armida è l’opera meno caricata di machine ed apparenze, e pure riuscì pienamente ad onta dell’atto IV. Sono dunque le machine spettacolo di un momento che non basta ad appagare l’uditorio. É l’ interesse dell’azione, è la verità degli affetti, è la felice combinazione delle situazioni che costituisce la vera bellezza del melodramma.

Dopo l’Armida Quinault rinunziò al teatro, e Lulli ricorse a Campistron, che fece per lui Aci e Galatea rappresentata pochi mesi dopo, e piacque al sommo. L’istesso poeta indi compose Achille e Polissena; ma Lolli infermossi dopo aver fatta la musica dell’atto primo, e l’apertura, e Colasse compose il rimanente. Lulli morì di tal malatia nel 1687 contando 54 anni di età. Quinault gli sopravvisse un solo anno e cessò di vivere d’anni 53 nel 1688.

Vivendo questi due genj insigni nel tempo stesso, parve l’uno nato alla gloria dell’altro. L’eleganza, le grazie dello stile, la facilità dell’ espressione, l’armonia del verso di Quinault, davano ampio campo agli slanci mirabili dell’ingegno e del gusto del musico: la sagacità, la proprietà, la delicatezza, la forza delle note di Lulli, l’arte ch’egli possedea di concertar le parti di una grande orchestra, svegliavano l’ estro, le immagini, l’eloquenza del poeta. Da una banda la storia ci dimostra che Lulli riconosceva la superiorità di Quinault nel verseggiare e nello scerre e disporre i suoi piani22. Dall’altra banda la stessa storia ci addita che Quinault prima di collegarsi con Lulli avea cento volte corso l’aringo teatrale senza potere schermirsi da’ morsi di Boelò. Lulli all’opposto tutto dovendo a se stesso, tutti a suo favore raccolse i voti de’ Francesi, i quali confessano di doverglisi tutta la delicatezza della musica e la maravigliosa proprietà del canto. Lulli operava colle sue note i medesimi prodigj ancor quando non componeva sulle parole di Quinault, il che ben si vide nel mettere in musica tanto il Bellerofonte del Cornelio nel 1679, quanto l’Aci e Galatea del Campistron applaudita sommamente nel 1687 dopo la stessa Armida. Lulli anche prima di ottenere il privilegio del Perrin avea mostrata la rarità de’ suoi talenti ne’ balletti da lui stesso composti ed in quelli di Moliere. Lulli finalmente serviva di scorta alla poesia di Quinault, avendogli mostrato in qual guisa debba il poeta recidere il superfluo e render semplici e facili i proprj soggetti per accomodarli alla scena musicale. Ecco in fatti ciò che narrasi del modo che tenevano Lulli e Quinault nel formare un’ opera23. Scelto che avea il sovrano uno de’ proposti argomenti, il poeta dava a Lulli la copia del piano eletto, perchè in esso andasse disponendo i balli, le canzonette e i divertimenti. Componeva in seguito Quinault le scene, e le mostrava o all’Accademia o a’ suoi amici Boyer, e Perrault24. Dalle mani de’ letterati passavano a quelle del musico, il quale non le ammetteva se non dopo l’esame ch’egli ne faceva parola per parola25, e talora ne risecava la metà, nè contro del suo decreto si concedeva appellazione. Quinault tornava a scrivere la scena criticata cercando di soddisfare al maestro. Lulli allora metteva tale attenzione alle parole che leggendo più volte la scena recatagli la mandava a memoria, la cantava al cembalo e vi faceva un basso continuo. Egli ne riteneva la cantilena senza errarne una nota e venendo poscia l’Alouette o Colasse gli dettava ciò che avea composto, nè il giorno dopo se ne ricordava. Egli copriva le sue cantilene d’istromenti quando non avea ricevuta scena veruna dal poeta. Così concorrevano entrambi questi rari ingegni a stabilire l’opera in Francia. Ma ci si permetta di aggiugnere che Quinault fu rimpiazzato da alcuni scrittori, i quali composero dopo di lui opere francesi di felice riuscita; ma Lulli ugualmente che Moliere non ebbe un degno successore nel teatro lirico che ne compensasse la mancanza26.