CAPO II.
Prima epoca del teatro Latino.
I.
Semi primitivi della scena in Roma.
L’unico spettacolo Circense frequentato per lungo tempo in Roma erano le feste Consuali istituite da Romolo dopo il ratto delle Sabine. Ma nel Consolato di▶ C. Sulpizio Petico e ◀di▶ C. Licinio Stolone, nel primo anno della CIV olimpiade e nel 389 della sua fondazione, Roma afflitta da una crudelissima peste, sospesa ogni cura bellica, per liberarsi da sì fiero nemico domestico, contro ◀di▶ cui ogni umano argomento riusciva inefficace, pretese placare lo sdegno celeste con un nuovo rito religioso, e compose alcuni inni. Questo sacro poetico omaggio passò poscia in costumanza, e la gioventù che lo cantava, incominciò a poco a poco ad animarlo scherzevole con atteggiamenti rozzi e scomposti, e lo convertì in ricreazione17. Ecco la sacra informe materia teatrale che nasce, per ciò che nel precedente volume divisammo, in ogni terreno, senza che se ne prenda da altri popoli l’esempio, nella quale per lungo tempo rimangono antiqui vestigia ruris. Essa rassomigliava ai primi inni ditirambici e ai cori rustici de’ Greci, e pose in voga i diverbii Fescennini, i quali insieme co’ modi Saturnii per centoventi anni in circa vennero da’ Romani coltivati18. Ma siffatti motteggi per la soverchia acrimonia e maldicenza personale abbisognarono col tempo ◀di▶ correzione, e furono dalla legge ridotti al solo oggetto d’instruire e dilettare. Orazio stesso ce ne trasmise la storia19:
. . . . . . . Quin etiam lex,Pœnaque lata malo quæ nollet carmine quemquamDescribi. Vertere modum formidine fustisAd bene dicendum, delectandumque redacti.
E la legge quì accennata era quella descritta nella settima Tavola de’ Decemviri: Si quis pipulo centasit, carmenve condisit, quod infamiam faxit, flagitiumve alteri, fuste ferito.
In Grecia però la rozza satirica materia de’ cori villeschi, senza esempio ◀di▶ altro popolo, avea prodotta la poesia scenica; ma tra’ Romani sì l’accennata sacra poesia gesticolata che i rozzi diverbii Fescennini ebbero bisogno dell’esempio degli Etruschi perchè essi passassero a conoscere e ad esercitar l’arte ludicra. Si pensò pertanto verso l’ anno 391 ◀di▶ Roma ad invitare un attore scenico dell’Etruria, il quale per la sua nuova, graziosa e dilettevole agilità (all’usanza de’ Cureti e de’ Lidii, da’ quali traevano l’origine gli Etruschi) riuscì ad essi molto grato. Ma confusa poscia quest’arte stessa con gl’ inconditi e quasi estemporanei surriferiti versi Saturnii e Fescennini, prima ◀di▶ partorire la poesia drammatica, diede l’origine alla satira tutta Romana20, nella quale, non già come prima alla rinfusa e rusticamente si motteggiava, ma con un canto regolare e con un’ azione assai più congrua e composta21.
Con tali passi lentamente preparavasi in Roma la strada alla poesia scenica, la quale nè anche dovea coltivarsi senza gl’ impulsi e gli esempii or degli Osci, or della Magna Grecia, or della Grecia transmarina.
II.
Osci colle proprie Atellane in Roma.
Uno spettacolo appartenente con proprietà maggiore alla poesia rappresentativa recarono a Roma dalla Campania gli Osci, i quali vi furono chiamati a rappresentare le proprie favole mimiche celebri per la loro speciale piacevolezza. Esse nomaronsi Atellane, perchè fiorivano principalmente in Atella città Osca posta allora due miglia distante dalla presente Aversa nel regno ◀di▶ Napoli. Con quale applauso vi fossero accolte e con quanti privilegii onorate, si vede da’ seguenti fatti. I. Esse continuarono a rappresentarsi in Roma nella patria lingua Osca ancora nel fiorir della Latina favella e sino all’età ◀di▶ Augusto, quando scrivea il grave geografo Strabone22. E si ascoltarono con singolar diletto, perchè ignorando i primi Atellani la lingua Latina, si valeano della propria con molta grazia23; al che allude il noto verso ◀di▶ una favola ◀di▶ Titinio citato da Pompeo Festo24. E che a’ Romani non riuscisse malagevole il gustare delle grazie ◀di▶ quella lingua, può dedursi da ciò che scrive Tito Livio del Console L. Volunnio, il quale militando contro i Sanniti che la parlavano ancora, spedì alle vicinanze del fiume Volturno alcune sue spie pratiche del parlare Osco, per esplorar gli andamenti del nemico25. II. Stabilito questo spettacolo Campano in Roma la gioventù Romana volle sottentrare a rappresentarlo dopo gli attori nativi ◀di▶ Atella, e se ne riserbò il diritto privativo ad esclusione degl’ istrioni ◀di▶ professione, i quali erano schiavi e perciò mirati con disprezzo, e reputati infami. III. Gli attori Atellani non perdevano il nome ed il diritto ◀di▶ cittadini Romani, non erano rimossi dalla propria Tribù, non si escludevano dagli stipendi militari26. IV. Essi ottennero il nome ◀di▶ veri attori personati, non perchè soli usaffero della maschera, ma perchè soli ebbero il privilegio ◀di▶ non mai deporla sulla scena; là dove gli altri istrioni commettendo qualche fallo ◀di▶ rappresentazione, a un cenno del Popolo doveano smascherarsi e soffrirne a volto nudo le fischiate27.
Ma per qual pregio particolare vennero in simil guisa privilegiate e conservate ancora dopo che la scena Latina ammise drammi migliori? Perchè, secondo il nostro avviso e del Casaubon28, gli arguti copiosi sali e le vivaci piacevolezze che le condivano, non erano da oscenità veruna contaminate, ma talmente dalla natural gravità Italica temperate, al dir ◀di▶ Valerio Massimo29, che non recarono veruna taccia a chi le rappresentava. Si è però preteso da taluni troppo leggermente che esse fossero sin dalla loro origine basse non solo e buffonesche ma oscene ancora. Pure da quale classico scrittore ciò si ricava? Non da Livio, non da Strabone, non da Valerio Massimo che ne favellano. Le favole Atellane (disse il Gesuita Francese Pietro Cantel nelle sue Illustrazioni all’epitome ◀di▶ quest’ultimo scrittore stimata opera ◀di▶ un Giulio Paride dal Vossio e ◀di▶ un Gianuario Nepoziano da altri) oscene per origine furono corrette e temperate dalla Romana severità, cangiando l’Italica ◀di▶ Valerio in Romana, quasi che fossero sinonimi, o quasi che i nostri Osci fossero fuori dell’Italia. Ma egli dovea sapere che da prima la denominazione d’Italia propriamente designava il paese che tennero gli Osci, gli Ausoni e gli Enotrii30, e che più tardi poi sotto nome d’Italia s’intese tutto ciò che Apennin parte e ’l mar circonda e l’alpe, e in conseguenza il Lazio con Roma. Sicchè l’Italica severità ◀di▶ Valerio si riferisce agli Osci festivi sì, ma non osceni da principio. Gli Osci (dice pure lo stesso Cantel) dall’usar che facevano parole turpi ed oscene sortirono il nome ◀di▶ Osci. Ma donde egli l’apprese? Osceno significò per avventura impudico, turpe, licenzioso nella lingua Osca, o nella Sabina, nell’Etrusca, nella Messapia ed altre antiche lingue dell’Italia? E se osceno è vocabolo Romano, come può stare che esso desse la denominazione agli Osci nazione più antica ◀di▶ Roma? Ma che giuochetto vizioso è poi questo ◀di▶ tal Francese! le parole impudiche dagli Osci furono dette oscene31, e gli Osci presero il proprio nome dall’ oscenità32. L’una cosa non distrugge l’altra? Ma che gli Osci non poterono così nominarsi dalla parola osceno, chiaro apparisce ancora agli occhi degli eruditi che ragionano, dal sapersi che tali popoli da prima chiamaronsi Opici (parola che si allontana ◀di▶ molto da osceno) o da οϕις secondo alcuni, o da un accorciamento ◀di▶ Etiopici secondo altri; e che in appresso i Romani pronunziando male il vocabolo Opici lo corruppero in Opsci, indi in Obsci e finalmente in Osci 33.
Fuor ◀di▶ ogni dubbio i privilegii dati agli attori ingenui Atellanarii riguardarono la salsa giocondità delle loro favole da principio esenti da ogni oscenità. E la corruzione ◀di▶ esse fu posteriore e contemporanea agli eccessi degli altri attori, e da ripetersi verisimilmente dall’imitazione contagiosa de’ mimi Greci già ricevuti nella scena Romana. Tacito ci fa sapere che Tiberio dopo varie inutili lagnanze de’ Pretori, si determinò a riferire in Senato l’immodestia degl’ istrioni, i quali alimentavano le sedizioni in pubblico e le dissolutezze e le turpitudini in privato, essendo anche lo spettacolo Osco caro un tempo alla plebe a tal colpevole indecenza trascorso che bisognava reprimerlo coll’ autorità de’ Padri; ed allora gl’ istrioni furono cacciati dall’Italia34.
III.
Primi scrittori scenici Latini.
Roma guerriera, ordinato lo stato della repubblica in libero popolare per la legge Petelia sin dal 419 della sua fondazione, avea successivamente disteso il proprio dominio oltre del Lazio, vinti i Sabini e i Lucani, trionfato più volte de’ Sanniti (vendicando l’onta delle Forche Caudine, cui soggiacquero per essersi fatti rinchiudere in un luogo ◀di▶ cui cercasi tuttavia il vero sito) e cacciato Pirro dall’Italia. Non avea guerreggiato ancora co’ Greci orientali; ma sin dall’anno 487 le obedivano le provincie Italogreche del regno ◀di▶ Napoli conosciute sotto il nome ◀di▶ Magna Grecia. Mancava alla gloria ◀di▶ Roma vincitrice quella coltura dell’ingegno che dalle nazioni allontana la barbarie e ingentilisce i costumi, e toccò a questa prima vinta Grecia il vanto ◀di▶ erudirla e abbellirla colle lettere. I primi suoi maestri, retori e poeti furono Semigreci, cioè Greci delle Calabrie, perchè i primi che v’introdussero l’amore della letteratura e la conoscenza della greca erudizione, furono Livio Andronico e Quinto Ennio i quali da Suetonio vengono chiamati entrambi Semigreci 35.
Contava Roma circa 514 anni dalla sua fondazione e presso a centoventiquattro dalla venuta degl’ istrioni Etruschi, quando nel consolato ◀di▶ C. Claudio Centone figliuolo ◀di▶ Appio Cieco e ◀di▶ M. Sempronio Tuditano (cinquantadue anni in circa dopo la morte ◀di▶ Menandro) cominciò a fiorire secondo i Fasti Capitolini Livio Andronico. Egli fu liberto ◀di▶ M. Livio Salinatore, ◀di▶ cui ammaestrava i figliuoli, e Greco ◀di▶ nazione. Ma che non nascesse nella Grecia d’oltramare, può dedursi dall’osservare che Salinatore ◀di▶ cui egli era schiavo, non militò se non contro gl’ Italiani e i Cartaginesi; e che appartenesse ai Greci delle Calabrie si argomenta con molta probabilità dall’essere stata questa la Grecia vinta in guerra e soggiogata da’ Romani pochi lustri prima che Andronico vi fosse condotto schiavo. Nè dubbiamente l’indica il citato Suetonio, sì perchè se egli fosse nato nella vera Grecia, impropriamente l’avrebbe lo Storico chiamato Semigreco, sì perchè così lo nominò, come abbiam detto, insieme con Ennio, il quale senza controversia nacque tra’ Greci del regno ◀di▶ Napoli. Esercitava Andronico l’uffizio ◀di▶ gramatico, e coltivò più ◀di▶ un genere poetico, avendo l’anno 546 composto un inno che per placare i numi si cantò solennemente da ventisette verginelle. Acquistò maggior fama per la poesia drammatica, non solo per avere secondo Donato composte e recitate tragedie e commedie seguendo i Greci, ma per essere stato il primo a volgere gli animi degli spettatori dalle satire alle favole teatrali36, per la cui rappresentazione gli fu assegnato il portico del tempio ◀di▶ Pallade. La novità dello spettacolo lo rendè molto accetto, essendone egli medesimo l’attore. E non saziandosi il popolo ◀di▶ udirne talora ripetere i più bei pezzi, un ◀di▶ avvenne che fatto roco impetrò ◀di▶ far cantare per lui al suono della tibia un suo servo, a se riserbando ◀di▶ animare tacitamente le parole col gesto e coll’ atteggiamento37. Piacque al popolo ancor quest’altra novità, e ne nacque l’usanza ◀di▶ dividere la declamazione dall’azione, usanza che non so per qual singolarità ◀di▶ gusto serbossi poscia costantemente nel teatro latino. Ne’ Frammenti degli antichi tragici latini raccolti, dopo le cure degli Stefani e del Delrio, con diligenza maggiore dallo Screverio e pubblicati in Lione nel 1720, trovansi nominate le seguenti favole ◀di▶ Andronico: Achille, Adone, Ajace, Andromeda, Antiopa, i Centauri, il Cavallo Trojano, Egisto, Elena, Ermione, Inone, Laodamia o Protesilaodamia, Tereo, Teucro. Cicerone afferma che le favole Liviane non meritavano ◀di▶ leggersi la seconda volta38, ed Orazio le pregiava ancor meno. Questo è il destino ◀di▶ coloro che inventano o precedono ogni altro in qualche impresa; essi insegnano a’ posteri ad inoltrarsi sulle loro tracce per esserne censurati. Andronico però mostrò certamente sommo ingegno e gusto squisito pel tempo in cui fiorì, avendo trovati i Romani sforniti quasi ◀di▶ ogni letteratura e senza quasi ◀di▶ poesia rappresentativa. Egli sopravvisse al 546, ma s’ignora l’anno della sua morte.
Cinque o sei anni dopo che Livio ebbe introdotta la poesia teatrale in Roma, cioè verso l’anno 519, Gneo Nevio poeta nato nella Campania vi fe udire i suoi drammi tragici e comici. Si sono conservati i titoli ◀di▶ undici sue tragedie: Alcestide, il Cavallo Trojano, Danae, Duloreste, Egisto, Esione, Ettore, le Fenisse, Ifigenia, Licurgo, Protesilaodamia. Il Patrici conta fino a venti favole ◀di▶ Nevio che tutte trasportò dalle Greche, e tra esse nomina il Trifalo. Quella che intitolò Alimoniæ Remi & Romuli potrebbe credersi azione tragica. Le commedie ch’egli compose, gli furono fatali. Traducendo e imitando i Greci ne trasse lo spirito satirico della commedia antica. Ma la costituzione della Romana repubblica non soffriva la licenza della democrazia Ateniese. Il Popolo Romano, anche dopo la legge del Dittatore Publilio Filone, esercitava la somma potestà or ne’ Comizii Tributi, or ne’ Centuriati, or per bocca dell intero Senato. In siffatto governo molti erano i capi nobili della repubblica ognora potenti e degni ◀di▶ rispetto; e un privato censore non impunemente poteva arrogarsi il diritto ◀di▶ riprenderli. Nevio non per tanto pieno della lettura de’ Greci e della loro mordacità ardì satireggiare Metello ed altri illustri Romani, e fu imprigionato per ordine de’ Triumviri. Per implorar grazia e per emendare l’errore commesso, scrisse in carcere altre due commedie in istile più saggio intitolate Ariolo e Leonte, e ricuperò a stento la libertà col favore de’ Tribuni della Plebe39. Niuno degli antichi a lui contese il pregio ◀di▶ scrivere in latino con somma purezza, e Cicerone propone Nevio e Plauto come eccellenti modelli ◀di▶ pura latinità. Lo stesso Nevio conosceva il proprio merito, e ne volle lasciare a’ posteri la memoria nel bello epitafio che per se compose, in cui misto alla nobiltà e all’eleganza scorgesi l’orgoglio e la vanità40. Lo stesso Virgilio lo studiò, e ne imitò diverse frasi e invenzioni41. Ennio con certa invida rivalità ne’ suoi Annali volle motteggiar Nevio come poco elegante ne’ libri della prima guerra Punica, ne’ quali fece uso de’ versi Saturnii. Ma Cicerone osserva che Ennio, benchè miglior poeta ◀di▶ Nevio, scrivendo delle guerre Romane tralasciò quella che Nevio avea cantato quasi schivando il paragone. Tu stesso ne prendesti (dice poscia ad Ennio volgendosi) molte cose, se vuoi confessarlo, o le rubasti, se pretendi dissimularlo42. Nevio dunque non solo fu uno de’ primi poeti drammatici, ma il primo epico de’ Romani. Quanto alla comica poesia egli anche sotto gl’ Imperadori della famiglia Flavia fu creduto degno ◀di▶ essere nominato dopo Cecilio e Plauto, e preferito a Terenzio43. Nevio avea militato nella prima guerra Punica, per quel che da lui stesso ricavò Varrone44, e la ◀di▶ lui morte avvenne nel consolato ◀di▶ Publio Sempronio Tuditano e ◀di▶ Marco Cornelio Cetego, cioè l’anno ◀di▶ Roma 549, benchè Varrone stesso citato da Tullio ne allunghi ancor più la vita. Secondo Eusebio egli morì in Utica nell’olimpiade cxliv (che cade nel nominato anno 549) cacciato da’ nobili Romani che solea mordere nelle sue favole.
Contemporaneo ◀di▶ Andronico e ◀di▶ Nevio fu Quinto Ennio poeta ◀di▶ loro più chiaro per sangue, per valore, per illustri amicizie e per lettere. Questo scrittore che a’ suoi tempi recò grande ornamento alla città ◀di▶ Roma, e ◀di▶ anni settanta morì nel 584, l’anno 514 quando cominciò a comparire Andronico sul teatro Latino, nacque in Rudia nella Japigia secondo Plinio, Silio Italico e Pomponio Mela. Ennio affermava ◀di▶ esser egli nato ne’ monti Calabresi, ed Ovidio lo disse ancora Calabris in montibus ortus; ma vi fu una Rudia presso Lecce, ed un’ altra presso Taranto, ed alcuni autori trovano i monti additati nelle vicinanze ◀di▶ Taranto, ed altri in quelle ◀di▶ Lecce45. Ennio vantava la discendenza dal re Messapo, come accennò Silio Italico,
Ennius antiqua Messapi ab origine regis;
e dedicatosi alle armi fu Centurione e accompagnò in diverse spedizioni Scipione Africano il maggiore. Catone, secondo Cornelio Nipote, lo trasse dalla Sardegna, e il ◀di▶ lui acquisto si stimò da’ Romani tanto pregevole, quanto qualsivoglia amplissimum Sardiniensem triumphum. Egli instruì la gioventù nella buona letteratura, interpretando i migliori autori Greci46, e possedendo perfettamente tre lingue l’Osca, la Greca e la Latina, per la qual cosa solea dire ◀di▶ aver tre cuori, potè, come fece, arricchir l’ultima col soccorso delle altre. Trovò egli ancora che dopo la comparsa ◀di▶ Andronico e l’introduzione de’ drammi simili ai Greci, si erano a quelli cominciate a soggiugnere le farsette satiresche recitate dagli Atellani col nome ◀di▶ Esodii che poi rimase al teatro, e che i moderni hanno ritenuti nominandoli tramezzi all’Italiana, saynetes e fin de fiesta ed entremeses alla Spagnuola, e petites pieces alla Francese. Ennio stimò che anche fuori del teatro potessero piacere al popolo que’ poemi mordaci pieni ◀di▶ sale e ◀di▶ piacevolezze instruttive; e quindi si provò a comporre i primi Sermoni Latini simili agli Oraziani, a’ quali diede il nome ◀di▶ satire, se non che sull’esempio de’ Greci e dello stesso Omero meseolò insieme diversi metri, esametri, jambici, trimetri, tetrametri, trocaici47. Aureo è quel frammento Enniano in cui un’ altra specie ◀di▶ versi adoperando, con eleganza superiore a quell’età deride gli auguri, gli astrolaghi, gli opinatori Isiaci e gl’ interpreti ◀di▶ sogni, aggiugnendo con molta venustà:
Non enim sunt ii aut scientia, aut arte divini,Sed superstitiosi vates, impudentesque harioli,Aut inertes, aut insani, aut quibus egestas imperat:Qui sui quæstus causa fictas suscitant sententias,Qui sibi semitam non sapiunt, alteri monstrant viam,Quibus divitias pollicentur, ab iis drachmam petunt.
Debbe in oltre da lui riconoscersi il primo poema epico latino in versi esametri in istile per quel tempo elegante; perchè Nevio che l’avea preceduto colla narrazione della prima guerra Punica, avea adoperati i versi saturnii. E quante gemme avesse tratte dai ◀di▶ lui poemi l’impareggiabile Virgilio per lo più trascritte da verbo a verbo, può ricavarsi dal sesto libro de’ Saturnali ◀di▶ Macrobio. Ond’è che i posteri sempre sospireranno coll’ erudito Scaligero la perdita delle opere Enniane degnissime degli encomii ◀di▶ Lucrezio Caro e ◀di▶ Vitruvio Pollione48.
Quanto alla poesia rappresentativa si è conservata la memoria ◀di▶ tre sue commedie Amphithraso, Ambracia, Pancratiastes, per le quali nel giudizio ◀di▶ Vulcazio Sedigito ebbe luogo tra’ Latini comici più pregevoli; ma fu posposto, non che a Nevio e a Terenzio, a Turpilio e a Lucio stesso, e solo in grazia dell’antichità collocato nel decimo luogo,
Decimum addo antiquitatis causa Ennium.
Le sue tragedie sono: Achille, Achille ◀di▶ Aristarco, Ajace, Alcmeone, Alessandro o Alessandra, Andromaca, Atamante, Cresfonte, Duloreste, Eretteo, Ecuba, l’ Eumenidi, Fenice, Ilione, Ifigenia, i Litri ◀di▶ Ercole, Medea Esule, Medo, Menalippe, Telamone, Telefo, Tieste, tutte o tradotte o imitate da’ Greci, e Scipione originale ◀di▶ argomento Romano. I frammenti che se ne conservano ancora49, ci fanno desiderare che il tempo avesse distrutta l’Ottavia attribuita a Seneca, purchè ci fosse pervenuta la tragedia ◀di▶ Ennio detta Scipione. Avremmo dato ◀di▶ buon grado il Tieste ◀di▶ Seneca che già conosciamo, per quello ◀di▶ Ennio da lui composto nel settantesimo anno della sua età, cioè in quello in cui finì ◀di▶ vivere. La sua Medea esule forse non temerebbe il confronto ◀di▶ quella ◀di▶ Seneca che pure è la migliore ◀di▶ questo Cordovese, giacchè Cicerone50 diceva: E qual mai sarà tanto, per dir così, nemico del nome Romano, che ardisca sprezzare e rigettare la Medea ◀di▶ Ennio? Forse il giudizio altrove mostrato da Ennio potrebbe indurci a credere che nell’Ecuba avesse schivata la duplicità dell’ azione ◀di▶ quella ◀di▶ Euripide e delle Troadi ◀di▶ Seneca. Certamente il Poeta Leccese non tradusse letteralmente la greca tragedia. Per vederne la guisa possono confrontarsi gli squarci che soggiungo. Nella tragedia ◀di▶ Euripide Ecuba così si lamenta nell’atto primo:
Τις αμύνει; ποία γενυα,Ποία δε πολις.
cioè, Chi mi difende? qual gente? qual città? Ennio non copia, ma imita ed amplifica in questa guisa il sentimento:
quid petamPræsidii? quod exequar? quo nunc aut exilio, aut fugaFreta sim? arce & urbe sum orba. Quò accedam? quò applicem?Cui nec patriæ aræ domi stant: fractæ & dejectæ jacent:Fana flamma deflagrata: tosti alti stant parietes.
In Euripide Ecuba nel persuadere ad Ulisse d’intercedere per Polissena profferisce questa sentenza:
Λόγος γαρ ἐκ τʹ αδοξούτω ἰὼν,κακ τῶν δοκουντων, ἀντὸς ου ταντον τε τϑενει,
cioè, Non ha la medesima forza il medesimo discorso pronunziato da persone oscure che da illustri. Ennio imita questo pensiero, ma ne toglie giudiziosamente l’aria ◀di▶ massima:
Hæc tu, etsi perversè dices, facile Achivos flexeris,Namque opulenti cum loquuntur pariter atque ignobiles,Eadem dicta, eademque oratio æqua non æque valet.
Quest’insigne poeta de’ suoi tempi, che fu l’amico ◀di▶ Scipione Africano il maggiore e ◀di▶ Scipione Nasica e ◀di▶ altri celebri Cavalieri Romani, contemporaneo ◀di▶ Andronico, ◀di▶ Nevio, e ◀di▶ Plauto, sopravvisse a tutti, e morto fu onorato con una statua marmorea postagli nel sarcofago gentilizio degli Scipioni51, giusta la testimonianza ◀di▶ Ovidio:
Ennius emeruit, Calabris in montibus ortus,Contiguus poni, Scipio magne, tibi.
IV.
Teatro ◀di▶ Plauto.
Il gastigo ◀di▶ Nevio contenne la mordacità de’ comici suoi contemporanei, e tutta ne rivolse l’energia alla pretta piacevolezza. Marco Accio Plauto nativo ◀di▶ Sarsina nell’Umbria mancato essendo consoli L. Porcio Licinio e P. Claudio l’anno 569, quindici anni prima della morte ◀di▶ Ennio, mostra in diversi tratti vigorosi sparsi nelle sue commedie che era dotato d’ingegno al pari ◀di▶ Aristofane, ma non passò oltre i confini ◀di▶ una prudente moderazione. Lasciata adunque la satira personale attese unicamente a far ridere imitando la maniera, i sali, e le lepidezze del Siciliano Epicarmo, disegno che manifestò in varii luoghi, e specialmente nel prologo del suo Pseudolo,
Ubi lepos, joci, risus, vinum, ebrietas, decent,Gratia, decor, hilaritas, atque delectatio,Qui quærit alia his, malum videtur quærere.
Egli non meno degli altri Latini si arricchì colle invenzioni delle greche favole, ma per evitare la satira de’ particolari, non altronde le tolse che dalla commedia nuova, siccome è manifesto da molte sue commedie. Essendo esse nelle mani ◀di▶ tutti non esigono minute analisi, e basterà per la gioventù che quì se ne osservino alcune particolarità che reputo più degne ◀di▶ notarsi.
Anfitrione. Se non è questa una favola tessuta alla foggia della Greca ilarodia, non saprei scerne altra fralle Latine che più se le avvicini. Rintone inventore, come si disse nel tomo precedente, ◀di▶ quel genere ◀di▶ drammi, compose appunto un Anfitrione, ed Archippo comico ne scrisse un altro, come leggesi in Ateneo. Da’ loro frammenti non si scorge la guisa che essi tennero nel condurre i loro Anfitrioni; ma è verisimile che come Plauto nel suo essi vi trattassero in una maniera tutta comica l’avventura ◀di▶ Giove con Alcmena, dipartendosi dal camino tragico probabilmente battuto da Euripide nella sua favola perduta intitolata Alcmena. Plauto nel prologo fa dire a Mercurio che la sua favola è una tragedia; ma prevedendo la maraviglia del popolo promette ◀di▶ convertirla in commedia senza alterarne i versi. Riflettendo poi che doveano favellare da una parte principi e dei, personaggi non proprii per la commedia, e dall’altra alcuni servi comici non convenienti alla tragedia, dice che la renderà una favola mista chiamata tragicommedia. Scherza egli in tal guisa sull’indole della propria favola che non ignorava ◀di▶ essere una vera commedia, come è da credersi che fossero ancora le Rintoniche. Dalla somiglianza ◀di▶ Sosia e ◀di▶ Anfitrione presa da Mercurio e da Giove derivano tutte le grazie comiche tante volte ripetute nelle moderne scene negli argomenti ◀di▶ somiglianza. Si trasse da tal commedia in Italia in prima la novella ◀di▶ Gieta e Birria attribuita al Boccaccio, ma scritta da Giovanni Acquetini che fiorì col Burchiello nel 1480, come dimostra l’ Argelati52. Indi altri Italiani cominciando da Pandolfo Collenuccio tradussero questa favola, e cento volte ne imitarono l’artificio e i comici colori sotto altri nomi. Oltramonti il celebre poeta Portoghese Luigi Camoens nel suo Anfitrione conservò molte bellezze del latino originale. Il Francese Rotrou contemporaneo ◀di▶ Pietro Corneille trattò lo stesso argomento nella sua commedia detta i Sosii. Sopra ogni altro il noto Moliere colse il fiore ◀di▶ tutte le bellezze Plautine nel suo Anfitrione, molte altre aggiugnendone. Mercurio nel prologo ◀di▶ Plauto accenna che per servire al Tonante la notte si è prolongata, e nella prima scena s’indirizza così alla notte stessa:
Perge, nox, ut occœpisti: gere Patri morem meo.Optume optumo optumam operam das, datam pulchre locas.
E Moliere prese quindi l’idea ◀di▶ far nel suo prologo un dialogo tra Mercurio e la Notte. Il nume la prega a compiacersi ◀di▶ ritardare la venuta del giorno, e la Notte risponde:
Voila sans doute un bel emploiQue le grand Jupiter m’apprête.
Mercurio ripiglia che siffatte cose possono reputarsi viltà tralle persone volgari, ma che tra’ grandi non si guarda così sottile:
Lorsque dans un haut rang on a l’heur de paroître,Tout ce qu’on fait est toujours bel & bon.
Al che la Notte con maliziosa sommessione risponde: “Su tali
materie, mio Signor Mercurio, voi sete ◀di▶ me più esperto, e perciò
mi rimetto alla vostra perspicacia. Bel bello (replica Mercurio)
Madama la Notte, che ◀di▶ voi stessa corre voce che sapete in tanti
climi diversi essere la fida conservatrice ◀di▶ mille dilettosi
intrighi;
ed io credo che in tal materia
fra noi due si giostri con armi uguali”.
Moliere accrebbe la piacevolezza ◀di▶ tale argomento col
dare a Sosia per moglie Clèantis che è il personaggio
◀di▶ Tessala introdotto da Plauto, e coll’ immaginare che essa al pari
della sua padrona Alcmena ammetta in casa come proprio marito un altro
Sosia. Piace oggi questa graziosa ripetizione de’ colori comici
impiegati nell’azione de’ personaggi principali; e Moliere stesso se ne valse felicemente nel Dispetto amoroso, e la praticarono alcuni Italiani del
cinquecento e i comici detti dell’arte, ed anche nel
teatro Spagnuolo del passato secolo il Grazioso ripete
coll’ innamorata le parole de’ padroni, facendone per lo più una
parodia. Ma agli antichi, e spezialmente a Plauto, forse ciò farebbe
sembrato una spezie ◀di▶ povertà. Ogni popolo ha un gusto particolare ed è
stravagante il pretendere ch’egli abbia ad essere una norma universale.
Comprendo che la pratica del teatro dimostra, non esser priva ◀di▶ grazia
simile ripetizione, e singolarmente quando si colorisce con vivacità, e
si varia in parte, come ha fatto Moliere. Ma non
ardirei per questo ◀di▶ asserire consoverchia franchezza (come seguendo il
Bayle fassi da alcuni, i quali mirano gli oggetti
da un lato solo) che in ciò il Francese abbia superato il suo modello.
Dicasi la stessa cosa dello scioglimento usato
dall’uno e dall’altro comico. Il Latino, secondo che ben conveniva
in un teatro ripieno ◀di▶ superstiziosi adoratori ◀di▶ Giove, fa che questo
padre degli dei preceduto dallo strepito de’ tuoni comparisca nel teologion o pulpito de’ numi, manifesti l’accaduto, e
comandi ad Anfitrione ◀di▶ rappacificarsi colla moglie, e che costui
piegando la fronte al decreto soggiunga,
Faciam ita ut jubes . . . .Ibo ad uxorem intro.
Ma il Francese ora che tali divinità sono appunto divenute comiche larve, accomodando l’azione a’ tempi moderni, fa che Sosia con molta piacevolezza tronchi il complimento ◀di▶ congratulazione ◀di▶ Naucrate,
Le grand Dieu Jupiter nous fait beaucoup d’honneur.Mais enfin coupons aux discours.Sur telles affaires toujoursLe meilleur est de ne rien dire.
Egli è vero che non senza ragione Madame Dacier imputa a Plauto lo studio ◀di▶ filosofare con qualche affettazione; ma in questa favola sparge alcuna massima filosofica senza gonfiezza, e come si farebbe in una conversazione. Così nel prologo,
. . . Injusta ab justis impetrare non decet:Justa autem ab injustis petere, insipientia ’st.
e poco dopo,
Virtute ambire oportet, non favitoribus.Sat habet favitorum semper qui recte facit.
e nell’atto secondo, scena seconda,
. . . Ita quoique comparatumEst in ætate hominum,Ita diis placitum, voluptati ut mœror comes consequatur.
Si osservi finalmente in qual maniera Anfitrione adirato nella scena terza dell’atto quarto sollevi il tuono, e minacci al sentire che Alcmena è in procinto d’infantare,
Numquam ædepol me inultus istic ludificabit, quisquis est &c.
A nostra istruzione Orazio avea già detto,
Interdum tamen & vocem comœdia tollit,Iratusque Chremes tumido delitigat ore,
Ma che pro? I pedanti loschi vorrebbero ridurre questo poema a quattro riboboli del popolaccio e l’immaginazione della gioventù a un limitato numero ◀di▶ picciole idee. Ma essa che è la speranza delle belle arti, rompa oramai que’ ceppi pedanteschi, e si avvezzi a studiare la natura, a consultare il proprio cuore, a ritrarre la società, a ridere sul viso degli orgogliosi pedagoghi ascoltando i consigli suggeriti dal buongusto. Il Mureto, lo Scaligero, il Castelvetro, l’Einsio, hanno osservato che Plauto pecca in questa favola contro la verisimiglianza, facendo che Alcmena nel tempo solo della rappresentazione, cioè in una notte e un giorno resti incinta e partorisca. Non per tanto l’Anfitrione, come testifica Giambatista Pio nel suo comento, per consenso de i dotti si reputa la migliore delle commedie Plautine per la forza, la proprietà e e la Salsa facondia che regna nell’elocuzione, e per la sontuosa abbondanza dello stile veramente latino.
L’Asinaria. Onagos chiamavasi la favola del Greco Demofilo dalla voce όνος, asino, la quale Plauto imitò e nominò Asinaria. Demeneto padre troppo indulgente compassiona il figliuolo Argirippo innamorato ◀di▶ Filenia meretrice e bisognoso ◀di▶ danaro, senza che egli possa sovvenirlo, perchè le proprie entrate si maneggiano dalla moglie e da un servo a lei addetto chiamato Saurea. Ricorre a Libano suo servo assai trincato. „Io amo mio figlio (gli dice) e voglio esserne amato. Così pensò mio padre, così mi educò, nè si vergognò a mio riguardo d’ingannare un ruffiano, e vestito da marinajo menarmi la donna che io amava. Mio figliuolo ha bisogno ◀di▶ venti mine richiestegli dalla madre ◀di▶ Filenia; mia moglie rigida e spilorcia non gliene darà un picciolo, io non ne ho, perchè del mio non dispongo, e perchè
Argentum accepi, dote imperium vendidi.
Or dunque, Libano amato, ricorro a te, trova queste venti mine, usa del tuo ingegno, ingannami, aggirami, inganna mia moglie e ’l fattore Saurea, fa ◀di▶ tutto; purchè mio figlio abbia questo danajo, mi chiamerò ◀di▶ ogni cosa contento”. Egli sprona in tal guisa un cavallo sboccato; ◀di▶ buon grado il servo pregato dal proprio padrone si presta a quello che farebbe per naturale inclinazione. Intanto un mercatante che ha comprato da Demeneto alcuni asini, ne manda il prezzo a Saurea l’atriense, ma il messo non conosce questo Saurea, benchè conosca lo stesso Demeneto. Adunque col consenso ◀di▶ costui il danajo è consegnato a un altro servo additatogli come fosse Saurea. Lo riceve poi Argirippo, il quale con questa chiave riapre quell’uscio che l’era stato chiuso in sul viso. Si destina la cena, alla quale vuole intervenire lo stesso Demeneto. Essa però viene disturbata, perchè un altro amante ◀di▶ Filenia rimasto escluso si vendica con avvisare ◀di▶ tutto la moglie ◀di▶ Demeneto. Non senza ragione Plauto dice nel breve prologo,
Inest lepos, ludusque in hac comœdia.Ridicula res est.
Essa in fatti per eccitare il riso sacrifica in più ◀di▶ un luogo il verisimile e il decoro. Un servo che pria ◀di▶ consegnare il danajo sospirato all’innamorato l’astringe a portarlo sulle spalle in una pubblica strada: un vecchio che cena colla bagascia del figliuolo, e si fa da lei baciare e abbracciare in presenza del figliuolo stesso, son cose immaginate per muovere il riso per qualunque via. Queste sono favole ◀di▶ cattivo esempio. Qual moderno teatro soffrirebbe senza bisbigliare lo spettacolo ◀di▶ un padre mentecatto che seconda sino a tal segno le debolezze ◀di▶ un figliuolo? In ciò mai abbastanza i moderni non si allontaneranno dagli antichi. Havvi non per tanto in questa favola molta vivacità comica. I caratteri della ruffiana, della meretrice e de’ servi sono dipinti con franchezza. L’ingordigia delle madri ruffiane delle figliuole, cui per una legge Imperatoria si dispose che si tagliasse il naso, come anche il costume delle donne prostituite, le quali combattono sovente coll’ amore e colla necessità ◀di▶ guadagnare, sono nella terza scena dell’atto primo e e nella prima del terzo delineate eccellentemente. Con pratica e maestria si ritraggono le arti della cochetteria, o sia civetteria nella prima scena dell’atto quarto:
Neque illæc ulli suo pede pedem homini premat,Cum surgat, neque in lectum inscendat proximum,Neque cum descendat, inde det cuique manum:Spectandum ne cui anulum det, neque roget 53.
Se si trattasse poi ◀di▶ un amore in qualche modo renduto meno illecito, meriterebbe tutta la lode il tratto patetico della divisione ◀di▶ Argirippo e Filenia nella terza scena dell’ atto terzo. Del rimanente la commedia è piena ◀di▶ bassezze triviali e ◀di▶ scherzi soverchio istrionici e tal volta indecenti, i quali piacquero assai nel tempo della repubblica, e si riprovarono nell’età del buongusto quando vivea Orazio e Mecenate, ed a torto nel passato secolo se ne dichiarò protettore l’erudito Benedetto Fioretti54.
Casina. Greca ancora è questa favola appartenente al comicissimo Difilo, e s’intitolava Clerumenoe, o forse piuttosto Cleronemoe da κληρος, sors, sortitio, e νέμω, tribuo. Plauto la nominò Sortientes. Due servi aspirano alle nozze ◀di▶ una serva loro compagna chiamata Casina. L’amano a competenza il vecchio padrone, ed il ◀di▶ lui figliuolo, e ciascuno ◀di▶ loro pel proprio intento favorisce uno de’ servi. La moglie del vecchio che ha educata la fanciulla, conosacendo la malizia del marito, ne manda fuori il figliuolo, e prende la protezione del servo da lui favorito. Per troncare ogni contrasto, convengono ◀di▶ commetterne il giudizio alla sorte, e si pongono i nomi de’ due pretensori nell’urna, e se ne estrae quello del servo protetto dal vecchio. Restano scornati quelli del contrario partito, e si preparano le nozze. Ma per rendere vano l’accordo e per deludere il vecchio insieme col suo villano fortunato, la moglie fa vestire cogli abiti ◀di▶ Casina il servo Calino rivale escluso, il quale fingendo la sposina ritrosa è menato alla casa destinata al ricevimento; e rimasto prima col rustico marito, indi col vecchio commarito, come dice Plauto, gli respinge a pugni ed a calci e gli caccia in fuga. L’azione termina, scoprendosi Casina ingenua e cittadina Ateniese, che è destinata per consorte al figliuolo del vecchio. Ma ciò si accenna appena con due soli versi dalla Caterva degli attori, che congeda l’uditorio:
Hæc Casina hujus reperietur filia esse e proxumo,Eaque nubet Euthynico nostro herili filio.
La favola appartiene alla commedia bassa ed è piena ◀di▶ piacevolezze popolari. Essa ha prodotto un incredibil numero d’intrighi e ◀di▶ colpi teatrali usati da’ moderni, spezialmente nel XVI e XVII secolo. Niccolò Machiavelli ripetè finamente nella sua Clizia gran parte dell’azione della Casina, e ne imitò diverse espressioni, e quelle singolarmente della quinta scena dell’atto secondo,
Inimica est tua uxor mihi, inimicus filius, ecc.
Difilo in questa favola non si dimostra indegno del soprannome acquistato in Grecia. Plauto ne compose la sua Casina sommamente applaudita la prima volta che si rappresentò, e, per quanto si dice nel prologo recitato nella ripetizione che se ne fece, superò tutte le altre favole,
Hæc cum primum acta est, vicit omnes fabulas.
La Corda (Rudens in latino) è pure una favola greca del medesimo Difilo, dalla quale parimente derivarono varie commedie moderne. Tra’ primi che l’imitarono in Italia fu Lodovico Dolce nella sua commedia detta il Ruffiano. Non so se Difilo avesse intitolata la sua favola προτονος che significa rudens, non avendocene Plauto conservato il nome greco, nè altrove ricordandomi ◀di▶ averlo letto tralle favole ◀di▶ quel comico citate dagli antichi. Eccone l’argomento. Un ruffiano vende una fanciulla a Pleusidippo giovanetto preso del ◀di▶ lei amore, e ne riceve la caparra, promettendo ◀di▶ menargliela nel tempio ◀di▶ Venere, ma colla speranza ◀di▶ farne un doppio guadagno senza curarsi del contratto s’ imbarca per la Sicilia. Una tempesta fracassa la nave, separa il ruffiano dalle sue donne e privo ◀di▶ tutto lo respinge alla spiaggia. Palestra con la compagna si ricovera nel tempio ◀di▶ Venere lungo il mare; vi arriva anche il ruffiano, le vede e vuol menarle via a forza; ma sono difese dal servo ◀di▶ Pleusidippo e dal vecchio Demone che abita in que’ contorni. Vi accorre lo stesso Pleusidippo e chiama il ruffiano in giudizio. Intanto un pescatore raccoglie nelle reti un involto appartenente al ruffiano, che contiene molte sue ricchezze e una cestina cogli ornamenti infantili della fanciulla Palestra e varii altri contrassegni per gli quali un dì potesse conoscere i proprii parenti. Queste cose pervenute nelle mani ◀di▶ Demone fanno ch’ei riconosca Palestra per la perduta sua figliuola. Il ruffiano ricupera le sue robe, il pescatore la sua libertà con un buon regalo, e Pleusidippo ottiene per consorte la sua bella Palestra. Arturo che impietosito della fanciulla e crucciato contra del ruffiano spergiuro ha svegliata la procella, forma il prologo della favola Plautina, nel quale scagliansi diversi tratti satirici contra gli spergiuri, i litiganti ◀di▶ mala fede e i falsi testimoni. Con molta grazia nella seconda scena dell’atto quarto negli arzigogoli del pescatore Grippo si fa un ritratto ◀di▶ coloro che da picciole speranze sollevati si promettono grandezze impossibili e fantastiche55.
Il Mercatante. Filemone il giovane compose una commedia intitolata Ἐμπορος, mercator, e Plauto l’imitò ritenendone il titolo. Notasi nel prologo ◀di▶ questa favola una novità simile a quella che abbiamo osservata in alcune ◀di▶ Aristofane, cioè l’ illusione distrutta dal medesimo poeta. Aristofane in qualche coro ragiona a lungo delle proprie favole e delle altrui, cose che niuna relazione hanno coll’ azione rappresentata. Plauto introduce Carino ch’è il protagonista a parlar nel tempo stesso e come prologo e come personaggio che rappresenta nell’azione:
Duas res simul nunc agere decretum est mihi,Et argumentum, & meos amores eloquar.
Quì la verità combatte colla finzione, in vece ◀di▶ prestarsi, come converrebbe, l’una e l’altra concordemente alle mire del poeta. Scorgesi da qualche commedia moderna l’effetto ◀di▶ simili esempii degli antichi. Gl’ Intronati ◀di▶ Siena ed alquanti altri Italiani hanno introdotti gli attori che parlano coll’ uditorio, mostrando ◀di▶ sapere ◀di▶ essere ascoltati. Gli Spagnuoli nelle commedie del passato secolo, che in questo continuano a rappresentarsi, fanno che il loro Grazioso quasi sempre narri al popolo ascoltatore i disegni del poeta. Moliere stesso nell’Avaro introduce Arpagone che s’indirizza agli spettatori. Gli abusi o le licenze però non mai partoriscono prescrizione contro i principii della ragion poetica. Ma vediamo l’argomento del Mercatante. Carino applicatosi alla mercatura per consiglio del padre, ne’ suoi viaggi s’innamora ◀di▶ una serva ◀di▶ un suo ospite e la riscatta. Rimpatria, scende dalla nave lasciandovi la fanciulla, e va in busca de’ suoi. Intanto per un’altra via arriva alla nave il padre che a prima vista rimane preso ◀di▶ Pasicompsa l’amata ◀di▶ Carino. Chiede a un servo chi ella sia, e gli è dato a credere essere una schiava comperata dal figliuolo per servire alla madre. Il vecchio si abbocca col figlio, gli parla della schiava, dicegli non esser propria per faticare nella loro casa, ma volerla comperare a conto ◀di▶ un amico che gliel’ha chiesta. Ripugna in vano Carino, e Pasicompsa è comperata a nome ◀di▶ Lisimaco, nella cui casa è condotta. La moglie ◀di▶ Lisimaco che era in villa arriva in sua casa in tal punto, e trovatavi la giovane non senza apparente fondamento sospetta ch’esser possa qualche intrigo del marito, e strepita contro ◀di▶ lui. Carino perduta Pasicompsa, nè sapendo ove esser possa, disperato pensa ◀di▶ prendere volontario esiglio da Atene. Eutico suo amico figliuolo ◀di▶ Lisimaco lo raggiugne, lo consola, intercede per lui presso il padre, e ne ottiene che gli ceda Pasicompsa. Notabile a mio avviso in questa commedia scritta con vivacità e piacevolezza è singolarmente la terza scena dell’ atto II per la graziosa competenza ◀di▶ Carino e del padre offerendo all’ incanto nella compera ◀di▶ Pasicompsa. Nella prima dell’atto terzo è un equivoco pieno ◀di▶ arte e ◀di▶ sale comico quello ◀di▶ Pasicompsa nel supporre che Lisimaco le favelli del suo Carino, mentre quegli intende del vecchio per cui l’ha comperata. Patetico è poi il congedo che Carino prende dalla patria nella prima scena dell’atto quinto. I gramatici e i critici de’ secoli precedenti hanno eruditamente rilevate negli antichi le veneri del linguaggio e dello stile, o le regole ◀di▶ Aristotile osservate o neglette, lasciando a i posteri più filosofi e ◀di▶ miglior gusto quasi intatta la più utile investigazione de’ loro drammi, cioè quella de’ tratti più vivaci, de’ vaghi colori scenici, dell’arte ◀di▶ maneggiar con delicatezza gli affetti, e ◀di▶ dipingere con verità i costumi.
Il Trinummo. Questa è un’ altra favola ◀di▶ Filemone intitolata in greco Θησαυρὸς, e da Plauto detta Trinummus forse meno felicemente da tre nummi pagati per incidenza a un Sicofanta. Il prologo vien formato dalla Lussuria e dall’Inopia ◀di▶ lei figliuola, la quale dalla madre è mandata ad abitare in casa del giovine Lesbonico, dopo che per le sue prodigalità ha dissipato quanto avea. Egli ha venduta fin anche la casa, ove Carmide suo padre avea nascosto un tesoro senza ◀di▶ lui saputa. Callicle vecchio onorato cui Carmide partendo raccomandò i figliuoli e rivelò il segreto del tesoro, affinchè questo insieme colla casa non andasse in altrui potere, prende il partito ◀di▶ comperarla egli stesso. Intanto Lisitele giovane ricco e ben costumato vorrebbe per moglie la sorella ◀di▶ Lesbonico senza dote; ma questi reputando cosa vituperevole per un uomo della sua condizione il dargliela indotata, vuole assegnarle un picciolo podere che gli è rimasto. Ripugna Lisitele per non ispogliarlo dell’unica cosa che può sostentarlo, temendo che ridotto alla mendicità non pensi indi a sparir dalla città per disperazione. Callicle intesa questa nobil gara, procura rimediarvi, e dar la dote alla fanciulla senza palesare il segreto del tesoro. E a consiglio ◀di▶ un suo amico finge due lettere mandate da Carmide, una a lui stesso, e l’altra al figliuolo accompagnata da mille filippi per la dote della sorella. Un sicofanta prezzolato con tre nummi che danno il titolo alla commedia, si addossa il carico ◀di▶ recar queste lettere. E volendo questo furbo eseguire il concertato, alla prima dà in Carmide stesso padre ◀di▶ Lesbonico che rimpatria, e ne risulta una scena sommamente piacevole imitata poi soventi fiate da’ drammatici Italiani del cinquecento. Alla venuta del padre si sospende la vendita della casa, e si conchiudono le nozze ◀di▶ Lisitele colla sorella ◀di▶ Lesbonico e ◀di▶ Lesbonico colla figliuola dell’onorato amico Callicle. Questa favola tutta decente e nobile e condotta con regolarità e piacevolezza, dimostra, che se Filemone inventava sempre con simil grazia accoppiando alla ben disposta tela lo stile, certamente con molta ragione venne tante volte in Grecia coronato. Notando al nostro solito le scene più belle, ci sembra ottima fralle altre la seconda dell’atto primo ◀di▶ Callicle e Megaronide. Questi riprende l’amico come uomo poco onesto ed ingordo per essersi approfittato della disgrazia ◀di▶ Lesbonico comperando la ◀di▶ lui casa, e dandogli, giusta la sua espressione, la spada in mano perchè si togliesse la vita. Si giustifica il buon vecchio, e mostra la malignità mal fondata ◀di▶ chi va spargendo tali voci senza essere delle cose appieno informato. Persuaso Megaronide dell’onoratezza dell’amico dal ◀di▶ lui racconto, non può darsi pace al riflettere alla malignità ◀di▶ coloro che vanno seminando novelle e giudicando sinistramente delle altrui azioni. E rimasto solo esclama in simil guisa, secondochè io ho tradotto:
Veracemente non si dà più matta,Nè più stolida gente o più mendace,Nè più vana cicala, nè più prontaA vender come storie i proprii sogni,E spergiurando accreditar le fole,Di cotesti oziosi bigheraiChe passano la vita affastellandoNovelle, rattoppandole a lor modo,Ripetendole ognor con nuove giunte.Che da’ lor detti inzampognar mi feci.O che gente! o che forche! o che linguacce!O che sfacciati! Quanto in città passa,Tutto fingon saper, ma nulla sanno.Ciò che pensa ciascun, ciò che domaniO da quì a un mese ha da pensar, ben sanno.Ciò che all’orecchio il re da solo a solaSusurra alla regina, essi pur sanno.Lodino a torno o a dritto, i panni addossoTaglino a questo e a quello, il falso e ’l veroNon gli trattien, purchè quanto alla boccaLor si presenta, possan dir che sanno.Tutto il mondo volea che il mio vicinoPer aver sovvertito e messo al fondoIl giovane Lesbonico. Io credendoA questi maldicenti novellieriVenni a rimproverar l’onesto amico.Oh se qualor si leva un romor falsoD’una in un’ altra lingua rimontandoSi venisse a indagar da chi mai nacque,E gastigato il novellier ne fosse,Saria certo minor la maldicenza,E i malvagi ciarloni assai più pochi,Che sanno sempre quel che mai non sanno.
Il Penulo. In greco s’intitolò Καρκηδονιος, Cartaginese, e Plauto non ci ha conservato il nome dell’autore. Consiste l’argomento in un Cartaginese che va in cerca ◀di▶ un nipote e ◀di▶ due sue figliuole perdute dall’infanzia, trovate poi fortunatamente in Calidonia. I primi quattro atti si aggirano intorno agli amori ◀di▶ Agorastocle per la prima delle sue cugine a lui ignote, e ◀di▶ Antemonide soldato per la seconda. Nel quinto comparisce il Cartaginese Annone recitando sedici versi Punici. Essi presso a poco contengono il concetto degli undici seguenti Latini, ne’ quali ringrazia gli dei per essere arrivato salvo in quella città ove pensa far diligenza per sapere delle figliuole e del nipote, per mezzo ◀di▶ Agorastocle già adottato da un suo ospite chiamato Antidamante. Chi ha molto agio potrà consultare un gran numero ◀di▶ dotti comentatori, i quali seriamente si sono applicati a interpretare questi pochi versi scritti in una lingua morta e ignorata, e della quale non rimangono libri che accrescano le umane cognizioni, che sembrami il saggio fine dello studio delle lingue. Qual frutto si è ricavato dalle loro fatiche? Ciascuno volle in tali versi rinvenire il linguaggio da se coltivato. Giuseppe Scaligero56 considerò questa scena poco lontana dalla purità dell’ebraismo; e il Pareo la scrisse in lettere ebraiche nella sua edizione ◀di▶ Plauto. Giorgio Errico Safunio57 la riferisce al dialetto Arameo. Giovanni Errico Majo58 vuol provare non essere essa differente dall’idioma Maltese, nel quale secondo lui la lingua Punica si è conservata. La curiosità troverà da pascolarsi in quanto, oltre a’ nominati, dissero per illustrar questa scena il Salmasio, il Reinesio, il Petit, il Bochart, il Clerico, il Seldeno, il Casaubon, il Kirker ed altri gran letterati59. Chi poi volesse durare una fatica più leggera, si metta ad arzigogolare cogli etimologisti ghiribizzosi, i quali, a guisa dell’iride o del collo delle colombe cangiando colore ad ogni movimento, dalla semplice somiglianza ◀di▶ una o due lettere sanno trovare in ogni parola il linguaggio Cinese, Etiopico, Pehlvi, Zend, Malaico, Persiano e Copto. Un uomo che avesse sì strano gusto, copiando alla peggio gli scarsi dizionarii ◀di▶ tali lingue antipodiche, avrà l’ immaginario diletto ◀di▶ lusingarsi ◀di▶ abbattere tutte le verità istoriche e tutte le nozioni del senso comune; e chi l’ascolterà avrà quello ◀di▶ ridersi ◀di▶ lui. Noi intanto lasciando ad uomini siffatti i versi Punici ◀di▶ Plauto per confrontarli colle sillabe ◀di▶ tutti i linguaggi a noi e ad essi medesimi sconosciuti, e adorando senza seguirle le orme ◀di▶ cotali oracoli, con maggior senno e vantaggio osserveremo che nella seconda scena del medesimo quinto atto il servo Milfione che appena sa qualche parola Punica, va a parlare al Cartaginese, ma appunto per lo poco che sa del ◀di▶ lui idioma ne interpreta le risposte alla maniera degli etimologisti imperiti e ◀di▶ Arlecchino; per la qual cosa Annone gli parla nella lingua del paese, e viene a sapere che vive in Agorastocle il perduto suo nipote. Questa scoperta anima Milfione a tentare, per mezzo ◀di▶ questo zio, l’acquisto dell’innamorata del suo padrone, la quale trovasi in potere ◀di▶ un ruffiano. Propone perciò al Cartaginese che finga ◀di▶ conoscere le due sorelle del suo paese per due sue figliuole perdute. A ciò Annone prende un’ aria ◀di▶ tristezza, e dice che furono in fatti a lui rubate due figlie insieme colla loro balia. Bravissimo (ripiglia allegro Milfione): tu fingi a maraviglia bene: il principio non può esser migliore. Più che io non vorrei (replica Annone). Ottimamente (Milfione prosegue): o astutissimo, trincato, scaltrito Cartaginese! Che volto! che lagrime! che malinconia! Evviva. Tu superi me stesso che sono l’architetto ◀di▶ questa frode. Questo comico colore sempre piacevolissimo tante volte imitato da’ Francesi e dagli Spagnuoli, trovasi felicemente adoperato prima forse ◀di▶ ogni altro dal Boccaccio nella Novella del porco rubato a Calandrino, e da Giambatista della Porta in più ◀di▶ una commedia, e specialmente nell’Astrolago.
Il Persiano. Si tratta in questa favola dell’astuzia ◀di▶ un servo che aggira un ruffiano. Eccone la condotta.
Atto I. Tossilo servo fra se ragionando conchiude che la costanza ◀di▶ un amante povero supera le più gloriose fatiche ◀di▶ Alcide, perchè affrontar leoni, idre, cinghiali, uccelli Stinfalici e Antei, non sono sì dure imprese come è quella ◀di▶ combattere con amore. Trovasi egli in tal caso e cerca danajo per soddisfare alla sua passione, ma non ottiene altro in risposta che un non ne ho. Vede Sagaristione altro servo, e gli va incontro:
Tos.
O Sagaristione, il ciel ti salvi.Sag.
Tossilo, egli a te dia quanto tu brami.Come stai?Tos.
Come posso.Sag.
Cosa si fa?Tos.
Si vive.Sag.
Contento?Tos.
Assai, se il mio pensier riesce.
Sagaristione osserva che l’amico è pallido e sparuto. Tossilo gli confessa ◀di▶ essere innamorato. Che mi dì tu! quegli risponde: è quì venuta la moda che i poveri servi facciano all’ amore? Tossilo risponde esser questo il suo destino; indi l’invita a viver seco durante l’assenza del suo padrone promettendo trattarlo con ogni lautezza. Afferma non aver egli altra cura che lo crucii se non quella ◀di▶ riscattare dalle mani ◀di▶ un ruffiano una bella schiava ch’ egli ama. Mancangli a tal uopo seicento nummi, e prega Sagaristione a volerglieli prestare per tre o quattro giorni. Stupisce costui a tal domanda:
Chiedi almeno, dice Tossilo, ad altri questo danajo. Sagaristione promette, e si separano. Sopravviene il parassito Saturione e nel voler entrare in casa ◀di▶ Tossilo, per vedere se vi è rimasto dal passato dì qualche cosa da ingollare, vede aprirsi la porta e si trattiene. Torna fuori Tossilo, ed ha pensato con un’ astuzia ◀di▶ fare che lo stesso padrone della sua bella sborsi il danaro per pagarne il riscatto. Si avvede del parassito ◀di▶ cui abbisogna per l’esecuzione, e per adescarlo finge ◀di▶ non averlo veduto e ◀di▶ ordinare a’ servi ◀di▶ sua casa un banchetto per un suo amico che attende. Saturione con gran giubilo comprende esser lui l’amico atteso, e gli va incontro chiamandolo suo Giove terrestre. Tu giungi (Tossilo gli dice) bene a tempo, caro Saturione. Menti amico (egli risponde), che io non vengo miga Saturione, ma Esurione. Questi sali si passano a’ simili interlocutori e alla bassa commedia; ma fuori della scena riescono freddi, nè in teatro si ammettono in un genere comico più elevato. Oggidì per iscreditarsi un uomo in una conversazione ◀di▶ persone ben nate, basterebbe che profferisse alcuna ◀di▶ queste inezie, che i Francesi chiamano turlupinades. Tossilo gli dice ch’ei mangerà, purchè si ricordi ◀di▶ ciò che jeri gli disse. Mi ricordo, sì, risponde, che non vuoi che la murena e il congrio si riscaldino. Non ◀di▶ questo (l’ altro) ma de’ seicento nummi che dovevi prestarmi. Mi ricordo anzi (Saturione) che tu me ne pregasti, e che io non ebbi che darti. Un parassito con danajo è indegno ◀di▶ portarne il nome. Egli esser dee puro cinico ◀di▶ setta: pochi mobili a lui bastano, un vaso, una stregghia, un orinale, un pajo ◀di▶ zoccoli, un pallio e un picciolo borsotto da guardare alcuna coserella per divertirsi mentre sta in casa; questo è quanto può possedere un buon parassito. Orsù (dicegli in fine Tossilo) da te altro non voglio che la tua figliuola . . . . La mia figliuola? (interrompe Saturione) No, per Dio, che finora a quell’uscio non ha fiutato verun cane. No, no (dice Tossilo); io la vo’ per altro. Ella è vaga, è vezzosa, e tu non sei conosciuto dal ruffiano Dordalo. Certo che no (replica Saturione). Vuoi tu che io sia conosciuto da altri che da chi mi dà da mangiare? Or dunque (ripiglia Tossilo) tu puoi darmi il danajo che io cerco, permettendomi ◀di▶ vendere la tua figliuola. E Saturione: Tu vendere la mia figliuola? Anzi non io (Tossilo dice) ma qualche altro che possa fingersi forestiere, cosa non difficile, non essendo scorsi che sei mesi dalla venuta del ruffiano da Megara in questa città. Saturione si rattrista al’ vedere andare in fumo il banchetto, se dee dipendere da questo intrigo. Tossilo conchiude ch’egli rimarrà digiuno, se non vende la figliuola.
Satur.
Ah vendi me ancora, purchè tu mi venda satollo.
Toss.
Vanne dunque in casa, previeni la giovane, instruiscila ◀di▶ quanto dee dire, ◀di▶ chi si abbia a chiamar figlia, da chi debba favoleggiare ◀di▶ essere stata rapita, in qual guisa figurarsi nata lungi da Atene, come piangere al ricordarsi della patria e de’ parenti.
Satur.
Nè taci ancora? Ella è tre volte più astuta ◀di▶ quello che tu brami.
Toss.
Ottimamente. Prendi anche un vestito per mascherar colui che dee fingersi forestiere e vendere tua figlia.
Satur.
Molto bene.
Toss.
Alla stessa foggia vesti ancor lei.
Satur.
Ma donde prenderemo tali vesti e fregi?
Toss.
Prendetele dal Guardaroba del Coro: gli Edili le hanno già apparecchiate.
Nelle quali parole si vuol notare che mentovando il Corago e gli Edili si fanno sparire i personaggi immaginati, e venire avanti gl’ istrioni, siccome accennammo nel parlar delle commedie ◀di▶ Aristofane. Gli antichi da una banda dipingevano al naturale per ottenere la bramata illusione, e dall’altra la distruggevano alle volte con una parola. I moderni con gran senno gli emuleranno nel primo disegno senza fermarsi molto sulle loro picciole macchie, seguendo l’avviso Oraziano. Tossilo aggiugne che sborsato che avrà il ruffiano il prezzo ◀di▶ questa finta schiava, Saturione si farà avanti dandosi a conoscere per ◀di▶ lei padre, e si ripiglierà la figliuola.
Atto II. Lenniselene per la sua fante Sofoclidisca manda un biglietto a Tossilo suo amante, e questi con un altro spedisce a lei Pegnio, incaricandogli ◀di▶ affrettarsi in modo, che possa trovarsi in casa quando egli pensi che sia ancora da Lenniselene. Pegnio risponde, ti obedirò, e torna in casa. Dove vai? dice Tossilo: E Pegnio: in casa per trovarmici mentre tu pensi che io sia da Lenniselene; motto, ovvero, come dicono i moderni comici dell’arte, lazzo e botta adottatata da’ Pulcinelli ed Arlecchini. Parte Tossilo. Ma che fa intanto Sofoclidisca? Ella è fuori: non vede Tossilo a cui è spedita? Direi ◀di▶ no, perchè i teatri antichi potevano rappresentare in una medesima veduta più luoghi ◀di▶ tal modo che un personaggio posto a favellare in una banda della scena poteva essere coperto e non veduto da chi agiva in un’ altra fino a tanto che non venisse avanti nel pulpito. S’incontrano poi i due messaggi Sofoclidisca e Pegnio, e la loro scena è vivace e propria ◀di▶ tali persone, cioè ◀di▶ una fante ◀di▶ un ruffiano e ◀di▶ un ragazzaccio monello. É però lunga, inutile alla condotta, e contraria al comando ◀di▶ chi gl’ invia; ma in ciò vien dipinto il costume e l’indole de’ servi i quali sogliono volentieri trascurare il lor dovere per voglia ◀di▶ cicalare. Entrano nelle case rispettive dove sono stati mandati. Viene fuori Sagaristione allegro per avere avuto del danaro dal proprio padrone per mercare un pajo ◀di▶ buoi, e pensa valersene per prestarlo a Tossilo. Vede Pegnio che esce dalla casa del ruffiano, e vorrebbe domandargli ◀di▶ Tossilo, ma colui risponde colla solita insolenza e parte. Esce Tossilo dicendo alla fante che consoli la padrona, essendo già disposto e pronto il modo ◀di▶ liberarla. Sagaristione con uno scherzo basso e servile gli mostra un tumore nel collo formato colla borsa del danaro, dicendo ◀di▶ essere una vomica. Tossilo allegro lo ringrazia, e promette ◀di▶ renderglielo fra pochi momenti, sperando ◀di▶ cavarlo dal medesimo ruffiano. L’introduce in sua casa, perchè pensa che avrà bisogno della ◀di▶ lui opera.
Atto III. Viene Saturione colla Vergine sua figliuola abbigliata all’ orientale. Le rammenta a che viene, e come sarà venduta. La Vergine con saviezza e modestia procura ◀di▶ rimuoverlo ancora da tal disegno in questa guisa secondo la mia versione:
Verg.
Di grazia, padre mio, benchè sì spessoCorri alle mense altrui, per la tua golaVendi forse tua figlia?Sat.
Oh buon! VorrestiChe per lo re Filippo ovver per AttaloVendessi il mio?Verg.
M’hai tu per figlia o serva?Sat.
Per tutto quello io t’ho che alla mia panciaVerg.
Egli è così, tutto il comando è tuo.Pur benchè poveretti, è meglio, o padre,Viver con poco e conservar l’onore.Che se alla povertà l’infamia accoppi,Persa è la fede, e povertà più graveDiventa, o padre.Sat.
Sei seccante, o figlia,Anzi odiosa.Verg.
No, nol son, nè credoD’esserla, o padre, se in età sì verdeBen dritto penso. Narreran la cosaDi tua figlia a svantaggio i tuoi nemici,Non attendendo al ver, bensì alla voce.Sat.
Narrino a posta loro, ed in maloraVadano pur: fo caso io de’ nemici?Tanto gli stimo quanto un desco vuoto.Verg.
Padre, l’infamia non si estingue mai,E quando il pensi men, t’esce sul viso.Sat.
Temi tu ch’io ti venda da buon senno?Verg.
Nol temo, no, ma che si finga, spiacemi.Sat.
Ti spiaccia pur, sarà quel che vogl’ io.Verg.
Sarà?Sat.
Sarà: che cianci?Verg.
A ciò sol pensa.Minaccia e sbuffa, benchè poi nol faccia,Se il braccio è in alto, se il bastone è pressoNon palpita il meschino in quell’istante?Così tem’ io quel che accader non debbe.
Ma ella si affanna in vano: Saturione non si ricorda che delle cene ◀di▶ Tossilo e vuol compiere l’ordinata trama. La figlia altro non potendo si accomoda a bene eseguire i comandi paterni, ed entrano in casa ◀di▶ Tossilo. Dordalo risoluto vuole andar da Tossilo o perchè gli dia il pattuito prezzo della sua schiava, o per disporne a suo modo sciogliendosi dal contratto; ma si ferma al sentire lo strepito che fa la ◀di▶ lui porta nell’aprirsi. Esce Tossilo baldanzosamente, e vedendo Dordalo con disprezzo ed alterigia gli dice che prenda pure il danaro aspettato con tanta diffidenza. Con pari insolenza rispondegli Dordalo. Rimangono ◀di▶ accordo che il ruffiano giuridicamente dichiarerà libera Lenniselene, e poi per la parte dell’orto la menerà in casa ◀di▶ Tossilo.
Atto IV. Tossilo contento del bene ordito inganno chiama Sagaristione perchè conduca fuori la Vergine, e porti seco le lettere ch’egli ha finto ◀di▶ aver ricevute ◀di▶ Persia dal proprio padrone. Lo fa trattenere in disparte, avvertendogli ◀di▶ comparire poichè avrà egli parlato a Dordalo. Viene questi a dire a Tossilo ◀di▶ aver già manomessa la fanciulla e menatala nella ◀di▶ lui casa. Tossilo in segno ◀di▶ sapergliene grado, e ◀di▶ averlo per amico, gli dà a leggere le sinte lettere, ove si accenna ◀di▶ una Vergine Araba fuggitiva da vendersi, e mostrando desiderio ◀di▶ apportargli utile gliene propone la compera. Dordalo, dopo ◀di▶ avere alquanto esitato, cerca ◀di▶ vederla insieme col forestiere che l’ha condotta. La vede e secondo l’ usanza ◀di▶ chi vuol comperare per poco, l’approva a mezza bocca. Tossilo gl’ insinua ◀di▶ udirla un poco prima ◀di▶ parlar del contratto, per ben conoscerne le maniere e il pensare. La scena in cui esce Sagaristione favellando colla fanciulla mentre che gli altri due stanno ad ascoltare, è nella quale si effettua la vendita, è piena d’arte, ◀di▶ grazie, ◀di▶ latine veneri e ◀di▶ buon senso. Ne tradurremo qualche frammento.
Sagar.
Or che dici d’Atene? Non ti parveSplendida e vaga?Verg.
Io la città sol vidi,Gli usi e gli abitator poco conobbi.Tos.
O che savio principio!Dord.
Da un sol mottoSagar.
Verg.
Se cittadini avrà ben costumati,A meraviglia fia munita e forte.Se andrà perfidia fuor de’ suoi confini,E il peculato, e l’avarizia, e poiL’invidia, l’ambizion, la maldicenza,Ed in settimo luogo lo spergiuro.Toss.
Avanti.Verg.
La pigrizia nell’ottavo,Prepotenza nel nono, e dietro ad esseOgni malvagità. Se da tal pesteNon si ripurghi, a conservarla, io penso,Toss.
Che ne dici?Dord.
Che vuoi?Toss.
Tu fra que’ dieciCompagni ella ha contato, e quindi in bandoAndar dovrai,Dord.
Perchè?Toss.
Come spergiuro.
E’ ammirato tutto ciò ch’ella dice, e se ne tratta la vendita. Tossilo per accreditare l’inganno con finto zelo suggerisce a Dordalo, che nulla conchiuda prima ◀di▶ aver domandato alla fanciulla quel che conviene; indi ◀di▶ soppiatto avverte la Vergine a pensare alle risposte. Ella scaltramente soddisfa ad ogni domanda con parole ◀di▶ doppio senso che ingannano il ruffiano e danno piacere allo spettatore che ne comprende il vero significato. Quest’artificio riesce mirabilmente in ogni specie ◀di▶ commedia, ed è la più ingegnosa fonte del ridicolo, sempre che i sentimenti equivoci sieno naturali e non già tirati al proposito cogli organi. Serva ◀di▶ esempio quest’altro squarcio che io così traduco:
Toss.
Questi, o figliuola, è un uom dabbeneVerg.
Il credo.Toss.
Verg.
Così lo spero, se i parenti mieiFaranno il lor dover.Dor.
Non dei stupire,Se della patria tua, se de’ parentiNoi ti chiediam ragion.Verg.
Stupir? perchè?Non permette il destin che mi fa serva,Che del mio mal meravigliar mi debba.Toss.
Deh non piangere.Verg.
Oh Dio!Toss.
(Sia maledetta!Che trincata, che scaltra! ha senno: oh quantoAggiustato risponde!)Dor.
(Il nome tuo?Toss.
Ora temo che sbagli.)Verg.
Al mio paeseLucrida era chiamata.Toss.
O nome insigne,O nome prezioso! Ed a comprarlaMa saltò il fosso a meraviglia.)Dor.
Io speroChe se ti compro, Lucrida saraiAncor per la mia casa.Toss.
Un mezzo mese,Dordalo, non cred’io ch’abbia a servirti.Dor.
Lo faccia il cielo.Toss.
E perchè il faccia, adoprati(Tutto finor va bene)Dor.
Ove nascesti?Verg.
Per quello che mi disse un dì mia madre,In cucina, in un canto a man sinistra.
Ella in somma sfugge con destrezza ◀di▶ mentire, rispondendo indirettamente, nè mai viene a nominar la patria, o sia perchè non voglia mentire manifestamente, ovvero perchè intenda il poeta mostrare ch’ella siasene dimenticato, e si salvi con dire che la sua patria è la città dove ora serve, e cose simili. Dordalo invogliato conchiude il contratto col finto Persiano, contandogli sessanta mine pattuite. Gli domanda poi del ◀di▶ lui nome, ed egli chiudendo nel nome tutta la serie della frode, mi chiamo, gli dice,
Vaniloquidorus, Virginisvendonides,Nugidololoquides, argentiexterebronidesTedigniloquides nummorum expalponides,Quod semel arripides, nunquam postea eripides.
il che graziosamente s’imitò da Giambatista della Porta, nella cui Trappolaria il servo risponde, mi chiamo Nullacredimi, Tuttigabali, Ororubali, Donnatoglili. Partito Sagaristione e Tossilo esce Saturione padre della finta schiava, e la prende per mano. Ella lo saluta col nome ◀di▶ padre. Dordalo rimane attonito all’udirsi chiamare in giudizio dopo ◀di▶ essere stato inzampognato.
Atto V. Trionfa Tossilo colla sua Lenniselene e coll’ amico Sagaristione, e dispone un magnifico banchetto, non solo per tripudiare con gli amici e coll’ amata, ma per fare arrabbiare vie più lo scontento ruffiano. Viene costui lagnandosi del maladetto Persiano, e Tossilo l’invita alla loro mensa, e deridendolo e maltrattandolo danno fine alla commedia. Rimane qualche dubbio sul luogo della scena. I primi atti si passano in istrada; ma quel bagordo dove segue? Metastasio60 non istima che si celebrasse in istrada, e suppone che siasi cambiata la scena. Ma figurandosi cambiato il luogo in una stanza propria per una tavola, come può seguire la venuta del ruffiano da’ commensali schernito? O bisogna concepire un teatro alla maniera ◀di▶ quelli veduti in Napoli in tempo del Marchese ◀di▶ Liveri, ne’ quali senza cangiar la scena vedevansi azioni fatte nell’ interiore ◀di▶ una casa ancor dalla strada, ovvero immaginare che il servo baldanzoso Tossilo, per far disperar Dordalo, avesse disposta la mensa avanti la porta della propria casa per farsi veder da lui, come in fatti avviene. Or nell’uno e nell’altro supposto si conserverebbe l’unità del luogo senza mutazione ◀di▶ scena.
Pseudolo. Vedesi in questa favola un altro ruffiano aggirato e truffato, e tanto più graziosamente, quanto che n’è prima avvertito da un vecchio, il quale per una scommessa fatta con Pseudolo suo servo, e interessato a rendere il ruffiano attento perchè non rimanga col danno e colla beffa perdendo certa sua schiava. In genere ◀di▶ trappole servili è questa una delle più ingegnose e piacevoli ◀di▶ quante se ne sono esposte sulla scena; e Cicerone nel suo Catone ci fa sapere che Plauto stesso oltre modo se ne compiaceva. Tra i vantaggi che ci presenta l’esame delle opere degli antichi, è quello ◀di▶ vedervi la sorgente delle moderne. Il più volte lodato Cavaliere della Porta prese ad imitare questa favola Plautina nella poc’anzi mentovata Trappolaria, ma ne nobilitò l’argomento, e ne rendè più interessanti i caratteri, oltre all’avere alla trappola accresciuto movimento e vivacità con una promessa fatta dal servo per soprappiù ◀di▶ avvisare il ruffiano nel tempo stesso che l’ ingannava; la qual cosa eseguisce con graziosissimi colori comici, de’ quali gode estremamente lo spettatore inteso dell’ingegnosa astuzia. Notabile nella commedia ◀di▶ Plauto è la sfacciataggine del ruffiano, che con alacrità confessa tutte le sue malvagità. Callidoro gli dice, perjuravisti, sceleste, ed egli risponde con prava tranquillità,
. . . . At argentum intro condidi.Ego scelestus nunc argentum promere possum domo,Tu qui pius es, istoc genere gnatus, nummum non habes.
Questa è la solita risposta de’ furfanti che deridono i buoni, e si animano a continuare nelle loro infamie. Il poeta acconciamente la mette in vista per insegnare a detestarla, e per rendere più accetta al popolo la beffa che poscia ne riceve quell’indegno che la tiene in bocca e nel cuore. Si osservi che in questa favola ancora Pseudolo distrugge l’ illusione col volgersi nella fine dell’atto primo agli spettatori:
Suspicio est mihi, nunc vos suspicarier,Me iccirco hæc tanta facinora promittere,Qui vos oblectem, hanc fabulam dum transigam ec.
Parimente nella quarta scena dell’atto II nega ◀di▶ narrare l’accaduto agli altri attori, perchè non l’ignorano gli spettatori, per li quali si rapresenta:
. . . . horum causa hæc agitur spectatorum fabula.Hi sciunt, qui hic affuerunt, vobis post narravero.
Il savio leggitore nota ciò e passa, senza fermarsi a trarne ridevoli conseguenze contro gli antichi. Egli non può ignorare che da essi non si vuole apprendere il modo ◀di▶ sceneggiare che varia secondo i tempi e le nazioni, ma la sempre costantemente mirabile semplicità artificiosa dell’azione; ma l’arte in tutti i tempi inarrivabile ◀di▶ dipignere i caratteri, i costumi, le passioni; ma la felicità ◀di▶ motteggiare e ◀di▶ mettere nel vero punto ◀di▶ vista le umane ridicolezze. Per tali cose la favola del Pseudolo fu da Gellio chiamata festivissima, e ammirata da’ moderni più sagaci interpreti, tra’ quali si distinse Federico Taumanno. Giovanni Dousa le da il titolo ◀di▶ ocellus fabularum Plauti 61.
Curculione. Dal nome ◀di▶ un parassito che inganna un soldato millantatore, prende il titolo questa favola. Egli ruba al vantatore un anello, per cui mezzo acquista una Vergine venduta da un ruffiano, e la reca nelle mani ◀di▶ Fedromo ◀di▶ lei innamorato corrisposto. Quell’anello medesimo che ha servito all’inganno, fa che la Vergine venga riconosciuta per sorella del soldato. Se v’ha favola ◀di▶ Plauto, su cui a ragione cada l’ osservazione ◀di▶ Madama Dacier delle sentenze filosofiche affettate, è al certó la presente. Notabile in essa è il personaggio del Corago introdotto nell’atto quarto, il quale teme ◀di▶ perdere le vesti date in affitto a Curculione. Lo spirito ◀di▶ verità che rende i componimenti rappresentativi interessanti, non regnava molto in Roma al tempo della Repubblica prima ◀di▶ Terenzio.
Aulularia. Somministra il titolo a questa favola un vase o pentola ripiena ◀di▶ oro d’intorno a quattro libbre ◀di▶ peso trovata dal vecchio Euclione, il quale avvezzo alla miseria da tanti anni non sa far uso ◀di▶ quel danajo, e ◀di▶ bel nuovo lo seppellisce. Il ◀di▶ lui carattere con somma maestria e con cento grazie dipinto da Plauto, è stato mille volte copiato da Italiani, Spagnuoli, Francesi e Inglesi; e lo scioglimento ◀di▶ questa favola in molte commedie moderne si è ripetuto. Sebbene l’Aulularia non ci sia pervenuta intera, è stata pur tradotta nel secolo XV da Paride Ceresara, per quel che apparisce da una lettera ◀di▶ Lodovico Eletto Mantovano de’ 22 ◀di▶ giugno del 150162. L’ufficio del prologo si fa dal Lare famigliare della casa ◀di▶ Éuclione uno de’ penati custodi delle case degli antichi. Varie sentenze e bene applicate e lontane dall’affettazione possono notarvisi. Tali a me sembrano p. e. nella scena seconda dell’atto secondo queste,
. . . . Si animus est aequus tibi, satis habes, qui bene vitam colas.
e l’altra,
Altera manu fert lapidem, panem ostentat altera.
e ciò che risponde Megadoro all’avaro Euclione, il quale dice ◀di▶ non aver dote da dare alla figlia:
. . . . . . . . . Ne duis:Dummodo morata recte veniat, dotata est satis.
Così parimente ne giudicò il poc’anzi lodato Dousa 63: Nam præter dictionis genus vere Romanum, tota æthica est, & ad pudicos (unum, alterumve locum exceptes modo) honestosque mores facta videri potest. Perciò non ignobili critici la preferiscono a tutte le altre. Tutte le commedie Plautine (diceva il grande ammiratore ◀di▶ Plauto Udeno Nisieli64) sono altrettante muse; ma l’Aulularia risiede in cima senza fallo come dea ◀di▶ tutte quante le altre. In tanto si vuole osservare che Euclione nel fine dell’atto terzo dice volere andare a nascondere il suo tesoro nel tempio della Fede, e nella seconda scena dell’atto quarto egli comparisce nel luogo dove ha detto volere andare. O dunque bisogna dire col celebre Metastasio che i luoghi ◀di▶ tal favola sien due, o secondo noi concepire un teatro composto ◀di▶ più spartimenti in guisa che vi sieno segnati più luoghi richiesti per eseguire l’azione alla Liveriana. Antonio Codro Urceo Bolognese sotto Sigismondo e Federico III Imperadori supplì a questa favola alcuni versi, e l’illustrarono altri più recenti comentatori come Gioacchino Camerario, Giorgio Reimanno, Leibschütz, Stefano Riccio, Maurizio Sidelio65.
Cestellaria. Denominasi questa favola da un cestino cogli ornamenti infantili ◀di▶ una bambina esposta, ond’ella è riconosciuta da’ genitori. Delineati a maraviglia vi si scorgono i caratteri ◀di▶ una meretrice, ◀di▶ due ruffiane ◀di▶ costumi differenti, della fanciulla esposta, la quale è fieramente innamorata, e ◀di▶ un giovane ◀di▶ lei amante. Questo valoroso comico poeta non ha bisogno ◀di▶ perdersi in episodj. Corre allo scioglimento, e talvolta accenna soltanto quel che conduce alla catastrofe; e pure in così fatta semplicità ◀di▶ argomento e ◀di▶ condotta versa in tal copia i vezzi e le facezie che l’erudito Dousa ne rimaneva attonito. Ma tale è per lo più l’ indole e l’ingegno fecondissimo ◀di▶ Plauto. Si osserva nella Cestellaria una novità che altrove rarissime volte si rinviene. Il prologo fatto dal dio Ausilio non trovasi premesso all’ azione ma in essa inserito, e collocato nella terza scena dell’atto primo. Con Plautina felicità veggonsi nella scena ◀di▶ Alcesimarco, che è la prima dell’atto secondo, dipinte vivamente le contraddizioni, le pene e gli amareggiati diletti dell’amore.
I Menecmi. Di questa commedia, che dalla compiuta somiglianza ◀di▶ due gemelli Siracusani prende le grazie, le scene equivoche, il groppo e lo scioglimento, non credo che siavi nazione moderna che non abbia traduzioni o almeno imitazioni. Nel XV secolo si rappresentò in volgare nella Corte ◀di▶ Ferrara. Gl’ istrioni la perpetuarono sulle scene recitando le loro commedie dell’ arte, e l’intitolarono i Simili ◀di▶ Plauto. Tralascio poi ◀di▶ tutte distintamente riferire le tante imitazioni che se ne fecero ne’ precedenti secoli in Italia co’ titoli de’ Gemelli, delle Gemelle, della Somiglianza ecc. Nel XVII la tradusse in Francia il faceto M. Regnard. Il teatro Spagnuolo conta eziandio un gran numero ◀di▶ favole ◀di▶ somiglianza, come el Parecido en la Corte, el Parecido de Hungria, el Parecido de Tunes, ecc.; ma queste per altro spesso prendono un portamento tragico, e ◀di▶ molto si discostano dal comico artificio latino. Ozioso adunque sarebbe il trattenersi lungamente a favellare ◀di▶ così nota favola, la cui varietà e lepidezza invita a replicarne la lettura66.
Mostellaria. Nell’assenza del padre un giovane ◀di▶ morigerato diviene dissoluto, spende trenta mine a liberare dalla servitù l’innamorata, dissipa, profonde, e si carica ◀di▶ debiti. Arriva il ◀di▶ lui padre in uno dei giorni ch’egli sta in compagnia ◀di▶ donne e ◀di▶ amici gozzovigliando. Un servo autore dei ◀di▶ lui disordini appena ha tempo da fare menar dentro un commensale ubbriaco e chiudere la casa. Incontrasi ◀di▶ poi col vecchio, e gli da ad intendere esser la casa posseduta da mostri e fantasime, perchè sessanta anni fa vi fu spogliato e ammazzato un forestiere da colui che vendè la casa al vecchio padrone. Questa menzogna creduta dal vecchio è quasi distrutta nel nascere dall’arrivo ◀di▶ un creditore; ma il servo per giustificare il debito finge che il figliuolo abbia comperata la casa ◀di▶ un altro vecchio vicino. E perchè Teuropide (padre del giovane) s’ invoglia ◀di▶ vedere quest’altra casa, il servo a forza ◀di▶ bugie ne ottiene la permissione dal padrone ◀di▶ quella, senza che nè l’uno nè l’ altro vecchio nulla penetri della fola. Si osservi che nell’andare a vederla il padrone della casa va via e Teuropide dice al proprio servo, sequere hac igitur, e questi risponde equidem haud usquam a pedibus abscedam tuis, e vanno a vedere l’interiore della casa, e il teatro rimane vuoto nel tempo che si spende a vedere il gineceo, o appartamento delle donne, ed il lunghissimo portico. Il primo verso della scena seguente, quid tibi visum est hoc mercimonii, che subito succede alle parole, equidem haud usquam a pedibus abscedam tuis, dimostra o che la scena, come abbiam detto, sia rimasta vuota nel tempo necessario a veder la casa, o che vi manchino forse de’ versi detti da Simo prima ◀di▶ partire, o che il poeta abbia contato sull’indulgenza dello spettatore. Lo scioglimento avviene per l’arrivo del servo ◀di▶ uno de’ commensali il quale scuopre a Teuropide la verità dello stato ◀di▶ sua famiglia. Il servo colpevole si rifugge all’ara e un amico si frappone, e intercede per lui e pel figliuolo. Nel moderno teatro Francese si trasportò questa favola, ed ebbe per titolo le Rétour imprevû. E’ stato osservato da Metastasio il bisogno che essa ha ◀di▶ mutazioni ◀di▶ luoghi per rappresentarsi67, ove non si sappia costruire una scena alla maniera ◀di▶ Liveri.
Il Soldato millantatore. Αλαζων, jactator, fu chiamata in greco la favola che Plauto intitolò Miles gloriosus; ed è il servo Palestrione che ciò manifesta nella prima scena dell’atto secondo, adoprata in vece ◀di▶ prologo, che per la seconda volta troviamo in Plauto fatto da uno degl’ interlocutori, e collocato nel mezzo della favola. Contiene una beffe fatta a quel vanaglorioso da un fervo per torgli ◀di▶ mano una fanciulla amata da un giovane Ateniese. Questi alla chiamata del servo espressamente viene in Efeso per tale oggetto; e si valgono della casa ◀di▶ un vecchio contigua a quella del soldato, aprendo un muro comune, per la cui apertura passa la donna a veder l’amante. Il servo che la custodisce, la vede nella vicina casa abbracciata coll’ Ateniese. Per rimediare a siffatto disordine Palestrione le insinua ◀di▶ fingersi una propria sorella gemella venuta da poco tempo coll’ amante in Efeso. Il muro aperto colla via occultata facilita la doppia apparenza. Finalmente lo stesso servo alletta il soldato colla speranza ◀di▶ possedere un’ altra donna che si finge una matrona onorata moglie ◀di▶ un vecchio e spasimata amante del soldato. Lusingato il vantatore da questo nuovo acquisto, per non ricevere disturbo dall’amica che ha in casa, risolve ◀di▶ lasciarla partire colla pretesa sorella e colla madre che già si dice imbarcata. Appena l’innamorato vestito da marinajo l’ha menata via, che il soldato pieno ◀di▶ speranza e ◀di▶ amore per l’ideata matrona entra nella vicina casa, corre pericola ◀di▶ esser castrato, e n’è discacciato a colpi ◀di▶ bastone, affetando il vecchio il carattere ◀di▶ marito onorato e geloso. Questa favola si vuol collocare tralle più piacevoli ◀di▶ Plauto per lo sale grazioso che la condisce, e per la vivace dipintura del vano carattere ◀di▶ Pirgopolinice.
Le Bacchidi sorelle. Il prologo col principio della prima scena affermò il Lascari ◀di▶ averlo trovato in Messina, e da alcuni si attribuisce a Francesco Petrarca68. Dipingonsi in tal commedia i costumi meretricj ◀di▶ due sorelle così chiamate. Esse adescano due giovani amici Pistoclero e Mnesiloco. Crisalo servo per favorire l’ intento del padrone Mnesiloco, con varie astuzie tira il danajo necessario dal ◀di▶ lui padre Nicobulo. Scopre costui le bugie ◀di▶ Crisalo, ne freme, ed unitosi col padre ◀di▶ Pistoclero con animo ◀di▶ vendicarsene vuole entrare in casa delle meretrici. Compariscono le sorelle sulla porta, e alla prima gli dileggiano; pensano poscia ◀di▶ accarezzarli per dissiparne lo sdegno, e riescono nell’intento. I vecchi cadono nelle debolezze che riprendevano ne’ figliuoli. Il parlare allo spettatore, il chiamare alla memoria la persona dell’ attore nel più bello del dramma, è cosa comune nelle favole ◀di▶ Plauto. E’ degno ◀di▶ osservarsi che nella scena seconda dell’atto secondo Pistoclero racconta al servo l’amore che Bacchide ha per Mnesiloco, e Crisalo annojato non ne vuol sentir parlare. T’incresce adunque (dice Pistoclero) ◀di▶ sentire la buona ventura del tuo padrone? Non è il padrone che m’incresce (risponde Crisalo) ma è l’attore che m’infastidisce e mi ammazza. Epidico, non dico altro, la favola prediletta e da me amata al pari ◀di▶ me stesso, mi diviene ristucchevole, quando rappresenta Pellione. Questo Pellione dovea essere un attore poco applaudito, e poco accetto allo stesso Plauto.
Epidico. Questa è la favola mentovata nelle Bacchidi. Epidico è un servo, che in vece ◀di▶ riscattare una figliuola naturale del vecchio Perifane suo padrone compra una donna che suona e canta sull’ arpa (fidicina) per secondare un amoroso capriccio del giovane Stratippocle. Oltre a ciò per procurargli quaranta mine che dee a un usurajo per aver comprata un’ altra donna, fa sì che lo stesso Perifane compri un’ altra cantatrice, che per altro è libera, dandogli speranza che non mancherebbe ◀di▶ esser ricomprata da un soldato che l’ ama. Ma il soldato ricusa ◀di▶ ricomprarla accorgendosi ◀di▶ non esser quella ch’egli desidera. Dall’altra parte Perifane che tiene in casa come sua figlia la sonatrice comprata da Epidico, colla venuta ◀di▶ una donna da cui egli l’ebbe, conosce ◀di▶ non esser tale. Per tanti inganni fulmina il vecchio contro Epidico. Ma per buona ventura ◀di▶ costui si scopre che l’ultima fanciulla comprata da Stratippocle era veramente la ◀di▶ lui sorella naturale, ed Epidico per tal felice evento ne ottiene, non che il perdono, la libertà. Contasi questa favola tralle Plautine più ben disposte e verseggiate; e meritò la predilezione dello stesso famoso autore per la traccia dell’azione, per la copia de’ vezzi e per la continuata eleganza69.
Stico. Il servo che presta il nome a questa commedia, è un personaggio episodico che per niun modo influisce nell’azione principale. Questa consiste nella costanza dimostrata da due matrone in amare i loro mariti bisognosi, i quali da tre anni partirono dalla patria cercando ◀di▶ migliorar col commercio il proprio stato. Il padre ◀di▶ queste giovani indarno tenta ◀di▶ persuaderle ad abbandonare la casa de’ mariti; e la loro fermezza è premiata col ritorno ◀di▶ essi già divenuti ricchi. Sembra che a Plauto non bastasse tale argomento per una intera commedia, e che avesse voluto supplirvi colla languida e in niun conto interessante giunta della cena ◀di▶ Stico colla serva Stefania.
Il Truculento, o sia il Burbero. Poco più del personaggio ◀di▶ Stico appartiene all’azione principale del Truculento il duro e salvatico servo onde prende il titolo. Riesce non pertanto instruttiva e interessante per la natural dipintura ◀di▶ una meretrice annunziata con una pennellata maestra nel prologo in tal guisa:
La giovane che alberga in quella casaFronesia è detta, e tutti in se raccoglieDella moda e del secolo i costumi.Ella non cerca mai quel che altri porse,Ma cerca e toglie quel ch’egli pur serba.
Questa scaltra civetta, ovvero arpia, pela a un tempo stesso tre merlotti, uno della villa, uno della città, e un altro che viene da’ paesi esteri. A quest’ultimo da lei trattato in altro tempo ancora dà ad intendere ◀di▶ aver ◀di▶ lui partorito un bambino, per trarne regali e per richiamarlo all’antica amistà. Le arti meretricie che adopera variamente coi tre innamorati in compagnia delle sue fantesche, le quali con felicità lla secondano, sono copiate al naturale dalo procedure ◀di▶ simili femmine che trafficano i loro vezzi. Lo scioglimento avviene colla riconoscenza del bambino supposto che era preso da una giovane amata da Dinarco uno degli amatori ◀di▶ Fronesia. Questo Dinarco riconvenuto dal padre della genitrice del bambino è costretto a sposarla. Per le felici dipinture de’ caratteri, per la condotta e per lo stile, è questa commedia noverata tralle buone, e fu cara al poeta che la compose.
I Prigioni. Tralle antiche commedie rispettate dal tempo, la favola più decente e pudica è questa che Plauto intitolò Capteivei. Egione ha due figliuoli, uno che ◀di▶ anni quattro gli fu rubato da uno schiavo e venduto a uno straniero, e un altro già grande fatto prigioniero da’ nemici. Per avere l’opportunità ◀di▶ riscattare o permutare l’ultimo figliuolo prigione si mette a mercatantare ◀di▶ schiavi. Tra questi compera un giovane chiamato Filocrate e un ◀di▶ lui servo per nome Tindaro, i quali però per ogni evento dispongono ◀di▶ cangiar nomi e stato, facendosi il servo credere padrone col nome ◀di▶ Filocrate, ed il padrone rappresentando la figura ◀di▶ servo col nome ◀di▶ Tindaro. Per ventura il figliuolo ◀di▶ Egione trovasi per l’appunto cattivo nella città ◀di▶ Elide patria ◀di▶ Filocrate. Disegna adunque il vecchio ◀di▶ proporre a’ nemici la permuta del proprio figlio per Filocrate; e per trattarla concede al creduto Tindaro l’andare in Elide, stimandosi abbastanza sicuro avendo in mano, com’ egli crede, un pegno importante nella persona ◀di▶ Filocrate. Così rimane col nome del padrone il generoso servo Tindaro esposto al pericolo dell’indignazione ◀di▶ Egione, scoprendosi l’ inganno. Ciò ◀di▶ fatto avviene. Un altro prigioniero compatriotto ◀di▶ Filocrate tratto dal desiderio ◀di▶ vedere l’amico, va a parlare al creduto Filocrate, lo ravvisa per Tindaro e scopre l’inganno ad Egione, che vedendosi aggirato lo condanna a cavar pietre. Torna intanto Filocrate col figliuolo ◀di▶ Egione già liberato, e l’opportuno suo ritorno rende il virtuoso Tindaro libero dalla collera ◀di▶ Egione. Questi osserva con attenzione uno schiavo venuto in compagnia ◀di▶ Filocrate, e lo riconosce per lo stesso malvagio schiavo che rubò e vendè l’altro suo figlio ◀di▶ quattro anni, e nel ricercarsi le particolarità del ratto e della vendita, trovasi che il servo Tindaro è l’altro figlio ◀di▶ Egione. L’unità ◀di▶ tempo non si osserva in questa favola. Filocrate nel fine dell’atto secondo parte dal luogo della scena che è Calidone ◀di▶ Etolia: va in Elide: tratta quivi il cambio degli schiavi: si sa nell’ atto quarto che è tornato e nel quinto comparisce egli stesso, avendo corso nello spazio ◀di▶ poco più ◀di▶ un atto oltre a dugento miglia. I Latini assai meno rigorosi de’ moderni accordarono a’ loro poeti comici più ampii confini della verisimiglianza. Convengono i più sagaci critici in tener questa favola per una delle più eccellenti ◀di▶ sì gran Comico. Dousa n’era incantato. Gioacchino Camerario dice nel prologo: Inter Plautinas omnes hæc & argumento & expositione optima est, & elegantissima. Ipse etiam Poeta hanc commendat ut publice scriptam, multæque bonæ sententiæ in hac insunt, & eximiæ fidei exemplum servi erga herilem filium. Essa è tutta onesta e piena ◀di▶ motteggi innocenti e graziosi; e le stesse trappole servili tendono a un oggetto nobile e lodevole. Il poeta l’avea prevenuto nel prologo: “Non troverete (egli dice) in questa favola nè versi laidi, nè ruffiani spergiuri, nè perfide meretrici, nè soldati millantatori”. E nel congedo ripete lo stesso: “O spettatori (dice il coro degli attori col nome ◀di▶ grex) questa favola è composta per chi ama le dipinture de’ costumi pudici. Non vi sono debolezze, amore, parti supposti, danari truffati, e bagasce liberate da qualche giovane ◀di▶ nascosto del padre. Di siffatte commedie, nelle quali i buoni diventano migli ori, se ne inventano ben poche dai poeti ◀di▶ oggidì”. I pedanti orgogliosi, i quali appresero l’antica letteratura soltanto nelle scuole fanciullesche, e vogliono indi gludicarne canuti dalle idee elementari che ivi ne ricevettero, imparino dall’argomento ◀di▶ questa commedia, che gli antichi comici molte altre invenzioni avranno immaginate assai diverse da quelle che leggiamo nelle reliquie de’ loro scritti a noi pervenute; e cessino dal dettar pettoruti in tuono ◀di▶ oracolo aforismi generali che contraddicono all’ imitazione dell’immensa natura, e circoscrivono angustamente la poesia comica, ristrignendola a’ soli raggiri servili, a intrighi meretricii e ad una elocuzione bassa e triviale. I pedanti senza filosofia sono i selvaggi dell’orbe letterario: non ostentano che spalle nude, armi ◀di▶ legno e presunzione senza modo.
Ed ecco succintamente mostrato qual sia Plauto nelle venti commedie che ◀di▶ lui ci sono rimase. Osservatore non sempre esatto delle regole dell’ illusione teatrale, è non per tanto sempre vago, semplice, ingegnoso, piacevole e faceto, versando a piena mano a ogni passo sali e lepidezze capaci ◀di▶ fecondar largamente l’immaginazione ◀di▶ chi voglia coltivare un genere ◀di▶ commedia inferiore alla nobile. Contesero gli antichi intorno al numero delle commedie che scrisse. Altri secondo Servio gliene attribuirono trent’una, altri quaranta, altri cento, altri cento e trenta. Secondo Varrone e Festo Pompeo passarono presso alcuni per commedie ◀di▶ Plauto anche le seguenti: Artemone, Frivolaria, Fagone, Cestrione e Astraba. Aulo Gellio col filosofo Favorino riconosce per favole Plautine la Beozia che si ascriveva ad Aquilio, la Nervolaria, ed il Fretum; ma essi fondano il loro giudizio nel trovarsi in queste alquanti versi degni della penna ◀di▶ Plauto, argomento, a mio avviso, poco sicuro, quando tutto il rimanente non corrisponde. Spesso avviene che un numero limitato ◀di▶ versi non infelici scappi fuori dal fangoso talento del più meschino improvvisatore. Fin da’ tempi ◀di▶ Varrone mal si distinsero le commedie genuine ◀di▶ Plauto, la qual cosa l’incitò a comporre un opuscolo per isceverarle. Certo Plauzio, secondo lui, antico poeta comico scrisse diverse commedie, le quali dal ◀di▶ lui nome doveano chiamarsi Plauziane, e talvolta passarono per Plautine attribuendosi a Marco Accio Plauto. Il lodato Varrone solamente vent’una ne assegna a Plauto, e vuole che le commedie intitolate Gemini, Leones, Condalium, Anus, Bis compressa, Bœotia, Ἀγριχος, Commorientes, appartengano a Marco Acutico70. Certo è però che Plauto miglior poeta che mercatante caduto in miseria e postosi a lavorare con un mugnajo compose tre altre commedie, due delle quali s’intitolarono Saturio e Addictus, non avendoci Aulo Gellio conservato il titolo della terza. Ora queste tre aggiugnendosi alle venti che ne abbiamo, passerebbero il numero ◀di▶ vent’una da Varrone riconosciute per Plautine. Certo Lelio, al dir ◀di▶ Gellio, uomo eruditissimo affermava che venticinque veramente erano le commedie da Plauto composte, e che altre appartenevano ad altri più antichi comici, e furono da lui ritoccate nel ripetersene le rappresentazioni. E’ noto l’epitafio che Plauto compose a se stesso, in cui dimostra la perdita che nella sua morte era per fare la commedia:
Postquam est morte captus Plautus,Comoedia luget, Scena est deserta.Deinde risus, ludus, jocusque, & numeriInnumeri simul omnes collachrymarunt.