Capitolo terzo
Perdita della musica antica. Origine della musica sacra in Italia. Pretese scoperte di , e di . Rappresentazioni de’ secoli barbari. Paralello fra esse, e quelle dei Greci. Progressi, e cangiamenti del Contrappunto.
[1] La universale ignoranza che oppresse l’Italia dopo la venuta de’ barbari, comechè danni gravissimi recasse a tutte le arti e le scienze, di niuna fece peggior governo che della musica. Le cagioni di cotal singolarità sono assai chiare. Avanti che la religione cristiana succedesse per divino consiglio agli errori del gentilesimo, il fior della musica antica si ritrovava o negli inni, che cantavansi a’ falsi numi ne’ loro templi, o nelle drammatiche rappresentazioni, che si facevano nei teatri. Ora in niuno di cotai luoghi potea impararsi dai primi cristiani la musica, perché l’uno, e l’altro erano a loro religiosamente vietati, siccome domicili di gentilesca superstizione, e di disonestà. De’ templi non vi può esser alcun dubbio circa la superstizione, e nemmeno lo sarà dei teatri per chiunque versato nella lettura degli antichi sappia ch’essi erano altrettante scuole, ove correva il popolo per imparare la loro religione, e la loro morale. Erano altresì l’albergo della dissolutezza, poiché vi si rappresentavano le arti pantomimiche, delle quali son troppo note le oscenità e le laidezze, e noto è l’infame letto su cui obbligavansi non poche fiate le donne a comparir ignude agli occhi del pubblico , e nota è parimenti la esecrabile costumanza di privar della virilità loro i fanciulli, acciò più agili, e più snelli divenissero ne’ pantomimici atteggiamenti. né potevano allora i cristiani una musica a lor modo inventare, perché essendo▶ dai gentili ferocemente perseguitati, vedeansi astretti, se volevano celebrar gli uffizi divini, a ragunarsi nei sotterranei delle case, o nelle caverne, od in luoghi ermi, e selvaggi, dove usavano di canto sommesso, e timido senza strepito di strumenti, i quali il disagio loro, e la povertà mal comportavano, e che avrebbero col romore il solitario loro ritiro agevolmente scoperto. Attalchè, quando i cristiani divennero padroni de’ paesi dianzi posseduti dai gentili, si trovarono quasi affatto sprovveduti di musica, qualora non vogliamo con siffatto nome chiamare il canto de’ salmi, che poco differiva dalla pronunzia ordinaria, o quello degli inni, che eseguivasi a due cori da’ Terapeuti, spezie di monaci orientali, che da alcuni eruditi sono stati, non so se con tutta la ragione, confusi coi cristiani del primo secolo.
[2] La venuta delle nazioni settentrionali apportò in seguito totale rovina. Que’ popoli frammischiando i loro rozzi idiomi alla purità del latino discorso, alterando le terminazioni de’ vocaboli, togliendo ai nomi ed ai verbi la propria inflessione, aggiugnendo in sua vece frequenza d’articolazioni aspre, di consonanti ruvide profferite cori voci sorde e confuse, non potevano far ispiccare il canto loro in altra maniera, che rinforzando il suono delle vocali per nasconder alla meglio la durezza e l’abbondanza di esse consonanti. Cotal rinforzamento unito alla più lunga dimora della voce sulle rispettive sillabe, che ne era una conseguenza, fece rallentar tutti i’ tuoni, frapporre più lungo intervallo tra i passaggi non meno di sillaba a sillaba che di suono a suono, e alterar così la durata de’ tempi tanto nella poesia quanto nella musica. Si tolse conseguentemente alle sillabe il loro quantitativo valore, e alla prosodia i suoi piedi: si smarrì ogni idea di poetico ritmo, che aggiugnea cotanta forza alla melodia, e si perdette la misura musicale, che era colla prosodia, e col ritmo strettamente congiunta. Così rovinò il sistema poetico, e musico degli antichi invece del quale nuova poesia successe barbara, e rozza, che tutta la sua vaghezza traeva dal definito numero delle sillabe in ogni verso, e dall’accoppiamento delle desinenze simili da loro chiamate rime, e nuova musica parimenti, la quale fu ben tosto una serie noiosa, e lenta di passaggi spogliati d’ogni dolcezza, senz’altra melodia, che quella che poteva nascere dalla forza, e dalla durazione de’ suoni.
[3] L’Italia per particolar dolcezza
d’accento, e per essere stata la sede principale della musica antica ne’ paesi
dell’Occidente conservò una superiorità dichiarata in questo
genere sugli altri popoli dell’Europa. Infatti nelle lettere di
si legge, che Clodoveo conquistatore delle Gallie, desiderando
d’avere appo se musici pregievoli, i quali «sollazzassero la gloria della
possanza sua»
, come s’esprime l’originale, scrisse a Teodorico re d’Italia acciocché
gli mandasse alcuno di que’ musici ch’erano alla sua orte. Teodorico il compiacque, mandandogli uno de’ più valenti che vi fossero, e
soggiungendo che glielo spediva affinchè «temperasse colle soavi modulazioni i
feroci petti de’ gentili»
. I Latini, avendo perdute per un concorso di
circostanze, delle quali a me non s’appartiene il parlare, molte parti della musica
greca, aveano parimenti perduti molti segni musicali, ovvero siano note, che usavano i
Greci. ampliò il canto fermo, o
vogliamo dire canto ecclesiastico usato nella chiesa fin dai primi secoli: lo che ei
fece raccogliendo gli scarsi ma pregievoli frammenti della musica greca guasta e mal
concia, come era a suoi tempi, e trasferendoli al culto divino nella chiesa di
Milano. Così il canto fermo nella sua prima origine era il
perfetto genere chiamato diatonico degli antichi, il quale, o per la maggior divozion
de’ cristiani, o per la naturale sua semplicità era più atto a commuovere di quello che
sia la sfoggiata pompa della musica presente. Ne faccia testimonianza il pianto, che il
canto ambrogiano espresse dagli occhi di , come narra questi nelle sue confessioni. San Gregorio papa, rigettando molte cantilene parte
venute dai barbari, e parte licenziose che dalla musica effemminata
dell’Oriente s’erano propagate per
l’Italia, creando delle altre più degne, o traendole con
giudiziosa scelta dall’uso delle altre chiese greche e latine, compose e formò
l’antifonario per uso della musica sacra. Aggiunse a questa maggior pompa e magnificenza
San Vitaliano, istituendo un coro di mutici romani, che
italiani furono detti dall’istitutore loro, come fece anche Leone Secondo, e San Damaso
spagnuolo, a cui di molto fu debitrice a’ suoi tempi la musica. Qualche secolo dopo,
cioè a’ tempi di papa Adriano s’eccitò la tanto
celebre lite fra i cantori romani e francesi circa il primato del canto, volendo questi
introdurre in Italia la loro rozza maniera di modulare,
vantandosi quelli all’incontro di essere i soli e veri maestri della musica perché
seguitavano la scuola di San Gregorio, ed onorando i loro rivali
col modesto titolo d’ignoranti, zotici, e somiglianti ai bruti animali. La disputa
divenne sì viva che lo stesso Imperador Carlo
Magno dimorante allora in Roma, comecché poco
s’intendesse di tali affari, ebbe bisogno d’interporre la sua autorità per placargli,
sentenziando poscia a favor de’ Romani contro ai propri sudditi, anzi mettendo questi
sotto l’insegnamento dei primi. Pochi esempi ci somministra la storia di simili
decisioni date da un principe vittorioso nello stesso paese conquistato da lui, né può
attribuirsi la condotta di Carlo in tal
circostanza che a somma venerazione per le cose di Roma, e forse
anche al bisogno che aveva di amicarsi i Romani per assicurar maggiormente in
Italia la sua possanza. L’uso dell’organo introdotto in
Roma assai prima, obbliato per qualche secolo, e poi rinovato
verso la fine del secol nono accrebbe gran lustro alla musica ecclesiastica. L’antico
scrittore che racconta il dissidio tra Francesi e Romani, dice che Adriano Pontefice mandò in Francia
maestri i quali fra le altre cose gli istruissero nell’organare in arte
organandi. Il da tai parole pretende
ricavare che l’organo fosse molto tempo avanti conosciuto in
Italia
20, e il Cavalier coll’Abate
strascinato da sì gran nome pronunzia anch’egli la medesima cosa. Mi si permetta scoprir
l’abbaglio di questi critici. “Organari” nello stile degli scrittori del basso secolo
non vuol dire suonar l’organo, né fabbricarlo, né cosa che s’assomigli: significa
inserire alcune terze nel progresso del canto fermo cantato all’unisono in maniera per
esempio che mentre una parte del coro cantava queste quattro note “ut, re, si, ut”,
l’altra parte cantava al medesimo tempo “ut, re, re, ut”21. Altre significazioni di quella
parola tutte diverse dal senso de’ citati autori possono vedersi presso
22.
[4] Per quasi i due secoli susseguenti, tempo, in cui, per valermi
della energica espressione d’un moderno scrittore, l’Europa
«restò come il gran corpo del ciclope privo dell’occhio»
, la musica
giacque nell’estremo avvilimento affidata a musici imperiti, che credevano di seguitar
senza comprenderlo, ed a cantori più
ignoranti ancora, i quali pronunziavano a caso delle parole non intese da loro
senz’altro aiuto che la memoria, né altra regola d’intuonazione che il loro rozzo ed
imbarbarito orecchio. monaco della
Pomposa, che fiorì dopo il mille, è in que’ tempi tenebrosi ciò
che nel mare agli occhi de’ naviganti smarriti è una torre, che veggasi biancheggiar da
lontano. Egli vien creduto comunemente il fondatore e il padre della moderna musica. I
suoi meriti principali sono d’aver migliorata l’arte del cantare, ampliata la
stromentale, gittati i fondamenti del contrappunto, e agevolata la via a imparar presto
la musica troppo per l’addietro spinosa e difficile. In contraccambio di tanti pregi
egli menò una vita infelice calunniato dalla ignoranza, perseguitato dalla invidia e
costretto a fuggirsene altrove da quei monaci stessi ch’egli onorava colte sue virtù ed
istruiva coi suoi rari talenti. Ma il favore del suo secolo e dei posteriori verso di
lui il ricompensò abbastanza delle vessazioni sofferte nel chiostro. La gran fama
acquistatasi, e la scarsezza dei monumenti hanno fatto sì che attribuite gli vengano
tutte le scoperte delle quali s’ignora l’autore, come già fecero gli Egiziani coi loro
Teutes, e col loro Mercurio. Niuno, cred’io, pretenderà che mi trattenga a
tutte narrarle minutamente, potendosi ciò ampiamente vedere in altri autori che ne
parlano più di proposito; aggiugnerò bensì, che gran parte di esse scoperte non hanno
altro fondamento se non quello appunto della comun tradizione. Si dice, per esempio, che
fosse il primo a inventar le righe, e a
collocarvi sopra i punti, affinchè colla diversa posizione di questi s’indicassero gli
alzamenti e gli abbassamenti della voce; ma ciò si niega a ragione dal nella Musurgia, poiché oltre il
parlar nel suo Micrologo di essi
punti e righe, come di cose note e non mai inventate da lui, egli è certo che si trovano
csempi dell’uno e dell’altro fin dai secoli nono e decimo,23 Si pretende ch’egli aggiugnendo al diagramma, ovvero sia scala musicale
degli antichi, che costava di quindici corde, la senaria maggiore, abbia accresciuta di
cinque corde di più la scala musicale, ed ampliato per consequenza il sistema. Ma
oltrachè una falsità è il dire che il sistema musicale dei Greci non avesse se non
quindici suoni, ◀essendo▶ chiaro che le pretese aggiunte del monaco italiano altro non
avrebber fatto che restituire il diagramma alla sua antica estensione o piuttosto non
giunsero neppure ad uguagliarlo, come dimostra evidentemente il
24, certo è che siffatta restituzione o
ritrovamento non è di , ma d’un altro autore
anteriore a lui di più secoli, le parole espresse del quale si rapportano
dall’eruditissimo
25. Si
tiene anche per sicuro comunemente ch’ei fosse il primo a ritrovare la gamma, ovvero sia
quella tavola, o scala, sulla quale s’impara a dar il lor nome, e a intuonar con
giustezza i gradi della ottava per le sei note di musica “ut, re, mi, fa, sol, la”
seguitando le diverse combinazioni in cui esse note possono collocarsi: ciò che
s’appella propriamente solfeggiare; ma per testimonianza del medesimo un siffatto metodo era stato di già inventato a’ suoi
tempi26. S’asserisce ch’ei precedesse a tutti nell’uso degli
strumenti musicali chiamati polipettri, quali sono il clavicembalo, la spinetta, il
clavicordio, e più altri di questo genere; ma da nessun monumento si ricava aver egli
fabbricato o inventato altro strumento che è una spezie di monocordo armonico, come egli
stesso ne fa fede nel suo Micrologo
27.
[5] Ma chiunque sia stato il ritrovatore, le note a’ tempi di
Real
Biblioteca di Parigi, parla delle note e del loro
valore come di cose di già conosciute a’ suoi tempi. A chiunque sia versato nella teoria
musicale è ben noto che il modo suppone il valor delle note, poiché quella parola
riguarda la massima e la lunga. Ora il in una
copia del citato codice veduta da me, ci insegna che «gli antichi dicevano esser
cinque i modi»
, intorno alle quale parole , celebre musico padovano del secolo XIV, il quale fece un
lungo comento al libro del , che si conserva
inedito fra la raccolta di monumenti esistenti nella libreria dei RR. PP. conventuali di
Bologna, soggiugne che siffatta opinione circa il numero dei
modi era comune presso agli antichi, dicendo di averla ritrovata in un’opera di
, autore di cui ci converrà far menzione in
appresso. In altro luogo facendo menzione di Guglielmo
Mascardio cantore di grido a’ suoi tempi, ma le cui opere e le cui opinioni
sono state avvolte insiem con tanti altri depositi delle umane cognizioni nella
irreparabile dimenticanza dei secoli, attribuisce a lui l’usanza di lasciar ne canto
imperfette le brevi. O che dunque il valor delle note sia stato ritrovato dal , o che riconoscasi per inventore Guglielmo Mascardio, o che debbasi, come io fortemente
sospetto, risalir ancora a’ tempi più antichi, certo è che il non ebbe parte in così fatta scoperta. né fu altrimenti, come si
pretende, una sua invenzione la misura musicale, ch’era stata per secoli intieri
trascurata, ma senza la quale non può trovarsi né canto regolare né melodia, siccome
quella che serve a dividere i tempi esattamente, a far valere le intonazioni, a dar un
significato, un ordine a1 tutto, come fa la fintassi grammaticale nel discorso, e che
dal valor delle note principalmente deriva. Egli nella copia altre volte citata discorre
alla lunga dello stato, in cui si trovava a’ suoi tempi questa principalissima parte
della musica. «I moderni», dice, «usano presentemente di misura molto tarda». Lo che è
un indizio manifesto che avanti a lui si conosceva. Non sarebbe inverosimile che
gl’Italiani l’avesser trovata, sì perché non sembra probabile che avesser musica da
tanto tempo senza conoscer quelle cose, che sono indispensabili a ben regolarla, come
perché le invenzioni di a quelle altre
agevolmente conducono. Leggendo con attenzione il Micrologo di quel
monaco, vi si scorgono chiaramente i semi di tante scoperte che si riferiscono
comunemente a’ tempi più tardi.
[6] Ma onde, dimanderà qualcheduno, tanta incertezza nella storia della musica? Perché tal oscurità circa il tempo delle invenzioni, e degli inventori? Si risponde che ciò è provenuto dalla natura dei secoli dediti alla rustichezza e alla ferocia, dove nulla pregiavansi le opere dell’ingegno, perché neppur si sospettava della loro utilità: dal niun commercio tra popoli confinanti, non che tra i lontani, onde avveniva che i nuovi ritrovati nelle scienze e nelle arti, o si smarrivano nei viaggi disastrosi, e poco sicuri, o si chiudevano nella tomba per sempre insiem coi loro inventori, o si giacevano fra l’eterno silenzio delle monastiche biblioteche polverosi e negletti: dal considerarsi in allora la musica non come un’arte di genio, gli avanzamenti della quale dovessero interessare il lusso e la voluttà nazionale, ma come una spezie di liturgico rito, ovvero sia di pattuita ecclesiastica cerimonia, cui bastava aggiugnerne quello soltanto, e non più, che richiedevasi per soddisfar al bisogno: dalla mancanza insomma di scritture, e di libri, la quale vietava di poter ad altri luoghi trasmettere, e di render note le proprie invenzioni. Talmente che nulla v’ha di più comune in quei tempi quanto l’attribuire ad un autore delle scoperte che poi con più diligente ricerca si ritrova esser di molto a lui anteriori. Io paragonerei volentieri la storia dei secoli barbari all’orizzonte. Lo spettatore, che vede da lontano unirsi la terra col cielo, crede che colà siano posti i limiti del mondo, ma a misura ch’egli avanza il passo, l’illusione sparisce, e più non vi si trova il confine.
[7] Che che sia di ciò, quantunque siffatto ritrovato incontrasse qualche contraddizione dalla parte d’alcuni, nullameno i più celebri musici d’Italia , , , con più altri l’abbracciarono avidamente, onde gran incremento ne prese l’arte del contrappunto. Altre varietà s’introdussero prima, e poi, che non a breve saggio come questo è, ma a più lunga storia si convengono. Cominciossi allora ad applicar la musica ai funerali, alle nozze, e ad altre solennità, come ancora a’ Ludi o misteri della Passione, de’ quali, per essere stati in certa guisa i primi abbozzi del dramma musicale, ci convien fare più distinta menzione affinchè si vegga la rassomiglianza d’origine nella poesia drammatica di tutti i tempi.
[8] Gli spettacoli, siccome altro non sono stati giammai se non se l’espressione de’ pubblici costumi, così hanno dovuto in ogni secolo aggirarsi intorno ad argomenti conformi al genio ed al pensare attuale de’ popoli, per cui furono fatti. Senza questa massima non è possibile dar un passo nella storia filosofica delle lettere. Ora ne’ tempi e nelle nazioni che chiamansi rozze, i principi della religione agiscono con maggior forza sugli spiriti, che ne’ tempi e nelle nazioni che diconsi illuminate, sì perché venendo per lo più la coltura delle arti e delle scienze in un popolo congiunta coi progressi del commercio, del lusso, e delle altre cose, le quali necessariamente corrompono i costumi, non è facile che i motivi religiosi abbiano gran potere, ove i vizi han troppa licenza, come perché, ◀essendo il carattere generale della filosofia quello di render probabili le cose più dubbiose, e di sparger dubbi sulle verità più evidenti28 non è possibile ottenere che siffatto scetticismo non si stenda anche agli oggetti più rispettabili, i quali appunto perché sono tali, e perché mettono a disagio le nostre passioni, si vorrebbe pure che non esistessero. La storia di tutti i tempi non è che una riprova continuati di questa verità incontrastabile. Però gli spettacoli nel loro nascere, ovunque si formano dipersè, e non per pura imitazione degli altri (nel qual caso la faccenda procede altrimenti) impresero a trattar argomenti propri della religione di quel dato paese, come cel dimostra l’esempio di molti popoli selvaggi, degli Scandinavi, de’ Messicani, de’ Peruviani, de’ Chinesi, e de’ Greci principalmente. Così dovea accadere eziandio nella prima origine delle moderne rappresentazioni, e così accadde in fatti ne’ secoli barbari. I pellegrini, che spinti dalla divozione erano andati a visitar i luoghi ove nacque e morì il comun Redentore, a San Giacomo di Galizia, alla Madonna di Puy e tali altri santuari, cominciarono i primi nel ritorno loro a farsi sentire or soli, or molti insieme cantando sulle pubbliche strade cogli abiti coperti di conchiglie, di medaglie e di croci la Passione del nostro Signore, le gesta di Maria Vergine, di San Lazzaro, degli Apostoli, ed altri argomenti sacri tratti dalla Divina Scrittura, o dalle Leggende de’ Santi. Piacque al popolo cotal usanza per la novità, e per la maggior divozione d’allora, ed ecco introdotti in Germania, in Francia, in Ispagna, e in Italia i ludi, ovvero siano i misteri detti della Passione. Sul principio non furono se non rozzi spettacoli presentati agli occhi del popolo su i cimiteri delle chiese, sulle piazze e sulle campagne, la qual circostanza ebber essi comune ancora colla tragedia greca, che nacque, a ciò che si dice, nelle feste di Bacco fra il tripudio e l’allegrezza degli agricoltori. Giudicandosi poscia cotai luoghi men degni, si celebrarono dentro alle stesse chiese in teatri a bella posta inalzati, e s’accompagnarono spesso colla danza, col canto, e col suono nelle gran solennità, o nelle nozze, o ingressi de’ principi. Un’altra particolarità onde s’assomigliavano agli antichi spettacoli è quella d’esser eseguiti e d’aver per autori persone consecrate al servigio della religione. Ognun sà che i primi poeti greci furono insiem sacerdoti, e che eglino medesimi recitavano al popolo i loro componimenti, il qual costume durò sul teatro costantemente fino ai tempi di , il primo fra i tragici antichi che cominciasse ad abbandonarlo. Similmente fra noi le persone di chiesa s’applicarono a siffatto esercizio, come sappiamo di molti, tra quali vanno attorno stampate le sei commedie sacre di canonichessa di Gandersheim scritte prima del mille: si sa parimenti da un antico storico citato dal Muratori, che vi si usò dal clero recitar in pubblico i ludi, come fanno in oggi gli attori, e (ciò che dilegua affatto ogni dubbio) nel decretale di Gregorio nono si asserisce espressamente che i preti diaconi e suddiaconi comparivano mascherati in chiesa a divertir il popolo con simili spettacoli29 autorizzati qualche volta colla presenza del Vescovo.
[9] Ma le diverse circostanze de’ tempi e de’ luoghi non permisero che le rappresentazioni sacre avessero presso a noi lo splendore e la durata ch’ebbero presso a loro quelle dei Greci. Di ciò due ne veggo esser state le cagioni. La prima la differenza degli autori di esse rappresentazioni nei diversi paesi. L’impiego di poeta fra i primi Greci era di somma importanza, e consideravasi come una delle cariche più rispettabili dello Stato. Quindi è che la esercitavano persone scelte, le quali congiugnevano con un sommo ingegno una perfetta cognizione degli affari politici, e delle opinioni che conveniva istillare negli animi del popolo. Sapevano essi non pertanto trovar i mezzi più acconci a perfezionar il teatro, e a renderlo ognor più conforme alle mire che si proponeva il governo. All’incontro i poeti italiani de’ secoli barbari erano, come quelli di tutta l’Europa, una truppa d’uomini ignoranti, e senza educazione. I Preti, che per lo più erano gli autori e i direttori degli spettacoli, non venivano eccettuati. Si riputava dotto fra essi chi sapeva leggere, e molti ignoravano persin la maniera di scriver il proprio nome. Se alcun talora si distingueva dagli altri il suo sapere consisteva in una scienza di tenebre, che non aveva altro valore intrinseco se non quello che le veniva dato dall’altrui ignoranza, in un gergo inintelligibile, in una serie di cavillazoni egualmente oscure che inutili alla sublime religione, che e’ pretendevano rischiarare. Alla dimenticanza de’ veri principi di questa, tenne dietro anche quella della morale. Giunsero non pochi fra loro a scordarsi, che la simonia, la venere sciolta e l’adulterio fossero peccati, e vi si trovano parecchi canoni de’ concili a que’ tempi destinati unicamente a rammentar ai preti quelle verità, che mai non ebber bisogno di pruova presso le nazioni più incolte. Lascio pensare qual influenza dovesse avere tanta, e sì universale ignoranza sulla formazione degli spettacoli.
[10] La seconda cagione più sottile, e più ascosa è riposta nella natura, ed indole d’entrambe le religioni. Il gentilesimo, almeno come si credeva dal popolo, era un sistema d’opinioni assurdo ne’ principi, difettoso nei mezzi, incoerente nelle conseguenze, indifferente per la morale, con cui niuna avea o pochissima relazione, e ingiurioso alla divinità, la quale bisognava sfigurare per accomodarla ai capricci degli uomini. Da tanti errori le belle arti ritraevano gran vantaggio per la loro perfezione, e progressi: merito assai tristo per una religione, l’oggetto della quale debbe esser quello d’assicurar all’uomo la felicità della vita presente, e della futura, e non di regolare lo scalpello dello scultore, o di porger materia alle bizzarro fantasie d’un bello spirito. L’immaginazione madre dell’entusiasmo avea nella Grecia fabbricato tra il cielo e la terra un palazzo di splendente cristallo, ove trasparivano idoleggiati sotto le forme più fidenti la natura, gli uomini e i numi. Ove il culto religioso fomentava le passioni invece di reprimerle, gli oggetti di esse passioni doveano deificarsi: conseguentemente leggiamo, che la bellezza de’ fanciulli e delle donne riscuoteva onori divini; che Venere, Ganimede, Ebe, Adone, e le Grazie furono posti ne’ seggi celesti, e che le meretrici perfino ebbero altari, e feste a lor nome. Ove gli dei lasciando ai filosofi la cura d’ammaestrar gli uomini nella morale, si prendevano soltanto il pensiero di divertirli, inventando i balli, i suoni, i versi e la maniera di coltamente parlare, la poesia, la musica, il ballo, l’eloquenza, e tutte le belle arti dovevano riguardarsi come oggetti celesti da pregiarsi sopra qualunque cosa terrena. Perciò mentre s’andava a prender le regole di vivere costumatamente da povero e dispregiato ateniese: mentre le leggi politiche si sforzavano di riparare colla saviezza loro ai danni cagionati dalla religione: mentre la filosofia s’opponeva con man vigorosa alla influenza de’ vizi protetti dal cielo; in questo mentre, io dico, si vedeva Giove padre degli dei dipinto ne’ pubblici templi della medesima città colla lira in mano, s’adoravano Castore e Polluce per aver i primi istituita la danza, veniva onorato Mercurio come inventore della eloquenza, e si dava a nove vergini deità la singolar incombenza di presiedere alle canzoni. Ove le passioni avevano in cielo la loro difesa, e le arti il loro modello, ben si vede qual entusiasmo dovea accendersi in terra per coltivar queste, e ingentilir quelle favoreggiato poi dagli usi politici, e ravvivato dalla possente influenza della bellezza, principio comune delle une e delle altre.
[11] Di più: in una religione che parlava molto ai sensi e
pochissimo alla ragione, e che rappresentava l’essere supremo sotto velami corporei,
gl’iddi non si distinguevano molto dagli uomini: anzi, ponendo mente alle assurdità e ai
vizi attribuiti a loro dai poeti , chiunque avea fior di senno dovea pregiare assai più
un vile schiavo virtuoso, che non gli oggetti della pubblica venerazione. «che il Saggio è superiore a Giove»
. Perciò la
divinità, come veniva considerata dal volgo, nulla perdeva del suo esposta sulle scene.
Gli spettatori non vedevano tra essa e loro quella distanza infinita, la quale,
togliendo ogni proporzion fra gli estremi, rende inapplicabile qualunque teatrale
imitazione. Sapevano essi dalla pubblica tradizione, che la natura loro non liberava gli
dei né i Semidei dagli affetti perversi, e dalle inclinazioni, onde vien tante volte
l’umana debolezza agitata e sconvolta, cosicché potevano prender interesse nelle vicende
loro, come noi lo prendiamo nelle sciagure di Zenobia, e di Mitridate. né troppo
era strano anche il deriderli sulle scene, come vediamo pur qualche volta aver fatto
. Basta leggere nel primo atto d’una
delle sue commedie intitolata le Rane il burlesco e licenzioso dialogo
tra Ercole e Bacco per conoscere qual conto facessero degli dei tanto il poeta, che
metteva in bocca loro simili oscenità, quanto il popolo, che ne applaudiva. né minori
prove d’irreverenza si trovano ne’ poeti tragici. Era le altre sentasi le bestemmie, che
fa dir Euripide ad un suo personaggio:
«Ah! di sicuroNulla è quaggiù. Non della gloria il lampo,Non la fortuna toglieran, che l’uomoMisero infine non divenga. i numiTurban le cose, negli umani eventiConfusion, disordine mischiandoPerché dell’avvenir nulla sapendoSiamo costretti a venerarli…»30
[12] Al che s’aggiugne che, avendo il gentilesimo presi i suoi fondamenti nella storia greca, il rappresentar sul teatro le opinioni religiose era lo stesso che richiamar il popolo alla ricordanza e all’ammirazione de’ fatti patriotici, e conseguentemente risvegliar in esso l’amore della libertà, e della patria, virtù delle più utili per tutto altrove, ma necessarissime nella costituzione de’ Greci, i quali aveano scacciati i re per divenir repubblicani. Così gli spettacoli, le belle arti, la politica e la religione erano talmente legati fra loro, e, per così dire, innestati, che non poteva alcuno di tali oggetti cangiarsi senza che tutti gli altri non se ne risentissero. Ed ecco il perché le rappresentazioni sacre ebbero in Grecia sì lunga durata, e di tal importanza furono considerate.
[13] Tutto l’opposto avviene fra noi. Il cristianesimo, quella religion santa, che trae dal cielo la sua origine, ci dà della natura divina, e delle cose che le appartengono, una idea troppo rispettabile, perché possano servir sulla scena di spettacolo agli uomini. Incomprensibile ne’ suoi misteri, perché le operazioni dell’Esser infinito oltrepassano la debole potenza della finita ragione, esso ricava maggior motivo di venerazione della sua medesima oscurità.
«Profonda e chiara, tenebrosa e vera.»
[14] Legato intimamente colla morale, cui serve di sostegno e di guida, ha per iscopo principale il reprimere le ribellanti passioni, atterrando l’idolo dell’amor proprio. Unicamente occupato nel procurar all’uomo la felicità eterna, per cui la vita temporale non è che un breve e fuggitivo passaggio, raccomanda la pratica delle virtù, che a tal fine conducono. La rinunzia a tutti i piaceri del secolo, l’annientamento di se medesimo, il timore d’un Dio, che ovunque è presente per esaminare le più ascose rivolte dei cuore, la perpetua ricordanza della morte, e del suo futuro destino, in una parola la sublime, e salutare tristezza di questa vita per guidare all’altra ad un’allegrezza interminabile; ecco il vero spirito del cristianesimo. Beati coloro che sanno sparger lagrime in questa valle di pianto!31 Basta la semplice esposizione dei fatti per capire quanto la rappresentazione di essi divenga impropria sul teatro, ove la libertà degenera sì spesso in licenza, e l’allegrezza in tripudio. Non potendo sollevar gli sguardi del volgo fino alla grandezza delle cose rappresentate, egli è d’uopo abbassar queste per avvicinarle agli occhi suoi, accomodar la natura divina alle passioni degli uomini, e far un materiale spettacolo della più spirituale fra tutte le religioni. Perciò gli argomenti sacri debbono degenerare in assurdità ovunque la religione, e il teatro formano due oggetti separati, come avviene presso di noi, poiché il dissipamento dell’uno si oppone incessantemente alla santità dell’altra.
[15] Le notizie rimasteci di cosiffatti ludi, o misteri, la mia osservazione mirabilmente confermano. Giova fermarsi alquanto sopra di essi per conoscere i vari costumi de’ secoli, e fin dove possa giugner l’abuso che fa talvolta l’uomo degli oggetti più rispettabili.
[16] Memoranda sarà mai sempre la festa detta “dei Pazzi”
celebrata per molti secoli in quasi tutta l’Europa, dove le più
ridicole rappresentazioni si framischiavano a delle cerimonie cotanto licenziose che
sarebbero affatto incredibili se attestate non venissero da un gran numero di scrittori
saggi ed accreditati. Nelle chiese cattedrali si sceglieva ogni anno colui che dovea
presiedere alla festa col titolo d’“arcivescovo dei pazzi” e in qualche luogo gli si
conferiva il nome di “papa”. La consecrazione si faceva colle formole più ridicole.
L’eletto si metteva indosso le insegne proprie del personaggio cui rappresentava, e si
vedeva il venerabile corifeo benedire pubblicamente il popolo ora colla mitra in capo e
la croce davanti, ora colla tiara. Nel giorno in cui si presentava in pubblico per la
prima volta, il suo elemosiniere conferiva agli ascoltanti le indulgenze a nome del
padrone pronunziando in tuono grave e serioso certi versi, il cui senso era il seguente:
«Da parte di Monsignor Arcivescovo che Domenedio mandi a tutti voi un malanno
al fegato con un paniere colmo di perdoni, e due dita di rogna sotto il
mento»
. La rubrica del secondo giorno era questa: «Monsignore ch’è
presente, vi dona venti panieri pieni di dolori ai denti, e aggiugne agli altri
donativi già fatti quello della coda d’una carogna»
. Un siffatto pontefice
doveva tenere presso di sé dei ministri non dissimili a lui, e questi erano i preti
della stessa chiesa. Ne’ giorni che durava la festa (cioè dal Natale insino
all’Epifania) tutti assistevano all’uffizio divino in abito di maschera o di commedia.
Alcuni si vestivano da Pulcinella, altri da pantomimo, altri da
donna, e parecchi si lordavano il viso con varie sozzure affine di movere il riso, o di
far paura agli spettatori. Non contenti di cantare nel coro delle poesie disoneste
invece dei salmi, si pigliavano ancora il trattenimento di giuocar ai dadi sopra
l’altare, di mangiare e bere presso al sacerdote che celebrava la messa, di mettere
degli escrementi negli incensari, e di profumare il popolo con siffatta odorosa
gentilezza. Terminati i divini uffizi, correvano pel tempio come forsenati, o si
mettevano a saltare e ballare con tale impudenza che alcuni restavano ignudi in presenza
di tutti. Talvolta i secolari si mischiavano fra il clero per averne anch’essi l’onore
di rappresentare un qualche personaggio nella commedia. La
farsa per il comune si recitava nell’atrio o cimeterio della
chiesa. Ivi si tosavano i capegli e si radeva la barba al prete che più si fosse
distinto nella festa. Si faceva dopo apparire in iscena un asino abbigliato con una gran
cappa che arrivava fino in terra, d’intorno la quale gli attori cantavano “hè messer
asino hè” replicando più volte la stessa cantilena a due cori, e imitando negli
intercalari il raglio di quel vezzoso animale. Il resto consisteva in dialoghi pieni di
laidezze insipide e grossolane. Uno scandalo così enorme durò più d’ottocent’anni in
Francia in Ispagna, in
Inghilterra, in Germania e in
Italia, e prese voga persino nei monisteri dei frati e delle
monache. E ciò che dovrebbe recare stupore (se pur v’ha qualche cosa che debba recarlo a
chi conosce la natura dell’uomo, e la debolezza inconcepibile delle sue facoltà) si è
che cotali stravaganti follie sembravano agli occhi di quella gente tanto conformi allo
spirito del cristianesimo che chiunque osava vituperarle, era tenuto eretico e degno di
scomunica. Non vi mancavan nemmeno degli apologisti, che in aria posata e ragionatrice
ne istituissero le difese. Si può credere che i loro argomenti erano egualmente sensati
che la loro causa. Un Francese dottore in teologia giunse a sostenere in una pubblica
tesi che la surriferita festa era non meno grata al nostro Signore di quello che fosse
alla Madonna la festa della sua Concezione. «Diffatti (dicevano essi, appigliandosi a quella ragione, ch’è stata mai sempre lo scudo
della ignoranza, e il baloardo del fanatismo) i nostri Maggiori persone
illibate e santissime, la celebravano, perché non dovremo celebrarla ancor noi? Tutti
gli uomini abbiamo una dose di pazzia che ha bisogno di svaporarsi; non è forse
meglio, che si fermenti nel tempio, e sotto gli occhi dell’Altissimo che fra le
domestiche mura? Il liquore della saviezza è troppo forte, noi siamo dei vasi troppo
gracili per contenerlo, e però fa di mestieri dar un pò d’aria a cotesto vino a fine
di scemarne il vigore, perché non si renda nuocevole, come fanno i cantinieri nelle
cantine.»
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[17] Ma venendo ai ludi propriamente detti, la prima
rappresentazione di cotal genere che sappiamo esser stata fatta in
Germania, intitolata Ludo Pascale della venuta, e morte
dell’Anticristo altro non era, se crediamo all’elegante e dotto Cavalier
, se non se un drammatico guazzabuglio,
ove «veggonsi apparire nella scena il papa e l’Imperadore con più altri sovrani
d’Europa e d’Asia, e l’Anticristo
accompagnato dall’Eresia, e dalla Ipocrisia, e persino la Sinagoga col gentilesimo,
che anche essi ragionano»
33. Tale fu ancora un altro spettacolo rappresentato in
Firenze, da quei del Borgo San Friano
l’anno 1304, ove fece comparire l’inferno con uomini contraffatti a guisa di demoni, ed
altri che avevano la figura d’anime ignude, le quali erano tormentate dai primi con
fuochi, ed altre pene orribili a sentirsi, come si racconta più alla distesa dallo
storico
34. Il Quadrio fa menzione d’un altro
intitolato il Costantino, dove si leggeva una pistola di San Paolo, e
alla fine si cantava il Te Deum. Nel secolo decimoquinto si recitò nel
Delfinato
l’Epulone dove Asmodeo, diavolo della lussuria, e
Pluto, diavolo delle ricchezze, compariscono
avanti il tribunale del Padre Eterno per accusar il ricco
Epulone, che si sta in ginocchione innanzi al giudice.
L’Angelo Custode è il difensore, e quasi era sul punto d’ottener
la liberazione, allorché giugne San Lazzaro, il quale informandosi
del giudizio, si volta dicendo:
«Che! Messer Padre Eterno,35Voi tu dunque salvareDi Belzebutte un germe, un mascalzone,Spilorcio, e crapulone,Che va per le cucineLe pentole fiutando, e del ProfetaSe qualchedun gli parla, o della legge,La pancia Ei si tasteggia, e poi risponde:Che legge? Che Mosè?Il Pentateuco mio questo è alla fè.»
[18] Conseguentemente a tante accuse il Padre Eterno comanda ai diavoli, che sel portino in gehennam ignis, ond’essi partono via pieni di giubbilo. Si cangia la scena, e comparisce Satanasso in trono con gran forcone in mano invece di scettro, avanti al quale Asmodeo presenta Epulone, intuonando certi versi i più ridicoli del mondo.
[19] Un’altra si rappresentò in Milano, dove compariscono in iscena Annibale, San Giorgio e Gedeone, altercando insieme per sapere chi fosse il più bravo fra di loro. Sopragiugne Sansone con una gran mascella scarnata sotto il braccio, e sfida tutti tre a duello. Dalila, che arriva, sviene per la paura, e i colpi finiscono ballando insieme una pavaniglia.
[20] La Tentazione fu il titolo di un’altra che si recitò in Siviglia l’anno 1498, nella quale il diavolo vestito da zoccolante va per tentare un eremita per nome Floriano. Disputa con lui sull’astinenza, e sull’Incarnazione, sul qual proposito il diavolo cita ed . Vuol poi dargli a mangiare del pane e del cacio, che porta nella manica per fargli rompere il digiuno, ma Santa Melania comparisce a Floriano in forma d’una vecchia, e gli fa vedere le piccole corna che il frate porta sotto il cappuccio. L’eremita allora cava fuori una gran croce, veggendo la quale il diavolo piglia la figura di porco, e va via grugnendo.
[21] In una rappresentazione francese intitolatala Resurrezione s’introduceva il Padre Eterno dormendo, e un angelo che viene a destarlo con queste parole:
«Ang.: Eterno Padre, voi avete il torto, e dovete vergognavene. Il vostro dilettissimo Figlio è morto, e voi dormite come un ubbriaco.
P. E.: Come! Egli è morto?
Ang.: Da uomo d’onore.
P. E.: S’io sapeva niente, che il diavolo mi porti.»36
[22] Tali furono insomma quasi tutte le rappresentazioni delle quali la storia ne somministra memoria in Europa ripiene, cioè, di bizzarre allusioni, d’allegorie grossolane, di spettacoli sconci che meritarono replicate volte le censure della chiesa e nominatamente del papa Innocenzo III, che le proibì. Ma ripullularono esse di nuovo col medesimo carattere di stravaganza e d’assurdità anche ne’ più colti secoli e in quelle nazioni altresì che si distinguevano nelle utili cognizioni, ed ottimo gusto. Un esempio ci fornisce l’Italia, nella quale in mezzo alla luce del Cinquecento fu istituita in Roma la Compagnia detta del Gonfalone col solo fine di rappresentarvi annualmente i Misteri della Passione. In Ispagna, dove le antiche usanze durano più lungo tempo che per tutto altrove, si conservò fino a’ nostri giorni il costume di eseguire siffatte rappresentazioni benché trasferite dalla chiesa in teatro col titolo di Autos sacramentales, ed abbellite coi più vaghi colori della poesia, e di superbe decorazioni. Il fecondissimo, e pressoché subitaneo ingegno del ne compose fino a quattrocento. Molti tomi ne scrisse anche il poeta drammatico, cui l’Europa non avrebbe forse avuto l’eguale se la regolarità corrispondesse in lui alla invenzione, la delicatezza all’intreccio, la sensatezza del gusto alla forza e fecondità dei caratteri. Il progresso dei lumi ha finalmente da qualche tempo fatto andar in disuso simili divertimenti.
[23] Ritornando al nostro proposito, e raccogliendo in breve quanto a noi s’appartiene, quattro furono i gradi o l’epoche dell’accrescimento della musica sacra. Il primo quel semplicissimo, il quale altro non comprendeva se non se le prime rozze melodie degl’inni e de’ salmi. Il secondo, in cui s’inventarono parecchie sorta di canto, che durano fino al presente, come sarebbe a dire l’antifone, gli introiti, le sequenze, i responsori, le prefazioni e tai cose, che s’alterarono coll’andar del tempo considerabilmente. I1 terzo, ove s’inventò il contrappunto chiamato “a mente” nato fra il duodecimo secolo e il decimoterzo, cioè quando sopra le sillabe e le antifone principalmente di quelle che appartengono agl’introiti, i compositori si fermavano saltellando con moltiplicità di consonanze secondo le parti di ciascuno con piacere bensì dell’orecchio, ma colla rovina e lo sterminio delle parole. Cotal abuso di consonanze e di dissonanze introdotte nella musica ecclesiastica servì a infrascarla a segno, che papa Giovanni XXII si vide astretto a proibirne la maggior parte, e a determinar il numero e la qualità di quelle che potevano usarsi, come fece con bolla espressa che trovasi fra le stravaganti. Il quarto, ove s’introdusse il contrappunto “fugato”, cioè, una serie di suoni più difficili e più carichi di fughe ed altri artifizi. Imperocché appena cominciò a rilasciarsi la modestia, per così dire, dell’antica musica o per troppa indulgenza di coloro che presiedevano alle cose sacre, o per ismodata licenza dei musici, non vi fu argine o regola alcuna, ma mille nuove spezie s’introdussero di modulazioni, di echi, di repetizioni, e di troncamenti di parole: pei quali mezzi la musica ecclesiastica degenerò in isconvenevolezza e in licenza incredibile, accelerata maggiormente coll’uso di applicar l’armonia ad una lingua morta, il cui significato non comprendendosi dal volgo con poteva lasciar nell’animo quelle traccie profonde d’affetto, che visi dovrebbono imprimere. E come spesso accadeva che neppur i maestri di cappella intendessero il latino, così non poche fiate scambiavano il motivo adattando una musica sciolta e vivace ad un sentimento grave e patetico, ovvero esprimendo con movimenti tardi parole, che indicavano celerità e brio. L’ignoranza di quei tempi fece altresì che i poeti destinati a comporre i motteti o gli inni li lavorassero senza la menoma idea di buon gusto, ond’è che ricercavansi da loro le parole più barbare, s’usavano i metri più esotici mai non ricevuti nell’idioma latino, e si riempivano di sentimenti inettissimi, o incompatibili fra di loro37. Da ciò ne risultava altresì che il popolo da una banda, e i migliori spiriti dall’altra disgustati dal misero strazio che si faceva della poesia, della musica, e del buon senso, preferivano all’armonia destinata al culto dell’Altissimo le voluttose cantilene del secolo, le quali a poco a poco ebbero in chiesa la preferenza. Allora pervenuti al colmo gli abusi, se ne avvidero i supremi regolatori delle cose sacre del danno che poteva risentirne la religione, contro cui nessun colpo si può scagliar più funesto di quello, che le viene indirizzato dalla corruzion del costume. Però il Pontefice Marcello Secondo avrebbe scacciata vergognosamente dai templi la musica come cosa profana, se il celebre trattenuta non avesse l’imminente proscrizione, componendo la sua Messa, ove si vede adombrata la decenza e maestà che conviensi ad una musica sacra. Se non che l’esempio di questo grande armonista non ha avuta alcuna influenza nell’Italia dove la musica ecclesiastica con discapito della religione, con iscandalo degli esteri, e con irreparabile iattura del buon gusto dura sul medesimo piede dopo due secoli, nonostanti alcune rispettabili eccezioni che, per esser poche, non bastano a derogare al costume generale. Le insinuanti e vivaci modulazioni destinate a preparar sul teatro gli animi alle tenerezze di Cleonice e d’Alceste sono quelle che dispongono in oggi i fedeli nelle pubbliche solennità ad assistere al più augusto di tutti i sagrifizi, e i maestosi sentimenti cantati un tempo sull’arpa di Davide seguitano a replicarsi fra noi da quelle bocche avvilite, cui meglio assai converrebbe intuonar l’inno della ebrietà fra gli evirati sacerdoti di Cibele.