Cavicchi Giovanni. Ferrarese, nacque il 1765 da onesta famiglia che l’avviò agli studi legali. Ma ottenuta la laurea, egli risolse di non indossar la toga dell’avvocato, per abbracciar l’arte del comico. Esordì in una Compagnia di niun valore, dalla quale dovè uscire per disperazione. Tornato in patria ripensò all’avvocatura ; ma una giovinetta, attrice della Compagnia di Antonio Fiorilli gli fe’ di punto in bianco mutar pensiero. Scritturatosi quale secondo amoroso, ebbe subito campo di mostrare le sue forti attitudini, non discompagnate da ottime qualità fisiche e da una bellissima voce.
Dominando ancora le maschere sulla scena, abbandonò il Cavicchi gli amorosi per darsi tutto allo studio della maschera di Brighella nella quale riuscì mirabilmente, tanto che fu dal Fiorilli riconfermato per cinque anni come ruolo primario assoluto. Passò poi con la Marta Coleoni assieme alla moglie Francesca (il nome di famiglia non giunse a noi) egregia servetta, e assai probabilmente la stessa giovinetta, per la quale egli s’era dato all’arte. Bandite a poco a poco le maschere dalla scena, e però non trovando il Cavicchi più chi lo scritturasse, diventò conduttor di compagnia egli stesso. Era il 1824 all’Arena di Verona, ove, a detta di Antonio Colomberti, attore contemporaneo, recitava, se ben vecchio, con molto plauso, sotto le spoglie dell’astuto Zanni.
Ebbe numerosa famiglia, di cui era composta per metà la sua compagnia. Morta la moglie, maritò due figlie, una delle quali prima donna non delle peggiori, e l’altra egregia servetta. Morì d’aneurisma il 1838 in una locanda, ove s’era fermato col figlio maggiore per riposarsi la notte.
Ho seguito in questi cenni il notiziario del Colomberti ; ma, o egli ha fatto con errore evidente di due persone una sola, o il teatro ha avuto più di un Cavicchi brighella. Il 1820, in Compagnia di Andolfati era il Cavicchi Giovanni per le parti di caratterista, di cui dice laconicamente il Giornale dei teatri : non si può negare a questo attore un sufficiente talento ; conosce la comica ed è applaudito ; poi Cavicchi il giovine (unico per la maschera del Brighella). Ma come poteva questo Cavicchi giovine del 1820 essere il Cavicchi sentito recitar, già vecchio, nel 1824 dal Colomberti ? ? ?
Cazzola-Brizzi Clementina, nata a Sermide, provincia di Mantova, il dì 26 agosto 1832, dagli artisti Giuseppe Cazzola, capocomico, e Claudia Bragaglia, esordì nel 1848 al Teatro Re di Milano qual prima amorosa della Compagnia di Cesare Asti. Fu il ’48-49 con Papadopoli, Lottini e socii, il ’50 con Antonio Giardini, col quale cominciò a salire in rinomanza, il ’51-52 con Carlo Romagnoli e Achille Dondini, sotto la direzione di Cesare Dondini, prima attrice assoluta, nella qual Compagnia sposatasi a Giacomo Brizzi, passò dal Teatro Grande di Brescia a quelli di Trieste, Milano, Torino, Bologna, Livorno, Padova, trascinando il pubblico all’entusiasmo, che nella primavera del’55 al Valle di Roma diventò esaltazione, delirio. Entrò il ’60 nella Compagnia di Luigi Domeniconi ; diventò socia il ’61-62 di Tommaso Salvini, e fu scritturata il ’63 da Antonio Stacchini e il ’64-65-66, a’ Fiorentini di Napoli, da Adamo Alberti. Ma non potè compiere il suo contratto ; chè, sviluppatasi alacremente la tisi, dovè recarsi per consiglio de’ medici prima a Pisa, poi a Firenze, ove in capo a pochi mesi (il luglio del 1868) morì compianta da quanti la conobbero.

Clementina Cazzola non fu bella veramente, ma di assai viva espressione. I suoi occhi nerissimi mostravano or languidi, or lampeggianti lo stato dell’anima. Il metallo della voce, rispondente a ogni corda del sentimento, sapeva toccar l’anima, non pur degli uditori, ma degli artisti in scena con lei. Quand’era a’ Fiorentini di Napoli, nel ’65, Alessandro Dumas figlio, recatosi dopo la rappresentazione della Signora dalle Camelie, sul palcoscenico, disse alla Cazzola : « Io mi inginocchio dinanzi a voi. La Nazione Francese sarebbe orgogliosa di avere una tanta artista ; ed io sarei ben fortunato se avessi nel mio paese un’interprete come voi…. » Nè solo nella interpretazione della Signora dalle Camelie, ma in quelle ancora del Cuore ed Arte, dell’Adriana Lecouvreur, della Pamela, della Gabbriella, dell’Elisabetta, della Battaglia di donne, della Piccarda Donati, dei Gelosi fortunati, della Pia de’ Tolomei, e di cento altre opere o tragico-romantiche o drammatiche o comiche, non ebbe chi la uguagliasse, nè chi le si accostasse.

Ho detto tragico-romantiche : nella tragedia classica a lei mancava la fibra. E se, desiderosa di assurgere a somma altezza anche in quel genere, si diede con ogni studio e con ogni amore alla rappresentazione della Saffo e della Norma…. tragedie irte di difficoltà materiali, pur troppo ad esse più specialmente dovè la immatura sua fine.
Di lei così scrisse un acuto critico di arte, Enrico Panzacchi, ne’suoi Soliloqui artistici (Roma, Angelo Sommaruga, 1885) :
La Cazzola aveva in favor suo tutti i fascini d’una figura oltre ogni dire simpatica, della quale pareva che tratto tratto si sprigionassero gli aneliti d’un’ anima nobile, tormentata, infelice. Chi potrà mai dimenticare le sue occhiate lunghe e profonde e le sue grida appassionate rotte dal pianto ? In lei trovava sempre e di preferenza un’interpretazione efficacissima ognuna di quelle forme d’arte che erano in maggior voga vent’anni fa. Artista romantica per eccellenza. La passione era quasi sempre fra le nubi ; la voce dell’attrice la significava abbandonandosi a declamazioni deliziose come una melodia, poi a un dato momento quell’incanto ideale si risolveva in un particolare di verità viva e potente, quasi cruda. In questi contrasti, che parevano cercati nella poetica di Victor Hugo, era il massimo prestigio della Cazzola.
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E al proposito dell’Adriana Lecouvreur :
Il suo amore per il brillante e infedele principe di Sassonia, la Cazzola ce lo significava in una forma continuamente elegiaca. Nelle intonazioni della sua voce, nel gesto, nel muover degli occhi parea rivivere quella sensiblerie delicata e un tantino leziosa che era la forma obbligata dell’epoca e che il Taine ci ha così stupendamente risuscitata nella sua storia del Vecchio regime. Ciò doveva accadere naturalmente senza che la Cazzola si studiasse a farlo o s’accorgesse di farlo : fra quella sensiblerie e la passione romantica esistevano affinità segrete che in quel tempo un’artista vera doveva indovinare e cogliere per istinto.

A queste del Panzacchi faccio seguir le parole di due massimi artisti del nostro teatro di prosa.
Che dire di questa prediletta figlia di Melpomene e di Talìa ? Mi si perdonerà l’esorbitanza degli aggettivi qualificativi, ma certo chi ebbe la sorte di vederla e di udirla, li troverà inferiori e insufficienti ad esprimere il vero. Clementina Cazzola nacque nell’arte, e fino da bambina veniva chiamata l’enfant prodige. Figlia di umili artisti, possedeva dalla natura il sentimento del bello, e come dalla roccia si estrae il diamante, così Cesare Dondini tolse dall’oscurità questa preziosa gemma di pura acqua, alla quale sovrabbondava il fuoco, produttore dei raggi che abbarbagliano. L’intuizione psichica di questa attrice era unica più che rara. L’inspirazione mai l’abbandonava. La squisita e fine interpretazione dei caratteri, la minuziosa analisi d’ogni profondo sentimento, aveva in lei una riproduttrice esatta e fedele. Gli occhi, come due diamanti neri gettavano sprazzi di luce, e non potevansi fissare a lungo senza sentirli penetrare in voi a indagarvi ogni vostro pensiero. Le ugualissime perle della bocca servivano di specchio a chi le parlava, e il mesto e dolce sorriso vi svelava la candidezza dell’anima e l’esuberanza del sentimento. Nella Piccarda Donati era seducente : nella Vita color di rosa era meravigliosa ; nella Dama dalle Camelie era ammaliatrice ; nella tragedia Saffo, del Marenco, era immensa ; nella Pia de’ Tolomei era sublime ! In questa tragedia soprattutto raggiungeva tal grado di perfezione, da farvi credere ad un prodigio.
L’arte, che pur sempre si appalesa nel riprodurre la natura, si ritirava vergognosa di fronte all’eccellenza di quella realtà.
Non posso parlare di questo lucido astro dell’arte venuto per illuminare un momento il triste e oscuro nostro orizzonte, e poi sparito per sempre per lasciarlo nuovamente nelle tenebre. Clementina era il tipo incarnato dell’attrice romantica drammatica. Non era bella, ma la mobilità della sua fisonomia era tale, che appariva quello che ella voleva ; il suo sguardo or scintillante, or languido, esprimeva la gioja e il dolore a sua voglia o capriccio : di una mobilità eccezionale : più natura che arte : troppo contenuto in uno sdrucito recipiente. Chi la ricorderà nella Vita color di rosa, nella Donna in seconde nozze di Giacometti, e nella Signora dalle Camelie ? Ben pochi, forse nessuno : ma io sì : e dico con orgoglio a Clementina, e con rammarico per le altre — che ella fu grande, perchè fu vera, vera nel vero patologico e non in un forzato e ricercato verismo con combinazioni di nervosità che fanno della verità una menzogna, dell’arte un giuoco di prestidigitazione !
Fra le tante poesie scritte per lei scelgo il bel sonetto di Paolo Costa che le fu indirizzato nell’estate del 1858, a Faenza.
Di che loco beato, e di che stellascese costei, che aggiorna l’età nostra ?E chi gli atti Le diede e la favellaonde fra noi siccome Dea si mostra ?Lei nova meraviglia il mondo appella,Talia fra mille a dito la dimostra,per Lei l’ausonia scena or si rabbella,per Lei, Muse, va al ciel la gloria vostra.Quand’Ella appare, da’suoi labbri moveuno spirto d’amore e di pietate,ch’empie ogni petto di dolcezze nove,sì che fa dire altrui : Quei che comparteil ben quaggiù, La diede a questa etateper mostrar quanto può natura ed arte.
Cecchini Pier Maria. Celebre nella Commedia dell’arte col nome di Frittellino, nacque a Ferrara il 14 maggio del 1563. Aveva esordito come semplice dilettante il 1583, regnando a Mantova Guglielmo Gonzaga ; ce lo apprende egli stesso in questa lettera del 30 marzo 1622 pubblicata in parte dal Baschet.

Ha piacciuto a Iddio doppo tanti anni di visitarmi con un figliuolo, il quale mi è stato caro, sì come figliuolo, ma molto più caro per haver ritrovato al mio ritorno di Ferrara che l’hanno rassegnato sotto il patrocinio di V. A. S., alla quale spero un giorno di essere perpetuo vassallo si come le sonno antichiss.º seruitore, posciachè il mio servitio comintiò sin l’anno 1583, nel cui tempo fui introdotto tenero giovineto a rappresentare alcune Comedie al Ser.mo S.r Duca Guglielmo, glorioso avo dell’A. V., il cui accidente convertitosi poi in natura io ho nel corso di 38 anni (con poca intermitenza) sempre servito alla S.ma sua Casa. Servij all’A. V. mentre era nel ventre della madre, et spero di servir nel ventre della Ser.ma Consorte la sua prole, che N. S. voglia, che sia in breve come lo spero. Intanto l’aviso dell’arrivo di Cintio et altri, dove daremo principio in uno di questi Theatri marti V di aprile, con che in sieme con mia moglie divottam.te mell’inchino et prego da Dio ogni compiuto contento.
Di Venezia il dì 30 marzo 1622.
Di V. A.
Hum.mo et Dev.mo Servo
Piermaria Cecchini.
Il 6 gennaio del 1591 è registrato dal Bertolotti (op. cit.) sotto il nome di Pietro Maria Chezzini, in compagnia del Canovaro e di quell’Austoni (Battistino) che diventò poi amministratore nella Compagnia da lui diretta.
Lo troviamo sul finir del 1595 a Firenze, come appare da questa sua lettera, diretta allo jll.mo et ecce.mo mio S.r et Patron Coll.mo jl sig.r Gia battista londerchi meritissimo secretario di S. A. S. di Ferrara, che traggo dall’Archivio di Stato di Modena.
Confesso di haver fato gran torto all’obligo jnffinito ch’io tengo à V. S. Ill.ma per l’jnfiniti fauori da lei ricceuti, non essendole [ILLISIBLE] ueputo a far riuerenza alla mia partita Come erra mio debito, ma fu la subita et jnnaspetata noua che mi uene di douer ritrouarmi al seruicio del ser.mo Gran Ducca con una Compagnia Principallissima fata per honesto passatempo delli jll.mi Cardinali mont’Alto, e monti doue sono stato e sono hora in Firenze, essendosi per la morte del Cognato partito per Roma lo Ill.mo mont’Alto ; sò che oso troppo, e troppo ardisco à scriuere à lei che se impiega in altri negocij che in leggere cosse che uenghino da sogeto cossi basso come è il mio, pur mi affida la Gracia sua è la vecchia seruitù ch’io le tengo, che se non le agradirà, non le spiacerà almeno di hauer udito ch’io le resto (qual sempre gli fui) suisserato seruitore, è pregherò sempre per lei è per la sua felliccissima famiglia che jddio la prosperi e conserui, frà tanto facendole riuerenza umilmente le baccio la veste.
Di Fiorenza alli 14 9bre 1595.
Di V. S. jll.ma
Seruitor Divottiss.º
Pier M.ª Cecchini.
Andò il 1600 a Lione, direttor della Compagnia l’Arlecchino Martinelli, pel matrimonio di Enrico IV con Maria De Medici che si celebrò il 17 dicembre ; poi a Parigi. E tanto ebbe dal Martinelli, famoso rivoluzionario nelle compagnie comiche, l’animo inasprito, che associatosi alla rivolta la Diana (la Ponti ?) lo accusò nientemeno che di volerlo assassinare.
Nell’ottobre del ’601 la Compagnia era ancora a Parigi, e nonostante le guerricciuole interne, tanto il Cecchini vi piacque che fu invitato, ma indarno, dalla Contessa Maria di Boussu a recarsi nelle Fiandre e in Brabante.
Fu in Francia una seconda volta, dai primi giorni di febbraio al 26 d’ottobre del 1608, e questa volta direttore e conduttore della Compagnia ; a proposito della quale il Duca Vincenzo in data 10 novembre 1607 annunziava al suo ambasciatore alla Corte Messer Trajano Guiscardi, Fritellino e sua moglie come i migliori personaggi non solo della sua compagnia ma di tutta Italia. A Parigi recitava prima all’ Hotel di Borbone presso il Louvre, poi all’Hotel di Borgogna pel pubblico, dietro istanza firmata da Battistino Austoni, l’amministrator della compagnia, per tutti i compagni qualificati Comici Italiani del Duca di Mantova.
Il successo della compagnia fu completo ; e Don Giovanni de’ Medici, che allora era alla Corte della nipote e tanto amore mostrava alle commedie, scrisse l’ 8 marzo al Duca di Mantova che la principal causa di quel successo era da attribuirsi alla valentìa e alla saviezza di Pier Maria detto Fritellino, che con gran perspicacia manteneva l’unione e l’accordo dei comici.
La sola volta è questa in cui Pier Maria Cecchini s’abbia una parola di lode concernente l’indole sua : ma è anche la volta in cui lo vediamo padrone assoluto della compagnia. E, senza dubbio, il miglior tempo della sua vita artistica fu codesto appunto, e quello (1613 e 1614) passato a Vienna alla Corte dell’Imperator Mattia che volle dargli patente di nobiltà.
Anche nel 1619 si adoperò, brigò, combattè strenuamente per la formazione della Compagnia che doveva andare a Parigi ; si diè d’attorno per espurgarla di cattivi elementi come il Pantalone pessimo comico, e la Baldina Rotari, pessima…. donna, e per rinforzarla di miglior gente, come un Pavolino Zanotti.
Ma le sue forze questa volta si trovaron misere di fronte a quelle dell’Arlecchino Martinelli, il quale aveva da vendicarsi di tutte le noie, che nel suo primo viaggio in Francia gli aveva procurato il Cecchini colle sue lamentazioni. Forse, chi sa, anche la seconda volta, nel 1608, il Cecchini riuscì a tornare in Francia direttore di compagnia a forza d’intrighi, e certo entusiasmò il pubblico e la Corte con l’arte sua. E questo ufficio accordatogli dal Duca, e questi entusiasmi forse, il Martinelli, anima indemoniata, non gli perdonò più : e mostrò la sua superiorità morale, uscendo trionfante nella lotta. Così, dopo tante assicurazioni di buona riuscita per parte del Cecchini, ove il Duca si attenesse alle sue proposte, vediamo il Pantalone rimanere in compagnia, e starne fuori il povero Cecchini e quel Pavolino Zanotti, divenuto, a detta di esso Cecchini, il grande emulo di Gabbrielli. Povero Frittellino !!! Che smacco ! E che accasciamento !… E come se ne doleva col Duca nella lettera che qui diamo riprodotta autograficamente.
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Noi abbiam già assistito alle lotte noiose e dolorose, da lui sostenute con Giovan Battista Andreini (V.), delle quali non sappiam bene se si dovesse cercar la causa nel carattere bestiale della moglie Orsola che, gelosa di Florinda, gelosa della Rotari, gelosa di tutte, irruenta, violenta, aggressiva sempre, incitava il marito alla rivolta. Le lagnanze dell’uno trovan sempre a riscontro le lagnanze dell’ altro. Però, nella interessantissima lettera dello Scappino Gabbrielli (V.), mentre si sparla unicamente dell’arte di Lavinia, di Cintio, di Ortensio, di Mezzettino per metterli in disgrazia del Duca, venuto a parlar di Cecchini « Frittellino — dice — è buono da farsi odiare non solo da comici, ma da tutto il popolo, e lo vediamo con isperienza, poichè se volle compagni bisogna vadi per forza de prencipi, o che li pagi ; lasso il voler tirare più parte degli altri. » E più innanzi : « Chi vorrà Frittellino bisognerà pagare le anticaglie (allude alla moglie Orsola già vecchia per parti di fanciulla) e pigliare l’istessa discordia in Compagnia…. »
Non sappiamo se per potenza d’amore, o per ragion d’amor proprio o di mestiere o d’interesse, il Cecchini subisse codesto diavolo in sottana : ma è certo che nell’una cosa o nell’altra si dee ricercar la causa della lor serbata unione. Nel primo caso (e dati gli sforzi epistolari del Cecchini, e il suo delitto a tutela dell’onore ci appare il più probabile) c’ è davvero di che compiangere un povero marito ! Qual peccato che sia stata sin qui senza frutto la ricerca delle cento ottave e dei quaranta sonetti del cav. Marino !…
Il delitto, che vediam confermato nell’oroscopo tolto come gli altri da un codice della Nazionale di Firenze, è stato messo la prima volta agli occhi del pubblico dal conte Paglicci Brozzi (Il Teatro a Milano nel secolo xviii ). Si tratta di una supplica diretta dal Cecchini a Don Giovanni Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Governatore di Milano, colla quale egli mira a ottenere un salvacondotto per recarsi da Torino a Milano a esercitar con sicurezza l’arte sua ; dacchè si trova a esser bandito in contumatia dalla città di Turino per la morte di un Carlo De Vecchi, anch’ esso comico. Il salvacondotto fu accordato in data del 3 giugno ’6oo, e il Cecchini si recò subito a recitare a Milano. Le cagioni della morte del De Vecchi sono chiaramente spiegate, nella dedicatoria al Marchese Ottavio di Scandiano delle Lettere facete e morali, in cui egli dice :

Un’ altra cagione (pur di momento) mi ha persuaso a raccomandarli questo puoco Volume, et è stato lo raccordarmi, ch’ io stesso fui caramente raccomandato alla protettione dell’ Illustrissima Sua Casa nel tempo, che riscaldandomi gli ardori della gioventù, mi rendevano tal’ hora bisognoso di un saluo ricouero per fuggir non so s’io debba dir lo sdegno, o pur il costume della Giustitia, la quale con il mezo dell’autorità, et bontà della felice memoria dell’ Illustrissimo Sig. Marchese suo genitore, mutò per me più volte il nome, & addimandossi Misericordia, ricercando così anche l’ honorate cagioni da me intraprese.
Non mi par cada dubbio sul significato dell’ honorate cagioni. Ma la Cecchini, da quella donna navigata che era, traeva poi argomento da tutto per mostrarsi di rigida austerità al cospetto del marito, sia per provargli il torto d’ingiusti sospetti, sia per farsi perdonare i falli trascorsi. A venti anni di distanza, quando l’Arlecchino Martinelli potè ottenere dal Duca di Mantova il diritto di far stare a dovere Frittellino, comandandogli come a soggetto, il fratello di lei, per nome Nicola, buona schiuma, amico, dice il Martinelli, sol di ladri e gente cattive, prese le difese del cognato, minacciando di morte tutti coloro che aveangli fatto dispiacere.
Di Pier Maria Cecchini abbiamo due opere teatrali : La Flaminia schiava ; pubblicata il 1610 a Milano, e L’Amico tradito, il 1633 a Venezia.
Ma le opere per le quali dobbiamo essere grati a Pier Maria Cecchini son quelle d’indole didattica, nelle quali unicamente abbiamo, come più volte ho detto, l’idea ben chiara di quel che potesse essere il comico a quei tempi e il suo modo di recitare.
I Brevi discor si intorno alle comedie, comedianti et spettatori, dove si comprende quali rappresentationi si possino ascoltare et permettere (Venetia, Pinelli, m dc xxi), sono una difesa delle Comedie oneste contro i lor detrattori fatta con molta chiarezza e molta vivacità, in cui troviamo qualche notizia interessante pel teatro e pei costumi.
Commentando, per esempio, il passo di S. Gio. Grisostomo che condanna gli attori come rovina dell’altrui patrimonio, conchiude :
Diremo adunque che quel glorioso Scrittore non hebbe altra intentione che di far sapere, che quelle genti erano instrumenti per far distruggere i patrimonij a quelli che avviticchiavano la mente in le lor tresche ; onde posiamo credere, che si come egli sempre santamente scrisse il vero, che così hoggi, vivendo, darebbe nome a i nostri comici di conservatori degli altrui patrimonj ; posciachè un miserabile scudo serve per lo trattenimento d’un mese a chi si diletta di veder comedia, con il qual prezzo si compra ancora quel tempo, che da molti potrebbe esser speso in quei trattenimenti, che somministrano viva cagione di spender non solo il denaro, ma con esso la robba, la sanità, la vita, la reputatione e l’ anima.
E più giù :
In Bologna, dove per lo più si recita il Verno, et dove sono sempre chiamate le buone compagnie ; al mio arrivo, già anni sono, mi fu detto da un Mastro Dionisio Bruni padrone d’ una bottega di carte da giuoco, le precise parole : « S’ io non amassi tanto voi e le vostre virtù, e s’ io non avessi qualch’ altro comodo fuori del mestier delle carte, non potrei fare di meno di non vi maledire, et desiderarvi ogni male, acciò lasciaste di venire in questa città, poichè siate cagione, che i ridotti si chiudono, e che con essi la mia bottega fallischi. »
Le Lettere facete e morali (ivi, m dc xxii) gli procacciaron da molti poeti una bellissima corona di sonetti, che poi non fece imprimere, egli dice modestamente, essendosi accorto, che per abbassare il suo povero stile non ci voleva altro che l’altezza de’ loro concetti (Lett. III).
Di molte sentenze son esse ricche, in cui è la prova evidente che il Cecchini era un profondo e fine osservatore. A un tale, per esempio, ricchissimo e non dabbene, egli scrive crudissime verità ; dice (Lett. XII) :
Credete ch’io non sappia che ricevete dispiacere da questa mia ? Io lo so ; ma, perchè non voglio nulla del vostro, per questo parlo con soverchia libertà. Dormite prima di rispondermi, il che doveva far anch’ io prima di scrivervi. State sano.
Ad altro, avvezzo alle adulazioni di una mala pratica, scrive (XLIII) :
S’io dicessi d’ amar assai più la vostra della mia salute, e ch’ io vorrei poter aggiunger a i giorni della vostra vita que’ della mia, userei di quelle parole, che sogliono usar i corteggiani desiderosi di farne baratto in tante pensioni : Ma perchè da voi altro non voglio, se non corrispondenza a non voler nulla da me, vi dico, che non più di me, nè quanto me v’ amo : ma sì ben tanto, che niuno dopo me amo più di voi.
A chi sparlava della sua nobiltà avuta dall’ Imperator Mattia, risponde (Lett. VI) :
Le meraviglie che mi scrivete, che s’ han fatto molti nell’arrivo della nuova, che Sua Maestà Cesarea m’ ha privilegiato di Nobiltà, non sono così grandi, come son quelle, ch’ io mi fo, quando veggo uno, che per antichità sia nobile, e per natura dissoluto ; dimostrando egli col giuditio, confermando col discorso, e approvando con le opere che molti villani sono più civili di lui. Sappiano quelli che si son maravigliati, e credano tutti, ch’è assai meglio l’ esser giudicato meritevole d’ esser gentiluomo, e perciò fatto, che di già essendo, si dica non esserne degno. In me comincia et in te finisce, mi ricordo d’haver letto che disse un filosofo ad un pretensore di nobiltà vitioso.
E per codesta nobiltà che con decreto di Vienna del 12 novembre 1614, firmato da Mattia e munito del sigillo imperiale, lo estolleva sopra al numero de’ Cittadini, ponendolo nella schiera de’ gentil’ huomini et pretendenti, come se di quattro Avi Paterni et Materni fosse nato nobile, e con tant’altre prerogative, tante noie ebbe a patire cagionate dalla invidia e sopr’ a tutto dalla incredulità, che risolse di pubblicar per intero il Decreto stesso, il quale si trova alla fine de’ Brevi Discorsi intorno alle Commedie.

Frittellino.
(Da una serie di dodici acqueforti antiche, riproducenti alcuni tipi della Commedia Italiana).
Dei Frutti delle moderne Comedie et avisi a chi le recita (Padova, Guareschi, 1628) abbiam già riportato i varj capitoli al nome dei personaggi che li concernono (V. Andreini Francesco, Andreini Gio. Batta, Bianchi (De) Ludovico, ecc.). Nulla ci ha detto sul modo di rappresentare la parte sua in genere, alla quale solo è accennato al principio del capitolo sul Primo e Secondo Servo : è cosa molto necessaria et molto dovuta nella comedia che dopo la parte di un servo astuto et ingegnoso il quale spiritosamente attendi senza buffonerie al maneggio della favola, che ne succedi un altro totalmente dissimile, ecc. ecc., e qui si dilunga a parlar dell’Arlecchino. Ma nel monologo, in cui Frittellino chiude il terzo atto della Flaminia Schiava, è ben descritta tutta la furfanteria e furberia del servo raggiratore ; e alla fine dell’Amico tradito Frittellino, presentandosi in scena esclama : « Eccovi, o Signori, il ritratto di tutte le scelleraggini, il compendio di tutte le furberie, e per dirvi tutto in una parola : eccovi Frittellino. » E a Cintio che gli consiglia di divenir quello che non fu mai, cioè huomo da bene, Frittellino risponde : io ho una cosa molto difficile : il far un esercizio che non si abbia mai imparato. Abbiam dunque nella sostanza un Brighella che ha semplicemente mutato di nome.
Ma un’opera ancor più interessante del Cecchini giace tuttavia inedita, per quanto io mi sappia, nella Biblioteca di Torino. Essa ha per titolo :
Discorso sopra l’Arte Comica — con il modo di ben recitare — di — Pier Maria Cecchini Comico — Acceso detto Frittellino,
Mira tall’ hor il pastorello erranteDel Biondo Dio, che ’l sacro Delfo adoraSuperbo il tempio, e riverente odoraDi pretioso licor l’ara fumante.È giunto al fine al chiaro nume accanteTosto s’inchina, el sacro fuoco honoraDi latte solo, e poverello infioraDi rose il legno placido, e sonante.Tal’Jo ch’umile a riverir or vegnoHeroe celeste, in picciol carte accoltoVostra pompa, è ’l mio cor mostrar m’ingegno.Me in viva tela di colori involtoT’ofro l’imago mia, poichè men degnoPregio mortal d’immortal lode è molto.
L’operetta consta di una introduzione, della breve raccolta in latino de’Sette preclarissimi Dottori, fatta da S. Tommaso, e che è già a stampa innanzi ai Discorsi citati, e di Sette Capitoli :
1. Modo di ben recitare. Qual sorte di persone dovrebbon recitar le Comedie.
2. Del gesto.
3. Della parola come si pronuncij.
4. Distintione delle parole secondo le parti.
5. Della Voce.
6. Sopra le parti ridicole.
7. Breve istrutione in generale a chi recita Comedie.
Molte volte, come nel gesto, o nella voce, ti vien fatto di trovar parole e frasi già dette ne’Frutti delle moderne Comedie, e non saprei dire se questi sieno un rifacimento in ristretto di quelli per la stampa, o se quelli sieno una parafrasi di questi pronta per una nuova edizione. A ogni modo vi si trovan concetti o meglio chiariti o nuovi di zecca, i quali mostran come al Cecchini stesse a cuore l’estetica in ogni sua parte, e i quali potrebber senza togliere e aggiunger loro un ette, attagliarsi a’comici dell’età presente.
Di codesti capitoli verrò trascrivendo quelle cose che più mi pajon degne di nota.
(Dal Cap. I) :
Prima che si lasciasse comparire alcuno in su le pubbliche scene, bisognerebbe intendere quel ch’egli sa, perchè vuol recitare, e se è instruito dell’ordine che si tiene, che in questo modo molti che vengono a far comedie per non lavorare, tornerebbero a’ lavor senza far comedie, e certo che questo sarebbe cagione di molti beni.
Il primo e più importante sarebbe, ch’inviolabili s’ osserverebbono le leggi del recitare, nè s’inciamperebbe per balordaggine in parole, che punto si allargassero da gli honorati e lodevoli confini del honestade, nè ci sarebbe tanta copia di sviati e Ciarlatani, che così spietatamente lacerassono questa povera comedia, la qual mi par tuttavia di udire che pianga e si lamenti per esser non solo per le bocche di molti ignoranti ; ma ne’meccanici banchi, su le pubbliche piazze strascinata.
Un altro bene seguirebbe doppo questi, che ristretto il numero de’recitanti, quel poco sarebbe così virtuoso, et esemplare che non si vedrebbe altro che soggetti nuovi e corretti, e colui che gli mettesse fuori, sarebbe scarico di quel peso di leggere a un solo mille volte un solo soggetto, che in quello stesso fa poi anco mille errori, et si leverebbe quella spezie di gente, di che fa menzione l’eccellentissimo Garzoni nella sua Piazza Universale del Mondo, che si vede per le cittadi vestiti alla divisa con pennacchi, che prima che fossero suoi, furono di mille altri, con cappe bandate di veluto che inanzi che sia diventata banda era calzone affaticato prima nella cittade e poscia in villa. O povera Comedia…..
(Dal Cap. II) :
Voi che fate professione di parlare in pubblico, raccordatevi d’aver pronto l’occhio, la mano, il piede, anzi tutta la persona, non meno che habbiate la lingua, poichè il concetto, senza il gesto, è appunto un corpo senza lo spirito, havertendo che non si vuol gesticolare in quel modo che molti sogliono fare, e ch’io molte volte ho veduti, che se girano gli occhi pajono spiritati, se muovono il piede sembrano ballerini, se le braccia barbagiani che volano, e se voltano il capo, scolari di Zan della Vigna ; però il capo, le braccia, i piedi, gl’occhi si deono muovere a tempo, con modo, con ordine e con misura, havertendo ancora che non è poco vitio adoprar sempre un sol braccio, o una sola mano, ma che si dee hor l’ una, hor l’altra et hora tutte due muovere, come più comporta il discorso che si recita. Lo stare avviluppato nel ferrajolo a chi fà parte di moroso non piace, però bisogna hor sotto mano, hor sopra tutte due le spalle, et hora in un modo, et hora in un altro andarlo accomodando, mentre camina, o passeggi…..
(Dal Cap. VII) :
Prima guardarsi di parlar con il popolo, raccordandosi che non vi si prossume persona in quel luoco, se non quello con cui si parla in scena, et se per sorte si parla solo fra sè stesso, si dee andar discorendo, se della sua donna si querella, alla casa di quella si volta gli occhi, se d’amore, se di fortuna, o d’altro, hora il cielo, hora alla terra, et hor in un luoco, et hor nell’altro, e non far come quelli ch’ apostano nel auditorio uno o due amici, et a quelli vanno dicendo le loro raggioni, questo precetto è di tanta osservanza, quanto mal osservato quasi da tutti.
Il secondo havertimento sarà, ch’ essendo sopragiunto in scena da un altro personaggio si taccia subito, non impedendo il luoco a quello che cominciar dee a parlare e troncar qual si voglia bel discorso per non lasciar mutto colui, che di novo è giunto, havertendo però chi dee uscire di star sin tanto che conoschi esser giunto al fine del suo raggionamento quello ch’ è in scena, e poi uscito, dir si puocho, che quello che dianzi parlava non resti come una statua, se però non deve dir cosa aspettante al soggetto, il quale ha molto bene da essere impresso nell’ascoltante, raccordandosi insieme ch’il dir breve e compendioso è quello solo che piace, et ch’ osservar si dee, non repplicando le cose dette più volte per non venir a noja, e secondo la necessità apporta la replica rassumer il discorso, si che solo si tocchi quello che già save il popolo. Raccordandosi l’autor della Comedia che il mettere in obbligo di ridir più volte una cosa che di già per parola e per effetto s’è veduta ed udita, recca nausea a chi ascolta, così anco fa bruttissimo vedere il personaggio che recita star attaccato alla scena, o venir troppo inanzi a recitare, non essendo in niun attione tolerabili gl’estremi.
Circa al merito artistico del Cecchini, scrive Domenico Bruni nelle sue Fatiche comiche :
Ma che dirassi di Pietro Maria Cecchini che nel tempo che recitava inanti la Sacratissima Maestà dell’Imperatore Matias fu dalla Cesarea Maestà sua con privilegio amplissimo ammesso nel numero de’Nobili, dichiarando lui e i suoi discendenti per tre gradi passati nobili ? E ciò fece perchè quello et altri comici moderni, non sono del numero di coloro che poco intendendosi di comedie pervertiscono l’arte, rendendosi indegni d’ esser posti nel numero de’ buoni, tal che, è necessario lo studio, e studio assiduo. Oltre di ciò, bisogna che la natura con un privilegio particolare assista il comico ; se no la fatica sarà gettata come a miei giorni è avvenuto e molti che professi nelle scienze ma dalla necessità astretti per liberarsi dal Pedantesmo, vollero farsi comici ; che alla prima scena accortosi poco valere il sapere, senza il dono della natura, si ritirarono fuori de’ Teatri, confessando l’arte esser troppo difficile.
Da una lettera del Forciroli, datata da Roma il 19 gennaio 1619, nella quale si annunzia l’arrivo in Roma da Napoli della Compagnia del Cecchini sappiamo anche la paga ch’egli aveva stabilito per ciascheduna rappresentazione in case particolari di nobili, cioè : 25 scudi per comedia col rinfrescamento appresso di robbe mangiative ; e aggiunge il Forciroli ch’eran soliti a recitarne due commodamente tra il giorno e la notte. Paga enorme a quel tempo, con la quale, ben nota lo scrivente, se ne sarebber tornati via con le borse piene.
In una lettera da Mantova (15 gennaio 1611) del Cecchini sono i ringraziamenti a Cosimo II per una medaglia con catena, portante il nome e il ritratto di esso Granduca, e per una pomposissima veste di che la Serenissima Arciduchessa si è compiacciuta di ornar la moglie Flaminia.
E donativi di ogni specie egli ebbe in ogni tempo e in ogni luogo da ogni Signore : la qual cosa sta a provare in che gran conto fosse tenuto l’artista. Il ciarlatanismo non doveva certo esser discompagnato dall’alto valore, se ci facciamo a pensare a quel suo disprezzo per tutti quei che lo circondavano, e che, naturalmente, indignati per la tirannia gli facevan guerra apertamente e copertamente. « Mi abbandonate ? — egli diceva — E che m’importa ! Non ci sono io ? Io basto a tutto. » Era una specie di attore-omnibus, di Giove onnipotente, il quale voleva torreggiar su tutti. Amante dell’arte e rispettoso di sè, tentava ogni mezzo di mettere assieme compagni di gran pregio…. Ma guai a dover piegare il collo ! allora il sentimento dell’arte doveva cedere alla boria ; e il gran capocomico si mutava di punto in bianco nell’ eterno matador circondato da una muta di cani. (V. Bachino Gio. Maria).
Ma se in onta di ciò ; se in onta alle requisitorie dell’ Andreini, del Martinelli, del Gabbrielli, ecc. ecc., egli potè artisticamente restar saldo sul suo piedistallo di bronzo, ammirato, onorato da Re, da Principi, da popolo, è segno manifesto che i pregi dell’artista soverchiavan d’assai i difetti dell’uomo.