Cagliero Emilia. Fu splendido ornamento della Compagnia di Giovanni Toselli, e una delle più geniali figure del teatro piemontese, che abbandonò, giovanissima, quando più le arrideva la gloria, per entrare nel santuario della famiglia. Non saprei far meglio che trascrivere in volgare alcune parti del bellissimo articolo, che Luigi Pietracqua, il rinomato commediografo piemontese, dettava su di lei nel Birichin del 4 luglio 1896.
Oh la deliziosa, l’adorabile creatura quella Cagliero ! Occhi neri, espressivi, lucenti come il diamante, lampeggianti come stelle ; un sorriso che ipnotizzava tutti con quelle labbra più rosse e fresche del corallo, con quei denti che avrebber fatto invidia alle più autentiche perle orientali ; un’indole quasi infantile, semplice, piena di soave ingenuità, sempre bonacciona con tutti, pronta sempre all’ allegria, alla risata argentina, al buon umore : al tempo della primiticcia compagnia dialettale di Giovanni Toselli ella era il vero cucco del pubblico. L’Adelaide Tessero, Salussoglia, Penna, Cosset e Toselli stesso campeggiavano per innegabil valore artistico personale, e ognuno sapeva ogni sera sollevar meritamente il pubblico all’ entusiasmo ; ma la Cagliero aveva certe maniere tutte sue, certe inflessioni di voce così spontanee, così incosciamente affascinanti, che lo suggestionava addirittura.
Il suo ruolo era quello, non di prima importanza, della servetta. Ma che servetta ! che servetta ! ! Ricordo di aver visto quasi bambino la famosa Romagnoli già▶ un po’ in là cogli anni, recitar la Serva amorosa di Goldoni col Boccomini ; e confesso che allora ne fui così dolcemente colpito da non sognar per un pezzo che la Romagnoli con quelle inflessioni di voce così simpatiche, con quelle grazie tanto naturali e tanto care. Bene : la Cagliero giovanetta, nova dell’arte, sin dalle prime sue prove su la scena, esercitava ◀già su di me e di tutto il pubblico lo stesso fascino della grande artista italiana. Bastava vederla e sentirla una volta sola per non più dimenticarne la graziosissima figura, la voce spontaneamente armoniosa, le occhiate assassine, i sorrisi freschi e liberi che elettrizzavano. Una vera rosa fiorita. E niente di studiato, niente di ricercato in lei. Se aveva da ridere, lo faceva di gran cuore, e la sua risata argentina si comunicava subito negli spettatori ; se aveva da piangere, senza punto preoccuparsi, piangeva liberamente, apertamente, sinceramente, sul serio, e a quelle di lei mescolava il pubblico le sue lagrime ch’era un gusto a vederle. Quell’aurea semplicità e quella cara ingenuità constituivano il più grande e più prezioso merito della Cagliero.
E questo bel tipo di artista vera, forse più unico che raro nel suo genere, che tutti dicevan creato a posta pel teatro, si fermò ben poco sulle tavole del palcoscenico. La sua rapida apparizione dinanzi ai lumi della ribalta è stata come una meteora luminosa che colpisce, commuove e vanisce.
Se fosse rimasta nell’arte, chi sa quale artistona se ne sarebbe fatta. Il suo nome sarebbe certo stato proferito con lode e ammirazione accanto a quelli della Tessero e della Pezzana, e di altre che, stelle fulgidissime, han brillato più tardi nell’orizzonte glorioso del nostro Teatro italiano.