(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VI « LIBRO VI. Storia drammatica del secolo XVII. — CAPO II. Pastorali Italiane del XVII secolo. » pp. 274-291
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(1813) Storia critica dei teatri antichi e moderni divisa in dieci tomi (3e éd.). Tome VI « LIBRO VI. Storia drammatica del secolo XVII. — CAPO II. Pastorali Italiane del XVII secolo. » pp. 274-291

CAPO II.

Pastorali Italiane del XVII secolo.

Le pastorali uscite ne’ primi anni del secolo si avvicinano alle precedenti tanto ne’ pregi di semplicità e regolarità di azione di eleganza e di purezza di elocuzione, quanto in qualche difetto di languidezza e di stile dì soverchio lirico ed ornato. Non è però che non se ne fossero prodotte alcune degne di mentovarsi fralle buone. Se non giunse veruna a pareggiar l’Aminta ( cui niuna de’ due secoli può tener dietro ) o a superare il Pastor fido; almeno per consenso de i dotti frutto pregevole del secolo XVII fu la Filli di Sciro che occupa il terzo luogo onorevole.

Prima però dí essa sí produssero il Sogno e la Pastorella Regia di Giambatista Guicciardi impresse nel primo e secondo anno di esso; la Dichiorgia, ovvero sia contrasto dell’amore e dello sdegno dell’aquilano Pompeo Interverio pubblicata in Vicenza nel 1604; il Rapimento di Corilla di Francesco Vinta uscita nel 1605; il Filarmindo del conte Ridolfo Campeggi.

Alessandro Calderoni diede alla luce l’Esiglio amoroso nell’anno 1607, in cui gli accademici Intrepidi fecero imprimere in Ferrara la mentovata Filli di Sciro dedicandola al VI duca di Urbino Francesco Maria Feltrio della Rovere. L’autore Guidubaldo de’ Bonarelli (fratello dell’autore del Solimano) morì d’anni quarantacinque l’anno stesso in cui i lodati Accademici la fecero solennemente rappresentare in Ferrara con un prologo della Notte composto dal cavalier Marini. Un’altra rappresentazione se ne fece in Sassuolo con prologo del conte Fulvio Testi. Ne uscirono per L’Italia ed oltramonti molte edizioni e traduzioni francesi, ed inglesi. Le opere che riscuotono gli applausi dell’Europa e degli uomini di gusto e di buon senno, eccitano alle censure la vanità e l’invidia. Chi morde, chi impallidisce all’udirle lodare, chi si scaglia in pubblico o in segreto contro di esse; ma queste superiori alle bassezze della timida malignità e dell’arrogante ignoranza poggiano in alto e s’incamminano all’immortalità. Si censurò vivamente la Filli, ma le censure sparvero, e la Filli gode una lunga fama ad onta di alquanti difetti dello stile e della moda già passata delle Pastorali. Forse la critica più sobria attaccò il doppio amore di Celia per la rarità del caso, poco atto essendo un possibile raro o troppo metafisico a persuadere e chiamare l’attenzione. Lo spettatore ad ogni finta particolarità corre di volo col pensiero sulle cose reali, e non trovandovi l’originale dell’immagine enunciata, rimane alla prima sospeso, incerto, non persuaso; e se avviene che a misura che l’azione avanza, vada crescendo la distanza del finto dal vero, passa alla indifferenza, indi alla noja e talora al disprezzo. Anche circa lo stile la giusta critica non è sempre contenta della Filli, perchè oltre al raffinamento, diciam così, originario delle pastorali, si veggono in essa molti falsi brillanti ed alquante metafore ardite alla maniera Marinesca e Lopense.

Non pertanto il Bonarelli compensa con varie bellezze sì la scelta di quel possibile straordinario che i difetti dello stile, e tali bellezze la preserveranno dalla totale dimenticanza. Le curiose avventure di Filli e Tirsi educati fra’ Turchi allontanano dalla favola il languore che suole accompagnare la maggior parte delle pastorali ripiene di fredde uniformi elegie senz’anima e senza sangue. Vuolsi però notare che gli accidenti di Celia tirano verso di lei l’interesse della favola più di quello che vien concesso ad un episodio. Il lettore s’interessa per essa sin dalla scena terza dell’atto I, quando la finta Clori gentilmente si lagna della freddezza di lei:

Sdegni ch’io ti riveggia?
Deh che nuovi portenti?
Sul mio primo apparire alle tue case
Tu mi accogliesti appena
Con un cotal sorriso,
A cui non rispondea per gli occhi il core.
Poscia nell’abbracciarmi
Colle braccia cadenti
Non mi stringesti al seno, e dall’estreme
Delle gelate labbra
Parve cader, non iscoccare, il bacio.
Indi con fioca voce
Non so se pur dicesti,
Ben venga Clori.
Io non ti udii già dir come solevi,
Cloride vita mia.
Poi ti se’ data a gir d’intorno errando
Torbida e lagrimosa.
Io ti seguo, e tu fuggi:
Io ti parlo, e tu taci:
Io ti miro, e tu piangi:
Sì m’odii forse? o ingrata ecc.

A queste delicate espressioni sugerite da una grande intelligenza del cuore umano, Celia è spinta a palesare le proprie avventure col Centauro e co’ due pastori; e de’ suoi strani amori e del veleno da lei preso si riempie la maggior parte de’ primi quattro atti. I suoi casi chiamano l’attenzione in modo che non pajono accessorii. Pure in una parte del IV e nel V intero torna l’interesse ad essere tutto per Filli. Sin dal principio dell’atto II desta curiosità il ben colorito amor fanciullesco di costei e del suo Tirsi in Tracia, e nel racconto che se ne fa, niun belletto, niuna arditezza di figure si scorge, ma bensì una verità di espressione che diletta e invita a leggere. Un gran movimento riceve l’azione principale dalla riconoscenza di Tirsi, e ne aumenta la vivacità, il trasporto di Filli nel trovarlo infedele per le di lui medesimo parole. Il disperato dolore della Ninfa si spiega nella prima scena dell’atto IV con energia e felicità senza veruna affettazione di stile. Ella così conchiude:

Per me non v’è conforto
Per te non v’è tormento,
Che qual tu pur ti se’ perfido e crudo,
E forza, oimè! ch’io t’ami;
Io t’amo, e se per altro
Non t’è caro il mio amor, caro ti sia
Perchè il mio amor sarà la morte mia.
O Tirsi, o Tirsi ingrato,
Filli che per te nacque,
Filli che per te visse,
Filli per te si muore.

I due segni d’oro mandati da Filli ridotta all’estremo al suo Tirsi infedele, perturbano sommamente l’azione, che viene nobilitata nel V atto col pericolo della vita di Tirsi, il quale avendo gettati via que’ cerchi dov’era l’immagine del Sultano, per una legge è divenuto reo di morte. Egli per disperazione nella quinta scena si accusa del fatto, e Filli per salvarlo se ne accusa ancora, rinovando così L’affettuosa contesa di Olinto e Sofronia. Lo scioglimento avviene senza violenza per la volontà del Sultano spiegata in note egizie in quel cerchio medesimo che ha servito alla riconoscenza di Tirsi e Filli. In conseguenza ne avvengono le nozze di questi amanti e quelle di Celia con Aminta, e la felicità di Scio liberata dal tributo crudele solito a riscuotersi da’ Traci.

Leggonsi nelle opere del Chiabrera tre pastorali, la Meganira, la Gelopea, l’Alcippo meritevoli dell’attenzione degl’intelligenti imparziali. Appartiene la prima al secondo lustro del secolo, ed in essa, oltre all’esser piaciuto all’autore di rimare con frequenza, non si vede il calore richiesto nelle sceniche poesie; ma ben si nota la semplicità dell’azione condotta coll’usata regolarità italica ed espressa colla grazia naturale di questo leggiadro poeta. Invita a leggere l’episodio di Jante ed Alcasto dell’atto I, in cui si spiega l’origine della festa di Arcadia: curioso è quello dell’atto III degli amori di Logisto colla Maga che gli donò l’arco incantato: patetico l’equivoco preso da Alcippo nel IV atto, pensando di aver trafitta la sua Meganira nel provar l’arco.

La Gelopea scritta in versi endecasillabi e settenarii liberi s’impresse in Venezia nel 1607, e colle opere dell’autore nel 1610. Si vede in questa più artificio nel piano, viluppo più teatrale, caratteri più varii, passioni più vivaci, locuzione ricca di molte grazie naturali e conveniente alle persone imitate. L’azione che si finge accaduta nel Premontorio luogo amenissimo del borgo di San Pietro di Arena nella Riviera di Genova, si aggira sull’amore di un pastorello per Gelopea turbato dalla gelosia per una menzogna, serenato dal disinganno, e felicitato dal possesso della pastorella amata. Vaga nell’atto I è la descrizione fatta dall’innamorato Filebo delle bellezze di Gelopea, e de i di lei graziosi trastulli col merlo imitati da quelli vaghissimi col passero di Catullo. Si macchina nell’atto II a danni de’ due amanti per separargli suscitando in ciascuno torbidi sospetti di gelosia. Ad Alcanta si assegna la cura di tirar Gelopea al fenile di Alfeo per accertarsi che Filebo dee trovarvisi con altra ninfa. Nerino malvagio povero e ad un bisogno bacchettone, sveglia in Filebo lo stesso sospetto sulla fede di Gelopea, e l’invita a scorgerne l’infedeltà nel medesimo fenile. Pregevole nell’atto III è la scena in cui Telaira sorella di Filebo vuol renderlo avveduto della inverisimiglianza del racconto fattoli da Nerino. Il loro dialogo è così acconcio che il lettore rimane pago d’ogni proposta e considera che posto egli nelle medesime circostanze non avrebbe altramente detto o replicato; ciò che forma il carattere dell’ottimo dialogo. Telaira stessa parla con Gelopea nell’atto V, e si scioglie l’equivoco, conoscendo gli amanti che l’uno non era andato al fenile di Alfeo se non in traccia dell’altro. Comprendono di essere stati aggirati, ricuperano la tranquillità, e si confermano nel proposito di sposarsi come il padre di Gelopea condiscenda alle nozze. É ben leggiadra questa poesia; e non so altra pastorale di oltramonti che potesse senza manifesto svantaggio sostenere il confronto della Gelopea.

L’Alcippo impressa in Venezia nel 1615 gareggia per la semplicità colle stesse greche favole, e pure impegna a meraviglia chi legge ed ascolta. Alcippo per amore di Clori si trasforma in ninfa, e col nome di Megilla se la rende amica se non amante con quello di Alcippo. Una legge condanna a morire sommerso nell’Erimanto chiunque ardisca insidiare l’onestà di quelle rigide seguaci di Diana; ed Alcippo scoperto dee soggiacere a questa pena. Tirsi il giudice più zelante per l’osservanza della legge, si scopre esser e il padre di Alcippo ignoto a se stesso. Montano obbliga Alcippo a parlare in sua difesa; egli con candidezza manifesta l’innocente suo disegno di acquistar la benevolenza di lei per poi scoprirsi ed ottenerla in consorte. Commuove il suo semplice appassionato racconto; tutti intercedono per lui, ed ottiene il perdono e la sua bella Clori. I caratteri sono ben sostenuti, e quello singolarmente della finta Megilla ha una nobiltà che incanta. Tutto poi nella favola è vero, tenero, patetico, e senza languidezza veruna. Sei pur bella, o natura, quando i pedanti non ti rassettano!

Altre pastorali potrebbero mentovarsi, nelle quali non si vede tutta la corruzione del secolo, se voglia mirarsene con indulgenza qualche languidezza ed ornamento lirico. Tra esse può registrarsi la Finta Fiammetta uscita nel 1610 composta da Francesco Contarini che un’altra ne avea prodotta nel 1595. Una Nuova Amarilli pubblicò il Gambaruti mentovata dal Ghilini.. Ogni lode riscuote la Tancia graziosa e semplice commedia rusticale di Michelangelo Buonarroti il giovane pubblicata ne’ primi lustri del secolo anche per gl’intermedii accomodati all’argomento villesco. Questi equivaler possono ai cori Aristofaneschi, ed erano formati da uccellatori, mietitori. e pescatori. Giulio Cesare Cortese compose nel dialetto napoletano la Rosa favola boschereccia pubblicata nel 1621. Viene questa favola mentovata dal Fontanini, ed esaltata da Gian Vincenzo Gravina nel libro secondo della Ragion Poetica. Se ne fecero quattro edizioni sino al 1648, e comparve in Napoli nel 1666 nell’edizione quinta di Napoli con tutte le altre opere del Cortese. De’ suoi pregi e di qualche difetto dello stile può vedersi il V volume delle nostre Vicende della Coltura delle Sicilie. Filippo Finella anche in Napoli produsse nel 1625 e nel 1628 la Penelopea tragicommedia pastorale, e nel 1626 la Cintia. Domenico Basile fece una traduzione napoletana del Pastor fido impressa nel 1628. Nel medesimo anno si pubblicò la boschereccia detta marittima intitolata Dardo fatale da Giambatista Braganzano, il quale diede alla luce nel 1630 il Vendicato Sdegno favola pescatoria, e nel 1637 le Varie fortune boschereccia. Tre altre pescatorie di questo secolo furono l’Aci di Scipione Manzano impressa in Venezia nel 1600, l’Amaranta del Villifranchi del 1610, e la Dori d’Isabella Coreglia lucchese stampata in Napoli nel 1634. Il messinese Scipione Errico compose una pastorale graziosa l’Armonia d’Amore impressa due volte in Messina e la terza in Roma nel 1655. La rende pregevole l’ingegnosa semplicità dello stile senza arditezze, e l’ameno soggetto di una festa cinquennale, in cui si gareggia col canto per acquistare una bella Ninfa. Io non conosco pastorale veruna de’ secoli XVI e XVII che più di questa abbia acconciamente dato luogo a diversi squarci musicali, ed a tante arie e strofe anacreontiche non cantate soltanto dal Coro in fine degli atti, ma in mezzo di essi da’ personaggi e soprattutto nell’atto V.

Si registrano nel Catalogo della Biblioteca Imperiali due pastorali di un caprajo improvvisatore, il Siringo favola cacciatoria impressa in Siena nel 1636, ed il Negoziante uscita in Venezia nel 1660. Giandomenico Peri ne fu l’autore, il quale nacque in Arcidosso nelle montagne Sanesi. I parenti non del tutto sforniti di comodi l’aveano inviato a scuola; ma egli spaventato dalla villana sevizia del suo pedagogo lasciò la casa paterna, e si fuggì nelle selve a menar vita campestre, ed in esse senza studio pervenne a poetare ed improvvisare ancora. Non ebbe il Peri altro maestro che il proprio genio e l’udito affinato dalla lettura che nel campo un altro caprajo faceva del Furioso e della Gerusalemme. Forza de’ grandi modelli! Pur troppo è vero: hinc pectore numen concipiunt vates. L’amore della poetica armonia che bevve il Peri in sì bei fonti, gl’ispirò l’ardente desio di verseggiare, e compose alcuni poemi e le riferite pastorali, nelle quali egli stesso rappresentava in compagnia di altri caprai. Soleva far la parte di zappatore, e si contraffaceva di tal modo che non poteva mirarsi nè udirsi senza riso. Il teatro era naturale senza veruno artificio in un luogo poco lontano dal casale in un castagneto opportuno alla rappresentazione. La di lui fama pervenne al gran duca, in presenza del quale lesse il poema intitolato la Fesuleide, e ne ottenne una pensionea.

Tre altre pastorali di tal tempo appartengono a due Gonzaghi, e rimangono tuttavia inedite, e le possedeva l’erudissimo Ireneo Affò presso di cui le vidi. La prima intitolata Fontana vitale e mortale è di Andrea Gonzaga, da cui nacque Vincenzo conte di San Paolo in Puglia, che gli succedette nel ducato di Guastalla; ma tal componimento, per avviso del lodato religioso e mio, è poco degno di trattenerci. Le altre due sono di Cesare Gonzaga II principe di Molfetta morto nel 1632 in Vienna di età ancor fresca. L’una s’intitola Procri che dal canonico Negri guastallese si pose per appendice alla sua Istoria di Guastalla. Stimò il Negri che la Procri fosse parto di Ferrante Gonzaga; ma da’ registri delle lettere dell’Archivio segreto di Guastalla si rileva che si compose da Cesare. Scrivendo egli a Persio Caracci poi vescovo di Larino a’ 25 di marzo 1627, la chiama la mia povera Procri, e così ne parla a’ 15 di aprile a monsignor Ciampoli. A’ 2 di settembre scrisse a monsignor Zucconi a Vienna di aver composto questa favoletta da recitare in musica nel passaggio della regina di Ungheria per Mantua a. Cesare stesso compose la Piaga felice favola nei boschi divisa in cinque atti. Egli che ebbe la scuola del padre, non peccò nello stile, fu dolce facile piano, guardandosi dall’ampollosità e dalle arditezze delle metafore.

Inedita conservasi parimente nella biblioteca dell’Università di Torino l’Alvida pastorale del conte Ludovico San Martino d’ Agliè, cui par che avesse fornito l’argomento e il piano lo stesso duca di Savoja Carlo Emmanuele I a cui si dedicòa.