(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VII « STORIA CRITICA DE’ TEATRI. LIBRO VII. Teatri Oltramontani del XVII secolo. — CAPO VII. Teatro Lirico Francese, e suoi progressi per mezzo del Lulli, e del Quinault. » pp. 245-266
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VII « STORIA CRITICA DE’ TEATRI. LIBRO VII. Teatri Oltramontani del XVII secolo. — CAPO VII. Teatro Lirico Francese, e suoi progressi per mezzo del Lulli, e del Quinault. » pp. 245-266

CAPO VII.

Teatro Lirico Francese, e suoi progressi per mezzo del Lulli, e del Quinault.

Aveano in Francia nel XVI secolo eccitato il gusto musicale i Concerti del poeta Antonio Baif: e più i balletti di Baltassarino seguiti da quelli del Rinuccini del XVII. Di assai cattivo gusto furono in seguito il balletto delle Fate del 1625, in cui, come dicemmo, ballò Luigi XIII, e la festa della Finta Pazza mentovata da Renaudot, fatta rappresentare nel Picciolo-Borbone nel 1645 dal cardinal Mazzarini. Due anni dopo egli stesso introdusse in corte l’opera italiana chiamando da Firenze alcuni Cantanti che recitarono alla presenza del re l’Orfeo rappresentata in Venezia colla musica del riputato Zarlino. S’imitò poi la magnificenza dell’opera di Venezia nel 1650 coll’Andromada di P. Cornelio. Fu una semplice mascherata in forma di balletto la Cassandra di Benserade eseguita nel 1651 in cui ballò Luigi XIV.

Faceva intanto il Marchese di Surdeac rappresentare a sue spese nel Castello di Neoburgo in Normandia il Toson d’oro; e l’abate Perrin tentava di fare un’ opera francese componendo in cattivi versi una pastorale posta in musica da Cambert cantata la prima volta in Issy nel 1659. L’anno seguente il Mazzarini fe rappresentare nel Louvre l’Ercole amante in italiano che a’ Francesi non piacque. Allora il Perrin vide ravvivarsi le sue speranze di fondare un’ opera musicale francese, e nel 1661 compose l’Arianna ancor più infelicemente verseggiata; ma la morte del Mazzarini deluse ancor questa volta i suoi disegni. Senza scoraggirsi compose la pastorale Pomona, e l’applauso che ne riscosse l’animò a chiedere al sovrano la facoltà di stabilire un’ opera francese, ed ottenutene nel 1669 le lettere patenti si associò con Cambert per la musica, e con Surdeac per le decorazioni, e per otto mesi nel 1671 continuò a cantarsi in Parigi l’opera di Pomona. Col pretesto poi di avere anticipato molto danaro Surdeac s’impossessò della cassa, cacciò via il Perrin, e si valse del parigino Gabriello Gilbert che compose le Pene e i Piaceri d’Amore rappresentata nel 1672 colla musica del Cambert. Questi furono i deboli principii dell’opera francese, che dopo qualche anno per mezzo del fiorentino Giambatista Lulli passato in Francia, e del Quinault, fu portata nata appena all’eccellenza.

Lulli celebre violinista maestro di musica, e poi segretario del re, di cui ebbe in seguito tutto il favore sino alla sua morte, fece tosto sentire la superiorità del suo ingegno, e con alcune arie di balletti composti pel re, e colla musica posta ad alcuni versi di Quinault nella tragedia-balletto di Psychè. Per buona sorte, e gloria della scena musicale francese, Lulli favorito da madama di Montespan ottenne dal Perrin con una summa considerevole la cessione del privilegio, e nel medesimo anno preso per socio il Vigarani macchinista del re diede le Feste di Amore e di Bacco, opera composta di molti balletti. Morto Moliere nel 1673 Lulli ottenne la sala del Palazzo Reale, dove nell’aprile di quell’anno stesso comparve la prima opera del Quinault Cadmo ed Ermione. I Francesi ammirandone la versificazione tanto superiore a quella del Perrin, non avrebbero voluto trovarvi la mescolanza del burlesco introdotta già nella Pomona.

L’anno seguente si rappresentò Alceste, ovvero il Trionfo di Alcide, in cui le scene di Lica e Stratone si appressano non poco al burlesco. La varietà delle decorazioni in diversi luoghi della terra, e dell’inferno unita alla facilità armoniosa dell’espressioni apprestò al genio incomparabile del Lulli tutta l’opportunità di manifestarsi. Egli è vero che un viluppo condotto con tanta libertà riesce assai più facile a tessersi, e a snodarsi che un’ opera istorica incatenata al comodo della musica, e alle leggi del verisimile; ma il sapere scerre e interessare, come fe molte volte Quinault, nell’opera mitologica che non ha freno, merita distinta lode. I di lui contemporanei notarano nell’Alceste più di un difetto. Al loro intendere il poeta francese avea guastato l’argomento greco senza approfittarsi del più bello dell’Alceste di Euripide, ed aggiugnendovi episodii che converrebbero ad ogni favola, e che non hanno un legame necessario col fatto della moglie di Admeto.

Nella tragedia del Teseo cantata nel 1675 è teatrale l’angustia di Egle nella quarta scena dell’atto IV, che per salvar la vita a Teseo promette a Medea di sposare il re, e rinunziare all’amor di Teseo; come ancora nella scena quinta è delicato lo sforzo di Egle stessa per apparire infedele, e far credere a Teseo che più non l’ami.

Ati recitata nel 1676 dee reputarsi una delle favole più interessanti del Quinault. Vi si trova la solita varietà delle decorazioni mitologiche, ma accompagnata da alquanti colori patetici e vigorosi degni del tempo del gran Metastasio. Può servire di esemplo la bella scena sesta dell’atto primo di Sangaride, ed Ati, di cui diamo la traduzione, pregando i leggitori a compiacersi di consultare l’originale:

Ati

Sangaride gentil, de’ giorni tuoi
Il più bel giorno è questo.

Sangaride.

A te del pari
Che a me concesso è il vanto
Di apprestar del gran dì sacro a Cibele
Il festivo apparato.

Ati

È ver, ma a questo
Che dividi con me, l’onor tu accoppi
D’esser d’un gran regnante oggi consorte.
Oh del re rara sorte!
Mai sì vaga e sì lieta io non ti vidi!

Sangaride

Ati però così d’amor nemico
Della sorte del re non fia geloso.

Ati

Lieti vivete; i voti miei son questi;
Così bel nodo io strinsi; i vostri amori
Io secondai, … Ah de’ tuoi dì felici
Questo il più glorioso
Sarà del viver mio l’estremo giorno.

Sangaride

Numi!

Ati

Il funesto arcano
A te sola confido; ho finto assai.
A chi di vita ormai
Non riman che un momento,
Il simular che’ giova il suo tormento?

Sangaride

Io fremo; il mio timor deh rassicura,
Ati, per qual sventura
Morir tu dei?

Ati

Tu stessa
Condannarmi dovrai,
Morir mi lascerai.

Sangaride

Io! per salvarti
Tutto armerò tutto il poter supremo…

Ati

Vano soccorso! a superar me stesso
Mi manca ogni valore:
Per te senza speranza ardo d’amore.

Sangaride

Che? Tu!

Ati

Pur troppo è ver!

Sangaride

M’ami?

Ati

Ti adoro;
Tel dissi già; condannerai tu stessa
Il mio foco il mio ardire,
Mi lascerai morir. Castigo io merto;
Un rival generoso,
Un mio benefattor pur troppo offendo.
Ah ma l’offendo invan, d’amore è degno,
E tu a’ meriti suoi giustizia rendi.
Oimè! questo è dolore!
Confessar che un rival degno è d’amore!
Senza ritegno il mio morir decreta.

Sangaride

Oh Dio!

Ati

Sospiri?… piangi?…
La mia fiamma funesta
Forse qualche pietà nel senti desta?

Sangaride

Ati, la sorte tua di pianto è degna,
E pur tutta non sai la tua sventura.

Ati

Ah se ti perdo, ah se a morir son presso,
Che mi resta a temer?

Sangaride

Perdere è poco
L’oggetto del tuo foco:
Ciò che pianger tu dei
È che mi perdi, e l’idol mio tu sei.

Ati

Io? Ciel che ascolto? M’ami tu, mio bene?

Sangaride

T’amo, e lo stato tuo peggior divienea.

Delicato nell’atto IV è il lamento di Sangaride. Ella volle nel precedente atto manifestare a Cibele l’amore che ha per Ati, e questi l’interruppe perchè non si esponesse al furor della dea svelando l’arcano. Ciò ella attribuisce all’infedeltà di Ati, e dice,

Helas! j’aime un perfide
Qui trahi mon amour;
La Deesse aime Atys; il change en moins d’un jour;
Atys comblè d’honneur n’aime plus Sangaride!

Ati poi dal poter della dea renduto furioso rassomiglia l’Agave degli antichi tragici, e trafigge Sangaride più non conoscendola. La dea crudele gli rende la ragione nell’atto V, ed egli conosce l’eccesso ove ella l’ha spinto,

Quoi! Sangaride est morte! Atys est son bourreau ecc.

e si uccide alla presenza di lei, che pentita si duole di non poter morire, ed Ati allora dice spirando,

Je suis assez vengè, vous m’aimez, et je meurs.

Queste patetiche espressioni tengono svegliato lo spettatore in questa favola, e ne formano la vera bellezza; là dove il lavoro mitologico ne forma una specie di distrazione. Gli Zeffiri in gloria, i sogni piacevoli e i funesti che danzano intorno ad Ati addormentato, le divinità de’ fiumi e delle fontane che ballano e cantano, i voli, le trasformazioni di Ati in pino, erano cose buone, quando non si conosceva il melodramma Metastasiano; esse potevano occupare tutti gli occhi, ma non tutti i cuori.

Iside è la favola della figlia d’Inaco perseguitata da Giunone fatta tormentare dall’Erinni d’ogni maniera. Giove intercede per Io, e giura al fine di più non amarla purchè l’infelice cessi di patire. Giunone caccia allora la furia nell’inferno, ed Io sotto il nome d’Iside diventa immortale. Si osserva in tal favola il solito uniforme ammasso di personaggi allegorici, e la trasformazione di Siringa in canna, di Jerace in uccello di rapina, di Argo in pavone. Pur vi si trova una bella scena di Jerace ed Io. L’amante si lamenta della di lei freddezza che gli sembra incostanza, la ninfa si discolpa dicendo di temere un presagio funesto, e Jerace ripiglia:

Repondez-moi de vous, je vous repons des dieux:

Vous juriez autrefois que cette onde rebelle

Se ferois vers sa source une route nouvelle

Plutôt qu’on ne verroit votre coeur degagè,

Voyez couler ces flots dans cette vaste plaine,

C’est le même penchant qui toujours les entraine;

Leurs cours ne change point, et vous avez changè,

Questa osservazione dell’amante è tenera e vera e da preferirsi al pensiero ricercato di Ovidio, Xante retro propera ec. Il monologo e i lamenti di Jerace sono stati meritamente comendati dal Marmontel. Quest’enciclopedista nell’articolo Opera raccolse i migliori passi del Quinault per dare idea della bellezza del di lui stile e della versificazione in diverse passioni. Ed oltre alla citata scena dell’Iside, mentovò ancora quella dell’atto V dell’Ati Quoi Sangaride est morte ec; il discorso di Plutone nella Proserpina rappresentata nel 1680,

Les efforts d’un gèant qu’on croyoit accablè,

e la disperazione di Cerere, J’ai fait le bien de tous . Nel discorso di Medusa nel Perseo cantata nel 1682 diede l’esempio ancora d’un maschio stile,

Je porte l’èpouvante et la mort en tous lieux.

Nel Fetonte rappresentato nel 1683, nell’Amadigi il cui soggetto fu dato al poeta dallo stesso sovrano nel 1684, e nel Tempio della Pace balletto, e nell’Orlando tragedia, le quali favole si cantarono nel 1685, si ripetono le decorazioni delle altre sue composizioni che vengono interrotte da alcune scene che tirano l’attenzione.

Ma il capo d’opera del teatro lirico francese si rappresentò nel 1686. L’Armida tratta dal gran poema epico di Torquato più felicemente che non fu l’Orlando dal gran poeta Ariosto, fu il melodramma più fortunato del Quinault, in cui egli trionfò come poeta, Lulli come gran maestro di musica, e Rochois come attrice. L’azione si rappresenta ora in Damasco, ora in una campagna con un fiume che forma un’ isola, ora in un deserto, oltre l’oceano, o nel palazzo incantato di Armida. Con Idraotte, Rinaldo, Armida, ed altri personaggi reali intervengono gli allegorici l’Odio, la Vendetta, la Rabbia, le Furie, i Demoni, i Piaceri.

Nell’atto I si vede la disposizione dell’animo di Armida contro Rinaldo: l’applauso che ella riscuote per tanti cavalieri cristiani da lei imprigionati: la vendetta che medita contro Rinaldo che gli ha liberati. Nel II Idraotte ed Armida dispongono le loro insidie contro il guerriero nemico. Rinaldo arriva appunto nella campagna ove son tese, ed incantato della delizia del luogo si discinge parte dell’arnese. Vaghi armoniosi sono i versi che pronuncia:

Plus j’observe ces lieux, et plus je les admire.

Ce fleuve coule lentement,

Et s’eloigne à regret d’un sejour si charmant…

Un son harmonieux se mêle au bruit des eaux;

Les oiseaux enchantez se taisent pour l’entendre.

Tutto ciò è detto con leggiadria, ma con poca verità; per un poeta lirico è bello: per un personaggio drammatico è falso. È vero che diletta un fiume che placido e lento irriga i campi; è vero che incanta il mormorio armonioso delle acque: ma non è vero che il fiume con rincrescimento si allontana da quel soggiorno, anzi non è vero che se ne allontana; nè anche è vero che gli augelli tacciono per udire il gorgoglio delle acque. Il drammatico sagace dee sempre ciò mitigare almeno con un sembra. Rinaldo si addormenta, e Armida gli si avventa con un dardo ma non ferisce. La sua esitazione è bene espressa; la sua avversione si dissipa; desidera di renderlo suo amante; ordina a’ demoni che la trasportino insieme con Rinaldo au bout de l’univers . Tutto ciò chiama l’attenzione. Ma l’atto III è quasi tutto fantastico e miracoloso; e gli osservatori di buona fede confesseranno, che il dialogo dell’Odio con Armida è per lo spettatore ciò che è un sogno per chi è sveglio. Se l’apparenza sarà eseguita con qualche grazia, tratterrà l’uditorio senza noja, ma senza persuadere nè commuovere; se l’esecuzione sarà debole, si corre rischio di coprir l’azione di ridicolo. La favola già per ciò intepidita nell’atto III con gli esseri allegorici, in tutto l’atto IV diviene vie più fredda e nojosa per le apparizioni delle donne care ad Ubaldo, ed al Danese; ed i medesimi Francesi non disconvengono. Nel V si veggono benchè in iscorcio i vaneggiamenti de’ due amanti, la sorpresa di Rinaldo al raffigurare nello scudo incantato la propria mollezza, la deliberazione che egli fa di partire, l’arrivo e gli sforzi di Armida per trattenerlo, il di lei svenimento, la partenza de’ guerrieri, i pianti e la disperazione della maga. Tutto ciò nulla ha di mitologico, ed è quello appunto che commuove ed interessa, e che il Marmontel e chi l’ha seguito in encomiar Quinault, non hanno saputo osservare. Si aggiunga a questo, che l’Armida meno caricata di macchine ed apparenze è pure riuscita pienamente ad onta del freddissimo atto IV. Sono dunque le macchine spettacolo di un momento che non basta ad appagare l’uditorio. È l’ interesse dell’azione, è la verità degli affetti, è la felice combinazione delle situazioni , ciò che costituisce la vera bellezza del melodramma.

Dopo l’Armida rinunziò Quinault al teatro, e Lulli ricorse a Campistron, che compose per lui Aci e Galatea rappresentata pochi mesi dopo, e piacque al sommo. L’istesso poeta scrisse poi Achille e Polissena; ma Lulli infermossi dopo aver fatta la musica dell’atto I, e l’apertura, ed il rimanente si pose in musica da Colasse. Lulli morì di tal malattia nel 1687 contando 54 anni di età. Quinault gli sopravvisse un solo anno, e cessò di vivere di anni 53 nel 1688.

Vivendo questi due genii insigni nel tempo stesso, parve l’uno nato alla gloria dell’altro. L’eleganza, le grazie dello stile, la facilità dell’espressione, l’armonia della versificazione del Quinault, davano ampio campo agli slanci mirabili dell’ingegno e del gusto del musico: la sagacità, la proprietà, la delicatezza, la forza delle note del Lulli, l’arte ch’egli possedeva di concertar le parti di una grande orchestra, svegliavano l’estro, le immagini, l’eloquenza del poeta. Da una banda la storia ci dimostra che Lulli riconosceva la superiorità del Quinault nel verseggiare e nello scerre e disporre i suoi piani. E ciò egli manifestò nel consigliar Tommaso Corneille a regolarsi col Quinault nel tessere il suo Bellerofonte; ed anche nell’inviargli i proprii versi de’ divertissemens perchè a quella misura ed a quel numero altri ne facesse migliori per la sua musica. Dall’altra banda la stessa storia ci addita che Quinault prima di collegarsi con Lulli avea cento volte corso l’aringo teatrale senza potere schermirsi da’ morsi di Boileau. Lulli all’opposto tutto dovendo a se stesso, tutti a suo favore raccolse i voti de’ Francesi, i quali confessano di doverglisi tutta la delicatezza della musica e la meravigliosa proprietà del canto. Lulli operava colle sue note i medesimi prodigi ancor quando non componeva sulle parole di Quinault; e ciò ben si vide nel mettere in musica tanto il Bellerofonte del minor Cornelio nel 1669, quanto l’Aci e Galatea del Campistron applaudita sommamente nel 1687 dopo la stessa Armida. Lulli anche prima di ottenere il privilegio del Perrin aveva mostrata la rarità de’ suoi talenti ne’ balletti da lui stesso composti ed in quelli verseggiati dal Moliere. Lulli finalmente serviva di scorta alla poesia del Quinault, avendogli mostrato in qual guisa debba il poeta recidere il superfluo e render semplici e facili i proprii soggetti per accomodargli alla scena musicale. Ecco in fatti ciò che narrasi del modo che tenevano Lulli e Quinault nel formare un’ operaa. Scelto che aveva il Sovrano uno de’ proposti argomenti, il poeta dava a Lulli la copia del piano eletto, perchè in esso andasse disponendo i balli, le canzonette e i divertimenti. Componeva in seguito il Quinault le scene, e le mostrava o all’Accademia o a i suoi amici Boyer e Perrault b. Dalle mani de’ letterati passavano a quelle del musico, il quale non le ammetteva se non dopo l’esame ch’egli ne faceva parola per parolaa, e talora ne risecava la mettà, nè contro del suo decreto si concedeva appellazione. Il poeta tornava a scrivere la scena criticata cercando di soddisfare al maestro. Lulli allora metteva tale attenzione alle parole che leggendo più volte la scena recatagli la mandava a memoria, la cantava a l’cembalo e vi metteva un basso continuo. Egli ne riteneva la cantilena senza errarne una nota, e venendo poscia l’Alouette o Colasse gli dettava ciò che avea composto, nè il giorno dopo se ne ricordava. Egli copriva le sue cantilene di stromenti quando non aveva ricevuta scena veruna dal poeta. Così concorrevano entrambi questi rari ingegni a stabilire l’opera in Francia. Ma ci si permetta di aggiugnere che Quinault fu rimpiazzato da alcuni scrittori, i quali composero dopo di lui opere francesi di felice riuscita; ma Lulli (ugualmente che Moliere) non ebbe un degno successore nel teatro lirico che ne compensasse la mancanza. Narrasi di questo eccellente musico che aspirò alla piazza di segretario del re e l’ottenne in questa guisa. Ripetendosi a San-Germano nel 1681 le Bourgeois-Gentilhomme, di cui Lulli avea composta la musica, rappresentò egli stesso a meraviglia il personaggio del Muftì, di che il re lo lodò grandemente. Lulli presa quell’occasione ripigliò: "Ma Sire, io aveva disegno di essere nel numero de’ vostri segretarii, ed ora essi non mi vorranno ammettere fra loro". Non vi vorranno ammettere (disse il re)? Essi se ne terranno onorati: andate dal cancelliere". Egli subito divenne segretario del re. La vostra (gli disse m. de Louvois) è stata una temerità; voi alfine altro merito non avete che di aver fatto ridere il re. He têtebleu! (ripigliò gajamente e con coraggio Lulli) vous en feriez autant, si vous le pouviez.