Andreini Isabella. Figlia di Paolo Canali, (?) veneziano, nata a Padova nel 1562 e a buoni studi educata, divenne sposa nel 1578 di Francesco Andreini. Non abbiamo notizia alcuna della sua vita prima delle nozze : è certo però che appena sposa, ella, a sedici anni, entrò di punto in bianco nella riforma della Compagnia de’Gelosi, venuta a Firenze di Francia, in qualità di prima donna innamorata, diventando in poco tempo la più celebre attrice d’Italia. La Compagnia era quella stessa della quale parla il marito Francesco (V.) « tale che pose termine alla drammatica arte, oltre del quale non può varcare niuna moderna compagnia di comici. » Della recitazione d’allora possiamo farci un’idea, leggendo il dialogo del De Somi, che è alla fine di quest’articolo : comunque sia, a me non par punto esagerata, come parve all’Adolfo Bartoli (op. cit.), quella fama dalla quale fu celebrata in questa medaglia che le conjarono in Lione, specialmente se ci facciamo a ripensare gli altissimi onori ch’ella ebbe di ritratti, di rime, di famigliarità di sovrani. Fu – dice Nicolò Barbieri nel Capo VII della sua Supplica (Venezia, Ginammi, 1634) – nella famosa Accademia dei Signori Intenti accettata e laurcata (ebbe il nome di Accesa), e ad una gara poetica, alla quale prendevan parte le celebrità del tempo, in casa Aldobrandini, riuscì prima dopo Torquato Tasso ; e fu coronata d’alloro in effigie tra ’l Tasso e ’l Petrarca (V. F. Bartoli).

Il Garzoni (Piazza Universale, Venezia, Somasco, m.d.xcv,
pag. 737) dice di lei : « La gratiosa Isabella, decoro delle scene,
ornamento de’ theatri, spettacolo superbo non meno di virtù che di bellezza, ha
illustrato ancora lei questa professione, in modo, che mentre il mondo durerà,
mentre staranno i secoli, mentre hauranno vita gli ordini e i tempi, ogni voce, ogni
lingua, ogni grido, risuonerà il celebre nome d’Isabella. »
Il marito di lei nel Ragionamento IV delle Bravure dice :
« Se la signora Isabella, bella di nome, bella di corpo, e
bellissima
d’animo, non si risolveva di ricompensar la mia fede, ecc.
ecc. »
e più sotto : « restando adunque, voglio
darne avviso alla mia Regina, alla mia Imperatrice, et alla Monarchessa delle donne
belle e virtuose ; scriverolle una bellissima lettera ; e perchè la signora Isabella
è donna strasordinaria, voglio ancora scriverle una lettera
strasordinaria. »

E nel Ragionamento XXVIII egli fa dire a Trappola : « Padrone, la vostra amata donna si può dir viva e non morta, se viva è colei che gloriosa rimane al mondo per mezzo della virtù. »
Nel diario manoscritto inedito di F. Settimanni nel R. Archivio di Stato di Firenze, trovo, per gentile comunicazione di G. Baccini, la notizia, già accennata dal D’Ancona, che il « 13 maggio 1589 » fu recitato la Pazzia, commedia d’Isabella commediante, dai Comici Gelosi, favorita dal Granduca, Granduchessa (Francesco I de’ Medici e Bianca Cappello), con tutti li Principi e Personaggi e co’ medesimi intermedi che erano stati alla Zingara della Vittoria. La qual Commedia fu recitata con tanta meraviglia, in particolare dal valore ed eloquenza d’Isabella, che ognuno di lei restò stupefatto.
Gl’ Intermedi adoperati per la Zingara furon gli stessi della Pellegrina del Bargagli.
Io non credo, come parve ad altri, che la Zingara e la Pazzia fosser commedie dovute alla penna e alla fantasia dell’Isabella e della Vittoria : dicendo il Settimanni che fu recitato la Pazzia commedia d’Isabella commediante, e più giù, co’ medesimi intermedi che erano stati alla Zingara della Vittoria, certo egli volle alludere, piuttosto che a commedie scritte dalle attrici, a commedie che erano di esse il caval di battaglia.
Quanto alla Zingara, vedi al nome di Piissimi Vittoria ; quanto alla Pazzia, è per me fuor di dubbio trattarsi della Pazzia d’Isabella, il noto Scenario di Flaminio Scala, direttore della Compagnia de’ Gelosi. Scenario, a dir vero, il quale non mi dà l’idea di quel che potè essere la Isabella, valente, ed eloquente, che, proprio al momento della Pazzia, nell’atto terzo,
si pone in mezo di Burat. e di Franc. dicendo voler loro dire cose di grandissima importanza. Essi si fermano ad ascoltare, et ella comincia a dire : « Io mi ricordo l’anno non me lo ricordo, che un Arpicordo pose d’accordo una Pavaniglia Spagnola con una gagliarda di Santin da Parma, per la qual cosa poi, le lasagne, i maccheroni, e la polenta si uestirono a bruno, non potendo comportare, che la gatta fusa fusse amica delle belle fanciulle d’Algieri : pure come piacque al Califfo d’Egitto fu concluso, che domattina sarete tutti duo messi in berlina. » Seguitando poi di dire cose simili da pazza, essi la vogliono pigliare, & ella se ne fugge per strada, & essi la seguono.
Ancora :
Isabella da pazza dice al Capit. di conoscerlo, lo saluta, e dice d’hauerlo veduto fra le 48 imagini celesti, che ballaua il canario con la luna vestita di verde, & altre cose tutte allo sproposito, poi col suo bastone, bastona il Capit. & Arlecchino, quali fuggonc, & ella dietro seguitandoli.
E più giù :
Isabella arriva pian piano, e si pone in mezo a Pantal. & a Gratiano, dicendo che stieno cheti, e che non facciano romore, perchè Gioue vuol stranutare e Saturno vuol tirar vna cor…. ; poi seguitando altri spropositi domanda loro se haurebbono veduto Oratio solo contro Toscana tutta.
Ma chi sa, data questa base di pazzia, a quali spropositi letterari, storici, mitologici e a quali stranezze di espressione e di gesto e di voce si sarà lasciata l’attrice. Vero è che la Pazzia piacque tanto al pubblico e agli attori, che restò poi nel patrimonio delle Compagnie drammatiche, mutando semplicemente di nome, a seconda dell’ attrice che la rappresentava. Così la Pazzia d’Isabella diventò più tardi la Pazzia di Lavinia coll’Antonazzoni che, a Firenze specialmente, rinnovò gli entusiasmi destati dall’Andreini.

I maggiori poeti d’Italia facean tutti a gara in celebrar questo tipo singolare di donna, che al raro sapere sembrò congiungere una rara virtù, con versi di ogni maniera. Trascelgo quelli che toccan più da vicino l’attrice.
DI TORQUATO TASSO
Quando v’ordiva il prezioso velol’alma natura, e le mortali spoglie,il bel cogliea, si come fior si coglie,togliendo gemme in terra e lumi in cielo.E spargea fresche rose in vivo gelo,che l’aura e ’l sol mai non disperde o scioglie,e quanti odori l’Oriente accoglie.E perchè non v’asconda invidia o zelo,Ella, che fece il bel sembiante in prima,poscia il nome formò che i vostri onoriporti e rimbombi e sol bellezza esprima.Felici l’alme e fortunati i cori,ove con lettre d’oro Amor l’ imprimanell’ imagine vostra, e in cui s’adori.
DEL CAVALIER MARINO
Per la signora Isabella Andreini mentre recitava in una tragedia
Tace la notte, e chiara al par del giornospiegando per lo Ciel l’ombra serenagià per vaghezza, oltre l’usato affrenadi mille lumi il bruno carro adorno.Caggia il gran velo omai, veggiasi intornodar bella Donna altrui diletto e pena,che in su la viva e luminosa scenafaccia a Venere, a Palla, invidia e scorno.Febo le muse, Amor le grazie ancelleseco accompagni, e da l’oblio profondosorga il Sonno a mirar cose si belle.A si dolce spettacolo e giocondo,dian le spere armonia, lume le stelle,sia spettatore il Ciel, teatro il Mondo.
DI GABRIELLO CHIABRERA
Nel giorno, che sublime in bassi mantiIsabella imitava alto furore ;e stolta con angelici sembiantiebbe dal senno altrui gloria maggiore ;Allor saggia tra ’l suon, saggia tra i canti,non mosse piè che non sorgesse Amore,nè voce apri, che non creasse amanti,nè riso fè, che non beasse un core.Chi fu quel giorno a rimirar felice,di tutt’altro quaggiù cesse il desio,che sua vita per sempre ebbe serena.O di scena dolcissima Sirena,o de’ Teatri Italici Fenice,o tra’ Coturni insuperabil Clio.
DI GHERARDO BORGOGNI
l’ Errante Accademico Inquieto di Milano
Apollo, questa il cui valor cotantoammiri, ed ave per teatro e scenaItalia e ’l Mondo ; e d’ eloquenza piena,e de’ socchi e coturni illustre vanto ;or con l’eburneo plettro, ed or col cantoteco s’agguaglia ; e qual del ciel Sirena,move gli accenti con sì dolce vena,ch’altri col carme non poggiò mai tanto.Siale tu dunque degno Padre, ed ellaa te sia figlia ; e queste carte e ’l nomesien d’alto grido un immortal tesoro.Vada co’ lustri a par l’alma Isabella,e le sia fregio a l’onorate chiomede la tua Dafne il sempre verde alloro.
Il figlio Giovanbattista (V.) la pone tra’ più noti scrittori de suoi tempi :
L’Arïosto famoso e l’Aretino,Torquato Tasso, il buon Giraldi, il Caro,lo Sforza d’Oddi, il Cremonin facondo,il leggiadro Guarini, il Bracciolino,di Partenope il Porta, e in un la dottaIsabella Gelosa….
e le dedica il seguente sonetto che tolgo dal suo Teatro celeste :
Sopra la madre dell’Auttore, alludendo al Nome, al Cognome, all’ Accademia, all’ Impresa, al Titolo, & a’ Comici Gelosi.
Tra le scene più belle, ecco la Bellasplende Accesa d’honor saggia Andreina,Raggio nel mondo, e ’n ciel pura fiammella,che di suo foco a ’ncenerir destina.Donna dono fatal, opra divinaFranca penna real intenta appella ;nè di tempo l’ indomita ruinasua memoria immortal rode, o cancella.D’ogni gloria maggior scena fastosa,fatti giardin d’un sempiterno alloro,giardiniera bellissima Gelosa,o qual di ricca statua alto lauorofa colonna poggiar ambizïosa,di’ : base fui d’ un simulacro d’oro.
nè mancaron i versi latini del Pola, del Tedeschi, e di altri. Si dettarono epigrafi, si fecero anagrammi, tra’ quali :
Alia Blanda Sirena…. e Lira ne, Labris Dea… (?)
Andata co’Gelosi a Parigi, munita di lettere di presentazione e di raccomandazione per quella Corte, coll’arte sua, col suo sapere, colla sua virtù divenne, si può dir, l’amica più che la protetta di Maria Medici, la quale, partita Isabella di Francia, scriveva alla Duchessa di Mantova : Elle a donné tout contantement d’elle et de sa troupe au Roy mon Seigneur et a moi : c’est pourquoi je vous la recommande avec affection. E il Beltrame Nicolò Barbieri nel Capo VII della sua Supplica : Fra’ moderni del mio▶ tempo, la Signora Isabella Andreini comica celebre per le opere sue che sono alle stampe, fu dalle lettere del Grand’Enrico quarto Re di Francia honorata con mansione amorevolissima, et decente ad ogni gentildonna. A riscontro delle parole della Regina, e di queste del Barbieri, metto qui il facsimile della lettera non mai pubblicata, io credo, (Archivio di Stato di Firenze) che Isabella scriveva
Vinta Seg.° del Ser. mo gran Duca di Toscana inFirenze
ringraziandolo di raccomandazioni sollecitate dal Granduca pei Sovrani di Francia, intese ad ottenerle, chi sa, forse la Loro Augusta protezione nel suo prossimo parto ; quello che, non condotto a fine, doveva, sei mesi dopo, condur lei al sepolcro.

Dalla Mirtilla – Edizione di Verona, Girolamo Discepolo, 1598.
Un’altra lettera nello stesso Archivio ho trovato, che ritengo pure inedita, e che mi pare valga la pena di trascrivere, così per le nuove cose ivi discorse, come per una riprova dell’interesse che le LL. Maestà prendevano alle cose anche private dell’Andreini. Anche questa è diretta al Segretario Vinta.
Alla Commissione della Maestà della Regina cristianiss.ª & alla Sua bontà V. S. perdoni il ◀mio▶ fastidiolo. Ch’ io sia lontana dal darle molestia, ella può assicurarsene, send’ io stata parecchi mesi senza scriverle di particolare, che pur m’importa. Hora non potendo far di meno, è forza ch’ io replichi queste poche righe. Saprà V. S. che da che Le mandai la lettera scritta dalla Regina a sua Altezza Ser.ma in materia del far hauer merito a tutta la somma di que’ denari, ch’ io ho sul Monte di Pietà in Firenze, tre volte Ella me n’ ha domandato. Due in Parigi, & una a Monceaux, dove sono stata con la Compagnia à servire : la prima io le mostrai la lettera, che ’l S.r Cioli per ordine di V. S. m’ hauea scritta data sotto il dì 14 di Marzo del corrente anno, le altre due, e particolarmente l’ultima, che fu il mese passato, le dissi che non ne haueua havuto altro auiso ; ma ch’ io ne sperava bene, confidata nella gentilezza, e nell’ humanità del S.r Cav.r Vinta, ◀mio▶ Signore offiziosissimo, verso chi ricorre alla sua bontà, ella lodando la mia speranza, e maravigliandosi della tardanza, mi disse, ch’io scriuessi di nuouo, e procurassi d’intender l’essito del negozio, che s’ hauesse bisognato altra lettera, l’haueria scritta, certiss.ª d’ottener in ◀mio▶ benefizio quel c’ hauessi dimandato. Scriuo dunque sì per ubbidir alla Commiss.e, come perchè mi sarebbe più caro di renderle grazie della grazia ottenuta, che d’affaticarla in altro scrivere, e la prego ad ordinare, che me ne sia dato ragguaglio : che ben la lettera giungerà a tempo, dovendo noi star al servizio dell’una e dell’altra Maestà questo verno, e forse ancor più.
Humiliss.ª Le m’inchino, e le prego da N. S. il colmo d’ogni desiderata prosperità.
Di Parigi il dì 26 d’ Agosto 1603.
Di V. S. molto Ill.re
Seruitrice aff.ma
Poiscritto. Facendomi V. S. grazia di Sue lettere, e douend’ io seguitar la Corte, Le mandi con qualche mezzo ch’ i’ possa hauerle. Non so doue disegni d’andar il Re. Qui ognun dice ch’ anderà in Provenza ; e che per ottobre deu’essere in Lione. Sia come si voglia, se V. S. si compiacerà di farmene degna, ben saprà come farlo, e le mi inchino di nuovo.
Prima della sua partenza da Parigi, il poeta Isaac Du Ryer (Le tems perdu, pag. 65) le presentò a nome del pubblico la seguente lettera in versi per invitarla a restare.
A ISABELLE, Comédienne
Je ne crois point qu’IsabelleSoit une femme mortelle,c’est plutôt quelqu’un des Dieux,qui s’est déguisé en femme,afin de nous ravir l’ame,par l’oreille & par les yeux.Se peut-il trouver au mondequelqu’autre humaine faconde,qui la sienne ose égaler ?Se peut-il dans le ciel mêmetrouver de plus douce crêmeque celle de son parler ?Mais outre qu’elle s’attiretoute ame par son bien dire,combien d’attraits & d’amours,et d’autres graces célestes,soit au visage, ou aux gestes,accompagnent ses discours ?[http://obvil.github.io/historiographie-theatre/images/rasi_comici-italiani-01-01_1897_img035.jpg]Divin esprit, dont la Franceadorera l’excellencemille ans après son trépas :(Paris vaut bien l’Italie)l’assistance te supplie,que tu ne t’en aille pas.
All’ode del Du Ryer faccio seguire un sonetto del De la Roque (Œuvres, pag. 380). Quella e questo si trovano riprodotti a pag. 4-6 de l’Histoire de l’ancien théâtre italien depuis son origine en France, jusqu’à sa suppression en l’année 1697, etc. etc. par les Auteurs de l’Histoire du Théâtre français. (Fratelli Parfait). Paris, Rozet, m dcc lxvii.
A la Seignora ISABELLA ANDREINI
Sonnet
O siècle bien heureux, qui jouit favorabledu bien, par qui nos maux tous les jours sont distraits,Dont la bouche & les yeux jettent de si doux traits ;que qui moins les ressent est le plus misérable.Le renom d’Isabelle errant inévitablenous peut ravir le sens de loin comme de près ;bref on ne sauroit voir, touché de ses attraits,rien de plus admiré, ni de plus admirable.C’est une autre Sapho, qui peut avec ses vers,donner lustre à son sexe, enflammer l’universet faire écrire amour des plumes de son aîle.Donc esprits que Daphné couronne de ses bras,afin de vivre au monde affranchis du trépas,pour oracle & pour muse invoquéz Isabelle.
Ahimè ! In mezzo a tanti trionfi, a tante attestazioni di schietto entusiasmo all’artista, alla poetessa, alla donna, la povera Isabella, nel rigoglio della vita e dell’ingegno, dovè soccombere miseramente, improvvisamente, nè pure colla soddisfazione di veder pubblicate le sue Lettere, ultima delle opere alla quale aveva posto ogni cura, e alla quale portava uno speciale amore. Partita di Francia per recarsi in Italia nel 1604, fu sorpresa dal male in Lione, ove moriva per aborto l’ii giugno. (Il Sand ha erroneamente il io luglio). Il Barbieri, nella Supplica citata, riporta da Pietro Mattei, Istorico e Consigliere del Re Cristianissimo, che Isabella Andreini fu favorita dalla Comunità di Lione di Francia d’insegne e di mazzieri, e con doppieri da’ Signori Mercanti accompagnata : ed hebbe un bellissimo Epitaffio scritto in bronzo per memoria eterna. (V. Francesco Andreini).

Dalle Rime – Edizione di Milano, Bordone, 1601.
Il Cavalier Marino dettò per la sua morte il seguente sonetto, riferito anche da Fr. Bartoli :
Piangete, orbi Teatri ; invan s’attendepiù la vostra tra voi bella sirena.Ella orecchio mortal, vista terrenasdegna, e colà d’onde pria scese ascende.Quivi Accesa d’amor, d’amor accendel’eterno Amante ; e ne l’empirea scena,che d’angelici lumi è tutta piena,dolce canta, arde dolce e dolce splende.Splendano or qui le vostre faci intanto,pompa a le belle esequie ; e non più lietevoci esprima di festa il vostro canto.Piangete voi, voi che pietosi aveteal suo tragico stil più volte pianto :il suo tragico caso orbi piangete.
E il seguente dettò Gio. Paolo Fabbri comico detto Flaminio :
Quella che già cosi faconda espressedetti sublimi, ed ornamento alterofu de le scene, d’appressarsi al verolasciando l’ombra e di bearsi elesse.Onde, poich’ebbe di virtude impressebelle vestigia, a l’alma apri ’l sentiero,e spedita volò dove il pensierofermo col ben oprar la scorse e resse.Pregò, l’udì chi sempre ascolta pio,noi perchè in guerra noi medesmi ogn’oratener, se ’n pace ella contenta or siede ?Non è morta Isabella, è viva in Dio.là su di rivederla ho speme e fede.
Il quale ancora in uno de’Suoi Capitoli alla Carlona (Trento, per Gio. Battista Gelmini, m dc viii) dice :
Con le Comedie ho già seruito à i Giglidi Francia in compagnia di quella Donnache non teme del tempo i duri artigli.Quella che di virtù ferma colonnafù sempre, cui diede la Brenta a noi,e cui gemma pregiata hor tien la Sonna.
aggiungendo poi in una noticina in margine : « Intendo della Signora Isabella Andreini Padouana, morta in Lione, la maggior comica, che sia mai stata nell’ esercitio. »
Quanto al valor letterario d’Isabella Andreini, poco mi rimane da dire. In mezzo ai petrarcheggiamenti diluiti all’acqua di rose, poteva stare anche Lei, non ultima certo. Lascio al buon Francesco Bartoli tutti i più bei fiori della Rettorica, e la sana Filosofia e gli scherzosi detti che allettar possono infinitamente, di cui trova sparse le lettere di lei. In queste appar chiaro lo sforzo di dir cose straordinarie, l’intento, ahimè fallito, di innalzarsi il famoso monumento d’Orazio…. Nessuna spontaneità di forma e di concetti, mai : solo una esuberanza di bisticci, oserei dire, di freddure, di baggianate, di piccinerie, e di comparazioni talora ingegnose, talor bislacche, piene di fiorettature uggiose, snervanti, come ad esempio :
1. L’esser e ’l non esser secondo alcuni star insieme non possono, il che io non affermo, perchè so ch’io son morta a i diletti e viva a i guai : ecco dunque ch’io son e non sono, e morta e viva. (Lett. 62).
2. La morte sola può vietar al pensiero, che non pensi a quello, ch’egli vuol pensare : infelice mia sorte, poichè mentre ch’ io penso di pensar ad ogn’altra cosa, che all’avervi amato impensatamente, pensato mi vien di voi ; e di voi pensando, convien per forza ch’io pensi d’avervi amato ; il che più mi dispiace e più m’addolora che s’io pensassi alla morte, pensando insieme di dover allora morire. (Lett. 72).
Parlando ad uomo innamorato di mala femmina, dice :
3. Ohimè ! Tanto può dunque in voi una soave, ma traditrice parola, una mentita belleza, un modo lusinghiero, un atto astuto, un’arte di Circe, una frode amorosa, una rete incantata, un feminil inganno, un laccio dannoso, un ciglio bugiardo, un animo finto, un cuor simulato, una fede mendace, un ghigno fraudolente, una breve stilla di pianto, un sospir tronco, un leggiero toccar di mano, un molle bacio, pieno d’insidie, una grata ma perfida accoglienza, uno sdegno lieve artificioso, una repulsa pietosamente cruda, una pace piena di guerra, e finalmente un vaso colmo di menzogne e di tradimenti ? (Lett. 85).
E nell’Amoroso Contrasto sopra i Saluti :
4. Mario. Vi saluterò come corvo, poichè così volete, ma non vorrò già dire che voi siate il mal tempo.
Costanza. Anzi, ch’io sono l’istesso mal tempo per voi, poichè per me dite, che non havete mai buon tempo : noi sogliamo dire quando il cielo è coperto di nubi, ch’egli è mal tempo ; e voi mille volte m’avete detto che il ◀mio▶ viso è un cielo angusto, ma che le mia ciglia torve di sdegno son quelle nubi, che lo rendino fosco & oscuro ; l’oscurità cagiona mal tempo, dunque io sono il vostro mal tempo.
E così di seguito, passando dal mal tempo al corvo, dal corvo all’amore, dall’amore al desiderio, dal desiderio al godimento, e il tutto seminando di citazioni poetiche, storiche, mitologiche da metter paura. Non vi par egli di sentir le tirate di un Dottor Graziano ? Nè s’ha da far troppo carico a Isabella di queste rettoriche e vacue piccinerie, poichè formavan pur troppo elemento non ultimo della commedia dell’arte. Più i Contrasti erano lunghi, più appariva (meglio a’comici forse che al pubblico) l’acume e la sottigliezza de’recitatori. Adolfo Bartoli (op. cit., pag. lxxix) riporta intero il dialogo fra uomo e donna per la caduta d’un fazzoletto, che è un modello del genere, e dal quale si può arguire la ragione del gran conto in cui eran tenuti i Contrasti dall’Andreini. Anche quel continuo frammischiare alle prose sentenze poetiche era dell’uso, specialmente per la chiusa delle scene nella commedia improvvisa, e più specialmente poi per le andate via.

Dalle Lettere – Edizione di Venezia, Zaltieri, 1607.
Ma dove pare a me che l’Andreini si levi talvolta a grande altezza è nelle rime ; in cui non sappiamo se ammirar più la scorrevolezza e armonia dei versi, o la leggiadra semplicità dello stile. Anche Adolfo Bartoli che trovò, come dissi, esagerata la Fama della medaglia, conchiude che l’Andreini non è sicuramente de’rimatori più scadenti che avesse l’Italia nel secolo xvii(?), e tra’nojosi imitatori del Cantore di Laura, è de’meno nojosi o, se la parola non potesse sembrare sarcastica, de’più geniali.
Benchè in versi, non toccherò della Mirtilla, Pastorale scritta nella età giovanile, che ha i soliti lambicchi, i soliti contrasti, non però peggiori di quelli onde son seminate quasi tutte le produzioni sceniche del genere e del tempo ; trascriverò dalle Rime (Milano, Bordone, 1601) per dare un saggio del suo poetico stile, due sonetti amorosi (pag. 59 e pag. 144), de’quali parmi vi sieno di assai meno valore in poeti del suo tempo e di maggior grido, e ai quali farò seguire come chiusa una canzone, la seconda delle poesie funebri (pag. 217) nitida e piana a ◀mio▶ giudizio, e soavissima quant’altre mai.
Sonetto LV
Ardo, e son fatta miserabil segno,E ben se l’vede Amor, d’ogni suo strale ;(Lassa) e prego non valmi arte, od ingegno.Dentro vn bel viso à cui solo m’attegnoVeggio le fiamme, ond’ei quest’alma assale ;E s’io chieggio conforto à sì gran male,In vece di pietade accendo sdegno ;E’l duol, che’ntenerir potrebbe i sassi,Noue lagrime sol, nouo tormento ;Che per girsen’à lui, ch’à me non crede,
Sonetto CXXV
Io non t’amo crudel, che me l’contendeDel cor seluaggio la natia durezza ;Pur s’alcun veggio, che di tua bellezzaPorti sembianza, à me si vago splende,Vn’affetto d’amara empia dolcezza ;E tanto può la micidial vaghezza,Ch’amoroso desire in me raccende.Dura legge d’Amor ! dunque conuieneCh’ami quello in altrui, che’n questo alteroFù la sola cagion de le mie pene ?Ben è tronca nel mezo ogni mia spene,Nè pace più, nè più salute spero
HIELLE piange la madre
Fvggendo il lume, à le spelonche trattiS’eran gli Augei notturni ;E già suegliata vscìa la RondinellaA’bei raggi diurni ;Quando più ch’altra bellaHielle sorgendo, la uermiglia AuroraVide, che uiolette, e rose, e gigliDa la sua chioma inannellata, e bionda,E da l’eburneo senoSpargèa del Ciel ne le contrade eterne ;E col piè vago d’animata neueDi fior premendo l’ingemmato suoloSeguitò fin che giunseLà doue scaturia da vn viuo sassoLiquefatto vn bel vetro, che se n’gìaCon lento e queto passoL’herbe irrigando ; iui si pose, ed iuiPensosa al volto fè colonna, e lettoDel braccio e de la mano ; e fisò i lumiA terra. Intanto il SoleCominciò di sè stesso à far coronaDe’vicin Monti à l’eleuate cimeDel Gange vscito. Ella dolente scossaQuasi da sonno à lui riuolta disse.Leggiadro almo PianetaTu sorgi à rasciugar le molli brine,Che da gli humidi vanni de la notteSon cadute, nè mai de gli occhi mieiPerciò rasciughi il pianto.Al tuo vago apparir più che mai lietiSorgono i fiori à proua : io (lassa) maiDal graue incarco de gli affanni mieiErger non posso il core.Spiegano al tuo venir dolci caroleI garruli Augelletti :Io dolente non menoO Sole al tuo venir che al tuo partire,Viuo in amaro pianto ;Ma voi deh per pietadeVscite meste de gli herbosi fondiO Ninfe, c’habitate i fonti, e i fiumi,Ed aggiungete meco (ancor che’nuano)Lagrime al pianto ; e voiLasciate ò molli herbette,Lasciate il vostro verde : hor più non liceDi smeraldo portar gonna ridente.Dipinti Augei, che per le Tosche selueDi ramo in ramo saltellando andate,Dite nel vostro canto :La gloria d’Arno, e la sua pompa è morta.Morta è la nobil Donna,E breu’vrna sotterraGran beltà, gran virtù, gran lode serra.Ma che dich’io ? sua lode intorno scorre,Ed hà solo per meta i Poli, e’l CieloDou’hor si posa la bell’alma, e lietaVagheggia à voglia sua quel che noi tantoIn dubbio pone. A noi stà sopra il SoleCon gli altri ardenti lumi ;E ben c’huom si consumiNe l’intender la forza e i moti loro,Al ver però non giunge ;Ed ella à pien gli intende, e gli fruisce.Hor noi di si gran perdita dolentiPoco il pomo curiam, poco la fonte,Perchè la fame l’vn, l’altra la seteE domi, e vinca. in altra parte il sonnoSparga pur sua quiete : à noi non cale,Ch’ei dal Mondo ne sciolga, ò da noi stessi.Et io, che più d’ogn’altra afflitta viuoBen à dritta ragion il cibo, e’l sonnoCara Madre sbandiscoOgn’hor Morte chiamando.O nemica mia stella, ò destin rio.S’esser cruda per me deuesse, ed empiaL’innessorabil ParcaCol leuarmi dai viuiBen ella in ciò saria veloce, e prestaCome fù alhor, che tè da noi diuise ;Ma perch’ella conosce,Ch’essendomi crudel fora pietosa,Quando l’alma dolente altro non brama,Che trar gli infausti giorniPer l’occaso di morte al fin de gli anni.Deh giunga de’miei di l’vltima notte,Notte, ch’à me più chiara sia del giorno.Felicità de gli infelici, Morte,Morte deh prego trammiLà vè sotto sembianteDi morte è vita vera.Pommi col cener freddo de l’amataMia Genitrice, pommi ou’è colei,Che molto seppe al mondo, e poco visse.

Isabella.
(Dalle Maschere e Buffoni di Maurizio Sand).
Isabella Andreini ebbe sette figliuoli : le quattro figlie « sacrò vergini a Dio — dice Fr. Bartoli — ne’ Monasteri di Mantova ; » de’ figli, uno fu quel D. Pietro Paolo, Monaco di Vallombrosa, che sostenne (Bartoli) « carichi ragguar devoli nella sua Religione, » uno, Domenico, si diede alla milizia, e il terzo, Giovan Battista, del quale avrem molto da dire, seguendo le orme degl’illustri genitori, fu celebre nel teatro e nelle lettere.

Mi son servito, per la stampa del promesso dialogo del De Somi, sulla recitazione di quel tempo, del codice esistente nella R. Biblioteca di Parma, trascritto con ogni nitidezza di caratteri dall’originale, quello forse che è fra le opere di lui in sedici volumi nella Biblioteca Nazionale di Torino. Il De Somi, mantovano, fu autor comico, poeta e impresario di compagnie comiche, come rilevasi dalla supplica a Francesco Gonzaga Conte di Novellara, in data 15 aprile 1567, per ottenere un decreto di poter egli solo per anni x dare stanza in Mant.ª da rappresentare comedie, a coloro che per prezzo ne vanno recitando, offerendosi egli dare ogni anno a poveri della Misericordia, sacchi due di formento ; per la quale offerta, il Gonzaga il 17 aprile raccomandava la supplica al Castellano di Mantova. Per notizie più ampie e particolareggiate sul De Somi, vedi il D’Ancona, op.cit., vol. II, pag. 403, 404, 408, 410 en., 420 n., 540 n.
Dialoghi dell’ebreo LEONE DE SOMI in materia di rappresentazioni sceniche, copiati dall’ originale.
Dialogo terzo, nel quale si ragiona de i precetti del recitare, et de i modi del uestire, et di tutto quello che generalmente apartiene a gl’ histrioni con molti neccessari auuertimenti et ricordi.
Sommario
Di che qualita si dee elegere la comedia da recitarsi — Cauar le parti — Informar tutti del soggetto — Elettione de recitanti — Pronuncia de recitanti — Dispositione — Bona uoce nel recitare — Delle preferenze de recitanti — Documenti de recitanti — Dir forte — Dir adagio — Che il recitare non sia spezzato — Efficaci affetti de recitanti — Il recitante suegliato — Delle comedie mute — Mouimenti de’ recitanti — Modo del uestire — Vestir nobilmente — Variare gli habiti de recitanti — Colori de gli habiti — Habiti barbari piu uaghi in scena — Habiti delle tragedie — Habiti pastorali — Habiti de le Nimphe — Auertimento prima che si mandi fuori il prologo — Ordine o norma per mandar fuori i recitanti — Prima che si mandi giù la tela — Qualita de prologhi — Voltar sempre la faccia a lo spettatore — Non caminar parlando — Con chi ragiona il prologo — Delli intermedij ordinarij.
Interlocutori
Santino, Massimiano, et Veridico
Sant. Se hoggi ci sodisfà cosi bene, questo galant’ huomo ; discorrendo sopra il modo di rappresentar le comedie in atti ; come hà fatto negli altri suoi discorsi ; assai ueramente contentar ci potiamo, hauendoci egli sempre assegnata qualche ragione, a tutte le cose da lui trattate.
Mass. Et io me ne aspetto anco di meglio, però che credo, che egli habbi guidate più comedie, che composte ; onde son certo, che egli sarà fatto più esperto nel modo del condurle, che nelle proprieta loro nello inuentionarle. mad eccoci a lui.
Sant. A noi Messer Veridico è paruto mill’ anni d’ auer desinato, per uenire a farci pagar da uoi quel debito, al quale uolon-tariamente obligato ui sete.
Ver. Voi siate e ben uenuti : sedete.
Mass. Vi hauremo forse disturbato, essendo uoi per quello che comprendo, intento a conteggiare.
Ver. Nò ueramente, che questa non è lista di dare, ne d’ hauere : ma anzi è apunto cosa, che apartiene al soggetto, di che uolete che hoggi si fauelli.
Sant. Et come ?
Ver. Questa è una lista ch’ io fò, de gli habiti, et altre cose, che occorrono a i recitanti nostri, per non mi condur poi isproueduto a fatti.
Sant. Hor noi siam qui, e per far come il pardo, al primo salto la preda, cominciaremo a dimandarui del modo che uoi terreste essendo [poniam caso] ricercato hoggi dal principe nostro, a farle rappresentare una comedia.
Ver. Presuponete uoi, che egli me ne desse una a suo modo ?
Sant. Anzi nò. ma che ui desse anco l’ assunto di trouarla.
Ver. Prima io mi sforzarei d’ hauer comedia che mi satisfacesse, con di quelle osseruationi, che dissi principalmente conuenirsi a tali poemi, e sopra tutto di bella prosa contesta, et che non fosse noiosa per molti soliloquij, o lunghi episodij, o dicerie impertinenti. per ciò ch’ io concorro nel parere di coloro, che hanno detto quella comedia esser perfetta, che leuandone una poca parte resti imperfetta. ma noua la comedia uorrei, se fosse possibile, o almeno poco nota, fuggendo più ch’ io potessi le stampate, quantunque piu belle. si per che ogni cosa noua piu piace ; et si per esser parer quasi comune, che le comedie, delle quali lo spettatore, hà notitia ; rieschino poco grate, per di molte cagioni, tra le quali, principale cred’io che sia questa : che douendo l’histrione ingegnarsi, et sforzarsi quanto piu può [come diremo] d’ingannar lo spettatore in tanto, che li paiano ueri i successi, che se gli rappresentano, sapendo l’ascoltante prima, quello che hà a dire et a fare il recitante, li par poi troppo aperta et sciocca menzogna, et la fauola perde di quel suo naturale, con che ella ha sempre da esser accompagnata, onde l’ uditore quasi schernito non solo uilipende lo spettacolo, ma disprezza anco se medesmo, che come fanciullo si sia lasciato condure, a udir, come si dice in prouerbio, la nouella de l’ oca. il che non auiene cosi delle comedie noue, per che quantunque l’huomo sappia da principio, hauer da udir cose non uere ; stando però atento alla nouita de i casi, par che ei si lasci ingannar da se medesimo a poco a poco, tanto che gl’ assembra di ueder in effetto, quei successi che se gl’ appresentano. se pero gl’ histrioni saranno bene essercitati, come gli si richiede.
Sant. Certo, conosco esser uero quanto dite, per che io mi son ritrouato ueder rappresentar bene, di bellissime comedie gia stampate, che me ne son partito insieme con gl’ altri, in certo modo mal satisfatto ; et ne ho poi udito recitare di non cosi belle, ma noue, che sono riuscite garbatissime.
Mass. Hor sia detto assai, quanto alla clettione della comedia, et ditene eletta che sia, come ui gouernate.
Ver. Prima io ne cauo tutte le parti ben corrette, e quindi, eletti i personaggi che mi paiono più atti [auuertendo il più che si puo, a quei particolari di che ragionaremo più avanti] li riduco tutti insieme ; et consegnato a ciascuno quella parte che piu le si conuiene, fò legger loro, tutta la comedia tanto, che sino a i fanciulli che ui hanno d’ hauer parti ; siano instrutti del soggetto di essa, o almeno di quello che a lor tocca. imprimendo a tutti nella mente, la qualita del personaggio, che hanno da imitare ; et licentiati con questo, le dò tempo di poter imparar le parti loro.
Mass. Questo mi par piano principio Veniamo dunque alla particolar elettione de recitanti, e destribuittione delle parti, che mi par cosa importantissima.
Ver. Tanto, che è da stupirne, et oso dire, anzi affermo per uero, che piu importi hauer boni recitanti, che bella comedia, et chel sia il uero habbiamo ueduto molte uolte riuscir meglio, al gusto de gl’ascoltanti, una comedia brutta, ma ben recitata, che una bella mal rappresentata. Et pero quand’ io sono per elegerli, hauendo copia d’ huomini atti et che ubidienti esser uoglino, m’ ingegno di hauerli, prima di bona prouincia, et questo piu che altro importa, et poi cerco che siano di aspetto rappresentante quello stato, che hanno da imitare piu perfettamente che sia possibile come sarebbe, che uno inamorato sia bello un soldato membruto, un parasito grasso, un seruo suelto, et cosi tutti. pongo poi anco gran cura alle uoci di quelli, per ch’ io la trouo una de le grandi et principali importanze, che ui siano. ne darrei [potendo far di meno] la parte di un uecchio, ad uno che hauesse la uoce fanciullesca, ne una parte da donna [e da donzella maxime] ad uno che hauesse la uoce grossa. Et se io, poniam caso, hauessi a far recitare un ombra in una tragedia, cercarei una voce squillante per natura, o almeno atta con un falsetto tremante, far quello che si richiede in tale rappresentatione. De le fatezze de i uisi non mi curarei poi tanto, potendosi ageuolmente con l’arte, supplire oue manca la natura, con tingere una barba, segnare una cicatrice, far un uiso pallido o giallo, ouero farlo parer piu uigoroso, et rubicondo, o piu bianco, o piu bruno, et tali cose, che ne possono occorrere. Ma non mai però in caso alcuno, mi seruirei di mascare, ne di barbe posticcie, per che impediscono troppo il recitare. et se la necessità mi stringesse far fare ad uno sbarbato, la parte di un vecchio, io li dipingerei il mento, si che paresse raso, con una capigliara canuta sotto la beretta, li darrei alcuni tocchi di pennello su le guancie, e su la fronte, tal che non solo lo farrei parere attempato, ma decrepito, et grinzo, bisognando. Et per che quanto alla elettione, e della comedia e de i recitanti non mi occorre al presente che altro dire, aspetto, se altro uolete da me intendere, che mi dimandiate.
Sant. Noi uoressimo intender prima, con quai documenti si hanno ad essercitare, et in che modo hanno da recitare questi eletti.
Ver. Questa per certo è impresa grauissi-ma. Ma per farui solo intendere, parte di quello che faccio io intorno a Recitanti, dico, che è da auertirli prima generalmente, a dir forte, senza però alzar la uoce in modo de gridare, ma alzarla tanto temperatamente, quanto basti a farsi udire comodamente a tutti gli spettatori, accio che non cagionino di quei tumulti, che fanno souente coloro, li quali, per esser più lontani, non ponno udire, onde ha poi disturbo tutto lo spettacolo, et a questo puo seruir solo, lo hauer il recitante bona uoce per natura, come dissi che dopo la bona pronuncia principalmente le bisognarebbe.
Mass. Auuertimento per certo necessario.
Ver. Come uitio pestilente poi, li prohibisco, lo affrettarsi, anzi li costringo, potendo, a recitar molto adagio, Et dico molto, facendoli esprimere con tardità, ben tutte le parole fin all’ultime sillabe. senza lasciarsi mancar la uoce, come molti fanno, onde spesso lo spettatore, perde con gran dispiacere, la conclusione della sentenza.
Sant. Se nel recitare si hà come credo ad imitar l’uso del parlar familiare, giudicarei, che quel recitar cosi adagio, e con tardità come dite, togliesse il naturale al dire.
Ver. Siate certo che non gle le toglie in parte alcuna, per che, oltre che il fauellare adagio, non concedo io che sia mal uso, anzi l’ approuo per proprio delle persone piu graui [et sempre si deono imitare i migliori] bisogna poi anco al recitante auuertire di più in questo caso, che egli hà da dar tempo alli spettatori di poter capir comodamente i concetti del poeta, et gustar le sue sentenze, non sempre comuni, e trite. Et uoglio che sappiate, che quantunque spesso paia a chi recita in scena, di dire adagio, non è mai tanto tardo, che a l’uditore non paia uelocissimo, pur chel dir non sia spezzato, ma sostenuto in modo che non induca afettatione et noia. Circa poi a gl’ altri precetti, o modi di recitare, non mi par che dar si possi alcuna regola particolare. ma parlando generalmente diremo, presuposto che il recitante habbia bona pronuncia, bona uoce, et appropriata presenza, naturale, o artificiata che sia, che bisogna sempre che egli s’ingegni, di uariar gl’atti secondo la uarieta delle occasioni, et imitare non solamente il personaggio che egli rappresenta, ma anco lo stato in che quel tale, si mostra di essere in quell’ hora.
Mass. Qui messer Veridico ui uorrei piu chiaro.
Ver. Eccomi con uno essempio. dico che non basterà ad uno che faccia la parte [poniam caso] d’uno auaro, il tener sempre la man su la scarsella, in tentar spesso se li è caduta la chiaue de lo scrigno ; ma bisogna anco che sappia, occorrendo, imitar la smania, che egli haurà [essempli gratia] intendendo chel figliolo li habbia inuolato il grano. Et se farà la parte di un seruo, in occasione d’una subita allegrezza, saper spiccar a tempo un salto garbato ; in occasione di dolore stracciare un fazzoletto co denti, in caso di disperatione trar uia il capello, o simili altri eficaci effetti, che danno spirito al recitare. Et se farà la parte di uno sciocco, oltre al risponder mal a proposito [il che gl’ insegnarà il poeta con le parole] bisogna che a certi tempi, sappia far anco di più, lo scimonito, pigliar delle mosche, cercar de pulci : et altre cosi fatte sciocchezze. Et se farà la parte di una serua, nell’uscir di casa, saper scotersi la gonella lasciuamente, se la ocasion lo comporta, ouer mordersi un dito per isdegno, et simili cose, che il poeta, nella testura della fauola, non puo esplicatamente insegnare.
Mass. Io mi ricordo hauerne ueduti di quelli che ad una mala noua si sono impalliditi nel uiso, come se qualche gran sinistro ueramente gli fosse acaduto.
Ver. Di questa prontezza trattando il diuino platone, nel suo dialogo del furore poetico, fà dire ad Ione, « ogni uolta ch’io recito qualche cosa miserabile, gl’ occhi mi lachrimano ; quando qualche cosa terribile o pericolosa, i capelli me si rizzano, » et lo che segue. Ma queste cose in uero malagevolmente insegnar si possono, e sono al tutto impossibili da impararsi, se da la natura non si apprendono. E ben che da gli antichi si facci mentione di molti histrioni eccelenti, et si conosce che questo era uno studio particolare, nel quale si essercitauano ; non si può però cauar regole di questa proffessione per che ueramente bisogna nascerci Et tra molti galanti huomini, che di recitare perfettamente si sono dilettati a tempi nostri [come il mirabile Montefalco et lo suegliatissimo Veratto da ferrara, l’arguto Oliuo, Et l’ acutissimo Zoppino da Mantoua, et un’altro Zoppino da Gazzolo. Et molti altri che potiamo hauer conosciuti a tempi nostri] mirabile mi è sempre paruto et pare il recitare d’ una giouane donna Romana nominata Flaminia, la quale oltre all’ essere di molte belle qualita ornata, talmente è giudicata rara in questa professione, che non credo che gli antichi uedessero, ne si possi fra moderni ueder meglio per chè in fatti ella è tale su per la scena, che non par gia a gli uditori di ueder rappresentare cosa concertata ne finta, ma si bene di ueder succedere cosa uera et improuisamente occorsa ; talmente cangia ella, i gesti, le uoci, et i colori, conforme a le uarietà delle occorenze, che commoue mirabilmente chiunque l’ascolta non meno a marauiglia, che a diletto grandissimo.
Sant. Mi ricordo hauerla udita, et sò che molti bei spiriti, inuaghiti delle sue rare maniere ; gli hanno fatto et sonetti, et epigramme, et molti altri componimenti in sua lode.
Mass. Ne udirei uolentieri alcuno.
Ver. Per compiacerui uoglio recitarui due sonetti soli che mi ricordo in lode sua l’ uno è
Mentre gli occhi fatali hor lieti, hor mesti &c.
l’ altro è
Donna leggiadra a cui la piu gradita &c.
hora per tornar a parlar de recitanti in generale dico di nouo che bisogna hauerci dispositione da natura, altrimente non si può far cosa perfetta ma però chi intende ben la sua parte, et che abbia ingegno troua anco mouimenti et gesti assai apropriati, da farla comparire come cosa uera, Et a questo gioua molto [come anco in molte altre parti è utile] lo hauer per guida lo stesso autore de la fauola, il quale hà uirtu generalmente, de insegnar meglio alcuni ignoti suoi concetti, che fanno comparir il poema piu garbato, et i suoi recitanti per conseguenza paiono piu desti. Dico desti. per che sopra tutte le cose bisogna che il recitante sia nel suo dire suegliatissimo, et sempre giocondo, eccetto che doue hà da mostrar qualche dolore, et anco in quel caso, lo hà da far con uiuacissima maniera, tal che non induca tedio a gl’ ascoltanti, et in somma si come il poeta con il soggetto uerisimile, et artificioso, et con le parole scelte, piene di spirito, e ben concatenate, hà da tener gl’uditori attenti ; cosi il recitante con uarij atti appropriati a i casi, li hà da tener sempre desti, et non li lasciar cadere in quella sonacchiosa noia, che tanto fastidisce altrui in cosi fatti spettacoli, qualhora lo histrione recita freddamente, et senza il debito feruore, et la conueniente efficacia. Et per fuggire questo diffetto, è neccessario a recitanti [et a quelli particolarmente che piu che esperti non sono] l’usarsi anco in tutte le proue, a questa uiuezza ch’ io dico, altrimente riescono poi sgarbatissimi nei pubblici teatri.
Sant. Per certo il recitante hà piu parte nella comedia, ch’io non pensaua, et forse che altri non crede.
Ver. Di atti, et di parole, ui ho detto altre uolte, che si compone la comedia, come di corpo, et d’anima siamo composti noi : l’ una di queste parti principali è del poeta, et l’altra è dello histrione. i mouimenti del quale, chiamati dal padre della lingua latina eloquenza del corpo, son di tanta importanza, che non è per auentura magiore l’ efficacia delle parole, che quella de i gesti. et fede ne fanno quelle comedie mute, che in alcune parti di europa si costumano, le quali, con gl’ atti soli si fanno cosi bene intendere, et rendono si piaceuole lo spettacolo, che è cosa marauigliosa a crederlo a chi ueduti non li habbia. Ma a questa corporale eloquenza [quantunque sia parte importantissima , talmente che è chiamata da molti l’ anima de l’ oratione, la qual consiste nella degnita de i mouimenti del capo, del uolto, degli occhi, e delle mani, e di tutto il corpo] non si potendo assegnare regola particolare, dirò solo, generalmente parlando, che il recitante dee sempre portar la persona suelta, Et le membra sciolte, et non annodate et intere. Deue fermar i piedi con appropriata maniera quando parla, et mouerli con leggiadria quando gl’ occorre, seruar co ’l capo un certo moto naturale, che non paia che egli l’ habbia affissato al collo co chiodi. et le braccia et le mani [quando non facci bisogno il gestar con essi] si deono lassar andare oue la natura gl’inchina. et non far come molti, che uollendo gestar fuor di proposito, par che non sappiano che se ne fare. Et se una Donna [per gratia di essempio] haurà pigliato per uezzo di mettersi la mano su ’l fianco ; o un giouane di appostarla su la spada ; non deue ne l’ una, ne l’ altro, star sempre, ne molto spesso, in quel modo ; ma finito quel ragionamento, che cotal atto richiede, rimouersi da quello, et trouarne un piu proprio al parlamento che segue, et quando altro gesto appropriato non troui ; o che atteggiar non gl’ occorre ; lasci andar come io dissi et le braccia, et le mani, oue gl’inchina la natura, sciolti et isnodati, senza tenerle solleuate, od aggroppate, come se co stecchi fossero attaccati al corpo. seruando pero sempre ne gl’ atti maggiore o minor grauità, secondo che lo stato richiede del personaggio che si rappresenta. et cosi anco nel suono delle parole, hora aroganti et hora placide, hor con timidezza, et hor con ardire esplicate ; facendo i punti al lor loco, sempre imitando Et osseruando il naturale, di quelle qualita di persone che si rappresentano : et sopra tutte le cose fuggire come la mala uentura, un certo modo di recitare dirò pedantesco, per non saperle io trouar piu proprio nome, simile al repetere che fanno nelle scole i fanciulli, quando dinanzi al lor pedagogo rendono di stomana. fuggir dico quel suono del recitare, che par una cantilena imparata alla mente, Et sforzarsi sopra tutte le cose [mutando le uoci, Et accompagnandoui i gesti, secondo i propositi] far che quanto si dice, sia con efficacia esplicato, Et che non paia altro che un familiar ragionamento, che improuisamente occorra. Et per che come dico il darui regole piu particolari, mi par impossibile, Et credo cosi generalmente circa a questo importantissimo auertimento, esser inteso abastanza ; non ci staremo ad alongare piu sopra, et uerremo al modo del uestire. parlando dunque de gl’ habiti, et lasciando il trattar de i modi antichi quando i uecchi tutti di bianco, et i giouani di uarij colori si uestiuano, i parasiti con mantelli attorti et affaldati, et le meretrici di giallo s’ ornauano ; per che cosi fatte osseruationi, sarebbono per la uarieta de gl’ usi, uani, o poco conosciuti ; dicoui principalmente ch’ io mi sforzo, di uestir sempre gl’ histrioni, piu nobilmente che mi sia possibile, ma che siano però proporzionati fra loro, atteso che l’habito sontuoso [et massimamente a questi tempi, che sono le pompe nel lor sommo grado, e sopra tutte le cose, i tempi, e i lochi osseruar ci bisogna] mi par dico, che l’ habito sontuoso, accresca molto di riputatione, et di uaghezza alle comedie, et molto piu poi alle tragedie. Ne mi restarei di uestir un seruo, di ueluto, o di raso colorato, pur che l’habito del suo patrone, fosse con ricami, o con ori, cotanto sontuoso, che hauessero fra loro la debita proportione : ne mi condurei a uestire una fantesca d’ una gonellaccia sdruscita, ne un famiglio d’ un farsetto stracciato, ma anzi porrei a dosso a quella una bona Gamurra, Et a questo uno apariscente giacchetto ; accrescendo poi tanto di nobile al uestire de i lor patroni, che comportasse la leggiadria de gl’ habiti ne i serui.
Mass. Non è dubbio che il ueder quei cenci, che altri mette tal uolta attorno ad uno auaro, o ad un famiglio ; toglie assai di riputatione allo spettacolo.
Ver. Ben si puo uestir uno auaro, o un uillauo ancora, di certi habiti che hanno nel lor grado del sontuoso, ne però si esce dal naturale.
Sant. Cosi è ueramente, douendosi rispettar massimamente come uoi dite anco gl’ usi de’ nostri tempi.
Ver. Io mi ingegno poi quanto piu posso, di uestire i recitanti fra loro differentissimi. et questo aiuta assai, si allo accrescere uaghezza con la uarieta loro, et si anco a facilitare l’ inteligenza della fauola. Et per questo piu che per altro cred’ io, che gl’ antichi haueuano gl’ habiti appropriati, Et i colori assegnati, a tutte le qualità de i recitanti. Hor se io haurò [per gratia di essempio] da uestir tre o quattro serui, uno ne uestirò di bianco, con un capello ; uno di rosso con un berettino in capo : l’altro a liurea, di diuersi colori : et l’altro adornarò, per auentura, con una beretta di ueluto, Et un paio di maniche di maglia, se lo stato di lui puo tollerarlo [parlando però di comedia che l’ habito Italiano ricerca] et cosi hauendo da uestir doi amanti, mi sforzo, si ne i colori, come nelle foggie de gl’ habiti ; farli tra lor differentissimi uno con la cappa, l’ altro co’ l ruboncello ; uno co pennacchi alla berretta, et l’altro con oro senza penne ; a fine, che tosto che l’huomo uegga, non pur il uiso, ma il lembo della ueste de l’uno, o dell’altro ; lo riconosca : senza hauer da aspettare, che egli, con le parole si manifesti. auuertendo generalmente, che la portatura del capo, è quella che piu distingue, che ogn’ altro habito, cosi ne gl’ huomini, come nelle donne : però siano diuersi tutti fra loro quanto piu si possa, et di foggia, et di colori.
Sant. O quante uolte son io stato ambiguo un pezzo, nel riconoscere uno in scena, per non esser ben differente da un altro recitante, o conseruo.
Ver. La uarieta de i colori, a questo gioua assai ; et uorrebbono essere per lo piu gl’ habiti di colori aperti, Et chiari, seruendosi il meno che sia possibile del nero, o di colore che molto cupo sia. ne solo mi sforzo io di uariare i recitanti fra loro, ma mi affatico ancora potendo di trasformare ciascuno, da l’ esser suo naturale, accio che non sia cosi tosto riconosciuto da li spettatori, che hanno giornalmente la sua pratica ; senza cader pero nell’errore, in che cadeuano gl’ antichi, i quali accio che i loro histrioni non fossero conosciuti, le tingeuano il uiso di feccia di uino, o di luto. per che a me basta il trasformarli, e non trasfigurarli, ingegnandomi quanto piu posso, di farli parer tutti persone noue. però che quando lo spettatore conosce il recitante, se gli leua in parte quel dolce inganno, in cui deuressimo tenerlo ; facendoli credere piu che sia possibile per uero successo, ogni nostra rappresentatione. Ma per che ogni nouita piu piace assai, riesce molto piaceuole spettacolo ueder in scena habiti barbari, et astratti dalle nostre usanze, et quindi auiene che riescono per lo piu cosi uaghe le comedie uestite alla greca. Et per questo, piu che per altra cagione fo io che la scena della comedia nostra che uedrete martedi [piacendo a Dio] si finge costantinopoli, per poter introdurui habiti cosi di donne come di huomeni, inusitati fra noi onde spero d’ aggiun ger uaghezza non poca allo spettacolo, oltre che piu ci parra sempre uerisimile il ueder succeder fra genti strane e che non conosciamo ; di quelle cose che per lo piu nelle comedie si rappresentono, che uederle acadére tra cittadini, co quali habbiamo continoua pratica. et se questo riesce ben nelle comedie, come per isperienza ne siamo certissimi, tanto piu succederà bene nelle tragedie. Nel uestir delle quali, dourà sempre chi le guida esser deligentissimo, non uestendo mai [se fia possibile] i suoi interlocutori, a i modi che modernamente si costuma, ma nelle maniere, che su le scolture antiche, o su le pitture figurati si ueggono, con quei manti, et con quelli abbigliamenti, co quali si figurano cosi uagamente quei personaggi de gl’ antichi secoli. Et per che tra i piu belli spettacoli, si mostra bellissimo il ueder comittiua di huomeni armati ; lodo che si facci comparire, in compagnia de i Re, o de i Capitani, sempre alcuni soldati, et gladiatori, guarniti all’ antica ne i modi che nelle castramentationi de i primi tempi si dissegnano, quando pero l’occasione lo patisca.
Sant. Veramente che queste cosifatte rappresentationi si conosce, che non son cose, se non da principi, che hanno l’ animo grande, et il modo da spendere, et ne gl’ apparati, et ne gl’ ornamenti che le si richiedono.
Ver. De gl’ aparati non uoglio che ragioniamo hoggi, et per dimane ui prometto di trattarne alquanto, Ma per non lasciarui ingannati, credendo uoi forse, che ci bisogna uno stato per rappresentare una tragedia, uoglio dir solo questo, che non é cosi mal fornita guardarobba d’un principe, che non se ne possa cauare da uestire ordinariamente ogni gran tragedia : se colui che la conduce, sara galant’ huomo, da sapersi seruire di quello che ci hà, et ualersi di alcuni drappi intieri, et di alcuni paramenti, et simile cose, dà far manti, soprauesti, et stole, con cinture, et nodi, ad imitatione de gl’ antichi, senza tagliarli, ne guastarli, in parte alcuna.
Mass. Certo, che chi uolesse fare tutti i uestimenti apposta, ui andrebbe [come disse il Santini] uno tesoro.
Ver. Il medesimo ui andarebbe anco, o poco meno, chi uolesse far di nouo apposta, tutti gl’ habiti da recitare una comedia, o anco una cosa pastorale. e pur ci seruiamo per lo piu di cose fatte.
Mass. Poi che ricordato n’ hauete non ui graui di gratia, dirne anco il modo con che si uestono queste cose pastorali, et come si fabbricano le lor scene, ch’ io non sò d’ hauerne mai ueduta rappresentar alcuna.
Ver. Circa alle scene pastorali parlaremo con gl’ altri aparati dimane ; hora circa al modo del uestirle dico che se il poeta, ui haurà introdotto alcuna deita, od’ altra noua inuentione ; bisogna in questo, seruire alla intention sua : ma circa al uestir i pastori, si haurà prima quello auertimento, che si è detto anco conuenire nelle comedie ; cioè, farli tra lor piu differenti che si può, Et quanto al generale il lor uestir sara questo. Coprir le gambe et le braccia, di drappo di color di carne, Et se sara il recitante giouane et bello, non si disconuerà, lo hauer le braccia, et le gambe ignude, ma non mai i piedi, i quali sempre hanno da essere da cothurni, o da socchi, leggiadradramente calzati. habbia poi una camisciola di zendado, o altro drappo di color uago, ma senza maniche ; et sopra quelle due pelli [nel modo che descriue Homero ne l’ habito del pastor troiano] o di pardo, o di altro uago animale, una su’ l petto, et l’ altra su’ l dosso, legandole insieme, con li piedi di esse pelli, sopra le spalle del pastore, et sotto i fianchi. et non è male per uariare, legarne ad alcuni pastori sopra una spalla sola. Habbia poi alcuno d’ essi un fiaschetto, o una scodella di qualche bel legno a cintola, altri un Zaino legato sopra una spalla, che gli penda sotto l’opposito fianco. Habbiano ogn’ un d’ essi un bastone, altri mondo altri fronzuto in mano, et se sarà piu strauagante, sarà piu a proposito. in capo le capillature, o finte, o naturali ; altri aricciati et altri stesi, et culti. ad alcuno, si può cinger le tempie d’ alloro, o d’ hedera, per uariare, et con questi modi, o simili, si potrà dire che honoreuolmente sia nel suo grado uestita : Variando i pastori l’ uno da l’ altro, ne i colori, et qualità delle pelli diuerse, nella carnagione, et nella portatura del capo, et simile altre cose che insegnar non si possono, se non in fatti, e con il proprio giudicio. Alle nimphe poi, dopo l’ essersi osseruate le proprietà loro descritte da poeti, conuengono le camisce da donna, lauorate, et uarie, ma con le maniche. et io soglio usare, di farci dar la salda, accio che legandole co munili, o con cinti di seta colorate, et oro, facciano poi alcuni gomfi, che empiano gl’ occhi, et comparano leggiadrissimamente. gli addice poi una ueste dalla cintura in giù, di qualche bel drappo colorato, et uago, succinta tanto che ne apaia il collo del piede ; il quale sia calzato, d’ un socco dorato, all’ antica, et con atilatura, ouero di qualche somacco colorato. gli richiede poi un manto sontuoso, che da sotto ad un fianco, si uadi ad agroppare sopra la oposita spalla. le chiome folte, Et bionde, che paiono naturali, et ad alcuna si potranno lasciar ir sciolte per le spalle, con una ghirlandetta in capo. ad altra per uariare aggiungere un frontale d’ oro, ad altre poi non fia sdiccuole annodarle con nastri di seta, coperte con di quei veli sutilissimi et cadenti giù per le spalle, che nel ciuil uestire, cotanta uaghezza accrescono ; et questo [come dico] si potrà concedere anco in questi spettacoli pastorali, poi che generalmente il uelo suentoleggiante, è quello che auanza tutti gl’ altri ornamenti del capo d’una donna, et hà pero assai del puro Et del semplice come par che ricerca l’habito d’una habitatrice de boschi In mano poi habbiano queste nimphe, alcune di esse un’arco, et al fianco la pharetra, altre habbiano un solo Dardo, da lanciare, alcune habbiano poi et l’ uno, et l’ altro. et sopra tutti gl’ auuertimenti, bisogna che chi essercita questi poemi, sia bene essercitato per che è molto piu difficile condur una sifatta rappresentatione, che stia bene : che non è a condurre una comedia ; et per la uerità fa anco molto piu grato, Et bello spettacolo.
Sant. Sotto questo nome di nimphe uoi non comprendete gia tutte le sorti di donne, che in tali spettacoli s’ intropongono ? ne sotto il nome di pastore tutti gli huomeni ?
Ver. Anzi nò, per che se il poeta u’ introducesse [come sarebbe per essempio] una maga bisognarà uestirla secondo la sua intentione. o se u’ introdurà un bifolco, con l’ habito rozzo, Et Villanesco, bisognarà figurarlo. ma se ui sarranno, come sarebbe, pastorelle ; il modo del uestir delle nimphe, le potrà ben dar la norma : senza manto, uariandolo dal piu sontuoso al meno, et senza darle altro in mano, che un bastone pastorale. Et si come rende gran uaghezza, se il pastore haurà seco alle uolte, uno, o piu cani, cosi mi piacerebbe, che alcuna delle Nimphe de boschi ne hauesse ; ma di piu gentili, con collari vaghi, et copertine leggiadre. e per finire quello, che a me pare a questi poemi conuenirsi, dico che si come nella lor testura, le se ricerca il uerso ; cosi bisogna che chi li ueste, o essercita facci accompagnare, la presenza et i mouimenti di chi ui recita, alla grauità che con li uersi li haurà dato il poeta. Mass. Io non credo, che sia possibile assegnar piu particolar regole di quelle che assegnate ci hauete sopra le cose pastorali : però tornando oue ci togliemmo, ueniamo al atto di mandar fuori il prologo delle comedie.
Ver. Prima che si conduca a questo, si suol fare una rassegna, de i personaggi, et uedere, se sono tutti prouisti di quelle cose, che fa lor bisogno, nel modo che in una lista [come quella ch’ io faceua pur dianzi] bisogna hauer notato : per che una poca cosa che si scordi, può in gran parte sconcertar lo spettacolo. Oltra di questa, io me ne soglio fare un’ altra molto utile, et necessaria ; doue noto tutte le scene per ordine, co i nomi de suoi personaggi, et con il segno della casa, o della strada, di onde hanno ad uscire, et a qual desinenza, co ’l principio anco de le lor parole ; accio che con questa norma, possi chi n’ haurà cura, porre tutti i recitanti sempre a tempo al lor loco. Et spinger fuori ogn’ un d’ essi, alla sua desinenza, e porli anco in bocca la parola, con che haurà da cominciare.
Sant. A questo modo, non è periglio, che possi restar da una scena all’ altra, il Theatro uoto. hora ueniamo al mandar giu della cortina o sipario che se la chiamassero gl’ antichi.
Ver. Prima che quella cada, lodo il far suonar alquanto, ad imitatione dei primi comici, o trombe, o piffari, ouero qualche altro istromento strepitoso, che habbia forza di destare gli animi, quasi adormentati per la lunga dimora che ordinariamente fan la maggior parte de gli spettatori, prima che si uenghi al desiderato principio : et questo Gioua anco per risuegliare i cori de i recitanti.
Mass. Questo per proua ho ueduto io far grande effetto. hor ueniamo ai prologhi et alle qualita di essi.
Ver. Quanto alle qualita loro, a me pare, che abbiano molta maesta, et che siano molto conuenienti, quei modi de prologhi usati da gl’ antichi, cioè che in persona del poeta, eschi uno, togato, Et laureato, il cui habito richiede essere, non men sontuoso che graue. Et addice molto aggiungere sotto alla laurea, una capillatura posticcia, si per trasformare il personaggio, come per farlo parere persona antica. et questo haurà da uenire subito calate le tende, con passo lentissimo et graue da la estrema parte della scena. et giunto con tardità a mezo d’ essa ; fermarsi tanto ; che senta ridotto in silentio quel bisbiglio, che suol sentirsi in cosi fatti lochi : et poi agiatamente incominciare. Ne lodo io, che uadi mutando loco ; ma che con grauità si fermi a recitare, e se pur haurà da mouersi ; da un proposito all’ altro, puo far un passo solo, o due, ma graui, senza però uoltar mai le schiene a gl’ uditori. et non essendo hora fuor di proposito al tutto, dirò per regola generale, cosi a tutti i recitanti come al prologo, et all’ argomento ; che mai non bisogna Voltar le spalle a spettatori, et che sempre è bene il ridursi a ragionare piu in mezo, et piu in ripa al proscenio, che sia possibile, si per accostarsi il più che si può a gl’ uditori ; come per iscostarsi quanto piu sia possibile dalle prospettiue della scena, poi che accostandolisi perdono del lor naturale, et il molto discostarsene par però poco a i ueditori ; come benissimo la esperienza ci mostra. et generalmente dico ancora, che mentre si parla ; non si dee mai caminare, se gran necessità non ce ne sforza.
Mass. Questo è benissimo inteso. hor ditene di gratia se la scena si fingerà, per cosi dire, esser Roma, et che la comedia [poniam caso] si reciti in firenze, questo prologo, con chi ha da parlare, et in che loco hà da mostrar di trouarsi ?
Ver. Lassando da parte per hora quelle inuentioni di prologhi doue s’ introduce deità od’ altri personaggi estraordinarij [de quali si trattarà poi ragionando de gl’ intermedij uesibili] dico, che quello che in persona del poeta fauella ; ha da rizzare sempre il suo ragionamento alli spettatori [contrario allo che ha da fare il recitante] et mostrarsi come lor citta dino : dandoli notitia della citta che rappresenta la scena ; della qualita et del titolo della fauola, chieder il silenzio, et altre cose simili.
Sant. Hor circa a gl’ intermedij non ci uolete uoi dir hoggi cosa alcuna ?
Ver. Lasciando di parlar di quelli che apaiono in scena, di che si trattarà dimane, come ui ho detto, e darouui anco sopra essi il ◀mio▶ parere circa il loro accrescere o scemare riputatione a le comedie, dico, che gl’ intermedij di musica almeno, sono necessarij alle comedie, si per dar alquanto di refrigerio alle menti de gli spettatori ; et si anco per che il poeta [come ui cominciai a dir hieri] si serue di quello interuallo, nel dar proportione alla sua fauola. poscia che ogn’uno di questi intermedij, ben che breue, puo seruir per lo corso, di quattro, sei, et otto hore a tale che quantunque la comedia, per lunga che sia, non hà da durar mai piu che quattro hore ; spesso se le dà spatio di un giorno intiero, et anco alcuna uolta di mezzo un’ altro, et il non comparire personaggi in scena ; fa questo effetto con maggiore eficacia.
Mass. E che sorti d’intermedij ui par poi, che piu conuengono alle tragedie, et ai poemi pastorali ?
Ver. Le tragedie come credo auer altre uolte significato, non hanno propriamente ad essere destinte in atti [quantunque i moderni per propria autorita le diuidono] et i chori che in esse si fanno da poeti, sogliono seruire per quella parte, che hà da trascorrer di tempo tra un successo et l’altro. Ma per che par che si usi a tempi nostri da destinguerle [pero che i moderni le ordiscono di piu lunghi soggetti] diremo dimane qual sorte d’intermedij son giudicati piu lor conuenirsi, Et insieme anco parlaremo de gl’ interualli de poemi pastorali, poi che per hoggi si è detto assai : et in uero mi conuiene essere a far proua di alluminar la scena della nostra comedia, per ueder che non gli manchi cosa alcuna, et però con uostra licenza farò fine al ◀mio ragionamento, se però non uoleste uenir anco uoi, a ueder questa proua.
Sant. Vogliamo noi, o signor Massimiano accettar questo cortese inuito ?
Mass. E per che no ?
Ver. Andiamo dunque alla scena.
Sant. Andiamo.
Nulla di più importante e di più interessante per la storia della scena italiana, di questo dialogo, in cui sono massime e sentenze che assai ben si addirebbero agli attori di oggidì, e da cui possiam capir chiaro come il metodo di recitazione degli antichi comici si mantenesse quasi invariato fino a tutta la prima metà del secolo presente. Il progresso dell’arte esteriore, se così posso dire, ossia di tuttociò che concerne il gesto, la voce, la dizione ; quel progresso che fa spesso proferire un discorso eterno colle spalle voltate al pubblico, e tutto d’un fiato, rapido, precipitoso, ruzzolato, che il pubblico non arriva mai ad afferrare ; quel progresso che fa del palcoscenico, nel nome santo della verità, e a scapito dell’arte e del buon senso, una stanza a quattro pareti, senza tener conto quasi mai che per una di esse, il boccascena, gli spettatori han diritto dai palchi e dalla platea di vedere e udire quel che accade lassù ; quel progresso, dico, ha vita da poco più che trent’ anni.
Gli avvertimenti sulle Commedie nuove, sul parlare adagio, sul sillabare, sulla truccatura, sulla pronuncia delle ultime sillabe, sul gestire, sul non scordare oggetti necessari alla azione, sul buttafuori, o sveglione, o, come si dice oggi, soggetto, sulle scene vuote potrebber bene attagliarsi alle scene di oggi. Nè voglio mi si dìa del codino, se certe novazioni non sottoscrivo alla cieca. Progresso ci ha da essere, e certi convenzionalismi barocchi devono esser banditi. Ma dal conversar dinanzi a ’l pubblico schierati presso la ribalta, al restar gran tempo inchiodati alla scena di fondo, presso un camino con le spalle verso il pubblico, a me pare che il tratto sia troppo lungo. Senza convenzionalismi arte non v’ha : e molte volte per isbandirne uno a casaccio, se ne crea un altro maggiore e peggiore.