CAPO VII. ed ultimo.
Vuoto della
Storia teatrale.
Chiamiamo vuoto della storia teatrale il lungo periodo interposto dalla corruzione della poesia drammatica sino alla perdita della lingua latina avvenuta principalmente per l’incursione delle nazioni barbare nell’impero Romano.
I.
Copia di▶ teatri per l’impero.
Non è già che sotto gl’ imperadori de’ tre primi secoli cessato fosse il gusto degli spettacoli scenici in Roma ed altrove. I teatri stabili sussistevano nella regione del Circo Flaminio, e alle occorrenze gl’imperadori ne rifacevano quel che dal tempo e dagli accidenti veniva distrutto. Napoli, Capua, Ercolano, Pompei, Nola, Pozzuoli, Siracusa, Catania ed altre città del regno ◀di▶ Napoli e della Sicilia, videro i loro teatri per quel periodo assai frequentati. Di moltissimi altri teatri rimangonci anche oggi gli avanzi nel rimanente dell’Italia. Oltre a quello ◀di▶ Padova, ◀di▶ Pesaro, dell’ altro presso il Lago ◀di▶ Bolsena rammentato nell’iscrizione pubblicata dal Muratori, ◀di▶ quelli della Toscana accennati dal Borghini, ◀di▶ quello ◀di▶ Anzio, ◀di▶ cui favella il P. Giuseppe Rocco Volpi, e del teatro ◀di▶ Brescia mentovato nelle Memorie Bresciane del Rossi, de’ quali tutti ha fatta menzione il chiar. Tiraboschi156, havvene non pochi altri che in parte ancora esistono, e frequentavansi sotto gl’ imperadori de’ primi secoli. Torello Saraina Veronese rammenta il teatro della sua patria157, oltre all’anfiteatro superbissimo che ancor si ammira e si conserva col nome ◀di▶ Arena. Vestigii ◀di▶ teatro veggonsi nel Piceno dove era Alia rovinata dal Goto Alarico, della quale a’ tempi ◀di▶ Procopio rimanevano appena poche reliquie. Nell’Umbria veggonsi in Eugubio alcuni rottami ◀di▶ un teatro, che ebbe le mura reticolate158. Spoleto ancora, secondo il Biondo e il Sabellico, ebbe un teatro rovinato da’ Goti insieme colla città dopo la morte ◀di▶ Teodorico. In Rimini havvi un rottame ◀di▶ un antico teatro fabbricato ◀di▶ mattoni. Oltre Terracina, seguitando la Via Appia, nel luogo dove fu Longola città descritta da Dionigi Alicarnasseo e da Livio, vedesi un teatro quadrato appresso il monistero ◀di▶ S. Angelo sul monte, del quale dice il lodato Alberti, descrivendo la Campagna ◀di▶ Roma, benchè io abbia veduto molti teatri & anfiteatri . . . . . . non però non ho mai veduto il simile a questo 159.
Esistevano intanto in Grecia i già mentovati teatri ◀di▶ Corinto, ◀di▶ Tebe, ◀di▶ Atene, ◀di▶ Delo, ◀di▶ Sparta ecc. Bizanzio ebbe pure un gran teatro, il quale col resto della città fu rovinato dalle truppe ◀di▶ Severo160. Antiochia ne avea un altro, e i ◀di▶ lei istrioni furono cagione della trascuraggine e della fatal rovina ◀di▶ Macrino161. In Tebe ◀di▶ Egitto vuolsi che fosse un teatro, e che ◀di▶ là avesse Pilade tratte alcune novità che introdusse nell’arte pantomimica. Erode Ascalonita ne edificò uno assai grandioso in Gerusalemme162.
Nel rimanente dell’Europa, dove giunsero le vincitrici armi ◀di▶ Roma, trovansi pur teatri. Vedevansene eretti in quella parte dell’ Inghilterra, in cui si piantarono colonie Romane. Tacito fa menzione della colonia de’ veterani ◀di▶ Camaloduno, dove era un tempio dell’ imperador Claudio, e un teatro, il quale, fra gli altri prodigii osservati nella ribellione de’ Trinobanti governando Paulino Suetonio i Britanni, s’intese risonare ◀di▶ gemiti ed urlamenti163. Nella Spagna solevano alle occasioni alzarsi alcuni teatri ◀di▶ legno. Così fece in Cadice il Pretore Balbo, il quale essendosi straricchito con inaudite estorsioni, rapine e ingiustizie, fe costruirvi un teatro con quattordici ordini ◀di▶ scalini per l’ordine equestre; e per potersi millantare ◀di▶ essere la scimia ◀di▶ Giulio Cesare, nell’ultimo giorno de’ giuochi donò l’anello d’oro all’istrione Erennio Gallo e lo fe sedere tra’ cavalieri164. Oltre a ciò si osservano tuttavia in Murviedro le rovine del teatro Saguntino, essendo questa città eretta nel regno ◀di▶ Valenza sulle ceneri dell’antica Sagunto. Era questo teatro capace ◀di▶ circa novemila persone, secondo il calcolo fattone dal dotto Decano ◀di▶ Alicante Don Manuel Martì tanto amico del nostro Gravina, nella lettera scrittane a Monsignor Zondadari. E alluse a questo teatro e ad altre antichità ◀di▶ Murviedro il poeta Leonardo Argensola quando scrisse:
Con marmoles de nobles inscripciones.(Teatro un tiempo y Aras) en SaguntoFabrican oy tabernas y mesones 165.
Alcuni moderni autori Spagnuoli fanno menzione ◀di▶ altre rovine teatrali che si trovano nella loro Penisola. Presso il luogo che oggi occupa Senetil de las Bodegas, dove fu l’antico Acinippo della Celtica mentovato da Plinio, trovansi tuttavia esistenti le tre porte della scena166. Una lega distante da Calpe, venendosi da Algecira, si osservano i vestigii ◀di▶ un teatro e ◀di▶ un anfiteatro con altre rovine dell’antica città ◀di▶ Tarteso (differente da Cadice che pure portò questo nome) detta da’ Greci Carteia. Tralle antichità ◀di▶ Merida, dove Augusto pochi anni prima dell’Era Cristiana mandò una colonia ◀di▶ Legionarii, vedesi tuttavia quasi intera quella parte del teatro che si appartiene all’uditorio, non essendovi rimasto verun vestigio della scena167.
II.
Magnificenza e profusione eccessiva negli
spettacoli scenici.
Non furono mai più sontuosi e frequenti i giuochi scenici quanto ne’ primi secoli dell’impero. Gl’ istrioni musici, ballerini e declamatori moltiplicaronsi oltremodo. Fin dal regno ◀di▶ Tiberio componevano un corpo sì numeroso, e riceveano paghe sì esorbitanti, che egli videsi obbligato a rimediarvi col minorarne la mercede168. Nè conseguì per questo ◀di▶ scemarne il numero, anzi a tal segno esso crebbe, che ◀di▶ sole ballerine forestiere, secondo Ammiano Marcellino169, contaronsi in Roma più ◀di▶ tremila, le quali coi loro cori e con altrettanti maestri furono privilegiate ed eccettuate da un bando ◀di▶ sfratto dalla città intimato per timore ◀di▶ carestia a tutti i filosofi, retori ed altri letterati stranieri. Era Tiberio uno de’ principi più avversi allo spettacolo teatrale. Egli punì come reo ◀di▶ maestà lesa un poeta che in una tragedia avea inserite alcune parole ingiuriose contro il re Agamennone. Assai ◀di▶ rado egli fecesi vedere nel teatro dopo che una volta a richiesta del popolo videsi astretto a manomettere il comedo chiamato Accio170. Avea promesso ◀di▶ riedificare il teatro ◀di▶ Pompeo bruciato casualmente, non essendovi nella famiglia del gran competitore ◀di▶ Giulio Cesare alcuno che potesse a suo tempo sostenerne la spesa. Ma Tiberio non mantenne la parola, e dopo molti anni fecene appena rifare la scena, che pure lasciò imperfetta, come afferma Suetonio, o almeno ne trascurò la dedicazione, come racconta Tacito171. Intanto però la gente da teatro avea ◀di▶ giorno in giorno acquistato tal predominio sopra i Romani, che i personaggi più illustri e le matrone più nobili facevano a gara nell’arricchirla, nel trattarla con somma famigliarità e nell’amarla follemente. Giulio Messala negò il proprio patrimonio a’ parenti, e lo divise tra gl’ istrioni. Diede a una mima la tunica ◀di▶ sua madre, a un mimo la lacerna del padre, a un tragedo il pallio dorato ◀di▶ color ◀di▶ porpora ◀di▶ sua nonna, e ad un coraulo un altro pallio in cui era ricamato il proprio nome e quello della moglie172. Peggio era avvenuto in tempo ◀di▶ Augusto, che dovè castigare col bando da Roma, dopo ◀di▶ averlo fatto menare scopando per tre teatri, Stefanione togatario, il quale giunse all’impudenza ◀di▶ farsi servire alla tavola da una matrona Romana in abito servile173. Il medesimo Augusto però ebbe sì caro il pantomimo Batillo, che lo creò edituo del suo tempio eretto nel proprio palazzo, siccome apparisce dall’ iscrizione scolpita nel ◀di▶ lui sarcofago recata dal Fabretto e dal Ficoroni. Sotto gli altri imperadori degeneri questi eccessi passarono a’ deliri. Cajo Caligola non avea ritegno ◀di▶ baciare in pubblico l’eccellente pantomimo tragico M. Lepido Mnestere; e quando egli ballava, se sventuratamente qualche spettatore facesse il più picciolo strepito, se ’l faceva recare innanzi e ◀di▶ propria mano lo flagellava174. Si sa per quali infami vie ottenne il favore ◀di▶ questo medesimo imperadore un altro famoso attore tragico chiamato Apelle, che giunse ad essere noverato tra’ suoi consiglieri. Ma i Caligoli sono come le fiere addimesticate, che mai non si spogliano ◀di▶ tutta la nativa ferità, e quando meno si attende, la riprendono. Trovavasi un dì Caligola presso ad una statua ◀di▶ Giove col suo Apelle, e gli venne il capriccio ◀di▶ domandargli, fra Giove e lui qual de’ due gli sembrasse più maestoso. E perchè Apelle indugiò alcun poco a rispondere, lo fece battere aspramente, insultando frattanto al ◀di▶ lui dolore, con dire che nel tuono lamentevole ancora spiccava la dolcezza della ◀di▶ lui voce175. Vitellio resse l’Imperio quasi sempre a voglia degl’ istrioni176. Eliogabalo distribuì le maggiori dignità a’ pubblici ballerini; molti ◀di▶ essi destinò procuratori delle provincie; uno ne pose nell’ordine de’ cavalieri, un altro nel senatorio; un altro che da giovane avea rappresentato nella medesima città ◀di▶ Roma, fu da lui creato prefetto dell’esercito177.
III.
Decadimento della poesia drammatica, e perchè
avvenisse.
Ma non ostante il numero e la magnificenza de’ teatri, e le ricchezze e gli onori prostituiti agli strioni, debbesi da questo tempo contare il vuoto della storia teatrale, perchè la poesia drammatica in tal periodo non ebbe scrittore veruno Greco o Latino che meritasse ◀di▶ passare a’ posteri. Appena in Roma ripetevansi le antiche produzioni, ed il popolo trovava insipido ogni altro spettacolo scenico, fuorchè i pantomimi e i mimi che occuparono interamente le scene.
Potrebbe qui domandarsi, perchè mai in Roma, ove la poesia si elevò sino al punto ◀di▶ partorire Orazii e Virgilii, non potesse, specialmente sotto gl’ imperadori, sorgere un Sofocle e un Menandro? Manifesta a me ne sembra la cagione. Sotto la repubblica si ebbe un Accio, un Cecilio, un Afranio, e un Terenzio, i quali se non uguagliarono i Menandri e i Sofocli, passarono innanzi a molti tragici e comici della stessa Grecia. Questi principii avrebbero accelerata la perfezione della poesia rappresentativa; ma la repubblica sotto gl’ imperadori, se non si estinse totalmente, almeno cangiò ◀di▶ aspetto, ed i costumi si alterarono enormemente. I Romani da eroi che erano e superiori a’ principi stranieri, come credevansi, divennero de’ proprii signori bassissimi cortigiani. La libertà cedette all’adulazione, l’ indipendenza al timore, e il despotismo atterrì i poeti drammatici, e ne raffreddò il genio. Agamennone Greco maltrattato in una tragedia Romana divenne un delitto ◀di▶ stato. Alcuni versi inseriti in un’ altra, e dalla malignità naturale de’ cortigiani interpretati contro del Principe, cagionarono la morte del poeta. Uno scrittore ◀di▶ favole Atellane per un verso ambiguo fu da Caligola fatto bruciar vivo in mezzo dell’ anfiteatro. E chi poteva amare e coltivare una poesia che menava alla morte e all’infamia del supplizio senza delitto178? Osservammo nel tomo precedente, che la legge or dirige or aguzza gl’ingegni, e l’ arte ne acquista perfezione; ma ciò s’intende quando la legge, cioè la ragione, gastiga i delitti, non già quando un’ arbitraria indomita passione infierisce contro l’innocenza, e punisce in essa i proprii sogni e vaneggiamenti. Il veleno è un antidoto, ma dà la morte, se si adoperi fuor ◀di▶ tempo, o se la dose ecceda il bisogno. Non è adunque maraviglia che anche in tempi sì luminosi la drammatica avesse avuti così pochi coltivatori. Egli è vero che Plinio ascrive a lode ◀di▶ Trajano, che il popolo stesso abborriva sotto ◀di▶ lui l’effemminatezza de’ pantomimi. Egli è ancor vero, che secondo il racconto ◀di▶ Sparziano, l’imperadore Adriano ne’ suoi conviti amava ◀di▶ far rappresentare commedie, tragedie e atellane. Ma le cagioni distruggitrici della drammatica sussistevano, e i costumi e gli studii aveano già preso nuovo cammino.
IV.
Secoli, ne’ quali mancarono gli scrittori
scenici.
In tempo ◀di▶ Antonino Pio troviamo da Capitolino mentovato solamente Marco Marullo attore e scrittore ◀di▶ favole mimiche, il quale ebbe l’ardire ◀di▶ satireggiare i principali personaggi della città senza eccettuarne lo stesso imperadore. Marco Aurelio ◀di▶ lui figliuolo adottivo e successore diceva, che le commedie de’ suoi tempi altro non erano che mimi. In fatti sotto gli Antonini non troviamo mentovati con applauso se non Q. Trebellione pantomimo insigne della città ◀di▶ Telese due volte coronato179, e L. Acilio della tribù Pontina archimimo che fu decorato dalla città ◀di▶ Boville del decurionato180. Sino alla divisione del Romano Impero, per quanto io so, non si trova nominato scrittore alcuno drammatico.
E come trovarne dalla morte ◀di▶ Teodosio I sino allo stabilimento de’ Longobardi in Italia, periodo il più deplorabile per l’umanità a cagione del concorso ◀di▶ tante calamità, cioè ◀di▶ guerre, d’incendii, ◀di▶ fame, ◀di▶ peste che all’inondazione ◀di▶ tanti barbari desolarono l’intera Europa? Ausonio ci ha conservato memoria ◀di▶ un certo Assio Paolo retore che fioriva verso la fine del quarto secolo, e coltivava più ◀di▶ un genere poetico oltre alla storia. Ausonio gl’ indirizza sette delle sue epistole. Nella decima invitandolo in campagna gli dice che venga con tutti i suoi scritti:
Dactylicos, elegos, choriambum carmen, epodos,Socci & cothurni musicamCarpentis impone tuis, nam tota supellexVatum piorum chartacea est.
Nella decimaquarta poi l’invita a venire alla leggera:
Attamen ut citiùs venias, leviusque vehare,Historiam, Mimos, Carmina lingue domi.
E forse era una spezie ◀di▶ mimo il componimento ◀di▶ questo Paolo intitolato Delirus mentovato nella lettera XI che è in prosa: Ergo nisi Delirus tuus in re tenui non tenuiter elaboratus opuscula mea, quæ promi studueras, retardasset ecc.181.
Abbiamo ancora la commedia intitolata Querolus, o Aulularia scritta senza aversi esatta ragione del metro, e quindi dal Vossio appellata dramma prosaico 182. Essa fu impressa in Parigi nel 1564 appo Roberto Stefano con dotte annotazioni ◀di▶ Pietro Daniele Aurelio, e s’inserì poi nella bella edizione ◀di▶ Plauto ◀di▶ Filippo Pareo uscita nel 1619. Se ne ignora l’autore, e il dottissimo Fabrizio ci dice: Marci Accii certè minime est, quoniam author ipse in prologo hanc fabulam investigatam Plauti per vestigia profitetur 183. Si congettura essere stata scritta intorno al principio del sesto secolo sotto Teodosio II. Ma queste rarissime ed oscure fatiche che mai potevano influire in tempi sì tristi a vantaggio della poesia rappresentativa?
Non ci somministra veruno scrittore il rimanente del secolo sesto, quando i popoli cominciarono a respirare alquanto. Troviamo bensì in esso i giuochi e i disordini teatrali. In oriente Giustiniano imperadore e legislator famoso chiamò a parte del suo letto e dell’alloro imperiale la mima Teodora: in Italia il Goto re Teodorico fe rialzare le terme ◀di▶ Verona e riparare in Roma il teatro che minacciava ruina184, e un anfiteatro e nuove terme fe costruire in Pavia: sotto Atalarico frequenti furono gli spettacoli teatrali in Italia, e vi si profusero ricchezze grandi per diletto e ristoro del popolo185: la Sicilia sin dal quarto secolo ebbe in costume ◀di▶ mandare a Roma i suoi abili artefici ◀di▶ scena che vi erano chiamati186. Ma non troviamo scrittori drammatici.
Non ne troviamo nel VII, VIII e IX secolo, ne’ quali sparì dal cospetto degli uomini pressochè interamente ogni vestigio ◀di▶ politica, ◀di▶ giurisprudenza, ◀di▶ arti e letteratura Romana, e s’introdussero nuovi governi, nuove leggi, nuovi costumi, nuove vesti, nuovi nomi ◀di▶ uomini e ◀di▶ paesi, e nuove lingue, cangiamenti maravigliosi che non poterono accadere senza l’esterminio quasi totale degli antichi abitatori. In Francia appena si ripeterono le sconcezze mimiche nel barlume che vi fe rilucere Carlo Magno187.
Non empiono questo gran vuoto nè le musiche, i balli e i travestimenti usati da’ Cherici nelle feste solenni dal VII sino al X secolo, nelle quali con istrana mescolanza ◀di▶ pagane reliquie e ◀di▶ cerimonie Cristiane danzando e cantando esponevano le favole delle gentili divinità188; nè gl’ ignorati o negletti sei dialoghi ◀di▶ Roswita monaca ◀di▶ Gandersheim intitolati commedie, che appartengono al decimo secolo189. Sono esse composte in un latino assai barbaro, e ripiene d’incoerenze ed apparizioni. La prima ◀di▶ esse è divisa in due parti, o atti, e s’intitola Gallicano, che è un pagano generale ◀di▶ Costantino, il quale va a combattere contro gli Sciti, n’è vinto, è ricondotto contro ◀di▶ essi da un angelo, vince, si battezza, e fa voto ◀di▶ castità; e nella seconda parte l’imperadore non è più Costantino, ma Giuliano, da cui Gallicano viene esiliato, e riporta la corona del martirio. Le altre cinque commedie ◀di▶ un atto solo s’intitolano: Dulcizio, Callimaco, Abramo eremita, Pafnuzio, e la Fede Speranza e Carità. Ciò che reca maggior maraviglia in tali dialoghi è che l’autrice amava gli antichi e traduceva Terenzio. I medesimi capi d’opera dell’antichità si lessero quasichè da per tutto, or perchè non riproducono da per tutto il loro gusto?
Oltre a’ riferiti dialoghi o commedie, in tutto il secolo X, e nell’XI e XII, sebbene si videro comparire alcune incondite poesie nelle nuove lingue, non ve ne furono a patto alcuno teatrali. Egli è però evidente che non mancarono del tutto gli scenici spettacoli, benchè altre feste si fossero introdotte. Lasciando stare i travestimenti de’ Cherici, e le loro danze nella festa del Natale ◀di▶ Cristo e nell’Episania che duravano, per testimonianza ◀di▶ Teodoro Balsamone, anche nel XII secolo190; e i cantambanchi e buffoni che intervennero nelle famose nozze ◀di▶ Bonifazio Marchese ◀di▶ Toscana con Beatrice ◀di▶ Lorena fatte nel 1037191: alquanti anni prima ◀di▶ terminare il XII secolo troviamo nella storia del Basso Impero mentovate persone ◀di▶ teatro. L’usurpatore Andronico, l’uccisore fraudolento ◀di▶ Alessi Comneno, colui che al contrario ◀di▶ Tito diceva ◀di▶ aver perduto il giorno, in cui non gli era riuscito ◀di▶ fare strangolare o almeno accecare qualche personaggio illustre, costretto da Isacco Comneno a fuggire, s’imbarcò in un picciol legno colla moglie e con una mima che egli amava192.
Si pretende anche trasportare a questo medesimo secolo XII un informe abbozzo ◀di▶ dramma Latino intitolato Ludus Paschalis de adventu & interitu Antichristi, composto e forse rappresentato nella Germania, nel quale intervengono il Papa, l’ Imperadore, i Sovrani ◀di▶ Francia, della Grecia, ◀di▶ Babilonia, l’ Anticristo, l’Eresia, l’Ipocrisia, la Sinagoga, e il Gentilesimo. Così pensa il P. Bernardo Pez, che lo diede alla luce193. Ma più tardi che egli non istima uscirono nella Germania drammi somiglianti al riferito, come vedremo ne’ seguenti volumi; e per fissare l’epoca ◀di▶ questa rappresentazione Pascale al secolo duodecimo, bisognerebbe o averne monumenti storici sicuri, o addurne congetture convincenti, esaminando i costumi che vi si dipingono, e le dottrine ed opinioni, le quali potrebbero menarne a rinvenire il nascimento ◀di▶ questa farsa. Certo è però che il primo io non sono a dubitarne; e il dotto Scipione Maffei194 più cose (dice) alquanto difficultano il crederlo (del secolo XII) e tanto più, se ciò si fosse arguito dal solo carattere del codice, che è congettura molto fallace.
Don Blàs de Nasarre letterato Spagnuolo in una sua dissertazione pubblicata nel 1749, faceva sperare monumenti drammatici nella letteratura Araba ricavati dalla Biblioteca dell’Escoriale195. Fu illusione del suo desiderio. Tra gli Arabi non si trova se non quello che ebbero tutte le nazioni anche rozze, cioè musica, balli e travestimenti adoperati ne’ loro giuochi ◀di▶ canne, quadriglie e tornei. Furono anche versificatori; ma per lo più (almeno per quel che apparisce da i libri dell’Escoriale) si limitavano a’ componimenti ◀di▶ non moltissimi versi, ne’ quali facevano pompa ◀di▶ acrostichi, antitesi e giuochetti sulle parole, sembrando che i loro talenti non si fussero avvezzati a soffrire il peso ◀di▶ un poema grande e seguito come il drammatico. Certamente nel Saggio della Poesia Araba del Signor Casiri inserito nella Biblioteca Arabico-Ispana, da cui Nasarre si prometteva tali monumenti, si dice nettamente che gli Arabi non conobbero gli spettacoli teatrali196. E sebbene il lodato Casiri aggiunga che parlerebbe a suo luogo ◀di▶ una o due commedie Arabe, tuttavolta scartabellando la ◀di▶ lui Biblioteca io non trovai un solo componimento drammatico; non dico de’ secoli de’ quali ora favelliamo, ma nè anche de’ seguenti sino all’intera espulsione de’ Mori dalle Spagne. Altro non vi si legge se non che qualche dialogo, ma non teatrale, appartenente al secolo XIV e XV. Il primo del 746 dell’Egira scritto parte in versi e parte in prosa, è ◀di▶ Mohamad Ben Mohamad Albalisi, nel quale trattengonsi a darsi vicendevolmente il giambo cinquantuno artefici. L’ altro dell’anno 845 dell’Egira è ◀di▶ un Anonimo, e s’ intitola Comœdia Blateronis, in cui da diversi interlocutori si tratta ◀di▶ tre cose differenti: nella prima parte parlasi della vendita ◀di▶ un cavallo, nella seconda delle furberie ◀di▶ alcuni vagabondi, nella terza ◀di▶ certi innamorati. S’ingannò adunque Nasarre, e seco trasse Velazquez che gli credè buonamente. Costui nel libretto delle Origini della Poesia Castigliana asserisce primamente, che i Romani portarono in Ispagna i giuochi scenici, senza curarsi ◀di▶ addurne qualche pruova, siccome per altro avrebbe potuto, facendo parola ◀di▶ quanto noi abbiamo non ha guari riferito, cioè de’ giuochi teatrali dati in Cadice da Balbo, del teatro Saguntino e delle rovine teatrali ◀di▶ Acinippo, ◀di▶ Tarteso e ◀di▶ Merida. Egli si contentò solo ◀di▶ prorompere in invettive generali fuori ◀di▶ tempo contra Filostrato, perchè nella Vita ◀di▶ Apollonio affermò, che la Betica in tempo ◀di▶ Nerone neppur conosceva gli spettacoli scenici. Soggiugne poi che i Goti non permisero che la poesia drammatica allignasse in Ispagna; e conchiude, che gli Arabi (i quali, come si è dimostrato, non l’aveano) ve la portarono, adottando senza esame l’opinione ◀di▶ Nasarre, la cui solidità si è già notata.
Da quanto abbiamo in questo capo osservato, si deduce che il principio del vuoto della storia teatrale si trova a’ tempi de’ Tiberii, de’ Caligoli e degli altri imperiosi despoti, i quali fecero ammutolire i poeti, spaventandoli colle diffidenze e crudeltà, e furono cagione che i teatri risonassero unicamente ◀di▶ buffonerie e laidezze, per le quali ci vuole più impudenza che ingegno. Sorse poscia il Cristianesimo, e col divenire la religione dell’Impero, intimò la guerra a qualsivoglia superstizione della gentilità, e conseguentemente ai teatri consecrati alle divinità pagane. E non trovandovi nè anche salva la decenza e la morale, perchè le buone tragedie o commedie aveano ceduto alle leggerezze e agli adulterii delle mimiche rappresentazioni, gli zelanti Cristiani concepirono del teatro le più sozze idee, e scagliarono le più amare invettive contro gli spettacoli e gli attori scenici, sotto la qual denominazione compresero soltanto gl’ infami mimi e pantomimi e le impudentissime mime, cantatrici e ballerine. E quale orrore non doveano destare ne’ Padri Cristiani, ne’ Cirilli, ne’ Crisostomi, ne’ Basilii, ne’ Lattanzii, ne’ Cipriani, negli Agostini, quelle detestabili rappresentazioni ◀di▶ nefandi stupri, che Marsiglia gentile, ma non corrotta, escluse dalle sue scene197? E come avrebbero mirato senza indignazione gli adulterii mimici, che, secondo Lampridio, non bastò ad Eliogabalo ◀di▶ vedere fintamente rappresentati, ma ordinò che s’imitassero sulla scena al naturale198? Così ci avvezzammo a detestare indistintamente i teatri, e per fuggirne gli abusi, ci privammo ancor de’ vantaggi: a somiglianza ◀di▶ quegl’ impazienti coltivatori, i quali in vece ◀di▶ potare e recidere i rami lussureggianti, che fanno ombra inutile e perniciosa, danno al tronco e alle radici degli alberi, e privansi per sempre de’ loro frutti.
TAL fu nel mondo conosciuto l’antico stato degli spettacoli teatrali. L’ utile curiosità congiunta al bisogno che si ha ◀di▶ esempj, onde s’ infiamma e si alimenta il genio, ne renderà sempre accetta la narrazione con gusto e con senno particolareggiata, la quale per gradi e con sicurezza ammaestra; e la preferirà a que’ rapidi abbozzi poetici ove scelgonsi arbitrariamente i colori più vaghi, ed a capriccio si compartono l’ombre ed i lumi, per dipignere d’idea e ◀di▶ maniera, purchè si piaccia alla vista, a costo della verità. Eccone intanto i principali lineamenti raccolti in un sol quadro, quali vengono somministrati dalla storia verace che nulla vela con maligne reticenze.
L’uomo da per tutto imitatore, da per tutto osserva e contraffà i suoi simili per natura insieme e per suo giocondo trattenimento. I Selvaggi d’Ulietea, anzi d’ogni contrada e d’ogni tempo, non oltrepassando i balli o pantomimi accompagnati dal canto, danno a divedere al filosofo investigatore in qual distanza dalla coltura essi ritrovinsi. Con più regolate e più magnifiche danze e canzoni i Messicani, quei ◀di▶ Chiapa, i Tlascalteti, mostransi più prossimi ad emergere dalle ombre, perchè non lontani a rinvenir l’arte del dramma, indizio sempre ◀di▶ qualche coltura. Cinesi, Tunkinesi, Giapponesi, Giavani, culti senza raffinamento, artieri senza delicatezza, navigatori senza coraggio, filosofi quanto basta per distinguersi da’ barbari, imitano le umane vicissitudini senza sceverar ne’ loro drammi gli evenimenti ridicoli da’ lagrimevoli. Più filosofi quei ◀di▶ Cusco giunsero a separar le azioni domestiche e le pastorali dalle guerriere ed eroiche. Tutti poi, senza gli uni saper degli altri, i popoli sotto la linea o nelle opposte zone nell’incamminarsi alla coltura s’imbattono nella drammatica; la coltivano colle medesime idee generali; favoleggiano da prima in versi, ed hanno sacre rappresentazioni; passano indi a dipignere la vita civile, ad eccitar ne’ gran delitti l’orrore o la compassione, a schernire e mordere i vizj de’ privati, e ad esser dalla legge richiamati a temperar l’ amarezza della satira, dal che proviene la bella varietà e delicatezza delle nuove favole nate a dilettare ed instruire.
Fu la Grecia, fu Atene ne’ suoi dì luminosi che passando per tutte le solite fasi della drammatica, ne fissò l’arte e la forma. Fu Eschilo che oscurando Epigene, Tespi e Frinico, divenne il padre della tragedia, ed insegnò il sentiero a chi dovea su ◀di▶ lui stesso sollevarsi. Grande, robusto, eroico, pieno ◀di▶ brio e ◀di▶ fierezza, rendesi talvolta turgido, impetuoso, oscuro; e pure a traverso de’ secoli e delle vicende ◀di▶ tanti regni, giugne alla posterità che l’ammira nel Prometeo, ne’ Sette a Tebe, ne’ Persi. Sofocle si forma su ◀di▶ lui; rende il proprio stile più grave, più maestoso, più sublime; aumenta ◀di▶ vivacità, ◀di▶ decenza, ◀di▶ verità, ◀di▶ splendidezza la scena tragica; e diviene nostro modello con Edipo, Elettra, Antigona e Filottete. Dove tali atleti coglievano sì ricche palme, si presenta Euripide, ed occupa il raro l’intatto pregio ◀di▶ meglio parlare al cuore, avvivando col più vigoroso colorito tutti gli affetti che s’appartengono alla compassione. L’eloquenza e la gravità e la copia delle sentenze filosofiche caratterizzano il ◀di▶ lui stile. Qualche negligenza nell’economia scenica manifesta ch’egli attendeva più a colorir vivamente la natura che a consigliarsi coll’ arte. Ma Ifigenia, Alcestide, le Trojane, Ippolito s’ imitano sempre e non si oscurano mai.
Questi tre rari ingegni spiegavano tutta la loro energia nel delineare con maestria singolare le umane passioni, nel dipignere con naturalezza e verità i costumi, nel trionfare per una inimitabile semplicità ◀di▶ azione; sapendosi per tutto ciò egregiamente prevalere della più poetica e più armoniosa delle favelle antiche e moderne, e adoperando quasi sempre una molla per la loro nazione efficacissima, cioè la forza del fato e l’infallibilità degli oracoli consacrati dalla religione. Posero essi in quel clima la meta alla gloria tragica, che spirò pur con loro, ancor prima che la Grecia divenisse schiava.
Fu intanto il Siciliano Epicarmo filosofo pitagorico che diede forma alla commedia e ne fu chiamato il principe. Frinico, Alceo, Cratino, Eupolide ed Aristofane la perfezzionano, e la rendono più caustica. La natura del governo Ateniese inspirò a’ siffatti Greci l’ardita antica commedia allegorica. La poesia d’Aristofane da non paragonarsi punto con chi trattò un’ altra specie ◀di▶ commedia199, e degna degli applausi d’ una libera fiorente democrazia, appunto perchè osò intrepidamente inoltrarsi nel politico gabinetto e convertir la scena comica in un consiglio ◀di▶ stato, nulla ha ◀di▶ rassomigliante nè alla nuova de’ Latini nè alla moderna commedia. Le Cereali, le Nubi, il Pluto leggonsi oggi ancora con ammirazione, ed incantarono un popolo principe. Di grazia siamo sicuri che sarebbero state allora accolte con pari effetto da que’ repubblicani baldanzosi e pieni soltanto della loro potenza e libertà, la Perintia, Euclione, gli Adelfi, e ’l Misantropo?
Alesside illustrò la commedia mezzana colla grazia, e colla vivacità della satira senza appressarsi alla troppa mordacità ◀di▶ Aristofane. Non fu tragico Anassandride, come lo stimò il Signor Andres nel parlar rapidamente ◀di▶ ogni letteratura, ma comico della commedia mezzana, secondo Ateneo, ed in essa, e non nel teatro tragico, introdusse le deflorazioni e le avventure amorose. Egli ne fu anche la vittima, nella stessa guisa che Eupolide era stato sacrificato nell’antica al risentimento de’ potenti.
Per questi gradi passando la Grecia pervenne ad inventar la nuova commedia sorgente della Latina e dell’Italiana del secolo XVI. Domata la greca ferocia col timore delle potenze straniere, si avvezzò ad una commedia più discreta, più delicata, la quale si circoscrisse a dilettare con ritratti generali mascherati ◀di▶ modo che lo stesso vizioso deriso, senza riconoscersi nel ritratto, rideva del proprio difetto. Dopo il Cocalo ed il Pluto ◀di▶ Aristofane, e le favole de i ◀di▶ lui figliuoli, vennero ad illustrar questo genere gli Apollodori, l’uno e l’altro Filemone, Difilo, Demofilo, e più ◀di▶ ogni altro Menandro che divenne la delizia de’ filosofi e ’l modello ◀di▶ Terenzio, e fu il primo a cui la grazia comica si mostrasse in tutta la sua beltà. E chi poteva dopo ◀di▶ lui calzar degnamente il greco borzacchino? Cadde colla Grecia stessa la sua bella commedia per rinascere indi nel Lazio per mano ◀di▶ un Affricano.
Gli Etruschi e i Campani infondono l’amor del dramma negl’ Italiani che Romolo avea raccolti intorno ai sette colli. I Semigreci della Magna Grecia Livio Andronico, Ennio, Pacuvio, ed anche Nevio il Campano, insegnano loro ad amar le lettere e a coltivar la poesia drammatica. Plauto calcando le orme ◀di▶ Epicarmo, e non ◀di▶ Aristofane, ed imitando a un tempo Difilo, Demofilo e Filemone, diletta soprammodo un popolo guerriero. Dopo Cecilio, il Cartaginese Terenzio seguito da Afranio, colle spoglie ◀di▶ Menandro e degli Apollodori, introduce in Roma la bella commedia, la quale, non che a’ filosofi e letterati, piacque ai migliori della repubblica, ai Furii, agli Scipioni, ai Lelii. Ennio, Accio e Pacuvio vi riconducono con decoro e gravità la greca tragedia, e spianano il sentiero al Tieste ◀di▶ Vario, all’Ottavia ◀di▶ Mecenate, alla Medea ◀di▶ Ovidio, all’Ippolito, alla Medea e alla Troade ◀di▶ Seneca, e all’Agave ◀di▶ Stazio. La grandezza eroica campeggia nel loro stile con carattere particolare, meno attaccato alla naturalezza Greca, e più confacente alla maestà Romana. Il perno però su cui volgesi la tragedia Romana, è lo stesso della Greca, cioè il fatalismo, se tralle conosciute se n’ eccettui la Medea, che regge per la sola combinazione delle passioni, nè mette capo nella catena ◀di▶ un destino inesorabile.
Ma i Mimi e i Pantomimi trionfano del socco e del coturno sotto gl’ Imperadori, i quali, non che flagellare i togatarii e gli atellanarii, solevano punir coll’ ultimo supplicio i tragici che non rispettavano la memoria de’ re della stessa mitologia o della più remota antichità come Agamennone. Abbandonato il teatro a i Pitauli e Corauli, a i Mnesteri, a i Paridi, a i Piladi ed a’ Batilli, più non ammise la commedia Terenziana che parve fredda, insipida, indifferente ad un popolo snervato e corrotto, che sotto Eliogabalo si compiaceva de’ mimici stupri e adulterii, non che finti e imitati, rappresentati al vivo sulle scene profanate. Così la vera drammatica senza perfezzionarsi nel Lazio fu distrutta dalle depravazioni mimiche, ed il teatro divenne lo scopo dell’invettive de’ Cirilli, de’ Basilii, degli Agostini e de’ Lattanzii. Giacque colla mole dell’istesso Impero sotto i barbari del settentrione ogni coltura, e sparvero le arti involte in un caliginoso nembo almeno ◀di▶ dieci secoli ◀di▶ barbarie. A cui toccò la gloria ◀di▶ dissiparlo? Dove risorsero le arti, la drammatica, la coltura?