(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [E-F]. I COMICI ITALIANI — article » pp. 841-848
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(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [E-F]. I COMICI ITALIANI — article » pp. 841-848

Fabbri Giovan Paulo. Artista rinomatissimo per le parti d’innamorato, sotto il nome di Flaminio, nacque a Cividal del Friuli, e menò vita travagliatissima e miserissima, per la morte specialmente della figliuola Tranquilla, rapitagli dal vajuolo a tre anni e dieci mesi, per la quale dettò soavissime rime.

Secondo il Bartoli, nacque il 1567, e morì il 1627 ; ma nè della data di nascita, nè di quella di morte, ho potuto trovar notizie precise.

Oltre che artista comico assai valente (recitò cogli Uniti e coi Fedeli), fu anche poeta ricco di soave spontaneità. Basterebbero a testimoniar del suo merito i nomi di Domenico Bruni e di Isabella Andreini. Quello nel preludio alle Fatiche comiche scriveva :

Gio. Paulo Fabri non cedendo agli antichi, et non invidiando a’ moderni col mezo del recitare, et dello scrivere, fa conoscere non bisognar dormire ogni sonno a chi vuole per mezzo dell’arte sua farsi onore.

E questa, in risposta a uno di lui, dettò il sonetto seguente, già riferito da F. Bartoli insieme alla proposta, adoperando le stesse parole a ogni fin di verso :

Tu, che godi felice i lauri e l’onda,
che di Parnasso i lieti Campi irriga
qual desir nuovo la tua mente instiga
di far prima in virtù chi t’è seconda ?
Se più d’ogni altra di sapere abbonda
la tua bell’alma, tu sol la Quadriga
dei guidar di tua gloria ; ogni altro Auriga
di Climene al figliuol fia che risponda.
Tuo nobil canto di Meandro vano
rende l’onor ; e già la morte è data
al bianco augel, che si soave piange.
Così poggiando sovra l’uso umano
di luce splendi più chiara, e lodata,
che quel, che ’l giorno a noi porta dal Gange.

Di lui abbiamo a stampa :

Due suppliche | e duo ringraziamenti | alla Bernesca.
In Trento, per Gio. Battista Gelmini, mdcviii.
(Vi è aggiunto un discorso al lettore sulla cognizion di sè stesso).
Quattro | Sonetti | spirituali. |
In Perugia, nella Stamperia Augusta, 1610.
Quattro | Capitoli alla Carlona. |
In Trento, per Gio. Battista Gelmini, mdcviii.
Rime varie | La maggior parte lugubri | ….
In Milano, per Marco Tullio Malatesta, 1613.

Più qualche sonetto in foglio volante, e tre prologhi teatrali alle commedie di G. B. Andreini, Il Lelio Bandito, La Turca, e Due commedie in commedia.

Nel libretto delle Rime varie sono le maggiori notizie della sua vita. Il luogo di nascita ci dice egli stesso in un sonetto A Cividal del Friuli sua patria in occasion di guerra civile, e ci ripete poi nella Canzone, nella quale descrive parte de’ suoi infortunij da che nacque fino all’anno quarantesimo sesto di sua età, e la conchiude con la morte della figliuola. Canzone che riferisco intera, come quella d’onde trasse le sue notizie Francesco Bartoli :

Acquetar non si può la mente afflitta
A’ suoi mali pensando antichi, e novi,
E come così fera un uom persegua
Fortuna rea nel mal’oprar invitta.
Musa benchè trafitta
Da varie punte, pur membrar ti giovi
Quel che fin’or tutte sventure adegua,
Ch’abbia sofferto mai misero core.
O tenace dolore
Mentre del viver mio la sorte scrivo
Come languido son per te mal vivo
Lasciami, che ben tosto a me ritorno
Farai col trarmi alfin d’oscuro giorno.
Nacqui là dove il Natisone inonda
Città, che ricca è di guerrieri ingegni,
Nè disprezza gli studi, e le bell’arti,
Città, che liberal provò Rosmonda.
Altri il vero nasconda
Io no ; povere fasce i primi segni
Dier d’infelicitate in quelle parti,
Che poi seguimmi in ogni estran paese ;
Così Penia mi prese
Allevatrice infausta, e mi percosse
Ne’ miei primi vagiti ; indi si scosse
Torbida stella ; era morir pur meglio,
Ch’esser altrui d’alta miseria speglio.
A pena giunto al primo lustro, avara
Morte mi tolse i genitori, ond’ io
Potea sperar se non ricchezze, almeno
A perigliosi di custodia cara.
Come fanciullo impara
Sotto severo zio timor, che rio
Strazia tenero cor, tenero seno
(Lasso) imparai ; nè v’ ha chi mi pareggi ;
Spietatissime leggi
D’affinità così trattate un vostro ?
Parente crudelissimo, se ’nchiostro
Dovessi oprar quant’ ho versato sangue
Per colpa tua, l’opra fariami essangue.
Tolto da lui dove col senno è giunta
Lodata libertà, che ogni altra vince,
Semplice mossi il travagliato fianco
Da celeste desir l’anima punta ;
Che ne fu poi disgiunta
Da chi togato altrui sembrava Lince,
Ed era talpa in sua ragion non franco ;
Onde mi volsi ad essercizio industre ;
Così dal loco illustre
Di chi tra pietre vide il ciel aperto
Sciolto, feimi tra libri un tempo esperto ;
Ma, perchè m’era troppo il piè legato
Fuggitivo mi trassi ad altro stato.
Per l’ Adriano mar su picciol legno
Varcai onde, e perigli infin, che al lido
Approdai dove langue oggi Ravenna ;
Ravenna ora non più real sostegno ;
Di prisca gloria segno.
Ben ne dà in mille carte altero grido,
Che più d’una assaltò famosa penna ;
E ben ne fan magioni auguste fede ;
Di cui ciascuna cede,
A ruina però, ch’alta pietate
A maraviglia unisce. O voi cangiate
Delizie, o Galla, e tu Teodorico
Che direste pel ver, ch’espresso io dico ?
Anzi non dico a pien di sua figura
Il perduto vigor, che si vi piacque,
E sì abbelliste liberali, e grandi,
Poco quaggiù fastosa pompa dura.
Atterra il Tempo, e fura
Ogni machina eccelsa ; in mezo à l’acque
Quante ne son, ch’à dirne i come, e i quandi
Fora tedio maggior, che trar dal cigno
Opra d’ Astro maligno
Contr’ Ilio, sia influenza, o fato, o sorte,
Che ’l tutto adduce a inevitabil morte
Vostra fede non è qual era in prima,
Ch’ora s’avalla ogni elevata cima.
Quivi per fin ch’ebbe duo segni il sole
Passati (e fur il Sagittario, e l’altro
Che gli è freddo vicin) parco men vissi.
Poco chiede Natura, e poco vuole.
L’arte, che ne le scole
Venete appresi dichiarommi scaltro
A scaltro pari a cui mia voglia dissi,
Ed ei m’accolse, ore notturne al die
Ne le fatiche mie
Sovente aggiunsi ; alimentaimi ; intanto
De la città si sparse in ogni canto
Fama d’allegra allor comparsa schiera,
Che per gioia d’altrui condotta s’era.
Seco m’aggiunsi, e giovenetta mostra
Fei ne’ teatri, ch’or tanto deprime
Non ben saldo parer d’animi foschi ;
Non già così chi ’l nobil capo inostra
De la Romana chiostra
Lodato eroe tra le famiglie prime
De’ Greci, e dei Latin come dei Toschi
Saggio cultor, e ’n un Testor amante ;
S’egli ad ogn’altro avante
Poggia per gran saper, che dicon questi
Aristarchi bugiardi ogn’or molesti ?
Tacciano ; e s’ han da dir dicano il vero,
E non mutin color candido in nero.
L’ Aquinate nol muta ; or tanto basti ;
Che ben suo detto val più, ch’altri mille ;
S’inciela ei divo ; i detrattori in terra
S’appagan sol d’ambiziosi fasti :
Ma, perchè troppo osasti
Altri non dica, al mio spietato Achille
Torno ; stanco non mai di farmi guerra ;
E ’n brevi note chiuderò gran cose.
Mi fur pene amorose
Continue al cor finchè Imeneo legommi
Avinto ne’ cui lacci or vivo, e stommi
Venduta libertà senz’alcun prezzo ;
E ’l pentirsi non vale in ciò da sezzo.
Padre mi fe’ natura in cinque giri
Pieni del sol di quattro figli à cui
Posi tanto devuto amor paterno,
Ch’altr’uom non è (cred’io) ch’egual sospiri.
Fur sempre i miei desiri,
Ch’abito sacro li cingesse, a lui
Rendendogli, che tiene il gran governo
De la terra, e del ciel Motor immoto.
Ma, perchè mi sia noto,
Che ’l propor, e ’l dispor varia potenza
Variar mi convenne ancor sentenza ;
Vivi dar gli volea ; tre me ne tolse
Morte ; e decreto, o permission mi sciolse.
Ne la città, ch’ ha d’oro i bei costumi
Benchè di ferro il nome, un si riposa
Iacopo mio primier estinto germe ;
Vittoria tu chiudesti i cari lumi
In grembo a Flora. O fiumi
Non occhi, qui destate alma pietosa
A lutto (foste almen mie gioie inferme)
Tranquilla mia tu del Picen nel seggio
Sovran dov’esser cheggio
Teco, giaci sepolta infrà que’ sacri
Marmi, ch’ebber di pianto ampi lavacri ;
Marmi al Vate maggior d’Ippona eretti
Cui patrii fur cartaginesi tetti.
Monte sostenitor d’antico muro
Terminator di nostra Italia antica,
Che ’l vecchio piè d’ Adria ne l’onde bagni
Quanto sarammi il ricordarmi duro
Di te. Felice Ancùro,
Che potesti salvar da la nemica
Voragine, benchè Mida si lagni
La patria tua, benchè la moglie pianga.
Averrà me, che franga
Ogn’ora il duol per non poter l’istesso
A prò de la mia cara. Ahi pur concesso
A fera vien, che col ruggito i figli
Ravvivi ; e me non ha chi pio consigli ?
Pelican fortunato ancor tu puoi
La spenta prole ravvivar ferendo
Te stesso, io no, che ferireimi or ora,
E ferito m’avrei prima, che i suoi
Lumi chiudesse a noi
La mia diletta ; è vero al ciel salendo
Per fruir lieta una perpetua aurora,
Anzi un’eterno sol, che non tramonta.
È ben l’anima pronta
Quando ciò pensa a sofferir martire :
Ma tosto, che s’accende in me ’l desire
Di veder dolci pargoletti modi
Forz’è, ch’a lamentar la lingua io snodi.
Sigismondo ben tu, ch’ultimo fine
Rimaso se’ di mie speranze incerte
Scherzi : ma non giamai qual tua sorella ;
Cui freschissime rose in calde brine
Date dal ciel, divine
Fean sue sembianze ; e non vegg’io chi merte
A par di lei in sua innocenza bella.
Perduta io l’ ho, nè più trovarla spero,
Se non m’appresso al Vero :
Ma troppo andrà, poichè m’impruna il varco
Fascio d’errori ; e non si può gir carco
Com’io misero son dov’ella è gita
Anzi tempo chiamata a l’altra vita.
Canzon da la Potenza al Natisone
Ci è gran tratto di via per ogni via ;
Dov’è la Figlia mia
Fermati, e posa : poi di loco in loco
Di’, che de’ miei tormenti ho detto poco.

Nella Essagerazione fatta in riva al Serchio, abbiamo più distesamente che qui il vivo desiderio di monacar le due figliuole, alle quali mostra a color fosco le pene del matrimonio, a esempio di sè forse, alla cui poca felicità maritale accenna in quei versi della Canzone :

Imeneo legommi,
avvinto ne’ cui lacci or vivo, e stommi
venduta libertà senz’alcun prezzo ;
e ’l pentirsi non vale in ciò da sezzo.

e in questi altri dell’ Essagerazione :

Me contra ’l maritarsi ira non punge,
benchè de’ suoi dolor mi viva a parle ;
dico per vero dir ; di mille a pena
una ne’ lacci suoi vita ha serena.

Era egli nella Compagnia degli Uniti, che il 3 aprile 1584 scrivevan da Ferrara al Principe a Mantova, desiderosi di recarsi colà a recitare ? Probabilmente. Di altri Flamini di tal tempo non abbiam notizie : e il Fabri (secondo il Bartoli che lo fa nascere, come s’è visto, nel 1567, avrebbe avuto allora soltanto diciassett’anni) sappiam che cominciò a recitar giovinetto.

Andò con Francesco e Isabella Andreini alla Corte di Francia il 1603 : e allude a tal tempo nel I Capitolo al Della Genga, là dove dice :

Con le Comedie ho già servito ai Gigli
di Francia in Compagnia di quella donna
che non teme del tempo i duri artigli.

Il Baschet (op. cit.) cita una ricevuta su pergamena del 31 dicembre 1603, per la somma di 600 scudi ai comici Isabella, Gio. Paolo Fabbri e Giovanni Pelesini, per l’opera loro prestata durante cinque mesi.

Della sua patria, dell’arte sua, e del suo stato assai miserevole discorre egli nella prima Supplica al Cardinal Madruzzi, vescovo e principe di Trento :

…. Monsignor, io sono
un, che sempre in comedia s’innamora :
Ma così Dio della sua grazia il dono
mi conceda benigno come mai
non sento al cor d’Amor tempesta o tuono.
Mi chiamano Flaminio uomini assai :
ma ’l mio nome è Gio. Paolo, e son de’Fabbri
nato in Friul.
……………
Signor, non ho denari, e ’l mio Destino
padre mi fa di povera famiglia,
che spesso dà molestia al suo vicino ;
ho tra l’altre una mia picciola figlia,
che co’ suoi modi pargoletti in fasce
un’ Aurora bambina rassomiglia.
Sua ventura ha ciascun dal di che nasce,
disse ’l Petrarca ; s’ella non ha ajuto
bisognerà che tosto il mondo lasce.
Oimè, che quasi meno io son venuto
nel dirvi questo. Humil fo a voi ricorso,
essendo d’ogni bene destituto.

A Trento era colla compagnia l’autunno del 1608, quando cioè pubblicò i Capitoli e le suppliche ; e innanzi di partire si duole nella seconda di esse al Capitan di Trento, Barone di Thon, della miseria dei comici non andando gente a teatro.

……………
Voi che quasi ogni sera siete stato
a favorirci, e spesso compatito
avete al nostro miserrimo stato.
Sapete ben come ’l negozio è gito.
Non abbiam colto alcuna sera tanto
che bastasse per cena ad un Romito.
Non va lenta così biscia all’incanto
come i Trentini alla comedia. È vero,
che l’estremo del riso assale il pianto.
In Verona, in Vicenza, in Brescia altero
mandava ognun di noi moneta ed oro,
or ha preso il guadagno altro sentiero.
In Friul non cred’io la testa al Toro
veder tagliar, idest far carnevale,
perchè d’ir a Bologna io spasmo e moro.

Qui narra di certi suoi pegni di libri e di medaglie a Bologna, e invoca al solito ajuto di danaro al suo protettore. Danaro, anche al solito, mandatogli, pel quale scrisse poi al Thon un nuovo capitolo di ringraziamento, ove son questi versi accennanti, ancora, alla figliuola Tranquilla :

……………

questa è una Bambina,
che in Brescia, non ha molto, a patir venne ;
E d’età di tre mesi, una mattina,
perchè trovò alla madre il seno asciutto,
isvenne, e fu quasi al morir vicina.
Muta eloquenza filïal che in tutto
ogni altra vinci, io volli allor allora,
venir a dirvi il mio doglioso lutto :
Ma per ventura, d’una stanza fuora
uscì una donna che pietoso il petto
le porse, e richiamolla a nova Aurora.

Il 26 ottobre 1612, Tristano Martinelli scriveva da Firenze al Cardinal Ferdinando Gonzaga, mandando una lettera di Maria de’ Medici, nella quale era il desiderio di mettere assieme una compagnia di comici tra cui figurava il nostro Fabbri.

Lo troviamo il 1613 a Milano, dove pubblicò, terminate le recite, un sonetto di ringraziamento, già riferito dal Paglicci (op. cit.) assieme a un altro congratulandosi della famosa libreria, che Monsignor Illustrissimo e Rev.mo Federico Cardinal Borromeo suo arcivescovo ha fatta, e tuttavia va facendo ; e il 1614, per due mesi, a Genova, secondo la concessione di quel Senato del 18 agosto. (V. Bernardini).

Fabbri Adelaide, nata a Cesena il 1796, si diede giovanissima all’arte drammatica. Esordì, generica, in Compagnia Brangi, sotto l’Isabella Buzzi, assumendo dopo un anno il ruolo di prima attrice giovine, col quale fu scritturata il 1821 in Compagnia di Tommaso Zocchi, che abbandonò poi per passare, il ’22 e ’23, con l’Assunta Perotti e Luigi Fini. Si recò il ’24 col capocomico Mario Internari a Napoli, ove rimase fino al ’29 colla nuova società de’Fiorentini, Tessari, Prepiani e Visetti. Formò poscia compagnia, nella quale assunse la parte di prima attrice assoluta : ma dovette, costrettavi dalla avversa fortuna, accettare il ruolo di madre nobile, seconda donna e caratteristica, offertole da Romualdo Mascherpa, col quale stette fino alla morte di lui che accadde nel ’48. Passò quindi nel ’51 madre e caratteristica in Compagnia di Cesare Dondini ; poi in quella del fratello Ettore sino al ’73, in cui, pervenuta all’età di settantasei anni, si ritirò dalle scene, cessando di vivere due anni dopo.

Il Colomberti così narra le cagioni che la determinarono a entrar nell’arte :

Giovine ed inesperta, si innamorò di un cattivo soggetto, e contro il consiglio dei di lei genitori volle sposarlo ; ma ben presto si penti della sua scelta. Era essa chiamata nella sua patria la bella Cappellarina, perchè figlia di un fabbricante di cappelli. Quel sopranome era da lei meritato, perchè ad una figura venerea univa un volto di bellissimi lineamenti. La gelosia invase il cuore del di lei marito, benchè ella fosse di condotta onestissima, e tanto lo predominò, che tentò di ucciderla ; e lo avrebbe fatto, se una combinazione non lo avesse impedito. Stanca di soffrire gl’ingiusti sospetti del marito, spaventata dal pericolo passato, rifugiossi nella casa paterna ; e non trovandosi sicura colà, si recò nascostamente a Forli presso di una cugina di sua madre. Ma temendo sempre di esser troppo vicina al marito, si offri al capo comico Brangi, che con la sua Compagnia occupava il teatro di quella città, come generica giovine.