Del teatro
[6.1] Fin qui delle varie parti che forman l’opera, le quali hanno tutte non picciolo bisogno di correzione e di riforma. La voglia di gradir più oltre che non converrebbe, fu la cagion principale che usci ciascuna de’ termini suoi. Con che si venne a guastare una composizione, la cui bellezza dovea risultare da un giusto temperamento di tutte, l’una insieme con l’altra. [Dalla cagione medesima pur nacque che, essendo occorso in questi ultimi tempi di dover construire alcun nuovo teatro, volesse l’architettura, quasi non badando all’uso ed al fine, far pompa delle sfoggiatezze dell’arte sua. Onde la fabbrica potè riuscir bella agli occhi di alcuni, ma né buona né bella per chi dritto estima. E perché in tale occasione molte e varie cose furono disputate intorno alla materia di che convenga fabbricare il teatro, intorno alla grandezza e figura di che ha da essere, intorno alla disposizione dei palchetti e ornato loro, non sarà fuori del presente argomento toccare anche di simili particolari alcuna cosa; acciocchè se, per quanto era in noi, si è dichiarata la vera forma dell’opera in musica, si venga a dichiarare eziandio la più accomodata forma del luogo ove si ha da vedere et udire.
[6.2] E primieramente, per quanto si spetta alla materia, non si potranno se non moltissimo commendare coloro i quali murano i teatri in maniera che i corridori e le scale sieno di mattoni o di pietra. Oltre che la fabbrica in tal modo è perpetua, ella viene ad esser più difesa dagl’incendi, a che vanno forse più di ogni altro edifizio soggetti i teatri. Così però che non si vorrebbe che, o per la maggiore perpetuità della fabbrica o per una certa male intesa magnificenza, altri avvisasse di fare di pietra anche i palchetti e tutte quelle interne parti che guardano l’imboccatura della scena. Poiché, così adoperando, si andrebbe contro a un fine principalissimo a cui nel porre il teatro si dee aver l’occhio dall’architetto; e ciò è ch’esso riesca sonoro e tale, che le voci de’ cantanti vi spicchino il più che è possibile, e sieno a un tempo melodiose e grate a chi ode. Dimostra giornalmente l’esperienza che in una stanza ove nudi sieno i muri, ne sono assai poco ripercosse le voci e riescon crude all’orecchio; le spengono gli arazzi di cui una stanza sia rivestita; ma dove ella sia foderata di asse, le voci mollemente rimbombano, e giungon piene all’orecchio e soavi. Dal che ben pare che l’esperienza ne insegni qualmente, per l’interior del teatro, a prescegliere si abbia il legno; quella materia cioè di che fannosi appunto gli strumenti da musica, siccome quella che è più atta di ogni altra, quando percossa dal suono, a concepir quella maniera di vibrazioni che meglio si confanno cogli organi dell’udito. In effetto mettevano gli antichi ne’ loro teatri i vasi di bronzo, affine di aumentar la voce degli attori, quando essi teatri erano di materia dura, di pietra, di cementi o di marmo, che sono cose che non possono risuonare; laddove di tale artifizio non abbisognavano in quelli che erano fatti di legno, il quale forza è, come dice espressamente Vitruvio 57, che renda suono. E con ciò quello antico maestro viene quasi di rimbalzo ad insegnare a’ moderni di che materia e’ debban fare i loro teatri. Nel che è necessario avvertire che il legname da mettersi in opera sia bene stagionato, e lo sia tutto egualmente. Così le vibrazioni non verranno ad accavallarsi l’una con l’altra, e più regolarmente ripercuoterà le onde sonore quel legno che in ogni sua parte verrà a vibrare d’un modo.
[6.3] Stimano i più che molto faccia alla bellezza del teatro la vastità sua. E certo li magni edifizi hanno di che sorprendere insieme e dilettar l’uomo; se non che anche quivi, come ogni altra cosa, è da osservarsi una certa regola e misura. La grandezza del foro, dice ancora Vitruvio, si dee fare proporzionata alla quantità del popolo, acciocchè o non riesca la capacità di esso ristretta riguardo al bisogno, o pure per la scarsezza del popolo il foro non paia disabitato e solitario58. Senza parlare adunque quanto disdirebbe a una picciola terra un teatro grande, è da considerare che ciò che determina la lunghezza della platea e, per conseguente, la grandezza del teatro è la portata della voce, e non altro. Che troppo avrebbe del ridicolo che altri facesse un teatro così grande, che non vi si potesse comodamente udire; come sarebbe ridicolo che così grandi si facessero le opere di una fortezza da non le potere dipoi difendere. Il che avverrà ogni qual volta che non si ragguagli al tiro della moschetteria la linea di difesa, ovveramente la lunghezza della cortina, che è come il modulo delle altre parti della fortificazione. Assai più spaziosi dei nostri esser potevano i teatri degli antichi. Perché, oltre ai vasi di bronzo che rinforzavano le voci, le bocche delle maschere che usavano i loro attori, erano quasi una foggia di tromba parlante; e cosi veniva la natural portata della voce ad accrescersi di assai. Dove a noi, che siam privi di tali aiuti, ne convien stare dentro a più ristretti termini; se già non si voglia alzar la voce a guisa di banditore ed isforzarla; che tanto è a dire se travisare non si voglia ogni verità nella rappresentazione.
[6.4] Ma perché gli uomini vanno generalmente presi a ciò che ha del grande e del magnifico, hanno pensato a un modo di avere il teatro oltre misura grande e a potervi, ciò non ostante, comodamente udire. Il modo è questo. Il palco scenario, sopra cui stanno gli attori, fanno ch’ei sporga per molti piedi all’infuori nella platea. Con che, ponendo gli attori quasi nel bel mezzo dell’udienza, non è pericolo non sieno a maraviglia uditi da ognuno. Ma un tal modo non può se non quelli contentare che sono di troppo facile contentatura. E chi non vede che è un metter sossopra ogni buon ordine, ogni regola? Gli attori hanno necessariamente da starsi al di là della imboccatura del teatro, dentro alle scene, lungi dall’occhio dello spettatore; e hanno da far parte anch’essi del dolce inganno a cui nelle sceniche rappresentazioni ordinato è ogni cosa. Ed ecco che si contravviene dirittamente all’intendimento della rappresentazione e se ne toglie via l’effetto, distaccando gli attori dal rimanente della decorazione e trasportandogli di tra le scene nel bel mezzo della platea. La qual cosa non può farsi, ch’e’ non mostrino il fianco e non voltino anche le spalle a buona parte dell’udienza, e non seguano tali altri inconvenienti, che ciò che si era preso per un compenso diviene una sconciatura grandissima.
[6.5] A far sì che in un teatro, per grande ch’ei fosse, vi si potesse, ciò non ostante, comodamente udire, hanno ancora avvisato taluni che molto vi facesse la figura interna di esso teatro. Per isciogliere un tal problema sonosi di molto lambiccati il cervello. Ma senza dare gran travaglio alla geometria hanno finalmente prescelto fra tutte le figure quella della campana, che piace loro di chiamar fonica. La bocca della campana risponde alla imboccatura della scena; e il palchetto di mezzo viene ad esser posto colà donde nella campana è sospeso il battaglio. Quale sia il fondamento di cosi raffinata invenzione, è facile a vedersi: la similitudine cioè, o l’analogia, che immaginarono doversi trovare tra il suono reso dalla campana e la figura della campana che il rende. Ma egli è anche facile a conoscere quale sia di tal fondamento la saldezza. La figura concava della campana con quelle sue labbra che mettono all’infuori, è attissima a spandere per ogni verso il suono del battaglio che batte in su quelle labbra medesime. E sospesa ch’ella sia d’alto, mette facilmente in agitazione il mare d’aria che le è d’intorno. Ma che per ciò? Dovrà la voce del cantore, posto quasi nella bocca della campana del teatro, fare gli stessi effetti nelle interne parti di essa? Ciò potrebbe per avventura trovar fede presso a coloro che credevano dover correre di gran pericoli in acqua chi era nato sotto il segno dell’Acquario, che prescrivevano a’ tisici il giulebbo del polmone di questo o quello animale, alle partorienti la rosa di Gerico, e tenevano simili altre illazioni per figliuole legittime dell’analogia, quando dal sillogizzare scolastico travisata era del tutto la faccia della filosofia. Oltre di che non poche sono le disconvenienze che risultano dalla figura della campana: il venirsi a ristrignere con essa lo spazio della platea e il far perdere a parecchi palchetti la veduta di tutta la scena, e alcune altre che qui riferire non giova. Che se per avventura si domandasse quale sia la più conveniente figura per l’interior del teatro, quale sia la curva la più acconcia di tutte a disporvi i palchetti, risponderemo: la stessa che usavano gli antichi a disporre nel loro teatro i gradini, cioè il semicerchio. Di tutte le figure di un perimetro eguale il cerchio contiene dentro a sé il più di spazio. Gli spettatori posti nella circonferenza del semicerchio sono tutti rivolti alla scena di un modo, la veggon tutta; ed essendo tutti dal mezzo equidistanti, tutti odono e vedono egualmente. Tanto è vero che nelle arti, dopo i primi lunghi rigiri, tornar conviene a ciò che vi ha di più semplice. Un solo inconveniente ha il semicerchio adattato a’ moderni teatri; ed è che, per la costruzione del nostro palco scenario, differentissima da quella degli antichi, troppo grande viene a riuscire la imboccatura o la luce di essa scena. Al che pronto per altro e facilissimo è il riparo. Basta cangiare il semicerchio in una semielissi, che ne ha appresso a poco tutti i vantaggi, il cui asse minore serva per la luce del palco e il maggiore per la lunghezza della platea.
[6.6] Molto acconcia altresì per la miglior disposizione dei palchetti è una invenzione di Andrea Sighizzi, scolare del Brizio e del Dentone e predecessore dei Bibbiena, che l’hanno più volte dipoi posta in opera anch’essi. E sta in questo, che i palchetti, secondo che dalla scena camminano verso il fondo del teatro, vadano sempre salendo di qualche once l’uno sopra l’altro, e similmente vadano di qualche once sempre più sporgendo all’infuori. In tal guisa meglio si affaccia ogni palchetto alla scena; e l’uno non impedisce punto la vista dell’altro; massimamente se traforato sia l’assito che gli divide, a modo di rastrello o di stia: come praticato vedesi nel teatro Formagliari di Bologna, che fu dal Sighizzi ordinato in tal forma.
[6.7] Disposti nel miglior modo i palchetti, hannosi da schivare, per il miglior effetto delle voci, quelli ornamenti che troppo rilevano ed hanno del centinato e del sinuoso; rompe quivi la voce, ne è irregolarmente ribattuta, si disperde. Vuolsi ancora dall’interno del teatro sbandire quella maniera di ornati, tanto alla moda in Italia, che rappresentano ordini di architettura; pedanteria, che abbiamo redata dal secolo del Cinquecento, in cui né scrivania facevasi, né armadio senza porre in opera tutti gli ordini del Coliseo. Non è questo il luogo per una così fatta decorazione. I pilastri e le colonne adattate ai palchetti, alle quali però pochissimi piedi si può dare di altezza, riescono meschine, tornano, a dir così, pigmee, di quel grandioso troppo perdendo e di quella dignità che loro si conviene. E il sopraornato, quand’anche si facessero le cornici architravate, è troppo più alto che non comporta la grossezza del semplice palco, che ha da dividere l’un ordine di palchetti e l’altro. Né qui ristà la cosa. Avendosi, secondo le leggi architettoniche, a dare agli ordini di sopra più di sveltezza che a quelli da basso, vengono i palchetti ad avere differenti altezze. E allora, o tu fai dell’interno del tuo teatro un settizonio o una torre, e senza un bisogno al mondo allontani di troppo gli spettatori degli ordini superiori dal punto di veduta che si prende nel palchetto di mezzo del primo ordine, ovvero pochissimi torneranno gli ordini dei palchetti, e perdi inutilmente dello spazio. L’architettura che, ad ornare come si conviene l’interno del teatro, si ha da pigliare per modello, è una maniera di grottesco, come se ne vede nelle antiche pitture, ed anche una maniera di gotico il quale ha col grottesco un’assai stretta parentela; se già da una tal voce non verranno ad esser offesi gli orecchi moderni. Voglio dire che gracilissimi deggiono farsi i fulcri dei palchetti, che avendo a sostenere un picciolissimo peso, quasi niente avranno da durar di fatica; strettissimi deggiono similmente farsi gli sopraornati, o per meglio dire le fasce che dividono l’un ordine di palchetti dall’altro, e saranno composte di membretti leggieri e di somma delicatezza. E di fatto, se in niuna fabbrica poco ci ha da avere del massiccio e del solido, se l’architettura all’incontro ha da esser quasi tutta permeabile, quella dello interno del teatro è pur dessa. Niente vi ha da impedire la veduta; niun luogo, per picciolo ch’e’ sia, ci ha da rimanere perduto; e gli spettatori debbono far parte anch’essi dello spettacolo ed essere in vista, come i libri negli scaffali di una biblioteca, come le gemme ne’ castoni del gioiello. E per questo particolare, singolarmente mirabile è il teatro di Fano disegnato da Iacopo Torelli, il quale, dopo avere nella trascorsa età passato molti anni a’ servigi di Francia, ne volle nobilitare la patria sua. La congegnazione e l’ornato dei palchetti fornirà all’architetto, non meno che il restante dello edifizio, materia da mostrare l’ingegno e la discrezion sua. E non meno sarà egli lodevole, se nello interior del teatro saprà ristrignersi a una gentile e ben intesa intagliatura di legname, quanto se ne saprà arricchire l’esterno con di bei loggiati di pietra, con iscalinate e con nicchie, con quanto ha di più sontuoso e magnifico l’architettura. Secondo una tale idea sono due disegni che m’è avvenuto di vedere in Italia, ne’ quali, non ostante che nulla manchi di quanto richiedono le moderne rappresentazioni, la maestà si conserva dell’antico teatro dei Greci. L’uno è del Sig. Tommaso Temanza, uomo raro, che ne’ suoi scritti dà novella vita al Sansovino e al Palladio; l’altro del Sig. Conte Girolamo Dal Pozzo, che colle sue opere rinfresca in Verona sua patria la memoria del Sanmichele. E non lungi dalla medesima idea è il teatro che fu, non sono ancora molti anni, consecrato in Berlino ad Apollo e alle Muse; ed è uno dei primari ornamenti di quella città regina.