(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [B] — article » pp. 260-263
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(1897) I comici italiani : biografia, bibliografia, iconografia « [B] — article » pp. 260-263

Balletti-Riccoboni Elena. Sorella di Giuseppe Antonio Balletti, nacque a Ferrara nel 1686, ed esordì alla Commedia Italiana il 18 maggio 1716 nella Compagnia detta del Reggente, formata da suo marito Luigi Riccoboni detto Lelio, sostenendovi le prime amorose, le servette, e le parti a travestimenti, sotto il nome di Flaminia. Era di figura slanciata e graziosa, e di fisionomia simpatica ; ma aveva la voce un po’aspra. Il che non tolse ch’ella fosse un’attrice delle meglio del teatro italiano, alla quale fu dedicata la seguente quartina :

Que d’esprit, que d’intelligence,
dans le jeu de Flaminia,
peu de Comédiens en France
ont autant de goût qu’elle en a.

Elena Balletti-Riccoboni possedeva un’istruzione davvero superiore : conosceva perfettamente la lingua latina, la greca, la francese, la spagnuola, ed era socia di varie accademie letterarie d’Italia, compresa l’Arcadia, nella quale prese il nome di Mirtinda Parasside. Scrisse con de Lisle, e fece rappresentare con non molto successo a la Commedia Italiana, nel 1726 e 1729, Il Naufragio e Abdilly, Re di Granata. Abbandonò il teatro col marito nel 1729 con una pensione di 1000 lire, per rientrarvi poi il 10 aprile 1731, con parte intiera, a condizione di rinunciare alla pensione, che non le fu restituita fuorchè il 29 marzo 1752, epoca del suo definitivo riposo.

Tornata di Francia in Italia, fu applauditissima specialmente nella rappresentazione di alcune tragedie esumate dal marito, come la Sofonisba del Trissino, la Semiramide del Manfredi, ed altre ; fu grande nella Ifigenia in Tauride di Pier Iacopo Martelli, e nell’ Artaserse di Giulio Agosti ; e si vuole avesse ella il vanto di recitare la prima la Merope di Scipione Maffei, nel 1712. Francesco Bartoli dà invece la data del 1713, e fa morire la Balletti verso il 1730, mentre sappiamo essere morta a Parigi il 29 dicembre del 1771, ed essere stata sepolta il domani nella cripta della Cappella della Vergine nella Chiesa del San Salvatore.

Dal suo matrimonio col Riccoboni nacque un figlio, Anton-Francesco Valentino, detto Lelio in Commedia, come suo padre.

Tutti e tre furono naturalizzati francesi, con atto, dato a Meudon, il mese di giugno dell’anno di grazia 1723, ottavo del Regno di Luigi, per grazia di Dio, re di Francia e di Navarra.

L’Ademollo (Una famiglia di comici italiani) pubblica ancora alcune poesie di lei che sono nella raccolta edita a Venezia nel 1726 dalla Bergalli, moglie di Gaspare Gozzi, senza data, nè altre indicazioni. Sebbene all’Ademollo paja di maggior pregio quello di Addio a Venezia, io riporto qui il secondo de’ sonetti scritti prima di sposarsi e di darsi alle scene.

Un pensiero talor alto mi mena
a cercar di virtude il divin raggio,
poi tentando salir l’alto viaggio,
se ben pronto è il desir, manca la lena.
Quinci mentre il timor le forze affrena
per voi drappel canoro illustre e saggio
tanto rinasce in me nobil coraggio,
che del soverchio ardir sovvienmi appena.
Sulle vostre orme il mio pensiero intento
segue l’ardor che mi sospinge e fiede,
e mi riempie il cor d’alto ardimento.
E per l’ampio cammin cosi già crede
di gir spiegando in cento carmi e cento
quanto di gloria in voi splender si vede.

Al proposito del Maffei e della sua Merope, il Pindemonte scrisse che a invaghirlo del coturno ebbe parte una comica illustre, Elena Balletti. Molto la pregiava Scipione, che un argomento scelse in bello studio per lei, ecc. ecc. Si volle da alcuno che tra il Maffei e la Flaminia fosse una corrente di simpatia, rafforzando l’opinione nel fatto che il Maffei seguitasse la Compagnia, intervenendo in molte città alle recite della sua Merope. Nè io sarei alieno dal crederlo ; parendo omai accertato che le grazie della Flaminia suscitasser tali discordie tra il Maffei e l’abate Conti e Pier Iacopo Martelli, da invogliare quest’ultimo a scrivere il Femia, acerbissima satira, in versi sciolti e divisa in cinque atti, della quale sono interlocutori Mercurio, Fama, Radamanto, Anima di Mirtilo (Mirtilo Dianidio fu il nome arcade dello stesso Martelli), Ombra di Bione (il Conti), Ombra di Femia (anagramma di Mafei) e Cori. Visto il baccano che quella satira generò, l’autore che ne aveva fatti tirare soli 100 esemplari, la diede alle fiamme : ma sei ne furon già sparsi antecedentemente, a insaputa dell’autore, in Italia e all’estero. In proposito del valore della Riccoboni, e del seguirla che faceva il Maffei di città in città, assistendo alle rappresentazioni della Merope, la Fama (atto secondo, scena I) a Radamanto, che, dopo la descrizione chiara e viva da lei fatta della tragedia, aveva detto :

mentre Femia m’accusi, io ben m’avveggio,
che nelle accuse tue l’amor traluce,
perchè se tu l’odiassi, i bei colori
negati avresti al tragico racconto…,

risponde :

Facciol perchè l’ingrato entro il mio amore
specchi sua colpa, e sè convinto accusi.
Ben quaranta fiate al popol denso
sua recitata favola non spiacque :
parte n’ebbe suo merto, io parte, e parte
v’ebbe una sua già favorita attrice,
che colle finte lagrime le vere
sapea svegliar di chi l’udìa ne’ lumi :
ma nè per questo il saziò sua lode.
Fido seguìa la sua Comica errante
per quanta è Grecia, e non l’ Egeo spumoso,
non l’ Ellesponto il suo cammin ritenne.
Alle recite sue plaudente assiso
col lumicin su l’esemplar de l’opra
quà invitava coi guardi e là coi cenni,
spettatore e spettacolo, gli evviva.

A quel sua già favorita attrice, il Maffei, forse punto sul vivo, diede in ismanie, tanto che il Martelli nella sua lettera di pentimento, scrisse :

…. tolga Dio, che io abbia nè meno per ombra avuta questa intenzione. So, e ne ho prove incontravertibili l’onestà sua, e l’onestà di Flaminia, nè una parzialità nata da vederla a meraviglia rappresentare, deve a mal costume imputarsi ; dichiarandomi io, che senza che altri dovesse pensar male nè di me, nè di Flaminia, parlando di cose mie, dal titolo istesso non mi sarei astenuto ; imperciocchè tre opere mie ha questa pudica e mirabil donna (per quel che ascolto) leggiadramente rappresentate……..

…. Che poi seguitasse la Compagnia di quei comici in questo senso, cioè che intervenisse in varie città d’Italia alle recite della sua Merope, è cosa assai nota, e della quale ho in mano le testimonianze e le prove.

Come chiusura dell’articolo, do l’ultima parte della lettera che la Flaminia scriveva all’abate Conti ; interessantissima, perchè concernente il modo di recitare la tragedia dei francesi al paragone di quello degl’italiani :

M. Baron mi ha detto la prima volta e la sola, che ho avuta seco conversazione, ch’egli aveva presa quella maniera di declamare senza scostarsi dalla natura, dopo che aveva sentita la Truppa Italiana, che, già sono quattr’anni, è ritornata in Parigi. Grande onore davvero per questi Italiani Comici, e tanto più grande, in quanto che non vi è alcuno di noi che lo meriti. Per creder vero, io tengo ch’egli l’abbi presa dalla sua esperienza, e dallo spirito suo, che sopra i difetti altrui ha saputo conoscere il vero ; ma pure quand’anche fosse così, e non un suo complimento, non ha egli potuto vedere la natura del recitare de’ Comici Italiani che nella Commedia ; mentre le Tragicommedie di Sansone e della Vita è un sogno, non sono tragedie ; ed è ben diversa da quella la maniera nostra nel recitare Andromaca, Ifigenia, Mitridate, Semiramide, Oreste, ecc., e le altre francesi ed italiane tragedie che eravamo accostumati di recitare, e che ora lasciamo da parte. Merope stessa, che abbiamo pur data una volta a Parigi, non gli può aver rappresentata l’idea della natura tragica italiana, essendo essa una di quelle Tragedie nelle quali, essendo miste di diversi gradi di persone, può discendersi ad una più familiare natura. Bramerei bene di rappresentarne una con l’assistenza di questo gran Comico, per sentire dal suo giudizio, se trovasse la nostra maniera plausibile, e per disingannarci infine se i Comici Italiani senza declamare possino recitar tragedie. Per altro non ho bisogno di sentirlo nella Commedia, non mettendo in dubbio la sua eccellenza. In quella parte in cui ho trovato qualche scrupolo per la natura tragica, ho conosciuto che nella comica giungerà al colmo della perfezione. Concludo il mio discorso coll’assicurarla, che se la Truppa Francese, ed ogni altro Comico di qualunque Nazione si sia, vorrà farsi un esemplare di questo grand’uomo, e cercar d’imitarlo, arriverà a quel segno, ove al giorno d’oggi alcuno Attore è ancor giunto. Per la Truppa Francese non lo dispero : la maniera da loro finora usata nella Tragedia tanto lontana dal vero e dall’immaginabile, accostandosi al vero di M. Baron, non potrà tanto imitarlo che discendino al di lui familiare, e se una volta potrà farsi un misto della tragica ed inverisimile dignità francese, con un poco di vero e di natura, felici gli spettatori che lo ascolteranno.

Baron (Michel Boyron) uno dei più forti, se non il più forte artista della Francia, nacque a Parigi l’ottobre del 1653, e vi morì il 22 dicembre del 1729.