(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [E-F]. I COMICI ITALIANI — article » pp. 832-837
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(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [E-F]. I COMICI ITALIANI — article » pp. 832-837

Emanuel Giovanni. « Firenze, li 15. 1. 1898. – Carissimo Rasi – Tu mi chiedi di parlarti di me. È impossibile : dovrei dirne troppo male, e la carità del prossimo me lo vieta. Sono nato a Morano sul Po, piccolo paese del Casalasco (Monferrato) or sono 50 anni, cioè l’undici febbraio 1848. Mia Madre era una Rosa Pugno, mio Padre si chiamava Guglielmo. All’età di 3 anni mi portarono a Torino. Finito il Liceo, mio padre mi disse, lagrimando, che non poteva più mantenermi agli studj : feci l’ impiegato gratis per qualche mese, poi per disperazione dell’avvenire oscurissimo, nel 1866 in giugno, mi aggregai a Bellotti-Bon e d’allora fo il “burattino” e dal ’73 anche il “burattinajo.” – E ti dissi anche troppo. – Tuo G. Emanuel. » Meglio non avrei potuto cominciar le note sul forte artista che con questa lettera, la quale dice chiaro nella sua concisione, nella sua modestia, non discompagnata da una certa alterezza, l’indole dell’uomo. Fu dunque secondo brillante il ’66 con Bellotti-Bon, poi primo amoroso il ’67 con Coltellini, il ’68 con Vernier, col quale creò con gran successo la parte di Sirchi nel Duello di Ferrari, il ’69-’70 con Alessandro Salvini, e il ’71 con Peracchi : poi, Capocomico. A chi ricordi il giovane atleta sullo scorcio del ’67 o sul cominciar del ’68, al fianco di Laura Bon, di Teresina Boetti, e di un Bianchi, pellicciaio livornese, cimentarsi nel Don Carlos e ne’ Masnadieri di Schiller, e toccar sotto le spoglie specialmente del tristo Moor, altezze non immaginate, non parrà strano che a soli ventiquattr’anni egli si disponesse, capocomico e primo attore assoluto, a lottare strenuamente colle maggiori difficoltà d’interpretazione, creando i caratteri più disparati comici e tragici, del teatro nostro e forastiero. Nel Mercadet di Balzac e nel Matrimonio di Figaro di Beaumarchais, non ebbe rivali mai ; pochissimi nella tragedia di Shakspeare, di cui fu ed è tuttavia interprete de’ più forti. E se non ci appare artista completo, ciò si dee forse a una recitazione affaticata, direi quasi ansimata, e a un’andatura curiosa in certi inceppamenti, che lo rendono monotono tal volta. Ma negli scoppi d’ira selvaggia, in alcune scene dell’ Otello, nella imprecazione del Re Lear, nella scena capitale del Bastardo, quanta violenza, quanto fuoco, in quella spontaneità. Certo l’ Emanuel dev’essere additato ai giovani come specchio di vero artista ; chè niuno forse accostossi ai suoi autori con rispetto maggiore e maggior diffidenza delle proprie forze !… Niuno forse, innanzi di cimentarsi in ardue lotte dinnanzi al pubblico, andò compiendo gli studj di preparazione, di lunga e minuziosa disamina sui fatti e sulle frasi e parole, ai quali egli suole abbandonarsi. Ma quando si presenta ai lumi della ribalta, forte di quegli studj, sicuro di sè, vissuto ben lungo tempo nel suo personaggio, fattolo spirito del suo spirito e carne della sua carne, il pubblico si trova sempre dinnanzi a un’opera di novazione, discutibile certo, ma certo opera d’arte, e della grande arte. A testimoniar dell’ingegno e degl’intendimenti artistici di Giovanni Emanuel, del suo metodo di studio, de’ suoi timori, della sua forza, della sua perseveranza, della sua alterezza, e soprattutto della sua sincerità, ecco alcuni brani di una sua lettera del 12 gennaio ’87, indirizzata al Direttore del Fieramosca di Firenze, a proposito appunto della interpretazione nuova e inattesa dell’ Otello, che generò discussioni e polemiche non più udite, e, direi quasi, non più visti accapigliamenti.

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Dacchè la mia mente si aperse all’arte non ebbi che un maestro : l’autore. Non ebbi che uno scopo : la verità.

Lessi costantemente tutte le critiche, che mi si fecero ; molte ne accettai, molte ne ripudiai : non fui scosso mai dall’impressione che le mie interpretazioni destavano nel pubblico o nella critica : non sentii mai orgoglio d’un applauso, mai ribellione per un fischio : non sollecitai mai un articolo di lode, nè…. la croce di cavaliere ; unico mio giudice, inappellabile, assoluto, la mia coscienza.

Quando imprendo a studiare una gran parte, prima la copio tre, quattro, cinque volte, poi la studio letteralmente a memoria, come facevo a scuola del cómpito, poi comincio a plasmare da me e per me il mio personaggio : quando sono riuscito a contentare me, allora mi accingo al duello.

La prima impressione, che provo dinanzi ad una gran parte è la sfiducia. Dico sempre a me stesso : ah ! questa non arriverò mai a renderla come l’autore l’ ha creata ! La lascio, ci penso, mi faccio coraggio e l’attacco ; e man mano che la studio passo dalla sfiducia allo sconforto, alla paura, poi una costernazione indicibile m’invade testa, cuore, gambe, braccia, mi stringe pei capelli, mi stramazza a terra, e alla fine mi decido. Un ultimo lampo di viltà e d’angoscia al momento di entrare in scena, poi divento freddo e calcolatore come un giudice. E questa lotta per certi lavori è durata degli anni.

Prima di recitare il Kean volli uscire dall’assoluta oscurità : lo studiai dopo due anni che ero nell’arte, e lo rappresentai dopo dodici : non mi piacqui perchè ero troppo enfatico : lo ristudiai da capo, ed ora sono contento di me. Così l’Amleto, così il Mercadet, e cosi ora l’Otello.

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…..mi recai nella tua genialissima Firenze, che io amo coll’anima d’un innamorato, e mi trovai una stanza presso un buon borghese, che era stato quindici anni in Inghilterra. Era il mio uomo : era il formaggio sui maccheroni : il formaggio era lui, ed io ero il gran maccherone.

Davanti a me, sul tavolo, apersi Carcano, Maffei e Rusconi ; a sinistra il testo inglese, a dritta il Millouse, e sillaba per sillaba controllai tutte le parole di Shakespeare, e ad ogni dubbio, ad ogni oscurità, mi mettevo ad urlare : – Padrone, padrone ! – Eccomi ! – e quella mia vittima interrompendo il foglio delle tagliatelle (perchè faceva anche da cuoco a certi altri suoi pigionali) mi compariva dinanzi col matterello in mano. – Che cosa vuol dire : strike ? – Picchiare !… – e via ! – Padrone, che vuol dire : I prattle out of fashion ?… – ed egli : – Chiaccherare più del necessario !… – Ho capito ! non la disturberò più !… –

Ed è cosi, che ho potuto stabilire la non lievissima differenza che corre tra una traduzione e l’altra, ho potuto stabilire che la versione di Carcano è la più sdolcinata, quella del Maffei la più vibrata, quella del Rusconi la più chiara, e la mia (modestia a parte) la più fedele.

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O giovani, lasciate fare della filosofia all’autore : voi studiate bene le parole, le passioni, il carattere del personaggio, vestitelo secondo il costume del suo tempo, poi recitatelo con anima, senza fronzoli, senza declamazioni, senza preoccupazioni del come è vestito : leggete Alfieri, ma recitate Augier, Goldoni, Molière, Shakespeare, Macchiavelli e Plauto e Aristofane, e recitateli tutti nella stessa maniera, cioè con naturalezza ; e non lasciatevi infinocchiare dalla teoria barocca e ridicola, che per tutti i tempi e per tutti i personaggi ci vuole una recitazione diversa : di diverso non c’è che il carattere e il vestito : e quindi se il personaggio è serio e piange, voi dovete star serii e piangere, ma con naturalezza e verità tanto vestiti alla romana, che alla veneziana, tanto coll’elmo che colla tuba ; e se un personaggio è comico, è comico allo stesso modo tanto in Shakespeare, che in Molière, che in Goldoni, che in Augier, che in Bersezio.

Nell’ Amleto i due becchini vorrebbe averli scritti Sardou : Jago nell’ Otello sarà il tipo più umanamente vero anche da qui a mille anni, e Ofelia è la più grande creazione d’ingenua passata, presente e futura.

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L’anno scorso una parte di codesti critici, che ora mi va addentando cosi rabbiosamente, levava ai sette cieli la mia interpretazione del Nerone per la mia naturalezza e l’abbandono d’ogni convenzionalismo : ed ora per l’ Otello fingono di pensarla diversamente : e si spiega la resipiscenza : abituati alla traduzione del Carcano hanno intuito che Otello è un melodramma, mentre lo splendido verso di Cossa, senza suono e senza rumore, li aveva persuasi, che i Romani erano uomini come noi. Leggano, leggano quei signori critici il Giulio Cesare di Shakespeare, e si persuaderanno forse anche più che i Romani erano uomini e non cantanti.

Ma a sentir loro, nossignori ! E per recitare l’ Otello ci vuole la maestà ! Ci vuole quel certo non so che di convenzionale, senza del quale l’attore copia « la gretta natura. »

O proprio sarebbe tempo, che critici ed attori non invadessero il campo altrui, e noi attori specialmente lasciassimo a chi ne ha il cómpito di fare e creare i personaggi. Colla mania, che hanno avuto e che hanno certuni di « creare » hanno travisato e resa incomprensibile l’opera dell’autore.

Oh no ! non siamo noi i « mattoidi ! » Non siamo noi che combattiamo il buon senso ! Non siamo noi gli spavaldi e distruttori dell’opera altrui !

Noi tutt’al più tentiamo di abbattere quella crosta, che voi avete spalmato sulle creazioni degli altri ! Se volete fare dell’artificio restringetevi ad Alfieri, ma non calunniate Shakespeare. Shakespeare fu e sarà sempre il più gran « verista » della letteratura drammatica, ed è per questo che sarà eterno.

Le leggi del vero sono intangibili, come la più grande e raffinata espressione della verità, è la semplicità. Certo che Otello in Carcano non è naturale : è un Otello sofisticato : quello sta all’ Otello di Shakespeare come il panettone al pane : è più dolce ma non si digerisce.

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Otello, generale della potenza più civile d’allora, non lo vogliono uomo come noi : lo vogliono africano a tutti i costi !… Ebbene, andate a vedere la Krao, la ragazza scimmia, e vedrete che cosa conta la nascita, e cosa conta l’educazione ! Pochi anni fa questa scimmia viveva nei boschi, mangiava radici e carne cruda, era una bestia : in poco tempo un uomo ha fatto di lei una gentile ed educata signorina.

E Otello da tanti anni al servizio della repubblica, capitano di ventura, nato da stirpe regia, gentile come una fanciulla, buono ed ingenuo come un bambino, dovrebbe dimostrare al pubblico un’indole selvaggia ? Andiamo via ! Quasi, quasi sto per convincermi che Shakespeare sia stato costretto a scegliere il suo eroe fra i neri, arrestandosi dinanzi alla ferocia brutale dei signori bianchi ! E « i fatti diversi » delle Gazzette d’ogni giorno stanno li per provarlo !

Lasciamo all’autore la grande responsabilità di creare i suoi personaggi ; noi limitiamoci a farli parlare, camminare, e gestire secondo la « gretta, e sciocca e putrida natura ! »

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La ricetta per interpretare magnificamente una parte è semplicissima. Eccovela : studiate prima a memoria le parole, poi pensate a quale classe sociale appartiene il personaggio : mettete dentro a quel personaggio tutto il vostro cuore e la vostra mente : sentite la sua passione come la sentireste voi stessi se vi trovaste nel suo caso : provate cinque, sei, sette volte quella parte alla mattina come pensate di farla alla sera…. e la creazione è fatta.

Le quali parole sono anche una riprova del come egli si venne acquistando la fama di direttore preclaro. Alcuni di quei comici, e ve ne han pur tanti, che lottan colla fame, e imprecan contro l’arte, e…. non infilan quattro parole al lume della ribalta senza uno sproposito, trovaron ridicole ed esagerate le esigenze artistiche di Emanuel ; e le sue furie per una papera, per una battuta ritardata, per una intonazione sbagliata, chiamarono pazzia. Ma…. quanti di coloro che, appena mediocri, apparvero al suo fianco più che sufficienti, oggi tornati, lontano da lui, men che mediocri, dovran ricordarsi del loro grande maestro ! E di lui direttore, per una recita della Fedora di Sardou al Valle di Roma, scrisse il D’ Arcais nell’aprile dell’ ’83 :

Ad onor del vero, il merito del successo di Fedora è dovuto, in gran parte, all’esecuzione. L’ Emanuel, a mio credere, ha trovato la via per la quale, nell’interesse dell’arte drammatica, sarebbe stato a desiderare che si fosse posto prima di ora. Egli appartiene alla schiera poco numerosa degli artisti che non solo hanno un gran valore personale, ma sanno, in breve tempo, formarsi degli allievi fra gli attori che li circondano. Come artista, raccoglie senza dubbio l’eredità del Salvini e di Ernesto Rossi, scomparsi dalle scene italiane per recarsi in traccia d’allori e di quattrini all’estero. Ma in lui, al pari dell’artista, è sommo il direttore, il maestro, e, sotto quest’aspetto, egli mi rammenta Gustavo Modena, che fu il rinnovatore dell’arte della recitazione in Italia. È dunque da desiderare che rimanga a capo di una compagnia, e che di questa compagnia faccia una scuola, come ora sta facendo. L’esecuzione della Fedora è un prodigio di esecuzione complessiva ; tace il suggeritore, l’intonazione di tutti gli artisti è perfetta, nei minimi particolari si osserva una cura diligente ch’è prova al tempo stesso di una intelligenza superiore. L’ Emanuel sarebbe davvero uno dei direttori indicati per una compagnia stabile, nella quale abbondassero, come di dovere, gli elementi giovani. - Intorno all’artista, al primo attore, c’è poco da aggiungere a ciò che più volte ho detto io stesso. Chi ha udito al Valle l’ Emanuel nella Odette, nel Nerone e in questa Fedora, è costretto a riconoscere non esservi oggidi in Italia chi gli contenda il primato. È l’attore più vero e più efficace che si possa udire ; col progredire negli anni sono scomparse anche le piccole mende d’un tempo, e finchè avremo artisti di questa fatta non dobbiamo disperare interamente del teatro italiano.

Fra le curiose originalità di Giovanni Emanuel era quella di parlare al pubblico, ogni qualvolta gli se ne porgesse l’occasione.

A Roma del ’70, poco innanzi l’entrata delle truppe italiane, egli, caduto di leva, desiderò di abbandonar la compagnia per tema di esser dichiarato disertore. Negatogliene il permesso, si fece presso alla ribalta, mentre si recitava l’ Elisabetta d’ Inghilterra, e si diede a discorrer de’ fatti suoi al pubblico in cosiffatta guisa che poco dopo fu arrestato e imprigionato.

Una volta, recitando in Asti a teatro vuoto, pensò bene la terza sera, in costume di Oreste, di rivolgere allo scarso pubblico le seguenti parole : « Mentre ringrazio i benevoli che son venuti in teatro, dichiaro che in Asti non recito più, finchè il gusto artistico di questa città non sia mutato. Questa città dette i natali a un grande, a Vittorio Alfieri, ma egli, se ebbe la disgrazia di nascervi, ebbe anche il buon senso di non rimanervi. »

Un’altra curiosità nella vita di Emanuel. Gli amici, più che i medici, gli affibbiarono, sin dal ’67, una tisi, per la quale egli fu spacciato una ventina di volte al meno. A ogni nuovo trionfo, il buon pubblico pietoso, che ha sempre come bisogno di mettere un ma stridente a ogni gaiezza della vita, solea sclamar sospirando : « Che peccato ! Un così bell’artista ! Una così forte promessa ! Ce ne avrà ancora per poco !… » E la dolorosa sentenza ebbe origine da una velatura ch’egli recava nella voce dai primi anni ; velatura che andò poi coll’esercizio attenuandosi, fino a permettergli da un buon trentennio di sputar, non sangue, ma polmoni, rinnovantisi ogni sera, sotto le spoglie de’ molti e svariati personaggi del gran repertorio.